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H. ASTER's FICTION GALLERY

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H. Aster
view post Posted on 21/4/2009, 20:58 by: H. Aster     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Capitolo 6 – Hydargos

Naida non si allontanava praticamente mai dall’alloggio del suo padrone; sulle prime, Hydargos non vi fece caso. Poi cominciò a dirle di uscire, di non rimanere sempre rinchiusa, di girare liberamente per la base; ma Naida aveva troppa paura.
– I soldati, mio signore – rispose alla domanda di lui.
– Non ti faranno niente – assicurò orgogliosamente Hydargos – Sanno che sei la mia schiava. Nessuno sarebbe così pazzo da mancare di rispetto alla donna del vicecomandante di Vega.
Nonostante le sue assicurazioni, Naida continuò a restare chiusa nel loro alloggio; ben presto, però, noia e solitudine divennero un problema serio.
Non più esausta com’era stata dopo la sua cattura, Naida non sentiva più la necessità di ore e ore di riposo: al contrario, avrebbe voluto avere qualcosa che la tenesse occupata, ma non sapeva che avrebbe potuto fare. Esaminò l’alloggio di Hydargos: soggiorno, camera da letto, bagno, uno studio privato. Ogni ambiente era perfettamente pulito e lucido, opera dei piccoli, efficientissimi robodomestici che si occupavano di mantenere l’ordine e l’igiene sulla base.
Non doveva nemmeno cucinare: i pasti venivano serviti dagli stessi robodomestici. Tutto quel che occorreva fare era ordinare le vivande che si desideravano.
Inquieta, in preda alla noia più totale, Naida non osava però manifestare il suo problema ad Hydargos, che naturalmente non si accorgeva di nulla: occupatissimo col suo lavoro, lui non si poneva certo la questione di cosa facesse lei in quelle interminabili ore solitarie. Quando tornava a casa lui voleva solo distrarsi, per cui non parlava nemmeno della giornata appena trascorsa, dei malumori di Gandal, delle sfuriate di Sua Maestà, delle sue preoccupazioni circa la riuscita della conquista della Terra. Quanto a Naida, sapeva benissimo che il compito di lui era invadere un nuovo pianeta, ed era ben felice di non conoscere i particolari: pur disprezzandosi, cercava d’ignorare che Hydargos, il suo padrone, avrebbe fatto distruggere un nuovo mondo com’era stato distrutto Fleed.
Alle volte, lei lo guardava di sottecchi, pensando che proprio quell’uomo che nel complesso con lei era abbastanza gentile, proprio lui avrebbe contribuito allo sterminio di una nuova popolazione… ma allora subito Naida si riscuoteva, obbligandosi a dimenticare.
Non devo pensarci, o non potrò più tollerare nemmeno che mi sfiori…
La noia e l’inattività, però, erano insopportabili.
Una sera, mentre era raggomitolata sul divano accanto a Hydargos, lei azzardò una domanda: sarebbe stato possibile avere magari qualcosa da leggere?
Sbalordimento totale di lui: non esisteva la zona ricreativa, per questo?
Naida sentì mancarle il fiato: – Zona ricreativa…?
– Certo! C’è di tutto: biblioteca, videoteca, un’intera banca dati che puoi consultare quanto e quando vuoi. Poi c’è la palestra…
– Ma io sono una schiava – mormorò Naida – Non so se posso andare.
– Sì, se ti autorizzo io. – s’accorse che in lei la paura era ancora più forte del desiderio e aggiunse: – Nessuno ti farà nulla.
– Sì, certo – mormorò lei, terrorizzata all’idea di uscire da quelle pareti così rassicuranti – Non so nemmeno dove sia, questa zona ricreativa.
Stavolta, Hydargos si drizzò a sedere e la guardò bene in viso: – Stai dicendomi che in tutto questo tempo non sei mai uscita da qui dentro?
Naida scosse il capo. No.
Lui ricadde contro lo schienale ed emise una sorta di sibilo esasperato.


Il giorno dopo non fu possibile discutere: Hydargos fu irremovibile, e Naida fu costretta ad uscire con lui dall’alloggio. Percorsero insieme i lunghi corridoi, presero la monorotaia che conduceva nelle aree più remote della base, poi ancora corridoi, l’ascensore… ovunque andassero, i soldati salutavano rispettosamente il loro superiore, limitandosi ad occhieggiare la meravigliosa ragazza che camminava al suo fianco; nessuno però si permise il minimo commento, la minima frase.
La zona ricreativa era nei sotterranei della base: composta da vari ambienti, comprendeva una palestra, varie camere per proiezioni olografiche, una biblioteca elettronica e una videoteca fornitissime, e una sala computer per poter accedere ai database. C’era anche un ampio salone di ritrovo, con tavoli e sedie in modo da poter pranzare in compagnia. Hydargos andò direttamente dalla responsabile, una donna alta e magra dal volto severo; quindi presentò Naida, dichiarando che le dava l’autorizzazione a frequentare l’intera zona.
Le narici della direttrice fremettero: – Volete anche che possa accedere ai database?
Fu proprio la sua disapprovazione a far decidere Hydargos: – Certo!
– Molto bene – il tono era “contento voi…”. Raccolti brevemente i dati di Naida, la donna porse poi ad Hydargos una tessera magnetica: – Dovrà presentarla ogni volta che verrà qui da noi.
Lui porse ostentatamente a Naida la tessera: – Tieni. È tua.
– Se doveste cambiare idea – insisté la direttrice, che non vedeva di buon occhio la prospettiva di quella schiava di Fleed in mezzo a videolibri, dischi e computer – basterà che mi mandiate anche una semplice comunicazione, e faremo subito annullare il permesso d’entrata.
– Non credo che succederà – rispose lui, conducendo Naida all’interno.
La donna li seguì con lo sguardo. Una schiava cui era permesso leggere, sentire musica, istruirsi… inconcepibile!


Dopo aver fatto visitare a Naida l’intera zona ricreativa, e dopo che lei ebbe chiesto timidamente un paio di dischi e un videolibro in prestito, lui la condusse verso l’ascensore per risalire ai piani superiori. Naida pensava che l’avrebbe riportata al loro alloggio, ma Hydargos prese una strada diversa, guidandola ad un secondo, altissimo ascensore, che portava sulla sommità della torre che dominava l’intera base. Una lunga salita, poi le porte si aprirono…
Stelle. Lo spazio infinito.
Naida arretrò, spaventata, mentre lui sogghignava della sua paura. Un’ampia cupola in plastivetro li riparava dal gelo dello spazio, ma in effetti l’illusione era perfetta: sembrava davvero di trovarsi all’esterno, in quel buio punteggiato di innumerevoli scintille di luce.
– Questo è l’osservatorio – spiegò Hydargos accennando con un ampio gesto al cielo stellato attorno a loro; ripreso coraggio, Naida si fece avanti, annichilita da quanto stava vedendo.
Era un pensiero banale, lo sapeva, ma era inevitabile… non avrebbe mai pensato che nello spazio ci fossero tante stelle.
L’osservatorio era una cupola a semisfera, costituita da un unico pezzo di plastivetro… o così almeno sembrava. In realtà, Naida sospettava che quelle pareti non fossero semplicemente materiale trasparente, ma fossero anche schermi su cui il computer principale potesse proiettare immagini. L’ascensore si apriva in una sorta di colonna esattamente nel centro, per cui era possibile una visione totale di quella parte di universo. La cupola non era illuminata, ma tuttavia al suo interno ci si vedeva abbastanza. Sorpresa, Naida si guardò attorno chiedendosi quale fosse la fonte della luce, e si accorse che una sezione della cupola era parzialmente oscurata per schermare i raggi di una grande stella gialla.
– I terrestri la chiamano Sole – spiegò Hydargos.
Naida si guardò attorno: – E… il pianeta? Dov’è?
– È esattamente dalla parte opposta. Vuoi vederlo?
Lei si scostò i capelli dal viso: – È possibile?
– Certo. Sull’altro lato di questo satellite abbiamo una sonda che ci trasmette immagini in tempo reale. Basta collegarsi – Hydargos andò alla colonna centrale, attivò un pannello e digitò una serie di comandi; in un attimo, le stelle scomparvero, ricomparendo un istante dopo… ma erano diverse, e disposte in altro modo. In mezzo a quelle minuscole luci era apparso qualcosa d’inaspettato: un gioiello azzurro, luminosissimo sul morbido fondo nero.
– Terra – disse Hydargos – È così che lo chiamano i suoi abitanti.
– È… meraviglioso…! – disse Naida, in un soffio.
– È bellissimo, sì – convenne lui, braccia conserte e occhi fissi su quello straordinario pianeta – Un mondo splendido. Peccato sia infestato da una razza arretrata ed incivile.
– Sia infest…? – Naida deglutì, riprese fiato – Non l’avete conquistato? Credevo…
– No, non l’abbiamo conquistato… non ancora. Quegli stupidi non sanno cosa li aspetta; se anche lo sapessero, non potrebbero certo contrastare le armate di Vega. Sono troppo primitivi anche solo per sperare di resisterci. Quel pianeta crollerà al primo assalto, vedrai.
– Ma noi siamo sul loro satellite… non si sono accorti della nostra presenza?
– Questo satellite… la Luna, come la chiamano loro… ha un lato che non è mai visibile dal pianeta; ovviamente, abbiamo costruito proprio qui la nostra base. I terrestri non sono evoluti, per loro un lancio nello spazio è un’impresa straordinaria. Non ci troveranno mai. Comunque, ormai è questione di poco tempo.
Naida rabbrividì: – In che senso?
– Questa base è operativa, ma non è completa. Dovremo ultimarla, prima di dare il via all’attacco.
– Oh…! – Naida si torse le mani: non poteva supplicare Hydargos di non dirle nulla, ma avrebbe preferito non sapere.
– In genere, non aspettiamo tanto prima di assalire un pianeta – continuò lui, imperturbabile – Un bombardamento a tappeto a suon di vegatrom, poi dischi e mostri completano lo sterminio. Ma stavolta è diverso.
Naida gemette, si morse le labbra per trattenere le lacrime.
Gli occhi fissi sulla Terra, Hydargos riprese: – Questo pianeta pare sia davvero straordinario. Il nostro Ministro delle Scienze ha chiesto di poterlo studiare con cura per poter decidere il tipo di attacco più adatto per eliminare quegli stupidi terrestri senza danneggiare l’ecosistema. Il fatto è che il vegatrom uccide ogni cosa, rendendo un pianeta completamente deserto…
– Come Fleed…! – singhiozzò lei.
– Esatto, come Fleed – continuò lui, senza accorgersi della disperazione della sua schiava – Sua Maestà Re Vega si è consigliato col Ministro delle Scienze e ha dato ordine di non distruggere la Terra. Ecco perché stiamo aspettando. Non appena avremo l’ordine, però, cominceremo a sterminare quegli inutili umani… che ti prende?
Naida s’asciugò in fretta le lacrime, si strinse le braccia attorno al corpo: – Ho… freddo.
– Va bene – Hydargos spense lo schermo, poi prese Naida per un braccio e la condusse fuori dell’osservatorio. Freddo! Non c’era assolutamente freddo, là dentro, ma naturalmente la visione dello spazio poteva dare strane sensazioni… com’erano impressionabili i fleediani!
Inghiottendo penosamente le lacrime, lei guardò di sotto in su il suo padrone: era così ottusamente insensibile… così… così veghiano…!


Frequentare la zona ricreativa cominciò per Naida a diventare un’abitudine: superati i primi timori – il bisogno di avere un’occupazione e socializzare la costrinse a vincersi – prese a recarvisi con assiduità.
Una volta superato l’ingresso in cui stazionava l’algida direttrice, per Naida si spalancavano finalmente le porte di un emozionante regno sconosciuto. Nella Sala Ricerche, seduta alla consolle del computer, Naida consultava i database cercando liberamente qualunque informazione le venisse in mente. Altre volte prendeva in prestito un olodisco e si recava in una delle camere olografiche, piccoli ambienti circolari con al centro una poltroncina girevole per lo spettatore. Inserito il disco nel proiettore che si trovava nel bracciolo della poltroncina, gli ologrammi a grandezza naturale le apparivano attorno trasportandola in qualsiasi mondo lei avesse scelto: documentari, spettacoli, concerti, commedie… la scelta era vastissima, e l’illusione di trovarsi nel mezzo dell’azione era praticamente perfetta.
Anche la palestra aveva la sua attrattiva: abituata su Fleed alle lunghe passeggiate e alle nuotate nel lago, Naida non mancava mai di andare a fare esercizio. Ricevute le direttive dalla sua istruttrice, cui si era rivolta per avere un programma completo ma vario di allenamento, Naida lavorava con impegno: il tempo che aveva trascorso praticamente inattiva al chiuso dell’alloggio di Hydargos le aveva lasciato un insopprimibile desiderio di movimento che doveva assolutamente soddisfare.
Ciò che invece le mancava, e molto, era la vita sociale.
Su Fleed aveva avuto un gran numero di amiche ed amici, e non aveva mai avuto il tempo di sentirsi sola, isolata; ma su Skarmoon la faccenda era completamente diversa.
Quanto le sarebbe piaciuto avere qualche amica con cui darsi un appuntamento, fare insieme ginnastica, vedere uno spettacolo, chiacchierare, ridere… ma sembrava che la cosa fosse impossibile. Tutti i suoi timidi tentativi di socializzare si scontravano contro un muro di glaciale cortesia, di garbato ma inequivocabile rifiuto. Naida, che all’inizio aveva temuto di venir fatta segno dell’attenzione di qualche importuno veghiano, si trovò invece ad avere il problema opposto: nonostante tutti i suoi sforzi, lei veniva sistematicamente e completamente ignorata.
Nessuno le rivolgeva la parola, nessuno rispondeva ai suoi timidi sorrisi, nessuno nemmeno la salutava se non era lei a farlo per prima; Naida all’inizio si disse che i veghiani erano un popolo molto chiuso per natura, e che magari, col tempo… ma alla fine, dovette ricredersi.
Sconfitta, delusa, si rinchiuse nuovamente per qualche giorno nell’alloggio di Hydargos, continuando a piangere la sua solitudine; ciò che la faceva soffrire maggiormente era il non capire il motivo di tanta ostilità nei suoi confronti.
Ebbe la risposta qualche giorno dopo, quando alla fine ritrovò il coraggio di uscire nuovamente – aveva bisogno di prendere in prestito qualche altro videolibro, non aveva più nulla da leggere. Naida tornò alla Sala Ricerche: voleva informarsi sulla condizione sociale degli schiavi di Vega per trovare la conferma ai suoi sospetti. E così infatti fu.
Le fu presto ben chiaro che uno schiavo era considerato davvero alla stregua d’un oggetto; ovviamente, non è possibile stringere legami d’amicizia con una semplice cosa. In più, c’era da considerare l’istintiva, atavica scarsa considerazione che i veghiani nutrivano per chiunque non appartenesse al loro popolo: guerrieri e predatori, tendevano a considerare le altre razze deboli ed imbelli, perciò meritevoli del massimo disprezzo.
Dunque, la sua duplice condizione di schiava e di non appartenente alla razza di Vega le rendeva impossibile qualsiasi rapporto sociale. Il fatto poi di essere la donna del Vicecomandante in capo era un ulteriore ostacolo. In più, questo lo comprese da sola, la sua straordinaria bellezza la destinava a destare la tacita ammirazione degli uomini e di conseguenza l’invidia e l’odio delle donne.
Naida serrò le labbra spegnendo rabbiosamente il computer: le era evidente che solo qualche altra prigioniera avrebbe potuto fare amicizia con lei; disgraziatamente, da che si trovava su Skarmoon non aveva mai incontrato alcuno schiavo. Fleed era stato conquistato ormai da un paio d’anni, e i prigionieri difficilmente sopravvivevano così a lungo: non per nulla, i veghiani non erano certo famosi per essere padroni gentili.
L’unico essere con cui poteva avere un minimo di contatto umano, assurdo a dirsi, era proprio Hydargos; fu così che lei, proprio lei che all’inizio aveva atteso con terrore il rientro a casa del suo padrone, si ritrovava ad osservare con impazienza l’orologio per vedere quando lui sarebbe tornato.
Per quanto fosse decisamente chiuso e poco incline alle chiacchiere, la sua presenza stava diventando sempre più importante per lei, che gli raccontava cosa aveva fatto, che cosa aveva letto, che cosa aveva visto; Hydargos, che non desiderava altro che dimenticare le seccature della giornata, i rimbrotti di Gandal, le invidie dei sottoposti, i mille problemi quotidiani, la ascoltava con attenzione commentando di tanto in tanto con qualche monosillabo, alle volte persino con una mezza frase. Quando poi sedevano entrambi nella penombra, ascoltando un concerto o più raramente vedendo uno spettacolo olografico – in genere Hydargos preferiva rilassarsi con la musica – lei, affamata d’un minimo di attenzione, di calore umano, si rannicchiava contro il suo oscuro, taciturno compagno. La prima volta in cui aveva osato prendersi una simile confidenza, Naida aveva temuto che lui l’avrebbe allontanata in malo modo, seccato per la sua intrusione; ma così non era stato. Hydargos non era certo tipo da indulgere in coccole e tenerezze, tutt’altro; ma non l’aveva neanche mai respinta, e mai aveva manifestato fastidio per quel suo disperato bisogno di affetto.
Da parte sua, uomo semplice e pochissimo portato all’introspezione, Hydargos non aveva mai capito la solitudine che affliggeva Naida; lei era di Fleed, apparteneva ad un popolo che come qualsiasi altro veghiano lui considerava ipersensibile ed assurdamente sentimentale, per cui gli pareva ovvio che lei mostrasse qualche bislacco atteggiamento che era solo da considerarsi un’innocua stramberia. Stranamente, non ne era disturbato, per cui da quel padrone comprensivo che sapeva di essere la lasciava fare: se lei proprio aveva bisogno di stargli addosso, bene, che lo facesse pure.
A lui non importava.


Fu sempre in quel periodo che Naida si rese conto di un nuovo problema che la riguardava: abituata com’era alla vita all’aria aperta, a contatto di piante ed animali, in quell’ambiente artificiale, asettico, si sentiva appassire poco per volta.
Da principio, Naida non volle dar peso alla cosa: era già stata incredibilmente fortunata ad aver trovato un padrone come Hydargos che non le faceva mancare nulla. Come poteva pretendere di più, quando milioni di altri abitanti di Fleed erano imprigionati, torturati, uccisi?
S’impose dunque di reprimere quei pensieri, i ricordi dei bellissimi paesaggi di Fleed, i giardini, i fiori: era viva e trattata bene, non era già abbastanza?
Continuò perciò a vivere la sua vita quotidiana sforzandosi di non pensare; purtroppo per lei, ogni giorno aveva troppe, lunghissime ore di solitudine che la esponevano ai pensieri più neri. I ricordi divennero ossessione, e Naida cominciò a temere di divenire pazza. Quelle pareti metalliche, la plastica, l’aria condizionata, la pulizia asettica, l’odore di disinfettante la stavano facendo uscir di senno: se solo avesse avuto con sé qualcosa di naturale, di vivo…! Cosa non avrebbe dato per avere un cucciolo da vezzeggiare, una bestiola che le facesse compagnia durante le ore in cui era sola!
Una sera in cui Hydargos le parve d’umore meno ombroso del normale, mentre erano entrambi seduti sul divano del soggiorno ad ascoltare musica, Naida chiese se su Vega si usasse tenere animaletti da compagnia.
Lo stupore di lui fu a dir poco enorme: animali… in casa?
Ma sì, su Fleed avevano l’abitudine di allevare cuccioli, uccellini, pesci…
Hydargos era sempre più stupefatto: tenere bestie che sporcano, seminano peli, hanno bisogno di cure? Ma per farne che?
Con la voce che le tremava, Naida tentò di spiegarsi: perché facevano compagnia… il rapporto con un animale è qualcosa di unico, di grandissimo affetto… perché…
Hydargos non rispose, limitandosi a scuotere il capo. Era evidente che se prima la sua opinione di Fleed era scarsa, adesso era decisamente diminuita.
Naida respinse le lacrime e non parlò più; ma dentro di sé il tormento continuava a roderla. Cercò di superare la delusione che continuava a bruciare: continuò a ripetersi di accontentarsi di quanto aveva, ma fu inutile. Chiusa in quell’alloggio all’interno di una base, Naida si sentiva soffocare. Riprese a piangere come le accadeva soprattutto i primi tempi, quando non si era rassegnata alla sua nuova esistenza e Hydargos la terrorizzava ancora; divenne pallida e iniziò a smagrire, mentre gli occhi cominciavano ad arrossarlesi facilmente.
Spaventata, una mattina Naida si osservò attentamente allo specchio: non aveva proprio un bell’aspetto. Hydargos avrebbe potuto trovarla brutta… e se si fosse stancato di lei? Cosa le avrebbe fatto? Era il suo padrone, aveva il diritto di torturarla, ucciderla… o peggio, rimandarla in quell’orrenda prigione, in balia delle guardie.
Naida rifletté febbrilmente: aveva bisogno di vedere un po’ di natura, qualcosa di vivo… forse, se avesse potuto coltivare qualche pianta… avere un fiore…
L’occasione di parlarne si presentò quella stessa sera. Hydargos appariva di buon umore: la costruzione della base era a buon punto, il Comandante Supremo Gandal gli aveva manifestato il suo compiacimento. Con gioia, Naida s’accorse che lui appariva meno cupo, più disteso; gli servì per cena un paio dei suoi piatti preferiti, scelse un disco di musica che lui amava particolarmente e gli si accoccolò accanto sul divano, rannicchiandosi nell’incavo del suo braccio. Poi, come per caso lasciò cadere la domanda: su Vega si coltivavano piante?
– Ma certo – rispose lui – Abbiamo serre intere. Frutta, cereali, ortaggi, piante medicinali…
– E fiori? – chiese Naida.
– Fiori? – sorpreso, Hydargos si sporse in avanti per poterla guardare in viso – I fiori non si mangiano! Perché dovremmo coltivarli?
– Perché sono belli – mormorò lei.
Hydargos parve considerare la cosa, ma la sua razionale mentalità veghiana non vedeva alcuna utilità nello sprecare tempo e lavoro per qualcosa che è semplicemente bello. Mah…
Guardò Naida: anche lei era bella. Anche lei gli era costata in termini di tempo e denaro… e ne era contento.
E se… forse…?
– …Fiori…? – ripeté, poco convinto – Li coltivavate, su Fleed?
– Avevamo interi giardini – rispose lei, la voce ridotta ad un soffio. Niente… non era riuscita a niente… lui non capiva. Non avrebbe mai capito.
Hydargos le gettò uno sguardo indagatore: notò il viso affilato, gli occhi bassi, il tremito delle labbra. Tornò ad appoggiarsi allo schienale del divano e non disse nulla, mentre accanto a lui Naida inghiottiva silenziosamente le lacrime.
Un paio di giorni dopo Hydargos rincasò portando un grande recipiente in plastivetro che senza tanti complimenti cacciò in mano a Naida: – Per te.
Era un cilindro pieno d’un liquido che sembrava acqua… dentro c’era un oggetto scuro, grosso come un pugno con una sorta di germoglio verdissimo che spuntava sulla superficie…
Un bulbo.
Senza fiato, Naida passò con lo sguardo alternativamente dal bulbo ad Hydargos: avrebbe voluto gridare dalla gioia, ma si sentiva la gola serrata, chiusa.
– Beh? Non ti piace? – borbottò lui, ruvido.
In silenzio, Naida depose con ogni precauzione il contenitore del bulbo sul tavolo; poi s’avvicinò ad Hydargos e gli gettò le braccia al collo.


Chiuso nel proprio ufficio privato, ogni giorno Hydargos sedeva per ore al suo computer, inviando ordini, leggendo rapporti, consultando il database, esaminando le ultime novità tecnologiche segnalategli dagli scienziati specialisti in armamenti.
Naida aveva l’ordine tassativo di non disturbarlo mai, finché lui lavorava nel suo studio, e lei vi si atteneva scrupolosamente. L’unica eccezione era la tazza di ween, l’infuso che gli portava sempre a metà pomeriggio: era una bevanda calda e forte, piuttosto aromatica, che su Vega era molto apprezzata. Naida scivolava silenziosamente nella stanza, deponeva la tazza fumante sulla scrivania e s’allontanava sempre senza far rumore; Hydargos in genere non alzava nemmeno gli occhi dal monitor.
Quel giorno, proprio mentre Naida stava per posare la tazza sul tavolo, Hydargos infranse le regole tirando indietro la poltroncina in modo da poter stirare la schiena, e rivolgendole direttamente la parola: – Domani devo andare ad ispezionare i quadranti cinque e sei, dove stiamo costruendo l’ampliamento della sezione scientifica. Ti piacerebbe venire?
La tazza traballò, e miracolosamente Naida la depose integra e colma sulla scrivania: lui le aveva parlato! Non solo, le aveva chiesto – non ordinato! – se desiderava accompagnarlo.
Senza fiato, Naida rigettò indietro una ciocca di capelli: – Io… io sì, signore. Mi piacerebbe molto.
– Perfetto – bevuto un sorso di ween, Hydargos s’immerse nuovamente nel suo lavoro.
Ancora stupefatta, Naida uscì dallo studio, chiedendosi nervosamente cosa gli fosse preso: mai prima d’allora lui l’aveva portata con sé quando aveva dovuto spostarsi per lavoro. Cercò una possibile spiegazione, ma non trovò risposta.
Il giorno dopo si fece trovare subito pronta. Lo seguì per i corridoi, poi sulla monorotaia; infine salirono con l’ascensore fino agli hangar. Hydargos si pose ai comandi di un disco e fece segno a Naida di sedersi accanto a lui, nel sedile del secondo pilota: il pannello di controllo era ovviamente disattivato, ma da lì lei avrebbe goduto una vista migliore che dai sedili destinati ai passeggeri.
Hydargos fece partire il disco e puntò direttamente sul quadrante che l’interessava, a breve distanza dalla base. Sorvolò la zona: sotto di loro, dalla polvere grigia emergeva l’impalcatura di una grande costruzione. Dall’alto, era possibile capire che la struttura sprofondava di parecchio sottoterra.
– Qui verranno costruiti i nuovi mostri – spiegò Hydargos alla domanda che Naida non aveva osato fare.
Mostri per assalire il pianeta azzurro… Naida represse un brivido – È… molto grande, signore.
Sembra – corresse Hydargos, con un ghigno – In realtà, per quanto spazio tu dia agli scienziati, prima o poi si lamenteranno di non aver posto sufficiente per testare i loro macchinari.
Impressionata, Naida si limitò ad assentire, gli occhi fissi sull’immensa costruzione.
Hydargos fece girare il disco attorno alla struttura, lesse i dati che gli si avvicendavano sul display e grugnì, soddisfatto. Contattò il capo della squadra di costruzione, s’informò sull’andamento dei lavori, scambiò qualche altra frase cui Naida non fece minimamente caso; quando chiuse la comunicazione, improvvisamente lei si rese conto che l’ispezione era finita, e che ora sarebbero dovuti tornare nella base, alla vita di sempre. Un improvviso senso di tristezza la colse.
– Signore, hai già finito? – chiese, impulsivamente.
Lui le scoccò un’occhiata: – Ho finito, sì.
Naida tacque, limitandosi ad un leggero sospiro.
– Ho anche terminato il mio turno di lavoro – continuò Hydargos, impassibile – Ti va di dare un’occhiata a questo satellite?
– Ma… possiamo? – chiese lei – Pensavo dovessi tornare subito…
– Adesso sono libero. Vuoi fare un giro, o no?
Naida sentì mancarle il fiato dall’emozione: – Certo! Voglio dire… mi piacerebbe molto, signore.
Hydargos rimase imperturbabile, ma un bagliore parve illuminargli lo sguardo: evidentemente, la spontaneità di lei l’aveva divertito. Puntò il disco verso l’alto, uscendo dall’immenso cratere che ospitava Skarmoon, e prese a sorvolare la superficie lunare mentre accanto a lui Naida sembrava incapace di staccare gli occhi dalle sue mani strette sulle cloches.
Hydargos scorse lo sguardo di lei fisso sulla sua postazione, più che sul paesaggio lunare: – Sei capace di pilotare una nave?
– Solo un poco, signore – rispose lei, che stava riconoscendo man mano i vari indicatori del quadro comandi – Su Fleed stavo appunto seguendo un corso per imparare, quando… – s’interruppe, glissando sul “ci avete assaliti”; per fortuna, lui non parve farvi caso.
– Prendi le cloches – disse inaspettatamente Hydargos.
– Cosa? – stavolta lo stupore era troppo perché lei potesse celarlo.
– Ma sì, prendi le cloches – Hydargos attivò i comandi del secondo pilota; vide che lei lo fissava, gli occhi dilatati dallo stupore, e aggiunse, ruvido: – Vuoi imparare a pilotare, sì o no?
Ma certo che voleva! Naida s’affrettò ad obbedire, ascoltando poi attentamente le spiegazioni di lui.
Tutto sommato, non aveva dimenticato quanto aveva appreso durante il corso, e per sua fortuna i comandi della nave di Vega non erano molto diversi da quelli dei mezzi di Fleed: non per nulla, gli scienziati di entrambi i pianeti avevano collaborato a lungo per creare astronavi sempre più perfezionate… e Goldrake era stato l’ultimo e più brillante risultato di quella cooperazione. Ma ora non voleva pensare a Goldrake… e nemmeno a Duke.
Seguendo le indicazioni di Hydargos, pilotò il disco sorvolando con perizia il suolo lunare: pilotare le piaceva molto e stava imparando in fretta, questo lo capì da sé anche se lui non era certo un maestro facile ai complimenti.
Da parte sua, Hydargos si rese conto subito dell’abilità della sua allieva. Era un insegnante scrupoloso, per cui non trascurò nulla, spiegandole dettagliatamente ogni particolare ed osservando con approvazione i rapidi progressi di lei. Alla fine, le lasciò interamente il comando: anche se non conosceva ancora bene le manovre d’attracco, lei era in grado di guidare la nave sulla superficie lunare. Hydargos si rilassò contro lo schienale della sua poltrona, lasciando scorrere lo sguardo su quel panorama grigio argento; quel vagare senza meta e soprattutto la tranquilla, silenziosa presenza di Naida avevano avuto un effetto calmante su di lui, che finalmente lontano dai suoi crucci quotidiani aveva l’impressione di riuscire a distendersi, a dimenticare.
Dover tornare fu una necessità sgradevole per entrambi, che avevano tratto beneficio ciascuno della tranquilla presenza dell’altro.
Ripiegarono verso Skarmoon; solo allora Hydargos riprese i comandi, lei non era ancora in grado di effettuare manovre delicate come il rientro.
Fu lui a riportare il disco nell’hangar, mentre Naida osservava attentamente ogni sua mossa senza perdere un movimento. Quando finalmente spense il quadro comandi del disco, Hydargos si volse a guardare Naida: aveva le guance arrossate dall’emozione, gli occhi brillanti. Gli parve bellissima.
Ovviamente, non poteva dirglielo. Che figura avrebbe fatto, altrimenti?
– Su, andiamo – si alzò dalla postazione, e lei gli tenne subito dietro.
Mentre con l’ascensore raggiungevano i piani inferiori, lui le disse in tono casuale che per il momento non avrebbe dovuto più compiere ispezioni; mentre il viso di lei pareva allungarsi, Hydargos aggiunse con noncuranza che l’indomani nel suo tempo libero le avrebbe dato un’altra lezione di volo.
I portelli chiusi dell’ascensore li riparavano da orecchie e sguardi indiscreti, e nessuno a parte lui udì il grido di gioia di Naida.


Nei giorni successivi presero l’abitudine di uscire regolarmente con un disco; dopo un rapido controllo pro-forma ai quadranti in cui veniva edificato l’ampliamento della zona scientifica, Hydargos trasferiva il comando a Naida, che sorvolava il suolo lunare, ora alzandosi sopra le montagne ora abbassandosi fin quasi a sollevare la polvere grigia.
All’inizio lui la controllava, fornendole qualsiasi indicazione che le fosse necessaria; ben presto vide che Naida aveva imparato, e imparato bene. Allora Hydargos si allungava contro lo schienale della poltroncina, facendo scorrere lo sguardo sul paesaggio lunare e lasciando fluire la tensione che aveva accumulato nel corso della giornata: uscire dalla base, allontanarsi per un poco da tutte le seccature e avere accanto a sé la presenza discreta di lei era una sorta di balsamo ristoratore.
Dal canto suo, Naida si chiedeva come mai lui le avesse insegnato a pilotare il disco: lei non avrebbe potuto usare le sue conoscenze per fuggire?
Sì, ma per fuggire dove?
Sulla Terra, forse? Un pianeta che Vega aveva condannato e che presto si sarebbe trasformato in un inferno come Fleed?
Naida sorrise, amara. Non era stato per fiducia in lei che Hydargos le aveva permesso di acquisire quella conoscenza: sapeva bene che lui, ombroso e diffidente com’era, non era certo uomo da abbassare la guardia.
No, quella di lui era stata una sorta di prova di forza: sapeva che lei non sarebbe scappata, sapeva di non correre alcun rischio. Era lo stesso motivo per cui le aveva permesso di accedere ai computer.
Lei non costituiva un pericolo, e lui lo sapeva bene.
Quando rientravano, era sempre lei a compiere le manovre di attracco, che ormai aveva imparato ad eseguire alla perfezione; Hydargos non diceva nulla, ma la guardava con approvazione, il viso ombroso che pareva finalmente rischiararsi. Naida si voltava verso di lui, sperando in una frase, almeno una parola: Hydargos allora esitava un attimo, quasi avesse avuto qualcosa da dirle, e poi regolarmente s’alzava brontolando che era ora di tornare a casa.
E la parola non veniva mai detta.


Capitolo 7 – Sirius

Il bisogno di sapere esplose in lei improvviso ed impellente. Prima d’allora, aveva sempre voluto ignorare cosa fosse successo alle persone che aveva amato, cullandosi in assurde speranze, in sogni senza consistenza.
Ora era arrivato il momento di conoscere la verità; per prima cosa, Naida ne parlò con Hydargos, che naturalmente non vide di buon occhio la cosa.
– Non vedo perché tu debba cercare notizie – sbottò infatti.
– Ti prego, signore – Naida aveva le lacrime agli occhi – È la mia famiglia… io devo sapere!
– Non scoprirai niente di piacevole; lo sai, questo?
– Lo so… ma non sapere è molto peggio.
Hydargos sbuffò: – E va bene, piccola. Fai come credi. Io ti ho avvertita.
– Grazie, signore! – Naida fece per precipitarsi alla porta, ma lui la trattenne: – Un’ultima cosa…
Naida attese, mentre lui taceva.
– …Sì? – lo incoraggiò lei.
Lui esitò un ultimo istante; poi, di colpo, esclamò d’un fiato: – Preparati a trovare il peggio del peggio.


Col cuore che le batteva furiosamente nel petto, Naida rimase incerta, le dita sulla tastiera. Sapeva che il computer le avrebbe dato tutte le risposte, ma ora non era più certa di volerle sentire… ricacciò indietro il nome di Sirius, che le si era presentato per primo alla mente, e decise di provare con qualcuno che conosceva ma che non le era altrettanto caro.
Formò il nome della regina di Fleed: deceduta. C’era ad aspettarselo…
Naida serrò le labbra: fin dall’inizio aveva saputo che non sarebbe stato piacevole venire a sapere che ne era stato delle persone che amava; eppure, l’incertezza era infinitamente peggio.
Compose il nome del re di Fleed: deceduto. Esitò ripensando a Duke: era scomparso nello spazio con Goldrake, era inutile soffrire vedendo apparire sullo schermo quel che già sapeva… passò a Maria. Scomparsa, presumibilmente deceduta.
Naida ricacciò indietro le lacrime: doveva continuare.
Sirius…?
No. Non ancora. Non sono pronta.
Digitò altri nomi: le sue amiche, i domestici che avevano lavorato nel suo palazzo, i parenti, tutti i conoscenti che le vennero in mente, dal segretario personale di suo padre alla terapista che veniva a fare i massaggi alle membra doloranti della nonna… erano tutti morti, tutti…
Naida s’asciugò gli occhi, mentre continuava a scorrere quell’interminabile fila di nomi, tutti seguiti da quell’unica, spietata parola… deceduto.
Possibile che sia sopravvissuta solo io?
Incredula, tornò a ripercorrere la lista. Accanto al nome, era brevemente scritto quello che era stato il destino di ognuno: alcuni erano stati uccisi subito, altri erano morti dopo una prigionia più o meno lunga.
Man mano che leggeva, si sentiva il petto oppresso, il respiro mozzarsi; ma continuò. Aveva pianto tanto per l’angoscia di non sapere, che ormai sentiva che avrebbe potuto affrontare qualsiasi verità, anche la più orribile.
Ripercorse da capo l’intera lista, cercando di rileggere ogni nota per avere un chiaro quadro della situazione.
Una buona metà di quelle persone era morta subito, durante l’assalto di Fleed; moltissime altre erano state uccise nel corso del loro primo anno di prigionia. Dopo tre anni, nessuno di loro era ancora vivo.
Naida scorse ancora l’elenco delle sue amiche: alcune avevano avuto un destino simile al suo ed erano divenute schiave di qualche veghiano. Parecchie di loro erano morte dopo breve tempo, altre erano state cedute… evidentemente, quando i maltrattamenti avevano fatto sfiorire la loro bellezza, i loro padroni si erano disfatti di quelle creature per loro ormai inutili.
Disperata, Naida continuò a digitare nomi, ricevendone in risposta quella spaventosa parola… deceduto. Continuò e continuò a farlo, fino a quando ad una sua precisa richiesta non comparve tutt’altro risultato.
Incredula, scorse di nuovo il testo: aveva digitato il nome di Markus, il migliore amico di Duke; con stupore, lesse che era vivo, e libero.
“Condizionamento mentale permanente… comandante in capo…”
Sentendosi girare la testa, Naida si coprì gli occhi.
Dunque, Markus era vivo: per qualche motivo era stato risparmiato, e costretto a servire Vega. “Condizionamento mentale”: Naida ne aveva sentito parlare. Le era stato spiegato che i veghiani erano capaci di distorcere la mente del più forte e volitivo degli uomini, trasformandolo in un burattino obbediente: era quel che doveva essere successo proprio a Markus.
Con una stretta al cuore, Naida rammentò il bel giovane dai capelli biondi, il viso fiero, gli occhi dallo sguardo d’acciaio: pure lui era stato piegato dai veghiani! Allora, era vero: se Duke fosse stato catturato non ci sarebbe stata speranza, sarebbe stato ridotto in schiavitù anche lui… o sarebbe morto nel tentativo di opporsi. Non c’era speranza di salvarsi da Vega, dunque. Il re di Fleed era stato saggio a farlo fuggire.
E Sirius? Che ne era stato di lui?
Naida si morse le mani per non urlare: aveva troppa paura di sapere che ne era stato del suo fratellino… troppa… ma doveva farlo. Non ne poteva più di raccontarsi storie, illudersi che Sirius fosse stato comperato da un padrone buono e gentile, o magari che fosse stato adottato da una coppia senza figli… doveva sapere.
Fece per inserire il nome del fratello nel motore di ricerca, ma si arrestò.
Non era sicura di poter reggere: la verità avrebbe potuto essere spaventosa.
Possibile che i veghiani potessero aver fatto del male ad un bambino? Un bambino bello ed intelligente come Sirius?
Forse hanno trattato bene i bambini, si disse Naida. Molti veghiani sono sterili per colpa dell’inquinamento del loro pianeta: per loro, i bambini devono essere preziosi. Non possono aver fatto loro del male.
Esitò ancora, non avendo il cuore di inserire il nome di Sirius.
Forse, prima di Sirius sarebbe stato meglio sapere che ne era stato di qualche altro bambino… per prepararsi alla verità, qualunque fosse.
Naida rifletté febbrilmente. Non c’era stato quell’amichetto di Maria, quel bimbo che aveva circa l’età di Sirius? Come si chiamava? Kein, già.
Lo ricordava bene: magro, un gran ciuffo di capelli azzurri, un ragazzino coraggioso e con l’argento vivo addosso. Messi assieme, lui e Maria avevano dato parecchio filo da torcere alle loro governanti… vivacissimi, incontenibili, due veri terremoti.
Naida compose il nome; con suo grande stupore, invece della semplice parola “deceduto” seguita da poche, scarne righe, il nome di Kein aveva fatto apparire parecchio testo.
Lesse con apprensione… era ancora vivo.
Naida dovette rileggere più volte quelle parole… era vivo! Non l’avevano ucciso… allora era vero, i bambini venivano risparmiati… allora, anche Sirius…
S’impose di calmarsi: una cosa per volta. Adesso avrebbe letto che ne era stato di Kein. Poi sarebbe toccato a Sirius.
Scorse rapidamente le righe: catturato, era stato acquistato dal Ministro delle Scienze Zuril. Iscritto all’Accademia Militare…
Naida si riscosse: uno schiavo all’Accademia? Possibile? Allora, non solo lei aveva avuto la fortuna di aver trovato un buon padrone!
Sollevata, felice, riprese a leggere: era riportato un elenco completo dei successi che Kein aveva ottenuto nei suoi studi. Era evidente che si era davvero fatto onore, visto che gli era stato conferito il premio quale miglior studente del suo corso e che aveva sostenuto l’esame finale col massimo dei voti. Il suo padrone doveva essere stato contento di lui.
E contento, quel tal Zuril doveva esserlo davvero: terminato il ciclo di studi, Kein era stato affrancato dalla schiavitù. Naida dovette leggere più volte quella parola: affrancato… quindi, era possibile riacquistare la propria libertà, e Kein c’era riuscito!
Stavolta le lacrime che le salirono agli occhi furono di gioia, ma Naida respinse anche quelle: non aveva ancora finito di leggere.
Scorse rapidamente le ultime righe: libero, Kein era sotto la tutela di Zuril, che si sarebbe occupato di lui fino a che non avesse raggiunto la maggiore età. Attualmente, grazie ai suoi brillantissimi risultati il ragazzo frequentava con grande profitto il corso superiore per allievi ufficiali.
Naida ricadde contro lo schienale della sua poltroncina: Kein vivo, libero e con davanti a sé una carriera che si prospettava a dir poco promettente… non poteva crederci!
Esultante, piena di speranza, si decise e digitò il nome del fratello.
Poche righe… quell’orrenda parola…
NO! NO! NO!
Deceduto… esperimento… espianto e conservazione dell’encefalo…
Inorridita, incredula, Naida lesse e rilesse quel che era stato il destino del fratello: “Al momento della cattura presentava fratture multiple alle costole. Impiegato per testare l’efficacia di farmaci contro l’effetto di radiazioni vegatrom. Regolarmente deceduto nel corso dell’esperimento. Encefalo espiantato e conservato per utilizzazioni future”.


Le porte si chiusero dietro di lui. Finalmente a casa.
Sorpreso, Hydargos si guardò attorno: Naida veniva sempre ad accoglierlo sulla porta. Per la prima volta, non gli era andata incontro. Strano.
Non era nel soggiorno. Diede un’occhiata al bagno, ma era deserto.
Andò alla camera da letto: buio.
Un sospiro, un lieve singhiozzo… era là.
Inquieto, Hydargos entrò, scrutando nell’oscurità. Intravide una figura gettata bocconi sul letto, le spalle scosse dai singulti, i lunghi capelli che le nascondevano il viso.
– Che ti succede? – si fece avanti, si chinò su di lei – Ti senti male?
Naida emise un suono inarticolato. No.
– E allora cos’hai?
– Sirius – articolò lei – Mio fratello…
Hydargos trasalì, parve impietrirsi: – Sì?
– È morto! – e Naida scoppiò in un pianto dirotto.
C’era da immaginarselo, si disse lui.
Sedette sul letto accanto a lei, incerto sul da farsi. Avrebbe voluto far cessare quella crisi di dolore, ma si sentiva totalmente impotente.
– Te l’avevo detto, di non cercare nulla – fu tutto ciò che riuscì a dirle.
– Io… dovevo sapere! – singhiozzò Naida.
D’istinto, lui allungò una mano, come per farle una carezza, ma si riprese. Era impazzito? Cos’erano quelle smancerie?
– Avresti dovuto ascoltarmi – brontolò, dita intrecciate e gomiti puntati sulle ginocchia.
– Un… esperimento scientifico! – esclamò lei, inorridita – Hanno ucciso Sirius per un… un…
– Avrebbe potuto andargli peggio, credimi.
– Era solo un bambino! Un bambino! Come hanno potuto, quei mostri…?
Fanno esperimenti anche sui neonati, non è certo davanti ad un bambino che si formalizzano, pensò Hydargos; ma, per quanto non fosse certo un uomo sensibile, persino lui comprese che fosse meglio tacerglielo.
– È morto…! – spossata, Naida ricadde sul guanciale – Sirius è morto…
Meglio così, si disse Hydargos. Se era tuo fratello doveva essere un bel bambino; meglio finire come cavia, piuttosto che gettato in pasto ai soldati. O come giocattolino di qualche ufficiale, se è per questo.
Naida gemette, si agitò lievemente.
Per quanto, continuò tra sé Hydargos, con la fama che hanno certi nostri scienziati… non mi meraviglierei se prima di usarlo per l’esperimento, qualcuno non l’avesse utilizzato per qualcos’altro. Non lo sapremo mai. Ad ogni modo, è finita. Meglio così.
Naida sospirò: aveva pianto fino a sfinirsi, e senza accorgersene era scivolata nel sonno.
Hydargos la guardò un istante, prima di alzarsi. Le sfiorò un braccio: freddo come il marmo. Incerto, esitò spostando il peso da un piede all’altro, chiedendosi confusamente cosa sarebbe stato meglio fare; poi pensò bene di togliersi il mantello e, con un gesto goffo, glielo gettò addosso. Naida vi si rannicchiò con un mugolio soddisfatto.
Senza far rumore, lui scivolò fuori dalla stanza.

– continua –
 
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