Go Nagai Net

H. ASTER's FICTION GALLERY

« Older   Newer »
  Share  
H. Aster
view post Posted on 18/4/2009, 20:53 by: H. Aster     +1   -1
Avatar

Fratello di Trinità e Bambino

Group:
Administrator
Posts:
21,251
Reputation:
+2,359
Location:
Verona, città di Emilio Salgari.

Status:


Seconda puntata.

Capitolo 3 – La prigione

Semibuio. Spazi ristretti. Niente cibo. Poca acqua, calda e che puzzava di disinfettante.
Unica concessione all’igiene, in un angolo un enorme contenitore destinato alla raccolta della sporcizia; ma le prigioniere erano qualche centinaio, e da che erano state racchiuse là dentro, nessuno aveva ancora provveduto a ripulire il recipiente. La puzza cominciava ad essere insopportabile.
Tormentata dal fetore, lo stomaco vuoto che ruggiva la sua disperazione, Naida ricadde sul pavimento metallico e appoggiò la schiena contro la parete. A quel punto, sperava solo di poter morire.


La ragazza si contorse nel suo stesso sangue, rantolando penosamente.
Ritto in piedi accanto alla sua vittima agonizzante, il soldato di Vega fece scorrere lo sguardo sulle atterrite prigioniere: – C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?
Naida si addossò alla parete metallica della cella, troppo terrorizzata anche solo per poter urlare.
L’orrore era appena cominciato.


I soldati si fecero avanti, afferrando le prime sventurate che capitavano loro a tiro: in quella cella erano state rinchiuse le prigioniere più giovani e belle, per cui l’una o l’altra era lo stesso. Molte ragazze gridarono, tantissime piansero, supplicarono, soffocarono il loro dolore… nessuna osò ribellarsi, non dopo aver visto di cosa erano capaci quei mostri. In un angolo, la loro compagna moribonda giaceva in una pozza di sangue, e il suo lamento continuo era ancora più agghiacciante delle grida delle ragazze che venivano gettate sul pavimento e sistematicamente stuprate sotto agli occhi terrorizzati delle altre prigioniere.
Quando due soldati l’afferrarono, Naida non osò opporsi, non emise un suono. Atterrita, continuò a ripetersi che non era vero, non poteva essere vero, era un’altra a venire violentata, non era lei, non era lei…


Un’eternità più tardi, lo scempio volse finalmente al termine. I soldati si rivestirono, ridendo e scambiandosi l’un l’altro battute grossolane, mentre le loro vittime gemevano sommessamente, sconfitte, distrutte. Si udiva ancora qualche grido disperato, testimone della brutalità con cui qualcuno ancora si accaniva sulla sua sventurata vittima; un graduato prese a gridare di smetterla, sferrò un calcio ad un soldato particolarmente ostinato, fece scattare in piedi quelli che indugiavano nel rivestirsi.
Le prigioniere non osavano muoversi, lamentarsi, nemmeno fiatare: il terrore di veder ricominciare quella mostruosità le aveva praticamente gelate. Non sapevano d’aver subito il normale trattamento riservato alle schiave destinate a divenire oggetto di piacere: occorreva sciuparne qualcuna e magari ucciderne una o due, ma le sopravvissute perdevano qualsiasi voglia di ribellarsi. In gergo, si diceva che erano state addomesticate.
Il graduato controllò che tutti i soldati fossero usciti, prima di avviarsi pigramente verso la porta; in un angolo, scorse la sventurata ragazza, la prima vittima, che ancora si lamentava nel suo sangue. Era immobile, respirava affannosamente e il suo fievole gemito si era perso tra le urla delle sue compagne. Senza una parola, il milite puntò il suo fucile e fece fuoco, ponendo fine a quello spaventoso supplizio.
La porta si chiuse pesantemente alle sue spalle, e nella prigione regnò un silenzio pesantissimo, irreale; poi, una voce si levò gridando tutto il suo orrore, altre piansero, altre si limitarono a restare dov’erano, incredule, inorridite, sconvolte.
Naida puntò un gomito a terra e si rialzò a fatica: tremava in tutto il corpo, per cui non osò tentare di rimettersi in piedi.
Era ancora viva.
Si guardò attorno: dovunque, non vedeva che creature sanguinanti, ferite. Poco discosto da lei, una ragazzina, poco più che una bambina, tremava violentemente tenendosi le braccia strette attorno al corpo. Naida strisciò verso di lei, le toccò una spalla; se la ritrovò singhiozzante tra le braccia. La strinse a sé, cercando di placare quello spaventoso dolore – e intanto evitando di pensare alla propria disperazione.
La ragazzina aveva un gran livido su uno zigomo, e sangue le usciva dal naso. Naida si strappò un pezzo del bordo della veste, tentando di tamponare l’emorragia. Non c’erano disinfettanti, antidolorifici… non c’era nemmeno un po’ d’acqua per pulire le ferite.
Non c’era niente.


Capitolo 4 – Il padrone

La pesante porta s’aprì, lasciando passare due soldati; un’ondata di panico percorse le prigioniere, terrorizzate all’idea che ricominciasse quello che era accaduto… quando? Avevano perso ogni cognizione di tempo, non avrebbero saputo rispondere… Un’infinità di tempo prima.
I soldati però non parevano voler dare il via a nuove violenze: insensibili al terrore delle loro vittime, presero ad esaminare le prigioniere.
Naida li guardò quasi con indifferenza: non sentiva più niente, ormai, né paura, né fame, né sete. Dentro di sé, si sentiva morta.
I soldati osservarono rapidamente Naida: il suo viso non era tumefatto o sporco di sangue, e nonostante i suoi vestiti strappati e sporchi appariva in condizioni migliori di molte altre. La spinsero nel gruppetto delle prescelte, una decina tra le prigioniere più giovani e graziose; poi le spintonarono fuori della maleodorante prigione e le fecero salire su per una rampa, portandole infine in un’ampia stanza al piano superiore.
Naida camminava senza porsi domande su dove la stessero portando: probabilmente quei due l’avevano scelta come oggetto di piacere per la truppa o, con un po’ di fortuna, per un qualche ufficiale. Ormai, non le importava più nulla.
Accomodato su una poltroncina, una coppa tra le lunghe dita, un veghiano le attendeva. Naida capì subito che si trattava d’una personalità d’alto rango; non poteva sapere che era nientemeno che Hydargos, il vicecomandante di Vega.
Le ragazze vennero sospinte davanti a lui, che prese ad esaminarle con interesse. La maggior parte di loro inorridì per l’aspetto di quel nemico, il cui viso lungo, magro e bluastro le ripugnava; altre si mostrarono fiere e sdegnose, una o due si fecero languide, provocanti.
Naida pareva trovarsi a miglia e miglia da là.
Furono proprio il suo silenzio e la sua impassibilità ad attirare Hydargos, che si alzò per esaminarla meglio. Osservò i lunghi capelli verde dorato, gli immensi occhi chiari, il visino triste e serio; poi vide quel corpo pieno e dalle linee voluttuose, e la scelta fu immediata.
– Avvicinati, tu – disse, indicandola con il frustino, il suo emblema di comando.
Naida fece un paio di passi in avanti e si fermò. Era pallidissima ed indifferente, quasi quello che le stava accadendo non la riguardasse affatto.
Hydargos fu più che soddisfatto del suo esame. Alta, curve abbondanti, pelle bianca. Bellissima. Le mise la punta del frustino sotto il mento facendoglielo alzare: anche il viso era molto bello.
– Come ti chiami? – domandò.
– Naida Barsagik.
– Naida Barsagik, signore – puntualizzò lui.
Lei non batté ciglio: – Sì, signore.
Forse fu proprio l’indifferenza di Naida a convincerlo. Non gl’interessava una ragazza provocante e disponibile, grazie al suo rango ne aveva avute anche troppe; quanto alle altre, poche cose l’innervosivano come una donna in lacrime. Ma quella creatura bellissima, dal fare freddo e remoto e dal corpo che era tutta una promessa…
– Prendo lei – annunciò.
Ci fu un movimento tra le prigioniere, che provarono un certo sollievo vedendosi scartate da quell’orribile individuo… salvo poi chiedersi nervosamente se invece non era proprio stata Naida, la fortunata.
Hydargos sospinse col frustino la sua schiava verso la porta. Si rese conto che i vestiti succinti e strappati di lei attiravano fin troppo le occhiate dei soldati, e si tolse il mantello avvolgendoglielo addosso; poi le mise possessivamente un braccio attorno alle spalle e la condusse via dalla prigione.
Fu l’ultima volta in cui Naida vide le sue sventurate compagne. Poi non ne avrebbe saputo più nulla.


Hydargos non ignorava cosa fosse successo a Naida nei giorni precedenti; fu per questo che per prima cosa la portò a fare una visita al centro medico. Non poteva certo rischiare di prendersi un’infezione.
Se è malata, posso sempre rimandarla indietro e prenderne un’altra, si disse.
Gettò un rapido sguardo a Naida, ai suoi lunghi capelli, a quel corpo meraviglioso, e decise che valeva la pena di farla curare. Difficilmente avrebbe potuto trovare tra le altre schiave una donna altrettanto bella.
Una dottoressa dall’aria efficiente prese in consegna Naida. La spinse in una cabina dalle pareti trasparenti e digitò rapidamente sui comandi, azionando i sensori e controllando i dati sul display. Niente infezioni. Non era nemmeno incinta.
La dottoressa era una donna scrupolosa; fu per questo che azionò comunque un raggio di luce che piovve su Naida, compiendo una rapida opera di disinfestazione. Dopo un ulteriore esame generale con i sensori, la dottoressa riconsegnò Naida al suo proprietario, dandogli il suo responso: disidratata e denutrita, ma sana.


La cabina di Hydargos era spaziosa e comoda, almeno secondo il metro di Vega – piuttosto spartano. Il viaggio verso la base Skarmoon sarebbe durato più di un giorno, e Hydargos aveva tutte le intenzioni di trascorrere quel tempo piacevolmente. Non per nulla si era procurato una schiava.
Per prima cosa, la mandò a farsi una doccia. Cinque giorni di carcere senza la minima possibilità di pulirsi potevano avere un effetto sgradevole sulla più affascinante delle donne. Sospinse perciò Naida verso il bagno, ordinandole di lavarsi con cura e fornendole anche un vestito nuovo.
Nonostante si sentisse morta nell’animo, Naida indugiò a lungo sotto alla doccia. Quattro giorni prima due soldati l’avevano violentata a turno, e da allora lei non aveva potuto lavarsi. Tutto quel tempo passato sentendosi addosso le loro schifose tracce l’aveva duramente segnata. Si strofinò fino a far dolere la pelle, lavò accuratamente i capelli e rimase a lungo sotto il getto freddo dell’acqua, quasi avesse potuto lavar via tutti gli orrori che aveva subito. Aprì la bocca e bevve, bevve, bevve fino a non poterne più. Poi s’asciugò diligentemente, si vestì e si pettinò i lunghi capelli.
Si guardò allo specchio, e vide un’estranea pallida e dagli occhi morti.
Così si sentiva, infatti. Non provava nulla. Aveva sofferto troppo per essere in grado di patire ancora. Aveva perso tutto: amore, casa, famiglia, amici, mondo. Se era ancora viva, non era perché l’avesse voluto lei.
Stranamente, non provava paura circa Hydargos. Il suo corpo era già stato ripetutamente violato, una nuova invasione la spaventava poco. Tanto, ormai…
Uscì dal bagno. Il suo nuovo vestito a tunica rosa pallido che le aveva dato Hydargos le lasciava scoperta una spalla e le ricadeva in piegoline leggere attorno al corpo, mettendone in risalto le curve sinuose.
In piedi in mezzo alla stanza, lui l’ammirò in silenzio. Mosse un passo verso di lei, vide il suo spaventoso pallore, il leggero tremito che la scuoteva tutta e si trattenne. Lei… si chiamava Naida, già… era digiuna da giorni, se non si fosse nutrita al più presto avrebbe potuto svenire, il che non era precisamente quel che lui voleva. Pazienza…
A malincuore accennò al tavolo, dove attendevano due vassoi colmi. Naida non mangiava da troppo tempo, e il profumo del cibo le fece provare una fitta dolorosa alla giuntura delle mascelle, là dove si trovavano le ghiandole salivari.
Hydargos sedette e le fece cenno di fare altrettanto.
Mi permette di pranzare con lui, si disse Naida. Buon segno.
Attese che il suo padrone iniziasse il suo pasto, prima di assaggiare un boccone. Improvvisamente si rese conto di avere fame, molta fame. Mangiò ogni cosa, badando solo di masticare con cura prima d’inghiottire: non avesse fatto così il suo stomaco, già provato dal lungo digiuno, difficilmente avrebbe retto quel cibo per lei esotico.
Quando ebbe terminato l’ultimo boccone osò alzare gli occhi su Hydargos: la stava guardando in maniera inequivocabile. Nonostante avesse creduto di essere ormai indifferente si accorse di sentir la paura crescere in sé, una paura folle, irragionevole… ma di che? Dopo l’orrore che già aveva subito, come poteva temere nuove violenze…? Difficilmente lui avrebbe potuto farle di peggio…
Hydargos s’alzò, gli occhi accesi sempre fissi su di lei; Naida si mise in piedi, e finalmente capì di cosa avesse paura.
Il dolore fisico.
Naida ne era terrorizzata da sempre. In quei giorni, poi, aveva visto come i soldati avevano ridotto alcune sue compagne che si erano ribellate: aveva visto donne picchiate, violate, ferite, mutilate, uccise. Ricordava ancora troppo bene cos’era successo a quella sventurata ragazza che aveva colpito un soldato che stava per stuprarla… “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?”
L’orribile punizione che aveva subito prima di venire uccisa era stata un esempio per tutte le prigioniere; Naida non avrebbe mai potuto dimenticare quella sua sventurata compagna. Quando lei stessa era stata violentata, non aveva opposto la minima resistenza: aveva visto troppi orrori, troppi… e aveva troppa paura, non tanto della morte quanto dell’agonia che l’avrebbe preceduta. I soldati di Vega non erano così pietosi da uccidere rapidamente.
Dal giorno dell’attacco a Fleed, Naida aveva provato ogni forma di sofferenza: era stata umiliata, stuprata, privata di tutto. Era stata ridotta a qualcosa di meno di un essere umano, una creatura disposta a subire qualsiasi cosa pur di non soffrire ancora. Ora, guardò di sfuggita il veghiano che era ormai il suo padrone, l’uomo che aveva su di lei ogni diritto: cosa le avrebbe fatto, lui? Non aveva più in mano il frustino, ma…
– Vieni qui – disse Hydargos.
Il momento era arrivato.
Docile, Naida avanzò verso di lui fermandosi a pochi passi di distanza.
– Io ti obbedirò, signore – disse, non osando guardarlo negli occhi – Ti sarò fedele, farò tutto ciò che desideri senza ribellarmi… solo, non farmi del male. Ti prego.
Lui, che s’era incantato ad osservare quel bellissimo corpo che presto sarebbe stato suo, si riscosse e guardò la sua schiava in viso. Fare del male a quella splendida creatura era l’ultima cosa che avesse in mente, ma naturalmente non poteva dirglielo: uno schiavo è uno schiavo, deve aver paura del suo padrone.
Vide il terrore negli occhi di Naida; beh, forse era meglio non esagerare.
– Davvero, mi obbedirai senza ribellarti? – chiese, burbero.
– Hai la mia parola, signore… ma tu, non mi farai del male…?
– No, se ti comporterai bene – Hydargos aprì le braccia; Naida esitò un solo istante, poi s’avvicinò ancora, a testa alta, fiera come una regina che sale al patibolo. Hydargos non vide la sua espressione, o meglio, non volle vederla. L’afferrò rovesciandola tra le proprie braccia e la baciò con una foga che la lasciò completamente senza fiato. Terrorizzata, lei s’impose di non opporsi, non sottrarsi a quella bocca che s’era impossessata della sua, non divincolarsi da quelle braccia che la serravano fino a spezzarla, di tollerare su di sé quelle mani estranee che le scorrevano addosso senza il minimo ritegno. Purché lui non le facesse del male, purché non la picchiasse, torturasse, o peggio…
Per Hydargos, il mondo si dissolse nel fuoco.


Naida si mise a sedere sul letto, passandosi una mano tra i capelli; diede uno sguardo ad Hydargos, che dormiva profondamente.
Era indifeso. Avrebbe potuto ucciderlo.
A lungo, Naida guardò il suo padrone addormentato: era vero, avrebbe potuto tagliargli la gola nel sonno… ma poi? Poi sarebbe stato meglio morire, piuttosto che affrontare la spietata giustizia di Vega.
Suicidio…
Naida rabbrividì. Il giorno prima sarebbe stata più che disposta a farlo: disperata, sola, affamata, sporca, avrebbe considerato la morte come una liberazione. Hydargos, anche se per fini puramente egoistici, l’aveva tolta dalla prigione, l’aveva vestita, nutrita: l’aveva richiamata a vivere. Persino il suo amore rude e vigoroso, pur imposto, aveva cominciato a risvegliare in lei una scintilla di speranza nell’avvenire che Naida aveva creduto spenta per sempre. Ora, nonostante avesse davanti a sé un futuro come giocattolo di quel veghiano, quell’uomo ruvido ma che in fondo non l’aveva trattata male, Naida non provava più il desiderio di morire.
Era viva, e voleva continuare a vivere.


Capitolo 5 – Skarmoon

L’arrivo su Skarmoon non cambiò molto le cose. Durante il giorno, Hydargos era occupato e non rientrava praticamente mai nel suo alloggio; Naida aveva allora lunghe ore da dedicare a sé stessa, curando scrupolosamente il proprio corpo e riposando molto. Le era ben chiaro che finché fosse stata giovane e bella la sua esistenza sarebbe stata sicura: il terrore di ritrovarsi sola e senza protezione, visto che su Vega nemmeno la legge tutelava gli schiavi, la spingeva a fare di tutto per ingraziarsi il suo padrone. Per questo, quando Hydargos tornava nel suo alloggio trovava la sua schiava docile e prontissima a compiacerlo. Non che ci volesse molto ad accontentarlo: bastava essere accondiscendenti e non mostrarsi mai, ma proprio mai, stanchi, maldisposti o malati.
Dentro di sé, Naida si disprezzava per questo: era una duchessa di Fleed, e s’era ridotta ad essere il giocattolo sessuale di un nemico… ma l’alternativa la terrorizzava troppo. Aveva visto morire troppa gente, e in modo troppo orribile, per osare ribellarsi.
I vantaggi comunque erano concreti: Hydargos era un buon padrone, non lesinava né il vestiario né il nutrimento, e nel complesso era abbastanza gentile. Mai una volta aveva alzato le mani su di lei. Si comportava insomma come se avesse posseduto un bell’oggetto fragile e prezioso, da trattare con ogni cura, certo, ma anche da adoperare tutte le volte che ne avesse provato il desiderio; e questo desiderio lo provava praticamente tutti i giorni.
Era un amante rude e poco incline alle tenerezze; però non la picchiava, non la sottoponeva a perversioni, non le faceva del male deliberatamente. Placate in lei le sue molte energie, si voltava dall’altra parte piombando nel sonno.
Naida allora piangeva silenziosamente, sfogando nelle lacrime tutto il suo dolore, finché non s’addormentava anche lei, sfinita; la mattina dopo, la giornata riprendeva, identica.


Per i primi tempi, il pensiero delle persone care che aveva perduto faceva sì che non passasse giorno senza che Naida non scoppiasse in lacrime, ovviamente quando Hydargos non era presente; alle volte era il ricordo della madre a farla piangere, altre volte le tornavano in mente la voce affettuosa di suo padre, oppure le sovveniva uno scherzo di Sirius.
Non passava però giorno senza che Naida pensasse a Duke Fleed.
Lui era divenuto il suo pensiero fisso, una sorta di punto fermo nella sua esistenza impazzita. Pensare a lui, al suo amore, alla sua forza le dava il coraggio di proseguire nella sua esistenza di schiava.
Alle volte, quando Naida si sentiva particolarmente depressa, le bastava rammentare la sua voce, ripensare a quando lui la stringeva tra le braccia, per sentirsi immediatamente più forte; salvo poi disperarsi per quanto aveva perduto.
Sapere poi che lui non era stato ucciso dai veghiani, pensare che forse s’era salvato, che magari un giorno si sarebbero rivisti… erano sogni, di questo Naida era cosciente; però sognare l’aiutava a non impazzire.
Evocare il viso giovane e bello di Duke confortava Naida, ma anche strideva atrocemente con la realtà, costringendola a raffrontare il suo amore perduto con l’orrendo mostro con cui doveva vivere. Pensare alla dolcezza, alla bontà d’animo del principe di Fleed le rendeva ancora più odioso il comandante di Vega che l’aveva comprata.
Immersa nel suo passato, nei ricordi della sua vita scomparsa, Naida non si rendeva conto di non essere obiettiva nei confronti del presente. Hydargos era per lei uno spaventoso individuo, orribile e crudele; non si rendeva conto che in realtà lui la stava trattando molto meglio di quanto avrebbe fatto qualsiasi abitante di Vega con la sua schiava.
E infatti, Hydargos stava rivelandosi un padrone eccezionalmente gentile. Su Vega, era la prassi nutrire i propri schiavi con rifiuti, vestirli con stracci, sfiancarli di lavoro, umiliarli con insulti, batterli o addirittura ucciderli alla minima mancanza; persa nel suo continuo raffronto con Duke Fleed, Naida non badava ai pasti abbondanti, ai vestiti, alla vita comoda che le era concessa, al fatto che mai lui l’avesse maltrattata.
Per Naida, aggrappata al suo amore per Duke, Hydargos era e restava il nemico, il padrone crudele, il mostro.


Durante il giorno, finché era sola, Naida riusciva a rilassarsi, a calmare la tensione che la divorava; man mano che s’avvicinava l’ora in cui il suo padrone avrebbe fatto ritorno, in lei l’inquietudine cominciava a crescere, divenendo infine autentico terrore.
Aveva sempre avuto timore dei veghiani, e questo da prima che Fleed venisse attaccato. Aveva sempre diffidato di loro, trovandoli individui violenti e per nulla affidabili; nella stragrande maggioranza dei casi, poi, il loro aspetto le era sempre sembrato a dir poco inquietante. Tante volte s’era rimproverata questo suo pregiudizio, tante volte s’era imposta di mascherare, dominare il suo disgusto; trovarsi ora costretta a vivere a stretto contatto con uno di quegli esseri le era praticamente insopportabile.
La verità era evidente: Hydargos la terrorizzava.
Quando lui, così cupo e silenzioso, s’aggirava per l’alloggio, Naida sentiva il panico attanagliarle le viscere: non sapeva cosa aspettarsi da quell’uomo chiuso e taciturno, e la paura le faceva temere le cose peggiori. In realtà, Hydargos non l’aveva mai trattata male, anzi; lei però continuava a provare l’irragionevole timore che senza alcun preavviso quel suo scontroso padrone si trasformasse in un aguzzino, che i silenzi divenissero urli, insulti e percosse. Si sentiva un poco come se in quelle stanze assieme a lei vi fosse stata una belva, apparentemente tranquilla ma potenzialmente letale.
Naida allora faceva di tutto per non contrariarlo, anzi, per prevenire i suoi desideri; il problema era che non sempre era facile capire cosa lui volesse. Tornava a casa stanco, certo: ma cosa desiderava? Silenzio, o qualche chiacchiera che lo distraesse? Attenzioni, o essere lasciato in pace?
Non era facile capirlo, e ancora meno facile, per lei, era avvicinarlo; e il motivo era semplice.
Lui la ripugnava.
Quel suo aspetto così strano, così alieno… quel cranio allungato, quel suo corpo alto e magro, quelle membra lunghe, sottili ma forti le ricordavano un enorme insetto.
In più, da sempre Naida aveva avuto l’idea che i veghiani fossero viscidi e avessero cattivo odore; nulla di più falso, come l’esperienza le aveva insegnato. Al contrario, gli abitanti di Vega curavano scrupolosamente la pulizia personale, e facevano larghissimo uso di detergenti e disinfettanti per l’igiene degli ambienti in cui vivevano. Ma in lei, il disgusto permaneva.
Quando Hydargos la stringeva tra le braccia, Naida chiudeva gli occhi per non vedersi preda di quel mostro: cercava allora di evocare l’immagine di Duke, Duke così gentile, così bello, Duke che lei aveva sempre amato con totale passione… ma il passato, per quanto meraviglioso, scoloriva davanti al ben più ingombrante presente, e Naida doveva mordersi le labbra per non mettersi ad urlare. Peggio ancora, per non contrariare Hydargos era costretta a simulare il suo ribrezzo. Rabbrividiva anche solo vedendo scivolare sulla sua pelle bianca la mano di lui dalle lunghe dita bluastre, simili alle zampe di un ragno.
Si sforzava comunque di dominarsi, perché era perfettamente consapevole di aver avuto fortuna: se lui non l’avesse scelta per sé, sicuramente lei avrebbe avuto un destino peggiore, dal trovarsi giocattolo per le truppe al divenire cavia per qualche esperimento. Tutto sommato, era infinitamente meglio subire e tacere.
Una sera, inaspettatamente, le cose cambiarono.
Hydargos rientrò più cupo del solito, il viso atteggiato ad una smorfia di sofferenza; toltosi il mantello, sedette sul divano tentando di massaggiarsi la base del collo.
Naida aveva visto quella scena fin troppe volte per non riconoscerla subito: suo padre che tornava la sera, la schiena irrigidita da uno spasmo…
«Naida, tesoro, mi faresti uno dei tuoi massaggi?»
«Papà, lo sai che ti succede sempre quando lavori troppo! »
«Sì, sì… guarda, è proprio qui che mi fa male… potresti…?»
«Va bene…»
Allora lei massaggiava e massaggiava il collo indurito, sciogliendo delicatamente i muscoli, fino a quando non sentiva la tensione abbandonare la schiena e le spalle del padre, che finalmente sospirava di sollievo: «Grazie, cara. Ora sto proprio meglio»
Quasi senza rendersene conto, Naida sedette sul divano accanto ad Hydargos, che continuava a strofinarsi il collo: in quel momento, lei vide solo la sofferenza e il dolore, non il mostro che l’aveva comprata. Gli posò le mani sulle spalle e cominciò a tastarle delicatamente, cercando il punto da cui partiva il male.
Lui trasalì al suo tocco, ma non protestò: lo spasimo era veramente forte, e le dita di lei sembravano muoversi con sicurezza e dargli un certo sollievo. Non gli piaceva l’idea di voltare le spalle alla sua schiava, una potenziale nemica, ma non poteva fare altrimenti; del resto, sarebbe stato all’erta, e se lei avesse tentato un qualche brutto scherzo gliel’avrebbe fatta pagare… ah, ora aveva trovato il punto giusto, che meraviglia…
In silenzio, Naida continuò a lavorare con pazienza, delicata e decisa allo stesso tempo: sapeva bene quanto dolore lui dovesse provare, e non desiderava altro che lenire il male, arrestare il tormento.
Improvvisamente, si rese conto di essere stata lei a toccare quel corpo – fortunatamente pulito e non viscido –, lei a prendere l’iniziativa.
Hydargos sembrava sentirsi meglio: proprio come un tempo succedeva a suo padre… La similitudine la lasciò senza fiato: fu proprio allora che Naida comprese che il mostro in realtà era solo un uomo.
Continuò il suo lavoro, e intanto sentì la paura abbandonarla poco a poco, cedendo il posto ad una sorta di stupore attonito: aveva avuto terrore e disgusto d’un essere che in realtà era sempre stato gentile con lei… e che comunque non era certo responsabile dell’aspetto che aveva.
Ormai la tensione era allentata, sotto le sue dita i muscoli erano morbidi, sciolti: – Signore, prova a muoverti… lentamente, non fare gesti bruschi.
Cauto, Hydargos spinse indietro le spalle, le alzò lasciandole ricadere, ruotò il collo: si sentiva un po’ indolenzito, ma il dolore che l’aveva paralizzato era scomparso. Quasi non riusciva a crederci.
In silenzio, Hydargos si voltò verso la sua schiava, tese una mano; istintivamente, Naida fece l’atto di proteggersi con il braccio, come se avesse temuto di venire picchiata. Ferito, Hydargos si tirò indietro: – T’ho mai maltrattata, io?
– No, signore! – Naida tremava, aveva paura d’averlo offeso – Tu sei sempre stato buono con me. Perdonami, io… io non avrei dovuto…
Il viso indurito di lui parve raddolcirsi; Hydargos le passò una mano sui capelli, e stavolta lei non si sottrasse alla sua ruvida carezza.
Per un attimo, lui rimase in silenzio a fissarla pensierosamente. Naida avrebbe potuto lasciarlo soffrire, sicura che in quelle condizioni lui non avrebbe certo potuto nuocerle; invece, aveva scelto di aiutarlo. Per la prima volta da che l’aveva presa con sé, lei gli si era avvicinata, l’aveva toccato spontaneamente… ma perché l’aveva fatto?
Naida alzò gli occhi e incontrò lo sguardo intenso e scrutatore di Hydargos; invece di sfuggirlo, lo sostenne.
Entrambi lo capirono, anche se confusamente: qualcosa tra di loro era cambiato.


E qualcosa era effettivamente cambiato, e più radicalmente di quanto entrambi si fossero resi conto.
Come moltissimi abitanti di Fleed, Naida aveva sempre considerato i veghiani come un popolo di mostri bellicosi, rozzi ed incivili; improvvisamente, ebbe coscienza di quanto il pregiudizio l’avesse accecata fin da subito.
Ora che aveva preso a considerare Hydargos come un uomo e non più come una sorta di belva, cominciava a notare in lui qualità di cui prima non aveva voluto rendersi conto.
Il fatto che il “mostro” amasse la musica, ad esempio: e non certo banali sciocchezze orecchiabili, beninteso. Hydargos aveva gusti ben più raffinati, e aveva anche una buona conoscenza in materia; quando lei aveva azzardato una domanda, lui le aveva risposto con la competenza del vero appassionato.
In più, nonostante fosse un uomo di poche parole, la sua conversazione non era certo quella grossolana di un ignorante: al contrario, Naida aveva intuito in lui una cultura ben più vasta di quanto avesse sospettato.
Il suo stesso alloggio, dall’arredamento sobrio ma elegante, decorato da un paio di pregevoli sculture, non era certo l’abitazione pacchiana di una persona grezza e di cattivo gusto.
Lentamente, Naida cominciò a guardare con occhi diversi il suo padrone: non era certo bello, ma il suo aspetto almeno non la disgustava più come un tempo. Non era né tenero né romantico, ma aveva sempre avuto cura di lei. Era cupo e poco loquace, ma non l’aveva mai trattata con disprezzo.
Quasi senza rendersene conto, Naida cominciò a mutare opinione su di lui, a considerarlo con rispetto e fiducia; e man mano che la sua considerazione per Hydargos aumentava, senza nemmeno rendersene conto Naida cominciava a sentir affievolire dentro di sé il suo disperato amore per Duke Fleed.
Da parte sua, anche Hydargos stava rapidamente rivedendo il suo giudizio su di lei.
Come ogni veghiano, aveva sempre considerato gli abitanti di Fleed come persone iperemotive, poco logiche, deboli nel fisico e nel carattere, anche se costituzionalmente affascinanti e dotati di naturale eleganza.
Aveva deciso di prendersi una schiava di Fleed, rassegnandosi ad avere quindi una creatura di bell’aspetto, ma fragile ed irragionevole.
L’aveva scelta attratto dalla sua bellezza, dal suo portamento aristocratico; ora si rendeva conto d’aver trovato molto, molto di più.
Un cervello, innanzitutto. Cultura. Buon carattere. Classe.
Ancora non riusciva a credere alla sua fortuna. Continuava a guardarla, incantato dalla sua avvenenza; provava una sorta di stupore nel vederla accanto a sé, nell’udirla parlare con quella sua voce dolce, nell’osservare i suoi movimenti eleganti, la sua grazia innata.
Ricordava ancora con un certo raccapriccio una schiava che aveva avuto in passato: bellissima, ma desolatamente idiota. Ridacchiava di continuo, piantava capricci su capricci e continuava a chiacchierare, inarrestabile. Oltretutto, aveva un’insopportabile voce nasale, tutta di testa, e pareva incapace di comprendere come lui, almeno mentre ascoltava musica, volesse un po’ di silenzio. Alla fine, esasperato, se n’era sbarazzato rivendendola ad un collega che, abbagliato dalla sua prosperosa bellezza, aveva sganciato senza fiatare praticamente una volta e mezza il suo valore.
Naida era tutt’altra cosa. L’aveva pagata cara, ma valeva tutta la somma spesa, fino all’ultimo centesimo.
A dire il vero, Hydargos cominciava a pensare che lei fosse stata il miglior affare della sua vita.


- continua -
 
Top
309 replies since 31/7/2008, 20:27   34177 views
  Share