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H. ASTER's FICTION GALLERY

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H. Aster
view post Posted on 5/5/2009, 21:17 by: H. Aster     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Verona, città di Emilio Salgari.

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Capitolo 12 – L’ombra del passato

– L’unico modo per descrivere Fleed dopo l’occupazione di Vega è paragonarlo all’inferno.
Raggomitolata su una sedia, Naida parlava guardando fisso davanti a sé, senza vedere niente né nessuno, la mente persa in spaventosi ricordi. Immobili, Actarus, Alcor e Procton ascoltavano senza fiatare, ammutoliti dall’orrore.
– I pochi che sono riusciti a sopravvivere al massacro – continuò Naida, sempre senza rivolgersi a nessuno in particolare – sono finiti schiavi nelle miniere radioattive. Altri, sono stati utilizzati come cavie per esperimenti atroci, o sono stati trucidati per semplice divertimento… o per monito – “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?” . Naida rabbrividì, chiuse gli occhi al ricordo.
Le ci volle qualche istante prima di essere nuovamente in grado di riprendere il suo racconto: – Ogni giorno, distruzioni, torture, massacri… non hanno rispettato niente e nessuno. Sterminavano subito i deboli, i malati, gli anziani – deglutì pensando alla nonna, a sua madre, e riprese, la voce malferma: – Ho visto distruggere case, palazzi, giardini. Devastavano per il gusto di farlo. Sentivamo ogni giorno le esplosioni delle bombe, il crollo delle case… e poi urla. Urla. Urla. – tacque, chinando la testa.
Agghiacciati, i tre uomini si scambiarono un’occhiata: per quanto avessero immaginato un simile orrore, sentirlo narrare dalla voce di Naida era infinitamente peggio di ogni loro idea.
Naida parve riscuotersi, come se fosse emersa improvvisamente da un abisso; sentì tutti gli sguardi su di sé e aggiunse: – Io… io non so come sia riuscita a sopravvivere e infine a fuggire.
Era vero: non avrebbe saputo dirlo. Non ricordava niente, fino a quando non si era trovata in quella saletta d’aspetto, con quell’uomo alto che… che…
Una fitta dolorosa alla testa. Naida si portò una mano alla fronte, il viso contratto dal dolore; subito, Procton fece cenno ai due giovani di non chiederle più niente, per il momento.
Actarus s’avvicinò a Naida, le mise le mani sulle spalle: – Adesso sei qui con me, e non devi più avere paura. La Terra è bella come lo era il nostro Fleed, e la gente è buona. Qui, potrai dimenticare tutti gli orrori che hai conosciuto.
Naida serrò le labbra in una smorfia di sofferenza, gli occhi fissi sul pavimento.
Actarus le fece alzare il viso, guardandola negli occhi: – Starai con me, Naida. Anche la gente della Terra conosce il significato della parola amore, anche loro amano la vita così come anche noi l’abbiamo sempre amata. Siamo più simili di quanto tu non possa credere.
Naida non reagì, mentre Actarus l’attirava tra le sue braccia; subito, Alcor e Procton si scambiarono un’occhiata. Meglio uscire, lasciarli finalmente soli.
Scivolarono silenziosamente fuori della stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
– Mi sono venuti i brividi! – Alcor si strinse nella sua giacca – Davvero, professore, sentendo il racconto di Naida… e vedendola in viso… ma voi lo sapete meglio di me. Non era così anche Actarus, quando è arrivato sulla Terra?
– Non proprio – rispose Procton; ma non volle aggiungere altro.
Tante volte, nei libri aveva trovato il termine “abissi di disperazione” per descrivere gli occhi d’un protagonista affranto dal dolore; sempre, aveva liquidato quella frase come eccessiva, melodrammatica.
Ora, dopo aver incontrato lo sguardo di Naida, quella splendida giovane donna che gli aveva ricordato una ninfa dei boschi, capiva d’aver sbagliato.
Alcor pensava che Actarus avesse avuto un’espressione simile, un tempo… non era stato così. Era sconvolto, terrorizzato, addolorato; mai però Procton aveva avvertito in lui un simile vuoto, una tale angoscia senza speranza, una simile stanchezza di vivere.
Di una cosa era certo: nonostante tutto l’orrore provato da Actarus, per Naida le cose erano andate infinitamente peggio; e lui non era sicuro di voler sapere cosa la gente di Vega avesse fatto a quella creatura.


L’uscita di Procton ed Alcor era passata del tutto inosservata.
Naida si voltò verso un’ampia finestra, guardando senza vederlo il panorama che si stendeva davanti a lei: la pineta, il fiume, le montagne innevate che brillavano contro il cielo crepuscolare… era tutto molto, molto simile a ciò che un tempo era stato Fleed. E tutto inesorabilmente diverso.
Singhiozzò lievemente, sentendosi il petto oppresso da un’inesprimibile angoscia; ignaro del suo tormento, Actarus le cinse le spalle, osservando con lei nel cielo le ultime tracce fiammeggianti del sole morente.
– Anche su Fleed le nostre giornate erano scandite dai suoni della natura – riprese, assorto nei suoi ricordi – Correvamo a piedi nudi nell’erba dei prati… e quante volte ci rimproveravano perché stavamo troppo tempo lontani da casa!
Naida rabbrividì: rammentava ogni particolare, il profumo dei fiori, l’erba che sfiorava le loro caviglie, le loro mani strette…
– A volte c’incontravamo di nascosto – proseguì Actarus; ora che aveva cominciato a rammentare, i ricordi gli fluivano inarrestabili, affollandosi nella sua mente: – Quando lo facevamo, il tuo fratellino veniva a spiarci.
Una fitta al cuore: – …Sirius…!
Actarus sorrise, la mente sempre più volta al passato: – Ti ricordi di quella volta che ci eravamo rifugiati sotto un albero, e lui è saltato giù dai rami lanciando urla selvagge? Era dispettoso e amava fare scherzi, Sirius, ma era un ragazzino molto simpatico. …Naida! Che ti succede?
Lei singhiozzò, asciugandosi rapidamente gli occhi: – Sirius è stato ucciso!
– Ucciso?! – Actarus si riscosse: quel ragazzino vivacissimo e pieno di vita non c’era più… – Ma com’è successo?
– Nei laboratori di Vega – Naida deglutì, riprese fiato – In un esperimento… è orribile! – si coprì il viso con le mani, ma il pianto non venne.
– Sì, è orribile! – Actarus l’afferrò per le spalle, la strinse: – Dobbiamo fermare i veghiani! Odiare e far soffrire gli altri, ecco cosa li fa felici! Sono dei veri mostri!
– Mi fai male…! – gemette Naida.
– Scusami! – Actarus la lasciò immediatamente, mortificato, e lei si tirò da parte evitando di guardarlo.
Uno sprazzo di memoria… ricordò altre mani su di sé – bluastre, aliene, ma nel complesso gentili: possibile che fossero state invece proprio le mani del suo Duke a causarle dolore?
– Mi dispiace, davvero – aggiunse Actarus – ma questa notizia mi ha sconvolto!
Naida assentì, distrattamente. Perché non riusciva a ricordare altro?
Ma anche Actarus non badò alla reazione della sua compagna. Pallido d’ira, non poteva pensare ad altro che non fosse il suo nemico: – Bisogna fermare Vega! Non possiamo stare a guardare! Troverò il modo di attaccarli, di sconfiggerli!
Naida si voltò finalmente a guardarlo, il bel viso chiuso ed indurito, gli occhi gelidi, e non rispose.


– Ecco la tua camera – Actarus guidò Naida in una stanza che in genere riservavano agli ospiti. Ampie finestre davano sulle montagne oltre la pineta; arredata con eleganza e semplicità nei toni del blu e dell’azzurro, la camera era ariosa, serena. L’ideale, per una creatura tormentata come Naida.
La giovane donna si guardò rapidamente in giro: vide il letto, i mobili – armadi, dovevano essere… – lo strano tessuto colorato per terra…
– È un tappeto – spiegò Actarus.
Naida lo osservò con curiosità: abituata da anni all’asettico ambiente di Vega, tutto nude superfici lucide, metallo e plastica, i mobili in legno le sembravano qualcosa di così lontano dalle sue abitudini… e quel tappeto, poi! Nessuno su Vega avrebbe tenuto un tessuto così spesso per terra: l’avrebbero considerato un ricettacolo di sporco e germi.
Altro tessuto blu pendeva dalle finestre: evidentemente, sulla Terra non c’era la stessa ossessione per l’igiene che regnava su Vega. Naida s’avvicinò alle finestre, toccò il morbido velluto color della notte.
– Sono tende – spiegò Actarus – Devi chiuderle, o domattina la luce del sole ti sveglierà all’alba. Adesso ti faccio vedere – tirò le cortine mentre Naida, silenziosa, lo osservava con curiosità. Actarus capiva: anche lui, non appena arrivato sulla Terra, aveva trovato tutto piuttosto strano; col tempo si era abituato. Sarebbe accaduto anche a lei.
Le mostrò i vari mobili, facendole vedere come si aprivano gli armadi (girare una chiave, tirare una maniglia, niente aperture automatiche!). Poi le mostrò il bagno, che naturalmente presentava stranezze anche maggiori: la doccia senza ultrasuoni, per esempio, o lo strambo asciugacapelli… senza contare l’antiquato, ridicolo sciacquone. Actarus rise mentre gliene mostrava il funzionamento; stavolta Naida non resisté e sorrise a sua volta. Era davvero così strano… così buffo!
Actarus rise più forte, sperando che lei s’unisse alla sua ilarità, ma Naida tornò subito seria, pensosa. Sembrava che qualcosa la rodesse, tormentandola senza lasciarle un attimo di pace.
In silenzio, Naida tornò nella stanza; scostate le tende guardò fuori, beandosi di quel meraviglioso paesaggio che la luce lunare rendeva magico, irreale.
– È un mondo molto bello, non trovi? – Actarus le si pose a fianco – Anche se ormai vivo qui da anni, continuo a trovare che la Terra sia meravigliosa. Non ci si può abituare alla bellezza: ti sorprende sempre.
– È molto diverso da Fleed – mormorò Naida.
– È diverso, sì – convenne lui.
Naida alzò gli occhi sullo spicchio argenteo che sovrastava le montagne: – Come si chiama quel satellite? – un vago ricordo le s’affacciò alla memoria – È la Luna?
– Si chiama così – assentì lui.
Naida aggrottò la fronte: conosceva quel nome… qualcuno doveva averglielo detto. Ma chi? Quando? Se solo i ricordi fossero tornati…
Stelle, un’ampia cupola di plastivetro… un meraviglioso pianeta azzurro che galleggiava nell’oscurità… qualcuno con lei, una voce profonda che le diceva… le diceva… la Terra, la Luna…
Così com’era improvvisamente apparso, il ricordo svanì.
– Ti senti bene?
– Cosa…? – Naida batté le palpebre, parve emergere da un mondo remoto… un mondo in cui erano rimasti i suoi ricordi perduti – Io… sto bene, sì. Sono solo un po’ confusa.
– Sei così pallida – Actarus le sfiorò una guancia con la mano, e d’istinto lei gliela prese, se la premette contro il viso.


I pugni contratti fino a far schioccar le nocche, le mascelle serrate fino a fargli dolere l’articolazione, Hydargos fissava lo schermo senza staccare lo sguardo.


Naida chiuse gli occhi, evocando un altro luogo… acque limpide, fiori rossi profumati, alberi dalle chiome fruscianti… il palazzo dalle sottili colonne bianche, i grandi giardini… le stanze fresche e silenziose… Fleed.
Perduto, lontanissimo, irreale…
Con un singhiozzo, Naida tornò bruscamente alla realtà. Sentiva ancora contro il viso il tepore della mano di Duke, ma non poteva essere…
Invece, lui era lì. Vivo, reale. Era una vera mano – carne, nervi, ossa – quella che lei ancora teneva nella propria.
Nel caos della sua povera mente sconvolta, passato e presente parevano confondersi in un turbine d’immagini: persone vive e perdute, luoghi scomparsi per sempre… Fleed… la Terra… Vega, la base Skarmoon… un uomo alto, oscuro…
Un dolore lancinante alla testa, improvviso e violento; Naida vacillò, e subito Actarus l’afferrò, sostenendola: – Naida! Cosa ti succede?
Rapida com’era giunta, la fitta scomparve, lasciandola dolorante e ancora più confusa. Naida sentì le lacrime salirle agli occhi, la disperazione artigliarle l’animo.
– Oh, Duke! – gli gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi, disperata. Era tutto così difficile, così complicato… non ricordava più niente, niente… era forse malata…? – Duke, ti prego, aiutami…!


La sua donna tra le braccia del suo peggior nemico…
Il viso di pietra, gli occhi incandescenti, Hydargos continuava a fissare le immagini sullo schermo.
Vedere tutto lo faceva star male… non sapere, sarebbe stato peggio.


Naida continuava a piangere tenendo il viso nascosto contro il petto di Actarus, mentre lui la cullava dolcemente, mormorandole parole dolci e rassicuranti e aspettando pazientemente che la crisi passasse.
Avrebbe voluto che Naida si confidasse, gli narrasse quali orrori avesse subito; allo stesso tempo, non osava chiederle nulla, e aveva paura di sentire il suo racconto. Quella giovane donna dal viso triste e gli occhi colmi di disperazione era così diversa dalla Naida dolce e solare che lui aveva conosciuto… ma che le avevano fatto, quei maledetti?
Naida parve finalmente calmarsi; s’asciugò il viso, mentre gli ultimi singulti le spezzavano il respiro. Alzò la testa, incontrò gli occhi di lui e rimase immobile a guardarli: erano come di levigato vetro trasparente azzurro cupo, con un orlo netto di un blu più scuro. Non li aveva mai dimenticati…
Gli anni parvero volare via, divenire un semplice, inutile ricordo. Erano ancora i due ragazzi che erano cresciuti assieme, e assieme avevano giocato, parlato, pianto, gioito… e assieme, avevano conosciuto il desiderio e l’amore.
Actarus si chinò a baciarla con dolcezza, avendo in cuor suo il vago timore che lei lo respingesse; dopo un attimo di esitazione, Naida invece lo strinse a sé, rispondendo con ardore al suo bacio. Gli affondò le mani nei capelli – li ricordava bene, così fini e morbidi! – gli carezzò il collo, la schiena: si era fatto più robusto, il ragazzo sottile che lei aveva amato era diventato un uomo… ma era sempre lui, lui, il suo amore, il…
Il ricordo parve esploderle nella mente: altre braccia, un altro corpo, un’altra bocca… lunghe mani bluastre… un altro tocco, un altro odore…
NO!
Naida s’inarcò all’indietro, cercando di divincolarsi: – Lasciami!
Sorpreso, sbalordito, Actarus si staccò da lei per poterla guardare in viso: – Naida…?
Lei si dibatté con la forza della disperazione, strappandosi alle sue braccia e finendo con le spalle contro la parete: – Lasciami stare! Non toccarmi!
Allibito, lui la fissò senza comprendere: – Ma… ma io non…
– Non posso! – singhiozzò lei, sempre addossata al muro – Non posso farlo! Per piacere, vai via!
Istintivamente, Actarus fece un passo verso di lei; la vide appiattirsi ancora di più contro la parete e s’arrestò subito: – Va bene, Naida. Come vuoi. Me ne vado.
Aveva detto l’ultima frase quasi in tono interrogativo, sperando che lei cambiasse idea e lo richiamasse… ma Naida tacque, evitando anche solo di guardarlo.
Pochi attimi prima lui era stato sicuro che avrebbero fatto l’amore… e ora… – Naida, se ho fatto qualcosa di sbagliato…
– Ti prego, ti prego, vai via!
– Volevo solo chiederti scusa – rispose lui, un lievissimo rimprovero nella voce.
Lei scosse il capo: – Non sei tu, Duke… sono io che non posso… non posso… – lo guardò con aria supplichevole – Cerca di capire.
È proprio quello che vorrei… capirti. Ma non ci riesco, e tu non mi aiuti – Ma certo. Scusami ancora, non avrei dovuto… buona notte – andò alla porta, si voltò un istante a guardarla: Naida rimaneva addossata alla parete, pallidissima, gli occhi remoti, persi in chissà quali ricordi…
Ricordi dai quali lui era escluso.
Actarus uscì nel corridoio e richiuse silenziosamente la porta dietro di sé.
Scossa da un lungo brivido, Naida era ancora addossata contro la parete.


A lungo, Duke Fleed rimase in piedi davanti alla porta chiusa. In silenzio, il giovane cercava di riprendere il controllo di sé stesso, di dirsi che naturalmente lei aveva avuto ragione a respingerlo, a non voler andare oltre…
Non era possibile superare in poche ore tutto il tempo perduto, ritrovarsi dopo anni e pretendere che ogni cosa accadesse con la naturalezza del passato. Lui era stato troppo impulsivo e Naida l’aveva costretto a rientrare in sé.
Non doveva considerarlo un insuccesso… però bruciava, e molto.


Hydargos guardò il suo rivale: dolore, sconfitta, abbattimento si leggevano chiaramente sul suo viso impallidito, e la bocca aveva assunto una piega triste, amara.
Il principe di Fleed era così bello, così giovane, così simpatico… e Naida l’aveva respinto senza alcuna esitazione.
Con negli occhi l’immagine di Actarus che s’allontanava, il passo incerto e le spalle curve, Hydargos rise, rise, rise fino a restare senza più fiato.


Naida si svestì, si lavò e si preparò per la notte con gesti meccanici, la mente lontanissima da quanto aveva attorno: aveva l’impressione d’essere immersa in una sorta di incubo, da cui prima o poi si sarebbe finalmente risvegliata.
E la memoria, poi… perché non riusciva a rammentare nulla? Perché dopo la distruzione di Fleed e la sua cattura, il primo ricordo coerente che aveva risaliva a pochi giorni fa… un centro medico, infermieri, dottori… e uno strano uomo alto e magro che l’aveva fissata quasi si fosse aspettato da lei chissà cosa…
Un momento: poco prima, mentre era stata tra le braccia di Actarus, era stata sul punto di ricordare un’altra persona… lo stesso uomo che era venuta a vederla poco prima della partenza? Possibile…?
Un altro dolore alla testa. Naida si premette la fronte: non ricordava d’aver mai sofferto di cefalee; ora si sentiva sempre come se avesse avuto dell’ovatta nel cervello, e fitte più o meno forti le percorrevano il cranio ad intervalli sempre più ristretti. Alle volte aveva l’impressione di controllare male persino il suo corpo, un po’ come se fosse stata ubriaca.
Devo essere malata. Non è possibile…
Bevve un bicchiere d’acqua: era fresca, e portò sollievo alla sua bocca inaridita. S’infilò nel letto e spense la luce.
Si rialzò di scatto su un gomito ed aggrottò le sopracciglia: era sola. Perché aveva la vaga impressione di essersi aspettata di trovarsi qualcuno, al suo fianco? E chi, poi? Duke? Ma se si erano appena ritrovati, dopo tanti anni! E poi, l’aveva respinto pochi minuti prima…!
Ancora l’immagine di quell’uomo oscuro ed enigmatico… perché gli aveva chiesto se lui era suo marito? Perché aveva avuto l’impressione di conoscerlo, e molto bene?
Perché lui era stato molto importante, per lei.
Non avrebbe saputo dirne il motivo, ma era sicurissima d’aver conosciuto quel corpo alto e asciutto, d’aver provato i suoi baci…
…Hydargos…?
Un’altra fitta. Naida si premette la mano sulla fronte e con un gemito ricadde sul cuscino. Respirò affannosamente, attendendo che l’ondata di nausea cessasse; si aggrappò al pensiero di Duke, l’amore della sua vita, quasi l’averlo in mente le avesse potuto ridare un po’ di forza.
Non s’accorse che man mano che impallidiva il ricordo dell’altro uomo, il dolore calava fino ad affievolirsi del tutto. Con in mente l’immagine di Duke, Naida chiuse gli occhi sperando che il sonno venisse in fretta a darle un poco di sollievo; ma era destino che lei non potesse riposare.
Duke… Duke l’amava ancora, e lei l’aveva respinto… perché?
Duke Fleed è solo uno sporco traditore!
Naida balzò nel letto: chi aveva parlato?
Accese la luce: era sola, nella stanza non c’era nessuno: eppure, lei aveva udito quella voce… una voce che conosceva, che aveva sicuramente già sentito: non poteva sbagliarsi.
Inquieta, tornò a sdraiarsi, mentre sentiva agitarsi dentro di sé vaghe immagini evanescenti che le sfuggivano di continuo; solo qualche sprazzo di memoria le si affacciava alla mente in una sorta di mosaico spezzettato e privo di senso: uomini d’aspetto mostruoso… un’enorme cella… disperazione, sangue, violenza… scariche elettriche, un dolore spaventoso…
Duke Fleed è un traditore e un codardo! È fuggito evitando la lotta e lasciandoti sola a soffrire anche per lui!
Madida di sudore, Naida strinse la coperta serrandola con i denti per non mettersi ad urlare, mentre un sordo dolore pulsante le s’irradiava nel cranio.
– Non è vero! – bisbigliò, mentre il male aumentava sempre più – Duke non è un traditore, e io lo amo!
Uno spasimo atroce che le strappò un urlo strozzato, lasciandola poi semisvenuta e boccheggiante: e allora quella voce profonda parlò ancora dentro di lei: – Chiudi gli occhi e ascoltami.
Sconfitta, piegata dalla sofferenza, Naida cedette: sapeva che solo così quel supplizio avrebbe avuto fine. Rassegnata, ascoltò quella voce oscura che riprese a parlare, versando lentamente in lei il suo veleno: – Duke Fleed vi ha abbandonati. Ha avuto paura di lottare ed è fuggito lasciandovi indifesi. Ha abbandonato i suoi genitori, il suo popolo, tutti voi. Non si è mai curato né di te né della tua famiglia, in tutti questi anni non si è mai preoccupato di sapere nulla di te. Non ti ha mai cercata. Duke Fleed ti ha abbandonata.
– Sì… – quello di Naida fu poco più di un sospiro.
– I tuoi genitori sono morti – continuò implacabile la voce – La tua casa distrutta, i tuoi amici sterminati. Sai cos’è successo a tuo fratello?
– Ti prego… no! Era solo un bambino…
– Era solo un bambino, certo. Avrebbe potuto crescere, diventare un uomo; Duke Fleed non ha voluto difenderlo, e tuo fratello è stato ucciso.
– …No…! – Naida si tirò il cuscino sulla testa: non voleva sentire più nulla, più nulla… ma la voce era un demone dentro di lei, non era possibile sfuggirle.
– Tuo fratello è morto, e il suo cervello è stato impiantato dentro un mostro di Vega – riprese la voce, scandendo impietosamente ogni parola – Quel mostro è stato distrutto proprio da Duke Fleed! Non solo ti ha tradita: ha anche ucciso quel che restava di tuo fratello!
Naida non aveva più nemmeno il fiato di urlare: completamente annientata, piangeva fievolmente.
– Ora, tu puoi vendicare tuo fratello assassinato, i tuoi genitori uccisi, la tua casa distrutta, il tuo popolo massacrato, il tuo pianeta devastato – continuò la voce – Uccidi Duke Fleed e avrai vendicato tutti; e tu conoscerai finalmente la pace.
Naida aggrottò la fronte: lei… uccidere…?
Rimase immobile sotto le coperte, mentre la voce si faceva sempre più lieve, un semplice soffio appena percepibile: – Uccidi Duke Fleed… uccidilo…uccidilo…


Capitolo 13 – Duke Fleed

Il giorno dopo, Naida si risvegliò stanca, il corpo indolenzito: sconvolta, la memoria colma degli orrori che l’avevano perseguitata tutta la notte, faticò parecchio ad alzarsi e a rivestirsi.
Si guardò allo specchio appeso in bagno: si vedeva talmente stanca, talmente brutta… cos’avrebbe detto, Duke?
Sussultò, ricordando improvvisamente quanto era accaduto la sera prima, con che violenza lei l’avesse respinto. In pratica, l’aveva letteralmente cacciato fuori dalla sua stanza, e senza la minima spiegazione. Lui doveva essere in collera, offeso.
Con lo stomaco contratto dal timore, Naida uscì dalla sua stanza, percorse il corridoio che portava alla cucina del laboratorio, dove le era stato spiegato che venivano preparati i pasti. Sicuramente, là avrebbe trovato Duke: gli avrebbe chiesto di perdonarla.
Accanto alla cucina, vi era una saletta da pranzo; Procton ed Alcor stavano facendo colazione con tè e biscotti. Sul tavolo era posto un grosso pacco avvolto in carta colorata.
– Ciao, Naida! Hai dormito bene? – Actarus le sorrise, affacciandosi sulla porta della cucina.
– Io… – lei esitò, non voleva parlare davanti ad estranei di quanto era successo la sera prima; ma Actarus non sembrava nemmeno ricordarsi dell’accaduto. Portò in tavola un grande bricco e le servì una tazza di tè, mentre Alcor le porgeva la zuccheriera.
– Vuoi dei biscotti? – Procton le offrì la biscottiera – Ti conviene prenderne, prima che Alcor li faccia sparire tutti.
– Ce l’avete sempre con me – si lamentò scherzosamente il giovane.
– Davvero? – esclamò Actarus, versandosi a sua volta il tè – Chi è che ha finito il sacchetto nuovo di biscotti che avevo aperto ieri mattina?
Alcor strizzò l’occhio a Naida: – Non potevo certo lasciarli lì, ad invecchiare!
– E oggi, ho dovuto aprirne un pacco nuovo – continuò Actarus.
– Così abbiamo i biscotti freschi, invece di quelli vecchi di ieri! – ribatté Alcor, prontissimo – Dovreste ringraziarmi!
Nonostante la sua agitazione, Naida sorrise lievemente: quei tre uomini sembravano così a loro agio tra di loro, così sereni… scherzavano, ridevano. Naida non ricordava nemmeno quando fosse stata, l’ultima volta che aveva riso.
– Ti sei alzata presto – Actarus le tese un piatto con dei dolcetti; poi accennò al pacco: – Pensavamo che avesti dormito fino a tardi. Quelli sono per te… vestiti. Non puoi andare in giro con degli abiti di Fleed!
– Grazie – la gentilezza di lui la faceva sentire ancora più colpevole. Come aveva potuto trattarlo così male? Lo conosceva abbastanza da sapere che lui avrebbe rispettato il suo no; invece, lei aveva gridato, aveva… non riusciva nemmeno a pensare a come s’era comportata.
Actarus, Alcor e Procton scambiarono un’occhiata preoccupata. Tutti e tre vedevano chiaramente la sua tristezza, quel suo essere così demoralizzata.
– Oggi mi sono preso una giornata di libertà dal lavoro – annunciò Actarus, sforzandosi di parlarle con gaiezza – Ti piacerebbe fare un giro a cavallo?
– Io non so cavalcare – osservò lei.
Actarus sorrise: – Non è un problema.


L’aria del mattino era frizzante, freschissima; lentamente, quasi con riluttanza l’inverno stava cedendo il posto alla nuova stagione. L’erba stava rinnovando il suo verde, e le gemme che punteggiavano i rami degli alberi cominciavano ad inturgidirsi, a pulsare vita.
Lanciato al galoppo, il cavallo sfrecciava veloce sul sentiero; seduta in sella davanti al suo Duke, Naida si sentiva inebriata dalla velocità, dall’aria fresca che le scorreva sul viso e nei capelli, da quella meravigliosa natura che tanto le era mancata negli ultimi anni.
Metallo, plastica, aria condizionata, detergenti chimici… per troppo tempo gli innaturali odori di Vega le avevano intasato i polmoni.
L’improvviso ricordo la fece trasalire; proprio in quel momento, Actarus l’afferrò gettandosi con lei giù dal cavallo. Rotolarono sul prato, e lui le rubò un rapidissimo bacio, proprio come accadeva un tempo, quando erano entrambi ragazzini… lei s’indispettiva, allora, e s’indispettiva ancora di più se lui non gliene rubava un altro…
Persa nei ricordi, Naida rimase a terra, immobile. Actarus scorse una margheritina, un primo timido accenno della primavera in arrivo; la colse e solleticò il naso a Naida, strappandole una risata: – Ti sei fatta male?
Lei riaprì gli occhi, riemerse lentamente dal passato: Fleed, i giardini, il cielo azzurro… le persone che aveva amato e che non avrebbe mai più rivisto… si sforzò di sorridergli, ma fu difficile.
Actarus sentì serrarglisi il cuore: lei appariva sempre così seria, così remota… persino quando rideva i suoi occhi restavano seri, duri. Cosa le avevano fatto, quei maledetti?
Si rialzò, le tese la mano: – Vieni. Andiamo a fare una passeggiata.
Docile, lei si mise in piedi, rimanendo però immobile, il viso serio. Nella tasca del suo vestito sentiva quell’oggetto freddo, metallico… un pugnale.
Un pugnale per uccidere chi aveva tradito…
Actarus, che era avanti di qualche passo, si volse a guardarla: – Naida, vieni! Cosa aspetti?
Le sorrideva, tenero, così simile al ragazzo che lei aveva tanto amato, il ragazzo per cui avrebbe dato la vita… il ragazzo che li aveva traditi tutti.
Naida strinse il pugnale: affondarglielo nel cuore, vederlo morire, lui, il traditore…
– Su, corri con me! – forzatamente allegro, deciso a riscuotere dalla mestizia la sua compagna, Actarus la prese per mano e imboccò a tutta velocità il sentiero che portava al lago; Naida non rispose ma lo seguì.
Dietro la schiena, stringeva ancora il pugnale.


Le acque del lago frusciavano, infrangendosi contro i pali del molo di legno. Tutt’attorno a loro, i monti facevano da corona a quello specchio d’acqua tondeggiante. Grandi macchie d’abeti verdeggiavano sulle rive.
Actarus condusse Naida fino al bordo del molo: – Senti: c’è l’eco. – gridò il nome di lei, e la sua voce parve tornare con la brezza.
Naida serrò il pugnale.
Duke le stava voltando le spalle, intento ancora a gridare nel vento il suo nome.
Colpisci! È il momento giusto! Uccidilo!
La voce di lui ritornò ancora, riportandole il suo nome…
Non posso farlo! Non posso, non posso…!
Le tremavano le mani. Traditore o meno, lei l’amava ancora, e non poteva assassinarlo…
Lo guardò: così pieno di vita, così fiducioso… così ignaro d’avere la morte alle sue spalle…
Actarus si voltò a guardarla: la vide pallidissima e smarrita. Vide il suo tormento, ma non poté comprenderlo. Si sforzò ancora di mostrarsi allegro: – Adesso prova a chiamare anche tu.
Lei trasalì: – Io…?
Un sorriso incoraggiante: – Su, prova.
Naida emise un singhiozzo e aprì le dita. Il pugnale cadde, e con un lieve tonfo s’inabissò nelle acque scure.
Actarus sentì il rumore, ma non vide nulla: evidentemente, lei doveva aver gettato un sasso nell’acqua.
La spinse dolcemente in avanti, facendola arrestare sul bordo del molo; lei si sentì morire.
Perché un traditore del suo popolo doveva apparire così buono e gentile?
Angosciata, in preda alla più totale confusione, lei sentì salirle alle labbra parole che non avrebbe dovuto dire; ma le gridò, e l’eco le moltiplicò all’infinito: – Amore! Ho bisogno del tuo aiuto!
Actarus si volse a guardarla, la prese per le spalle: – Ma io sono qui, Naida! Sono con te, non ti lascerò mai più…
Lacerata dalla disperazione, lei avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia, posargli la testa sul petto, appoggiarsi a lui, così forte, per farsi aiutare a portare quel peso insopportabile… confidargli il suo tormento…
Ma era lui il suo tormento.
Di scatto si tirò indietro, strappandosi alle sue mani. Rabbrividì, e in un gesto che le era abituale si scostò dal viso i lunghi capelli: – Duke, sono molto stanca. Possiamo ritornare?


Dalla portafinestra della cucina, Venusia guardò: seduto sotto al suo albero prediletto, Actarus suonava, assorto.
Ultimamente, da quando era giunta quella ragazza di Fleed, Actarus si faceva vedere ben poco alla fattoria: era evidente che la nuova venuta lo assorbiva parecchio.
Reprimendo a fatica la gelosia che le pungolava l’animo, Venusia s’avvicinò al giovane, sedendosi sull’erba al suo fianco. Rimase in silenzio per un poco, poi non resistette: – Actarus, chi è Naida?
Un giro d’accordi stridenti: – Era la figlia del duca Barsagik, un lontano cugino di mio padre. Fin da piccoli siamo cresciuti come fratelli.
– Vi volevate molto bene, non è vero? – sussurrò Venusia.
Actarus aprì la bocca come per rispondere, ma le parole non gli vennero. Chinò il capo sulla sua chitarra e riprese la sua nenia malinconica.
È così distante…!, si disse Venusia, serrando le labbra in una smorfia di sofferenza. Se mai ho avuto qualche speranza, con lui… come potrei lottare con una donna come Naida?
Strinse gli occhi, e sentì bruciare le lacrime.
Accanto a lei, Actarus non s’accorse di nulla e continuò a suonare.


Naida spalancò la finestra ed uscì sul balcone della sua camera. L’aria fresca, profumata di resina, le diede un sollievo solo momentaneo.
Il tormento era dentro di lei, e non poteva lenirlo, o anche solo sfuggirgli…
Tentò d’analizzare quello che provava, ma concentrarsi era sempre più difficile: era come se la sua mente fosse perennemente ovattata, confusa. Una sorta di sordo rumore di fondo le ottundeva il cervello, impedendole di pensare coerentemente, e soprattutto di ricordare.
Perché la sua memoria era come uno specchio appannato? Attraverso il vapore lei intravedeva qualche sprazzo di ricordo, ma gli avvenimenti dopo la sua cattura le sfuggivano quasi completamente.
C’era stato Hydargos… ma pensare a lui le causava sempre un dolore fortissimo alla testa, che le impediva di ricordare…
Naida drizzò improvvisamente la testa: non poteva ricordare… o non glielo permettevano?
Un’altra fitta fortissima. Naida si strinse le tempie tra le mani, sentendone contro i palmi il furioso pulsare: il dolore non l’abbandonava mai, alle volte si faceva leggerissimo, ma era sempre percepibile. Ma perché? Non pensava d’essere malata, ma…
È tutta colpa di Duke Fleed!
Ancora quella voce che dilaniava la sua coscienza, tagliente come una lama. In genere taceva, ma lei sapeva che non l’avrebbe mai abbandonata, che da un momento all’altro le avrebbe parlato, perseguitandola…
E sapeva anche di venir tormentata a causa di Duke Fleed.
Un sordo rancore parve montare minacciosamente dentro di lei: il solo pensiero di Duke Fleed le ispirava repulsione, furia.
Ma lei lo amava!
Ami chi ti ha abbandonata?, esclamò la voce, beffarda, Ami chi ha tradito il tuo pianeta?
Naida si sentì mancare il fiato: ricordava perfettamente quel giorno! Duke aveva lasciato Fleed, era fuggito con Goldrake… era scappato…
– Naida? Sei lì fuori?
Lui!
– Ah, eccoti! Ti stavo cercando – Actarus si affacciò sulla portafinestra, arrestandosi vedendo il viso pallido ed alterato di Naida: – Stai bene?
– Sto benissimo – mormorò cupamente lei.
– Volevo chiederti una cosa – continuò Actarus; attese un invito a proseguire che non venne ed aggiunse: – Ho bisogno di sapere quanti abitanti di Fleed sono ancora vivi.
Naida scosse il capo, evitando il suo sguardo: – Non so. Uno schiavo ha vita breve, su Vega. C’erano altre donne prigioniere con me, ma non ho mai potuto sapere che ne è stato.
Actarus la guardò. – Tu sei sopravvissuta.
Naida si morse le labbra: – Ho avuto fortuna.
Un attimo di silenzio pesante.
Un oscuro bisogno di ferirlo, di vedere quegli occhi blu colmarsi di dolore la spinse a dire quello che mai avrebbe pensato di dirgli.
– Vuoi sapere perché sono sopravvissuta, non è vero? – quella di Naida era un’affermazione.
– No, non devi spiegarmi niente – esclamò Actarus.
– Non è vero – Naida afferrò la ringhiera del balcone, la strinse fino a far sbiancare le nocche e parlò, gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a lei: – È ovvio che tu voglia saperlo. Ti sarai chiesto perché sono viva mentre tanti altri sono stati uccisi.
– Naida, non devi sentirti obbligata a…
– In effetti, c’è un motivo per cui sono sopravvissuta – continuò lei, fissando cupamente il fiume e la vallata che si stendeva davanti a loro – e il motivo è che sono stata la schiava di uno di loro.
Actarus si sentì mancare il fiato: – Naida, ti prego, non devi giustificarti…
Lei lo fissò, gli occhi gelidi: – Io non mi sto affatto giustificando, Duke. Non devo certo rispondere a te del fatto di essere viva.
– Perdonami, Naida… io non volevo che… Voglio dire, mi dispiace che tu abbia dovuto… con uno di loro…
– A me non dispiace affatto, invece – rispose lei, impassibile – Se non fosse stato per lui, sarei morta.
Meglio non parlare, si disse Actarus. Qualunque cosa io dica, sembrerà goffa e sbagliata.
Naida attese un attimo, interrogativa; visto che lui taceva, il viso rivolto a terra, continuò: – Credimi, sono stata fortunata. Tu non hai idea di come i veghiani si comportino con gli schiavi… noi non trattavamo nemmeno gli animali, a quel modo! Avrei potuto finire come cavia per esperimenti, o a lavorare in una miniera, o come giocattolo per le truppe; invece, uno di loro mi ha presa come… diciamo, trastullo personale.
Actarus si coprì il viso con le mani. Avrebbe voluto dirle di non parlare più, di tacere; allo stesso tempo, doveva sapere, e sapere era una tortura.
– Sono stata davvero fortunata – continuò lei, stringendosi le braccia attorno al corpo – Lui avrebbe potuto essere… molto sgradevole. Invece, mi ha trattata bene. Mi ha sempre dato cibo e vestiti, e non mi ha mai picchiata. – gli diede un’occhiata di traverso: – Non vuoi sapere come si chiamava il mio padrone?
– No, se non vuoi…
– Ma io voglio dirtelo! – scattò lei – Sono la schiava di Hydargos. Vivo e vado a letto con lui da anni.
Hydargos! Proprio lui! – Naida, mi spiace…
– Non dovresti, invece. Hydargos è stato molto buono, con me. Se sono viva e in salute, lo devo solo a lui.
– Ma ti ha… ti ha…
– “Violentata” non è il termine giusto – rispose lei, secca – Io ero d’accordo. Lo sono sempre stata. Avrei fatto qualunque cosa, purché lui non mi facesse del male. Lui voleva una donna da portarsi a letto, e io gli ho dato quel che desiderava.
– Mi spiace…
– L’hai già detto. Ma ti ripeto, Hydargos è stato molto buono con me. Non mi avesse presa lui, sarei finita chissà come, magari in pasto alle truppe. Ho avuto fortuna.
Actarus si afferrò alla ringhiera, crollando il capo.
– Praticamente, è come se lui ed io avessimo fatto un patto – continuò Naida, che pareva indifferente al tormento del suo compagno – Io gli davo quel che voleva senza fare storie, e in cambio avevo sicurezza e protezione. Ecco come sono sopravvissuta. – Si voltò a guardare Actarus – Dimmi la verità, Duke: mi disprezzi, per questo?
Lui deglutì, riprese fiato: – Naida, io… mi dispiace.
– Ti dispiace che io mi sia prostituita per sopravvivere?
– Io… io non avrei mai voluto che tu…
– Non avevo molta scelta, sai? Certo, piuttosto avrei potuto morire. Una duchessa di Fleed schiava di un veghiano! Una vergogna, non trovi?
– Non dire così!
– Ma è quel che pensi! – esplose lei – Meglio morire che ridursi come mi sono ridotta io! Perché non me lo dici? Perché non gridi che avrei dovuto suicidarmi, piuttosto che accettare di… di…
– Naida, ti prego! Basta!
– Che ne sai di quello che è successo? – urlò lei, completamente fuori di sé – Tu non c’eri! Non eri là! Non hai visto cosa hanno fatto, cosa sono capaci di fare! Non hai il diritto di giudicarmi per quello che è successo! – rivide la ragazza contorcersi nel sangue… “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?” Scoppiò in singhiozzi, disperata. Actarus la strinse tra le braccia e lei urlò, come se quel contatto l’avesse ustionata; lui tentò inutilmente di trattenerla e lei di scatto lo respinse.
– Vattene! – urlò – Va’ via! Lasciami in pace!
Vedere il dolore, la mortificazione sul viso di lui le diede una sorta di gioia selvaggia, primordiale. Esaltata, vittoriosa, aspettò che lui fosse uscito per sprangare la porta: averlo ferito le diede un’ebbrezza che non aveva mai provato prima d’allora.
Lui era il nemico, il traditore. Doveva soffrire.
Doveva pagare.


Secondo il personale metro di Procton, per il relax perfetto erano necessari un po’ di tempo, il proprio letto e un libro interessante. Quella sera tutte e tre le condizioni erano rispettate, per cui era ragionevole aspettarsi un riposo benefico…
Un lieve bussare alla porta.
Addio alla mia lettura, si disse filosoficamente Procton mentre Actarus faceva il suo ingresso. Gli bastò una semplice occhiata al viso tirato del figlio per capire che per quella sera sarebbe stato assurdo parlare di relax.
– Che ti succede? – Procton si mise a sedere sul letto – Stai bene?
– Hai un paio di minuti? – chiese Actarus, senza guardarlo.
– Ma certo – altro che un paio di minuti, ci vorranno… – Siediti, su.
Actarus non se lo fece ripetere. Con la disinvoltura della consuetudine sedette sul bordo del letto del padre, le mani intrecciate strettamente e il capo chino; Procton avrebbe voluto far domande, ma preferì che fosse lui a parlare quando si fosse sentito di farlo.
– È per Naida – cominciò il giovane.
Procton assentì: – Me l’immaginavo.
– È… così cambiata! Non sembra nemmeno la stessa. Così diversa, così… – Actarus scosse il capo: non riusciva a trovare le parole adatte per esprimere la sua angoscia.
Procton gli strinse affettuosamente una spalla: – Actarus, si capisce che Naida sia cambiata! L’hai lasciata che era poco più che una ragazzina, la ritrovi donna…
Actarus strinse le labbra, ostinato: – Non è solo questo.
– E poi – continuò con dolcezza Procton – devi considerare quello che le è successo, che cosa ha passato… ha avuto esperienze orribili.
– Le ho avute anch’io.
– Scusa, Actarus, ma credo che la cosa sia differente – rispose con calma Procton – Sappiamo entrambi cosa tu abbia passato, cosa sia successo al tuo mondo, alla tua famiglia, a tutto ciò che amavi; però tu non hai provato l’orrore di essere prigioniero di Vega. Naida sì.
Actarus serrò le mascelle: – Lo so.
– Ti dico la verità: non oso pensare a cosa i veghiani le abbiano fatto. Non ho mai visto occhi come i suoi… disperati, a volte totalmente vuoti. Deve avere avuto esperienze orribili.
– Infatti – mormorò Actarus.
– Dovrai avere molta pazienza, con lei. Per certe ferite ci vuole tempo, molto tempo, perché guariscano.
– Purché possano guarire – rispose il giovane, cupo.
– Purché possano guarire – assentì Procton.
Actarus rimase in silenzio qualche istante, gli occhi fissi su un punto della parete di fronte a lui; poi, improvvisamente, esplose: – Sembra che ce l’abbia con me. Abbiamo appena parlato… non le avevo chiesto niente, non volevo nemmeno chiederle… non mi sarei mai permesso… e lei mi ha gettato addosso di essere stata… – annaspò, cercando parole migliori che non gli vennero – …essere stata la schiava di Hydargos. Me l’ha detto apposta, questo l’ho capito! Voleva ferirmi, e ci è riuscita!
Procton, che era trasalito, si riprese immediatamente: – Sono sicuro che in realtà lei non volesse farti del male… te l’avrà detto in modo maldestro, ma…
– No. Sono certo che l’abbia fatto apposta. – Actarus s’alzò e prese a camminare in su e in giù per la stanza, stringendosi le braccia attorno al corpo: – È in collera con me, e non riesco a capirne il motivo. A volte mi sembra persino che mi odi.
– Non esagerare, adesso…
– Non sto esagerando. Ho visto come mi guarda… non sempre, solo certe volte, e solo se pensa che io non le stia badando… non sembra nemmeno che sia lei!
– Pensi che sia un veghiano mutaforma che abbia assunto il suo aspetto? – chiese quietamente Procton.
Se suo padre avesse negato, se gli avesse contestato quella sua idea, Actarus forse vi si sarebbe aggrappato; il fatto che Procton avesse accennato a quell’eventualità, e l’avesse fatto con un tono così ragionevole, ottenne l’effetto contrario. Improvvisamente, Actarus si sentì molto sciocco.
– No, sono sicuro di no – rispose – È proprio Naida, non posso sbagliarmi. La conosco. Probabilmente hai ragione tu, lei ha solo bisogno di tempo.
– E di molto affetto – aggiunse Procton – E pazienza. Dovrai averne molta, con lei.
Actarus assentì, sforzandosi di mostrarsi allegro: – In genere non sono un tipo impulsivo ed impetuoso.
– Tranne che con i veghiani – stette al gioco Procton.
Il sorriso di Actarus si fece più aperto: – Infatti. …Ti prego di scusarmi, ti ho fatto far tardi.
Salutò il padre ed uscì, chiudendo la porta dietro di sé. Esitò un attimo guardando giù nel corridoio, verso l’uscio di Naida… per nulla al mondo avrebbe voluto risentirsi dire quello che gli aveva urlato in faccia.
No, basta. Per stasera, è stato anche troppo.
Rientrò in camera propria, si spogliò, aprì la doccia e vi s’infilò sotto, pulendosi con cura quasi avesse potuto lavarsi via di dosso i cattivi pensieri.
Continuava a rivedere il viso duro di Naida, sentiva ancora la sua voce secca, ostile…
Actarus s’appoggiò con le spalle alle piastrelle azzurre, mentre l’acqua continuava a scorrergli addosso.
Lei era Naida, era sicurissimo che fosse lei e non un’impostore… ma era altrettanto sicuro che covasse un enorme rancore, forse addirittura dell’odio verso di lui.
Ma perché? Perché?

- Continua -
 
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