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H. ASTER's FICTION GALLERY

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H. Aster
view post Posted on 14/5/2009, 21:12 by: H. Aster     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Verona, città di Emilio Salgari.

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Ultima puntata.

Capitolo 16 – L’attacco

Il segnale d’allarme pulsava, insistente.
Hayashi sussultò, fissando l’immagine che era appena apparsa sul suo monitor: – Dottor Procton, un’intera flotta di UFO si sta avvicinando rapidamente all’atmosfera terrestre!


Ovunque, tutt’attorno a lui, disperazione, grida, sangue. Un intero mondo in agonia, urlante e senza più speranza.
E tutto era successo per colpa sua: era lui il vero responsabile, il solo colpevole.
Aveva abbandonato la sua gente, era fuggito portando con sé l’unica difesa contro i nemici; un vero principe avrebbe dovuto restare e morire con i suoi sudditi, non scappare lasciandoli al loro destino.
Era un traditore… un vigliacco.
Non poteva esserci pietà, non poteva esserci comprensione per un individuo spregevole come lui.
Actarus avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non sentire quelle grida, avrebbe voluto chiudere gli occhi per non vedere quei corpi dilaniati, ma era tutto inutile: il suo tormento era nel suo animo, persone ormai scomparse per sempre dimoravano nella sua memoria costringendolo a ricordare. Rivide suo padre, sua madre… risentì le grida disperate della sua sorellina Maria, che lo chiamava e che lui aveva voluto ignorare… e poi, lei, Naida, con in braccio il corpicino sanguinante di Sirius.
– Assassino! – urlò Naida – Traditore! Hai ucciso mio fratello!
– …No…! – articolò Actarus, incapace di difendersi, di giustificarsi.
– È morto! Guardalo! Era solo un bambino!
– Naida, ti prego…
– È morto per colpa tua! Colpa tua!
Actarus urlò, e urlò, e urlò.


Un urlo lunghissimo, da animale in agonia. Un altro. Un altro…
– Lasciatemi andare da lui! Vi prego! – supplicò Naida; ma Procton scosse il capo.
– Non è in sé. Non è in grado di riconoscerti. Non si accorgerebbe nemmeno della tua esistenza… potrebbe persino farti del male – nonostante il ferreo autocontrollo, lo sconforto vibrava nella voce di Procton. – Non posso farti correre un simile pericolo.
– È tutta colpa mia! – aggrappata alle sbarre della cella di Actarus, Naida crollò il capo: non aveva più lacrime, ormai, ma la sua disperazione, il suo dolore sincero erano più che evidenti. Se mai Venusia o Procton avevano provato del malanimo nei suoi confronti, vederla così abbattuta li commosse entrambi nel profondo.
– Non è colpa tua – Venusia le cinse affettuosamente le spalle con un braccio – Tu non sei responsabile! La colpa è solo dei veghiani, che ti hanno usata!
– Sì – rispose Naida, la voce sorda e il viso improvvisamente indurito – Sì, i veghiani mi hanno sempre usata.
Procton guardò ancora Actarus che smaniava e rabbrividì; osservò le due ragazze e intuì che avessero da parlarsi e che quindi fosse meglio lasciarle sole, per cui s’allontanò in fretta, nelle orecchie sempre le urla del figlio.
– Lo vedi? – Venusia si sforzava di non far tremare la voce – È come se vivesse in un mondo tutto suo, senza contatti con la realtà. Ma la cosa peggiore è che sembra aver perso la volontà di vivere. Il dottor Procton tenterà di creargli un controshock con una forte scarica elettrica – represse il brivido che l’aveva scossa da capo a piedi ed aggiunse, in tono che voleva assolutamente essere convinto: – È molto pericoloso; ma io credo che ce la farà.
Naida chinò la testa: – Che cosa ho fatto…!
Un nuovo urlo, ancora più angosciato dei precedenti.
– Actarus…! – Venusia si premette una mano sulla bocca, reprimendo le lacrime: non voleva piangere, non ora… non davanti a Naida…
Ma Naida aveva già compreso tutto: – Senti… tu sei innamorata di lui, vero?
Il sangue affluì alle guance di Venusia, che si fece scarlatta: – Ma… io…
– Lo avevo immaginato – Naida le sorrise, triste: lei e Venusia amavano lo stesso uomo, ma non erano rivali tra loro, né lo sarebbero mai state: – Anch’io lo amo… forse anche più di te. L’amore è una gran forza – le mise una mano sul braccio, glielo strinse; solo allora Venusia osò alzare gli occhi e guardarla.
Fu un attimo: si conoscevano a malapena, ma si compresero al volo, e si sorrisero.
Naida gettò un ultimo sguardo ad Actarus, poi tornò a fissare Venusia, accennò a lui, parve sul punto di dire qualcosa; le parole le mancarono e Naida si voltò di scatto, allontanandosi di corsa.
Actarus lanciò un altro urlo, viscerale e straziante.


Immobile, inutilizzata, la salvezza era a portata di mano. Goldrake attendeva solo che qualcuno osasse animarlo e condurlo in battaglia; quel giorno, però, non sarebbe stato il suo solito pilota a farlo.
Alcor si precipitò di corsa verso la rampa di lancio: naturalmente non avrebbe potuto compiere lo spettacolare salto con cui Actarus saliva sul suo mezzo, ma…
– Alcor! – Venusia tentò di raggiungerlo, ma lui era troppo veloce – Alcor! No!
Lui non l’ascoltò nemmeno, troppo concentrato sulla sua meta: ancora pochi metri, e…
Le grandi corna dorate brillarono, minacciose; una scarica s’abbatté sul pavimento là dove un istante prima s’era trovato Alcor. Solo i suoi eccezionali riflessi avevano permesso al giovane di balzare via prima di venire fulminato.
Pallido per lo scampato pericolo, il giovane finalmente s’accorse di Venusia: – M’ero dimenticato del sistema di difesa di Goldrake… a momenti ci restavo!
Lei gli mise una mano sulla spalla e scosse il capo: – Non puoi far nulla. Solo Actarus può salirvi sopra!
Alcor balzò in piedi: sembrava che la sconfitta l’avesse reso più agguerrito: – Ci salirà!


– Professore, gli UFO stanno per entrare nell’atmosfera! – esclamò Hayashi, sforzandosi di controllare la voce. Quel giorno, non ci sarebbe stato Goldrake a difenderli…
Procton assentì, cupo. Sapeva che, a meno d’un miracolo, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto fino all’indomani.


Fu mentre si precipitava nuovamente verso il centro medico che Alcor quasi andò a sbattere contro Naida. Fece per scostarla da sé e continuare la corsa, ma lei lo trattenne: – Io posso fare qualcosa, ma ho bisogno del tuo aiuto!
– Quei dischi stanno puntando su questo laboratorio! – esclamò Alcor – Cosa vorresti fare, tu?
– Posso tenerli impegnati e darvi del tempo! – Naida l’afferrò per il polso e puntò verso l’uscita del laboratorio, tirandosi dietro Alcor.
– E come potresti fermarli? – chiese di rimando lui, puntando i piedi – Nemmeno io, col mio disco…
– Hai dimenticato l’astronave di Vega che è ancora sulla montagna? – ribatté Naida, prontissima – Io posso usarla per tenere quei mostri lontani dal laboratorio, e intanto voi potrete cercare di rianimare Duke!
L’astronave… Alcor se n’era completamente dimenticato: per quel che ne sapeva lui, era rimasta nella pineta, semiaffondata nella neve. Era un mezzo abbastanza grande, avrebbe potuto servire.
Senza accorgersene, riprese a seguire Naida che l’aveva ormai condotto fuori del laboratorio, verso il posteggio delle automobili.
– Muoviti! – Naida lo sospinse sulla jeep – Devi portarmi là, e devi far presto! Io non posso guidare questa macchina e andarci da me, non sono capace!
Galvanizzato da quella nuova possibilità, Alcor fece partire l’auto, che con un ruggito imboccò a tutta velocità la strada che s’inerpicava su per la montagna. Guidò con l’incoscienza di chi non ha più nulla da perdere, affrontando a tutta velocità quel sentiero tutto curve e dossi; accanto a lui, Naida si teneva saldamente al suo posto, gli occhi fissi sulla strada e il bel viso indurito, deciso.
Ad entrambi parve che il viaggio fosse durato un’eternità, mentre invece si trattò di nemmeno un quarto d’ora, meno della metà del tempo che in condizioni normali Alcor avrebbe impiegato per coprire quella distanza, e su quella strada.
Alcor fermò la jeep: l’astronave era a breve distanza da dove si trovavano, nascosta dentro la pineta. Fece per scendere, ma Naida lo precedette: – Adesso ci penso io.
– Non vorrai andare tu! – solo allora Alcor si rese conto di quello che Naida aveva veramente inteso – Andrò io contro quei mostri, tu non puoi…
– Tu non sei capace di pilotare una nave di Vega – Naida sbatté la portiera – Io sì!
S’allontanò di corsa senza più voltarsi, prima che la sua determinazione cedesse: doveva far presto, doveva salvare quei terrestri… e Duke…
Ti amo, ti amo!, pensò, mentre correva verso la nave. Non dovrai più vergognarti di me, te lo giuro!


Inerte, totalmente immerso nel suo inferno personale, Actarus giaceva sul letto: ormai non urlava più, non si agitava più, rimaneva semplicemente lì, gli occhi morti, lo spirito che vagava in luoghi remoti, inaccessibili.
Alcor entrò come una furia nella cella. Lo afferrò per il bavero, lo scosse: – Actarus, devi tornare in te! La Terra è attaccata da Vega, i tuoi amici sono in pericolo! Devi muoverti!
Actarus sembrava non essersi nemmeno accorto di lui. Gli occhi apparivano pallidi, slavati, e avevano un’impressionante fissità vitrea; era sempre più lontano, più lontano…
Alcor lo colpì con un ceffone: – Svegliati! Ci sono i dischi di Vega! Naida gli è andata incontro da sola, devi salvarla! Svegliati, Actarus! – lo colpì ancora e ancora, sperando in una reazione, una reazione qualsiasi…
– Alcor, no! – Venusia si precipitò nella stanza, gli afferrò il polso impedendogli di colpirlo ancora – Sei impazzito?
– Lasciami stare, Venusia! – Alcor si liberò con uno strattone.
Nonostante tutto, qualcosa era penetrato nella coscienza di Actarus; un lieve barlume si accese nei suoi occhi: – …Naida…?
– Sì, Naida! – urlò Alcor, aggrappandosi a quell’esigua speranza – È andata incontro al nemico, si è sacrificata! Mi hai capito? Morirà, se tu non andrai a salvarla!
La minuscola luce si spense, e Actarus parve afflosciarsi su sé stesso, nuovamente lontanissimo, nuovamente irraggiungibile.
– Professore! – Venusia s’asciugò gli occhi e si volse di scatto verso Procton, entrato proprio in quel momento – Che possiamo fare?
Procton dovette fare uno sforzo per controllare completamente la sua voce, non lasciar trasparire l’angoscia che lo gelava – Non c’è altro mezzo. Proveremo con lo shock, anche se è pericoloso.
Alcor assentì: – Avete ragione. Non abbiamo altre possibilità.
Completamente indifferente a quanto avveniva attorno a lui, Actarus si accasciò a terra.
Sono un traditore. I traditori non meritano di vivere.


Capitolo 17 - Redenzione

Naida sedette al posto di pilotaggio. Una semplice occhiata le confermò quanto aveva immaginato: i comandi di quell’astronave erano molto simili a quelli dei minidischi. Perfetto.
Aprì lo sportello del vano davanti al posto del pilota: cinque bombe ad alto potenziale. Con freddezza, ne tolse una e l’applicò sul vetro davanti a sé: l’impatto l’avrebbe fatta esplodere, scatenando una reazione a catena con le altre bombe. Sarebbe successo tutto in un istante.
Accese il quadro di controllo, attivando i comandi nella sequenza corretta, come le aveva insegnato Hydargos…
Hydargos.
Naida sentì la gola contrarlesi: richiamare alla mente lui, quel veghiano duro ed orgoglioso che per anni era stato il perno del suo universo, la fece star male. Mai avrebbe immaginato di provare dolore per lui, mai! Ma, ora se ne rendeva finalmente conto, quell’uomo era stato per lei molto di più che un padrone… molto, molto di più.
Non devo pensare a Hydargos! Non devo, o non avrò il coraggio di fare quel che bisogna che faccia!
Si aggrappò al pensiero di Duke, ed accese i motori dell’astronave.
“Non avere fretta di partire. Lascia passare qualche istante perché il motore sia pronto. Devi sentirlo solo ronzare.”
Le parole di Hydargos risuonarono ancora in lei; severo ed esigente, era stato però un buon maestro, e le aveva insegnato davvero molto. Naida attese che il rombo del motore si affievolisse in un sibilo, prima di sollevarsi in volo.
Una partenza perfetta. Hydargos, saresti fiero di me.
Un pensiero improvviso la colse: con tutto quel che c’era stato tra di loro, mai, in nessuna occasione, lei si era permessa di chiamarlo in altro modo che non “signore”. Fu scossa da un riso nervoso, quasi isterico, da cui si riprese a fatica.
Sfrecciò oltre le cime degli alberi, lasciandosi alle spalle la montagna, la neve… e più in giù, il laboratorio… e Duke.
Amore mio… ti amo, ti ho amato tanto! Ti prego, non dimenticarti di me!


– Che ordini, signore? – ritto sull’attenti, il primo ufficiale si rivolse direttamente ad Hydargos, che dalla sua poltrona di comandante stava fissando il paesaggio terrestre sotto di loro. Ormai si distinguevano bene le montagne, il fiume, persino il laboratorio appariva come un minuscolo puntolino ben visibile.
– Goldrake è praticamente fuori uso – rispose lentamente Hydargos – Voglio assalire quel laboratorio e prenderli vivi. Tutti.
Nonostante il suo perfetto autocontrollo, qualcosa dovette trasparire dall’espressione del suo subalterno, perché Hydargos si voltò a guardarlo, interrogativo.
– Perdonate, signore – si scusò in fretta l’ufficiale – Credevo avreste dato ordine di radere al suolo quel laboratorio.
– Lo faremo, ma dopo. Abbiamo la possibilità di catturare Duke Fleed, quel Procton e tutti i loro dannati collaboratori; sarà una grande vittoria che ci compenserà per tutto quello che abbiamo dovuto subire. Sua Maestà dovrà ricompensarci.
– Come volete, signore – stavolta la voce dell’ufficiale risuonò più convinta, evidentemente l’idea gli sorrideva.
– Atterreremo circondando il laboratorio – continuò Hydargos – Entreremo, e prenderemo prigionieri tutti i presenti. Fate regolare le armi sui raggi paralizzanti. Se qualcuno dovesse morire, il responsabile ne risponderà direttamente a me. Avete capito?
– Sì, signore! – e l’ufficiale gli rivolse un saluto prima di andare a dare gli ordini necessari.
Hydargos teneva lo sguardo sempre fisso sul laboratorio, che continuava ad ingrandirsi sullo schermo.
Lei doveva essere lì: non poteva immaginare un altro posto in cui potesse trovarsi.
A meno che, s’intende, Duke Fleed non l’avesse nascosta da qualche parte, nel qual caso sarebbe stata solo questione di tempo venire a conoscenza del suo rifugio. Sarebbe bastato torturare uno di quegli stupidi umani davanti a Duke Fleed perché lui, o qualcun altro, cedesse; e anche così, presto lui avrebbe riavuto Naida.
Per anni aveva atteso il momento in cui avrebbe sconfitto Duke Fleed per godersi la vittoria e riceverne gloria ed onori; ora, ad un passo dal compimento di tutti i suoi sogni, tutto quel che riusciva a pensare era solo lei, lei, lei. Una schiava. Una cosa di nessun valore.
Devo essere impazzito, si disse Hydargos; e scosse le spalle.
Il fatto era che non gliene importava.


– Ancora – disse Procton.
– Ma, professore… – cominciò il medico.
– Ancora – la voce decisa di Procton non lasciava trapelare la paura che ne agghiacciava l’animo.
– Può essere molto pericoloso – insisté il dottore.
– Me ne assumo io la piena responsabilità – Procton vide il medico esitare ed aggiunse: – So che rischiamo di uccidere Actarus; ma se non riusciamo a scuoterlo saremo tutti morti, e la Terra cadrà in mano a Vega. Dobbiamo rischiare, non abbiamo alternative.
Il medico crollò il capo e si chinò sui comandi. Venusia si premette una mano sulla bocca per non urlare; Alcor la strinse tra le braccia e rimasero entrambi immobili, in attesa, gli occhi fissi sulla figura accasciata di Actarus.
Il medico diede corrente; il corpo di Actarus si tese in uno spasmo, dalle labbra gli uscì un gemito strozzato.
– Basta! – gridò il dottore, togliendo il contatto – Così lo ammazziamo!
Venusia sussultò, ed Alcor la strinse maggiormente. Procton si chinò sul corpo di Actarus, che s’era afflosciato su sé stesso. Il giovane respirava affannosamente, ma gli occhi che aprì non erano più vacui, inespressivi: stanchi ma consapevoli, fissarono Procton con l’affetto di sempre.
– Che è successo…?
Uno dei suoi rari, pallidi sorrisi animò il viso di Procton: – Bentornato tra noi.


Gandal fissò l’astronave di Vega apparsa improvvisamente sullo schermo: – E quella da dove sbuca?
– Mi pare evidente – rispose Zuril, asciutto – È la nave con cui abbiamo portato Naida sulla Terra. Tutti i soldati che avevamo inviato sono stati uccisi da Duke Fleed e dal suo collaboratore, e la nave era rimasta dove l’avevano lasciata.
Gandal assentì: – Probabilmente la sta pilotando quell’Alcor, l’amico di Duke Fleed. Vorrà usare la nostra nave contro di noi; purtroppo per lui, le armi a bordo sono poco potenti, anche se sono più pericolose di quel suo ridicolo disco giallo. Riuscirà a fare ben poco.
– Vorrei esserne anch’io così sicuro – rispose Zuril, assorto, l’unico occhio fisso sull’immagine dell’astronave.
– Ti ripeto che quella nave è armata al minimo. Anche un minidisco potrebbe distruggerla senza troppi problemi.
– Non avevate fornito a Naida quelle bombe ad alto potenziale? – insisté Zuril.
– Sì, ma si tratta di bombe a mano, non possono essere lanciate dalla nave. Ti stai preoccupando per niente.
E tu, mio caro comandante, temo ti stia comportando con superficialità, si disse Zuril, che aveva l’abitudine di non trascurare nulla. Inquieto, continuò a guardare l’immagine di quell’astronave che sfrecciava nel cielo.
Qualcosa non gli tornava.


Con cautela, Actarus si rimise in piedi, sostenuto da Procton.
– Finalmente stai meglio! – esclamò Alcor.
– Actarus! Come ti senti? – chiese ansiosamente Venusia.
Actarus si guardò attorno, come cercando qualcuno; aggrottò la fronte: – Dov’è Naida?
Un improvviso silenzio cadde nella stanza. Actarus passò con lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi amici; tutti e tre evitarono di guardarlo.
– Dov’è? – ripeté Actarus, teso.
– Ascoltami – cominciò Procton, mettendogli una mano sulla spalla.
– Non c’è – Actarus si liberò dal padre, mentre un orrendo sospetto si faceva strada in lui – Cos’ha fatto? Avevi detto… – si voltò verso Alcor – Avevi detto che si è sacrificata… sta andando contro i veghiani? Da sola?
Venusia scoppiò in pianto, e questa fu per lui la conferma ai suoi peggiori sospetti. Fece per slanciarsi verso la porta, ma aveva le gambe intorpidite, e fu più lento di quanto non avesse voluto.
– Actarus, fermati! – gridò Procton, tentando di trattenerlo per una manica – Sei ancora debole, non puoi…
– Padre, lasciami andare! – Actarus si divincolò, liberandosi senza difficoltà, e partì di corsa.


– Signore, quella nave sta puntando dritto sul mostro! – esclamò il primo ufficiale.
– Usano contro di noi la nostra stessa nave – Hydargos si appoggiò allo schienale della sua poltrona – Dev’esserci quell’Alcor, ai comandi. Avrei preferito catturarlo vivo, ma temo che non ci lascerà molta scelta.
– Dobbiamo abbatterlo?
– Non subito. Mettetevi in contatto con lui e ordinategli di arrendersi. Ditegli che avrà salva la vita.
– Non possiamo farlo, signore – disse dopo un attimo l’addetto alle comunicazioni – Sulla nave, hanno chiuso tutti i canali.
– Lo attacchiamo? – chiese il primo ufficiale.
– Probabilmente Alcor non sa che quella nave ha le armi al minimo – rispose Hydargos – Lasciamogli la prima mossa. Quando vedrà che potrà fare ben poco contro di noi, magari accetterà di arrendersi; altrimenti, lo abbatteremo.


– È come temevo! – ringhiò Zuril.
– Di cosa stai parlando? – sbottò Gandal.
– Guarda: quella nave sta puntando dritta sul mostro!
– Non preoccuparti, Dari Dari non sarà nemmeno scalfito dal suo attacco.
– Proprio non capisci! – Zuril si voltò di scatto verso di lui – Quella nave non si limiterà a sparare con i suoi miseri cannoni laser… questo è un attacco suicida! Guarda, gli sta puntando direttamente addosso!
– Cosa? – Gandal osservò meglio l’immagine sullo schermo: la piccola nave stata dirigendosi direttamente contro l’enorme mostro, senza la minima esitazione – Non è possibile, Alcor non è tipo da…
– Non Alcor… Naida.
Stavolta lo stupore di Gandal fu tale da lasciarlo letteralmente senza parole. Esterrefatto, si voltò a guardare il collega che riprese, la voce sorda: – Sono pronto a scommettere quello che vuoi che è Naida a pilotare quella nave. Si getterà contro Dari Dari.
Gandal aprì il canale di comunicazione col mostro, ruggendo l’ordine di ripiegare.
– Sono praticamente sicuro che Naida abbia con sé le bombe che le sono rimaste – continuò Zuril, con collera repressa – Una sappiamo che è esplosa, ma le altre, messe assieme, provocheranno un disastro che distruggerà mostro, dischi, tutto. – si volse verso Gandal che continuava a dare l’ordine di ripiego: – È troppo tardi, la nave di Naida è troppo vicina. Se anche venisse distrutta, mostro e dischi resteranno coinvolti nello scoppio.
Gandal cambiò rapidamente canale, si mise in comunicazione con l’astronave di Hydargos, che rimasta indietro seguiva il gruppo ad una certa distanza: – Ripiegare immediatamente!
– Cosa? – sul monitor apparve il viso stupefatto di Hydargos.
– È un ordine! – esclamò Gandal, in tono che non ammetteva repliche – Ritirati subito! Su quella nave c’è Naida che sta tentando un attacco suicida!
– Naida?! – talmente sbalordito da restare senza fiato, Hydargos si volse a guardare attraverso il proprio schermo la nave che puntava dritta sul mostro; fu proprio allora che vide anche qualcos’altro apparire tra le nuvole: – Goldrake… ma come…?
– Ritirati! – ripeté Gandal, reciso; e Hydargos, quasi senza rendersene conto, fece cenno al suo primo ufficiale di obbedire.
Il grande disco violaceo decelerò virando bruscamente: una manovra azzardata che solo la perizia dei piloti portò felicemente a termine. Totalmente incapace di reagire, Hydargos continuava a fissare la piccola nave che s’avvicinava al mostro… s’avvicinava sempre più…
Naida, non farlo… NON FARLO!


– Naida! No! – Actarus spinse la velocità del robot al massimo consentitogli, ma era ancora distante, troppo distante… e la piccola nave era troppo vicina – Naida, ti prego, no!!!


– Naida, no! Naida!
La voce di Duke… era là, sul suo robot… dunque, si era ripreso! Stava bene!
Oh, Duke… allora sei tornato a combattere!
Naida sentì lacrime di gioia scenderle giù dalle guance, mentre continuava a dirigere la sua nave contro il mostro. Davanti a lei, una attaccata al vetro e le altre nel loro alloggiamento, le bombe attendevano, immobili e minacciose. Al primo impatto sarebbero esplose.
– Naida, ti prego, non farlo!
Naida spense la radio. Perdonami, Duke…
Guardò davanti a sé. Oltre il mostro ora scorgeva un’altra nave che riconobbe subito: era stato con quella che era giunta su Skarmoon… la nave di Hydargos. Dunque, anche lui era lì, anche lui stava vedendo ogni cosa. Con sollievo, constatò che era troppo distante per restare coinvolto nell’esplosione. Il pensiero che lui non sarebbe morto le diede un’irragionevole felicità: eppure, era un comandante nemico… ma era anche il padre di… del bambino…
La verità era sempre stata davanti ai suoi occhi; solo in quel momento la vide.
Amo anche lui!, realizzò improvvisamente. Ma come…?
Duke… Hydargos…
BASTA!!!
Con un singhiozzo, Naida si gettò sulle cloches spingendole con tutta la sua forza; l’astronave fece un brusco balzo in avanti.
Un boato, e il mondo scomparve in una vampata incandescente.


– Naida! Naida! – Actarus urlò disperatamente, continuando a ripetere quel nome, quasi avesse potuto richiamare a sé quella donna che fino a pochi istanti era stata viva… quella donna che aveva perduto, aveva ritrovato ed ora aveva perso per sempre. Non sarebbe mai tornata, stavolta.
Balzò in piedi, battendo disperatamente i pugni contro il vetro della cabina di pilotaggio, gli occhi fissi sulla massa infuocata che stava precipitando a terra. Si strappò di testa l’elmo e lo gettò di lato, incurante delle lacrime che gli scorrevano per il viso.
Lei si era sacrificata per lui, per sottrarlo alla morte; l’avrebbe ripagata combattendo contro quei mostri di Vega, respingendo i loro attacchi, non dando loro tregua. Solo così avrebbe potuto dare un senso al sacrificio di lei, che pagando il più alto dei prezzi gli aveva donato la salvezza.
Sapeva che sarebbe stato giusto così… che Naida stessa avrebbe voluto questo…
In quel momento, non poteva fare altro che piangere.


L’esplosione illuminò improvvisamente il grande schermo della sala comando; poi non rimase che una scia di fuoco che piombava sulla Terra. Un’alta colonna di fumo si levò dai rottami contorti di quella che fino a pochi secondi prima era stata un’astronave. Contro il cielo arrossato, la sagoma di Goldrake spiccava, scura e solitaria.
E così, tu ti sei salvato. C’era da aspettarselo.
Hydargos fece una smorfia, guardando la nave del suo eterno nemico. L’unica cosa che lo facesse sentire bene era il pensiero di quanto stesse soffrendo anche Duke, in quel momento… perché lei non c’era più.
Non c’era più niente da vedere, ormai. Era finita.
Dato brevemente l’ordine di rientro su Skarmoon, Hydargos si alzò dalla sua postazione, lasciando il comando al suo primo ufficiale.
Si drizzò nella persona. S’aggiustò il mantello. Uscì nel corridoio senza guardare nessuno.
Orgogliosamente eretto, spalle dritte, raggiunse la propria cabina personale e vi si chiuse dentro.
Sedette, e con mano fermissima si versò da bere.


Le porte si chiusero dietro alle sue spalle; in silenzio, Zuril si diresse verso la solitaria figura seduta alla consolle del computer.
Hydargos non alzò la testa, non disse nulla. Continuò a guardare senza vederle le immagini che si susseguivano sul suo monitor. L’astronave che sfrecciava, lo schianto, l’esplosione, il cielo rosso… la silhouette di Goldrake. Poi daccapo: ancora l’astronave che sfrecciava, lo schianto…
Zuril si pose al suo fianco, ma il Comandante di Vega non lo degnò di uno sguardo. Sul tavolo vicino alla consolle, una coppa e una bottiglia vuota. L’odore del liquore era perfettamente percepibile.
Per un poco tacquero entrambi, ciascuno incapace di cominciare; naturalmente, fu Hydargos a cedere. Con un gesto di stizza arrestò il filmato e posò il mento sui pugni chiusi, evitando di guardare il collega: – Naida è morta.
– Lo so – Zuril esitò: non era nella sua natura mostrarsi espansivo – Io… mi spiace molto. Non avrei mai voluto che finisse così.
– Era solo una schiava – Hydargos parlava muovendo appena le labbra, gli occhi fissi sul monitor – Solo una schiava.
A chi vuoi darla ad intendere? – Certo. Capisco.
Nuovo silenzio. Pesantissimo.
Stavolta fu Zuril a cedere e parlare per primo: – Io… se posso fare qualcosa per te…
Hai già fatto abbastanza. – Sì – per la prima volta in quel dialogo, Hydargos lo fissò dritto in viso – Puoi lasciarmi solo.
Zuril si tirò indietro come se fosse stato colpito da una frustata: – Come… come vuoi.
Ostile e remoto, Hydargos si chinò nuovamente sul suo monitor, indicando chiaramente come per lui quella conversazione fosse terminata. Zuril fece per uscire, si fermò un ultimo istante sulla porta, come se avesse dovuto dirgli qualcosa… ma qualsiasi parola sarebbe stata ormai inutile, ridicola. Lui non avrebbe ascoltato.
Zuril scosse lievemente la testa ed uscì.
Hydargos non se ne accorse neppure.


Epilogo

Nel chiuso del suo studio privato, Hydargos sedette alla scrivania; poi prese in mano il plico che tempo prima aveva affidato a Gandal e che si era appena fatto restituire.
Tutto inutile, ormai.
Spezzò i sigilli e rovesciò il contenuto sul piano del tavolo.
Il contratto d’acquisto di Naida… l’atto con cui l’aveva affrancata dalla schiavitù… i documenti che la rendevano una libera cittadina di Vega.
Hydargos guardò oltre: altre carte che attestavano i suoi beni, con un elenco completo, e infine la transazione con cui, alla sua morte, ogni suo avere sarebbe divenuto proprietà di Naida. Poi c’erano i dischi su cui erano riportate le copie degli atti, le registrazioni ufficiali, tutto.
Se lui fosse morto, Naida sarebbe stata una donna libera e ricca. Nessun altro uomo avrebbe potuto accampare diritti su di lei.
Naida non l’aveva mai saputo: tante volte Hydargos aveva tentato di dirglielo, arrestato dal timore di ciò che le avrebbe letto nello sguardo… speranza, avidità…?
Hydargos serrò le mascelle: e se invece avesse visto il dolore negli occhi di Naida all’idea della sua morte? Sarebbe riuscito, lui, a continuare a combattere in prima persona e rischiare ancora la vita com’era suo dovere?
Domande inutili, si disse. Inutili e tardive. È finita, lei è morta. Lei e… il bambino…
Hydargos parve raggelarsi, farsi di roccia.
Basta così.
Con gesti misurati e precisi, batté il bordo del fascio di carte per compattarle, prima di gettarle nel distruttore: gli scritti sarebbero scomparsi, la carta riciclata. Non c’era posto per lo spreco, su Skarmoon.
Prese i dischi e li inserì nel computer, dando l’ordine di cancellarne i dati e riformattarli.
Si guardò nervosamente attorno. Il suo alloggio appariva ora silenzioso, così vuoto e freddo; non era più un piacere tornarvi, ed era insopportabile restare.
S’alzò ed uscì, il viso di pietra e con nel petto l’inferno.


Tutt’attorno a lui, le stelle splendevano, remote e bellissime.
L’ultima volta che era salito nell’osservatorio, c’era anche lei. Ricordava bene come s’era spaventata davanti allo spettacolo dello spazio infinito; poi s’era calmata, e avevano parlato assieme.
Era sempre stato così, tra loro: lei aveva avuto molta paura, all’inizio, e poi si era rilassata, si era abituata. Avevano diviso la quotidianità, avevano chiacchierato, ascoltato musica… lui le aveva insegnato a volare, Naida gli aveva insegnato ad avere fiducia in lei.
Mai, in tutta la sua vita, Hydargos era stato bene con qualcuno quanto lo era stato con Naida.
Quante volte si era chiesto cosa provasse veramente lei, nei suoi confronti? Quante volte avrebbe voluto chiedere, e s’era arrestato per il timore di essere ridicolo, o peggio, col terrore che lei gli ridesse in faccia, o lo guardasse con odio, o assumesse un’espressione ipocrita?
Quante volte era veramente stato sicuro che Naida provasse qualcosa, almeno un minimo d’affetto, di gratitudine?
Eppure, all’ultimo istante, lei si era scagliata contro Vega… contro di lui.
In realtà, Naida non era mai stata sua.
Hydargos strinse i pugni serrando le mascelle, mentre la consapevolezza si faceva strada lentamente in lui. Naida era stata solo la sua schiava. Nient’altro.
Però… quell’ultima notte… il bacio d’addio che si erano scambiati… possibile…?
Non lo saprò mai, si disse, battendo il pugno contro una parete. Non capisco! Sono un guerriero, io, non un dannato psicologo!
Guardò con rancore quel meraviglioso pianeta che non era riuscito a conquistare… la Terra. La Terra, su cui viveva il maledetto Duke Fleed… la sua disperazione, la sua nemesi. Tutta la sua vita era stata rovinata, distrutta da quel mortale, implacabile nemico.
Mi sei costato maledettamente caro, Duke Fleed. La mia donna. Mio figlio. Ora sto per giocarmi la carriera. E per cosa, poi? Solo fallimenti.
Hydargos alzò orgogliosamente il mento.
Ormai non aveva più nulla da perdere, a parte la sua stessa vita.
Va bene, Duke Fleed. Mi hai portato via tutto. Mi hai sconfitto coprendomi di ridicolo davanti tutta Vega, al punto che alla prossima battaglia non potrò tornare se non vincitore.
Mi hai messo con le spalle al muro; te la farò pagare. Ti attaccherò come non ho mai fatto, e non avrò alcuno scrupolo, né per te, né per i tuoi aiutanti, né per quegli stupidi terrestri che ti ostini a difendere.
Se mai ci troveremo ad essere tu ed io, l’uno contro l’altro, ti converrà combattere senza pietà, perché io non ne avrò per te. Mi hai tolto tutto: prenditi anche la mia vita, se ti riesce.
E ch’io sia dannato se non ti trascinerò con me all’inferno.


FINE






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