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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 9/6/2013, 18:46     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Verona, città di Emilio Salgari.

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29

Solo un demone potrebbe usare una simile cavalcatura, pensò Actarus.
Il mostro era grande, interamente ricoperto di lucido metallo oscuro; un cavallo dalle forme scheletriche, gli zoccoli rivestiti di durissimo akton, il collo sormontato da una criniera di… sembravano scaglie metalliche. Due grandi scudi irti di punte gli proteggevano i fianchi. Gli occhi erano color sangue, e tra le fauci aperte s’intravedeva un bagliore rossastro. Uno dei mostri più orrendi che Actarus avesse mai affrontato in vita sua.
Goldrake si pose tra il mostro, che stava sfrecciando verso di lui a grandissima velocità, e l’inerme centro abitato. Se solo fosse riuscito a trascinarlo in una zona desertica…
– Duke Fleed! – attraverso il comunicatore gli giunse la voce strafottente di Holdh – Sei venuto a difendere quei luridi assassini?
– Sono venuto ad impedire un massacro inutile – tagliò corto Actarus – I nostri mondi sono sempre stati in pace. Non voglio combattere con te, ma lo farò se non mi darai alternativa.
– Quanto sei nobile e superiore…! – lo derise Holdh – Perché non mi proponi anche di andare a combattere lontano da qui, in modo da evitare vittime innocenti?
– Infatti, io…
– Ma sì. Ti accontento. In fondo, se distruggessimo quei vermi combattendo tra di noi, non proverei il minimo piacere. Preferisco che soffrano vedendoti mentre ti sconfiggo; poi, quando avrò terminato con te, penserò anche a loro.
Virò rapidamente verso sud, puntando alla grande spianata desertica; Actarus gli tenne subito dietro.


L’ala centrale del Palazzo era stata pressoché completata; là, in una sala che sarebbe stata destinata alle riunioni del sovrano con il suo staff, era stato installato uno schermo, il più grande tra quelli esistenti su Moru.
Fu proprio là che Zuril, Maria, Naida, Koyra, lady Gandal e l’intero team di scienziati si raccolse per assistere allo scontro che avrebbe deciso della loro sorte.
Unico assente, Hydargos era andato con i suoi uomini ad organizzare le difese; inutili, certo, lui per primo lo sapeva bene. L’idea di morire senza opporre resistenza gli era però insopportabile.
– Ce la farà – mormorò Maria – Actarus ha sempre… voglio dire… – ha sempre sconfitto tutti i mostri di Vega, fu la frase che le rimase in gola. Deglutì penosamente, mentre incrociava lo sguardo del marito.
Si erano capiti perfettamente anche quella volta.
Lui le strinse una mano: – Certo. Vincerà anche oggi.


Sotto di loro, una spianata vastissima di terreno sabbioso color ocra.
Il cavallo nero, che fino ad allora aveva puntato deciso verso sud, si girò di scatto sparando dagli occhi dei raggi scarlatti; una brusca virata e Goldrake schivò, esplodendo a sua volta una raffica di Missili Perforanti. Il cavallo si voltò di lato, i colpi rimbalzarono sul lucido scudo che gli proteggeva il fianco.
Niente di fatto, una semplice incrociata di spade.
Il mostro scartò rapidamente da una parte, scagliando le punte del suo scudo laterale, mentre altre sbucavano al loro posto; Goldrake evitò anche quelle, lanciandogli addosso le Lame Rotanti. Aveva puntato alle zampe, che apparivano meno difese del corpo; il mostro vomitò una sorta di magma che deviò la traiettoria delle lame. Una nuova raffica di raggi scarlatti colpì in pieno Goldrake, scaraventandolo in alto, e facendolo poi piombare a terra a breve distanza dall’abitato.


– Se fosse caduto un poco più in qua, avrebbe tolto a Holdh il fastidio di sterminarci – commentò a mezza voce lady Gandal.


Uno a zero per te, si disse Actarus.
Il mostro attendeva, immobile, le zampe ben piantate al suolo; lo Spacer si rialzò in volo e Goldrake ne fuoriuscì subito, andando a piantarsi di fronte al suo avversario. A quanto pareva, Holdh preferiva uno scontro a terra.
Gli occhi scarlatti del cavallo baluginarono; Goldrake si gettò da un lato e subito venne colpito dagli zoccoli, venendo scaraventato parecchie decine di metri più in là.
La coda del mostro saettò nell’aria: si trattava di una sorta di tentacolo metallico allungabile, che abbrancò il robot per le caviglie. Dalle fauci vomitò un nuovo getto di magma, colpendo Goldrake in pieno petto.
Vegatron, si disse Actarus, mentre stringeva i denti per non urlare.
La sua vecchia ferita era ormai del tutto scomparsa, ma il dolore era ancora fortissimo, al limite dell’insopportabile; ma se Actarus non aveva ceduto un tempo, quando era più sensibile alle radiazioni perché ne era stato contagiato, non avrebbe capitolato certo ora.
Goldrake si rialzò di scatto a sedere, mentre dalle sue spalle partivano a tutta velocità i Boomerang Elettronici, che troncarono di netto la coda. Subito il mostro si alzò sulle zampe posteriori per colpire con quelle anteriori il petto del robot ma Actarus, rapidissimo, gli sparò contro il ventre il Doppio Maglio Perforante. Stavolta fu il mostro a venire scaraventato decine di metri indietro, mentre Goldrake si rimetteva in piedi, riagganciando rapidamente i due avambracci.


Un urlo d’esultanza eruppe da tutti i veghiani presenti. La sala si stava rapidamente riempiendo di gente venuta ad assistere a quello scontro che avrebbe deciso del loro destino.
Grida d’incoraggiamento accolsero l’attacco del gigantesco robot.
Nonostante la preoccupazione, Zuril non poté trattenersi dal sorridere.
I veghiani stavano facendo il tifo per Goldrake.


Goldrake e il mostro erano di nuovo l’uno di fronte all’altro, studiandosi a vicenda.
All’improvviso, il cavallo caricò a tutta velocità, la testa bassa: sul collo e sulla fronte spuntava una criniera di scaglie metalliche durissime, con quelle Holdh pensava di trafiggere il suo nemico.
Goldrake afferrò l’Alabarda Spaziale, rimanendo in attesa e scansandosi all’ultimo secondo; un rapido giro su sé stesso, e Goldrake uncinò con una delle punte dell’Alabarda uno dei due grandi scudi che proteggevano il fianco del mostro. Per un attimo che parve eterno i due contendenti rimasero immobili, il cavallo che tirava per liberarsi e Goldrake che lo tratteneva saldamente; poi, con uno schianto metallico lo scudo cedette, volando in aria, mentre il robot, sbilanciato, cadeva all’indietro.
Holdh fu rapidissimo a far voltare il suo mostro e a colpire violentemente con gli zoccoli il petto di Goldrake, sbattendolo al suolo. Un altro getto di magma incandescente sembrò inchiodarvelo.


– Mio Dio…! – Maria afferrò il marito per un braccio – Zuril! Non possiamo far niente per aiutarlo?
– Certo – Zuril strinse la mano della moglie, prima di svincolarsi da lei e voltarsi verso lady Gandal: – Ti affido la regina Maria.
– Cosa…? – Maria lo guardò senza comprendere, e lady Gandal, che era alle sue spalle, l’afferrò per le braccia, trattenendola – Zuril! No!
Maria si dibatté, ma lady Gandal era troppo forte per lei.
– Cos’hai in mente? – chiese la donna, che non sembrava aver problemi a bloccare una ragazzina esile come Maria.
– L’Ammiraglia di Yabarn – rispose Zuril, avviandosi verso l’uscita mentre i presenti si facevano da parte per lasciarlo passare – La userò per creare un diversivo.
– Vuoi ammazzarti? – esclamò lady Gandal, che non era tipo da usare mezze parole.
– L’alternativa è che ci ammazzi quel mostro – disse Zuril – In questo modo, forse avremo una possibilità di salvarci tutti.
– No! – urlò Maria, e lui si sforzò d’ignorarla.
Lady Gandal si morse le labbra: Zuril aveva ragione, e lei lo sapeva: – Posso aiutarti in qualche modo?
– Occupati di Maria – Zuril scambiò un ultimo sguardo con la moglie e uscì in fretta, mentre lei lanciava un urlo disperato, accasciandosi poi su sé stessa.
Trattenendo Maria con un braccio, con la mano libera lady Gandal digitò sul suo comunicatore un rapido messaggio per Hydargos. Quindi fissò la porta ormai chiusa e tornò ad osservare lo schermo.
Buona fortuna…


Intontito, dolorante in tutto il corpo, Actarus sentì il sangue sgocciolargli giù per una tempia: l’impatto gli aveva fatto battere la testa, ferendolo leggermente.
Staccandogli uno scudo, aveva creduto di infliggere un duro colpo a quel mostro; evidentemente si era sbagliato. Era un avversario di tutto rispetto, molto forte e determinato; mai come allora rimpianse di non avere con sé i suoi compagni di squadra, Alcor, Maria… Venusia…
Gli occhi del cavallo scintillarono, due raggi scarlatti colpirono la testa del robot, abbagliando Actarus che per qualche istante fu come cieco; un nuovo getto di magma venne diretto contro il suo torace, là dove era già stato colpito. Con orrore, Actarus si rese conto che quel calore era sufficientemente elevato per intaccare il pur resistentissimo gren… sul petto, il rivestimento stava alterandosi. Presto quel magma avrebbe distrutto la corazza e raggiunto l’interno di Goldrake, e allora…
Lo Spacer volava alto sopra di loro; Actarus lo fece scendere in picchiata. La Pioggia di Fuoco investì in pieno il mostro, incrinandogli l’altro scudo. Goldrake si rimise in piedi, tese le mani scagliando dalle nocche i Raggi Paralleli; lo scudo si spezzò in due.
Inferocito, Holdh vomitò un nuovo getto di magma al Vegatron contro la testa del robot.
All’interno dell’abitacolo, Actarus lanciò un urlo d’agonia cui fece eco quello di sua sorella, che s’accasciò semisvenuta addosso all’allibita lady Gandal.
Un silenzio mortale cadde nella sala.


Uscito di corsa dal Palazzo, Zuril saltò sul proprio Disco e si diresse a tutta velocità verso la periferia della città, dove si trovava l’enorme spiazzo su cui giaceva la Grande Ammiraglia. La fretta fece sì che il pacato Ministro delle Scienze, normalmente calmo e prudente, pilotasse il suo Disco con la velocità e la spericolatezza di un adolescente scapestrato. Inchiodò a pochi metri dalla fiancata, balzò giù dal Disco e fece per raggiungere uno dei portelli della nave, quando un uomo gli si parò davanti.
– Dove credi d’andare? – esclamò Hydargos.
– Lasciami passare! – sbottò Zuril, brusco, scostandolo e proseguendo a grandi passi.
– Dove credi d’andare da solo? – corresse Hydargos, tenendogli dietro.
– Non fare sciocchezze…
– La sciocchezza stai per farla tu, se pensi di poter guidare l’Ammiraglia senza un secondo pilota – tagliò corto Hydargos – In due, saremo a malapena sufficienti, e possiamo farcela soltanto perché il nostro viaggio non sarà lungo.
Zuril non ribatté più nulla: Hydargos aveva ragione, e lui lo sapeva. Avrebbero dovuto agire assieme.
Posata a terra, la nave appariva mastodontica, un mostro smisurato e dormiente; i due uomini aprirono il portello e salirono a bordo, cercando di non pensare alle difficoltà enormi che il solo pilotare quel colosso avrebbe presentato loro.
Una vibrazione insistente provenne dal comunicatore di Zuril: a dire il vero era da un po’ che lui ignorava i tentativi di Maria di mettersi in contatto. Controllò il display: era lei, naturalmente.
Perdonami, amore, non posso parlarti… non ora.
Zuril si costrinse a spegnere il comunicatore e seguì Hydargos nella sala comando della nave, sedendosi al posto del primo pilota; anche Hydargos accese il proprio quadro comandi. Sarebbe stato lui ad avere il controllo delle armi.
Nessuno dei due aveva mai guidato una nave di quelle dimensioni, ma erano entrambi ottimi piloti. Chiuse le cinghie di sicurezza, Zuril impostò la rotta sul computer di bordo e Hydargos accese i motori. Pochi istanti dopo la nave si sollevava sulla pista, agile nonostante la considerevole mole, puntando verso la pianura in cui Goldrake stava affrontando il mostro di Galar.
– Cosa c’è di così divertente? – chiese Hydargos, vedendo il collega sogghignare.
– Ti rendi conto di cosa stiamo facendo? – rispose Zuril, gli occhi fissi sul display – Stiamo andando in soccorso di Goldrake.
Hydargos represse un brivido: – Non farmici pensare.


– Sei finito, Duke Fleed! – esclamò Holdh, trionfante.
Non ancora, si disse Actarus.
Il suo robot aveva uno squarcio nel torace. Quanto a lui, era dolorante in tutto il corpo, sentiva le membra semiparalizzate e oltre che dalla ferita alla tempia perdeva sangue dal naso; ma non cedette. Sarebbe morto, piuttosto.
Afferrò saldamente l’Alabarda Spaziale, mentre Holdh caricava ancora a testa bassa. All’ultimo istante però il cavallo si arrestò impennandosi e facendo l’atto di colpire Goldrake con gli zoccoli; Actarus, che se l’era aspettata, azionò il Raggio Antigravità prendendolo in pieno ventre. Il cavallo venne rapidamente sollevato ed allontanato dalla luce arcobaleno; poi, improvviso, il raggio si spense e Goldrake chinò la testa in avanti per colpirlo col Tuono Spaziale, la sua arma più potente e distruttiva, quella che aveva finito decine di nemici…
Il mostro venne scaraventato all’indietro, per rimettersi subito in piedi.
– Sorpresa, sorpresa! – esclamò Holdh, trionfante – I tuoi giochini non hanno funzionato, che peccato… e ora, cosa pensi di fare?


– Eccoli! – esclamò Hydargos.
A qualche chilometro davanti a loro, Goldrake e il mostro stavano ancora fronteggiandosi nel loro duello mortale.
Zuril controllò i dati sul computer: – Goldrake è seriamente danneggiato.
– Quello è un mostro di ultima generazione! – ringhiò Hydargos – Perché Markus li aveva, e noi no?
– Non è il momento di recriminare – lo richiamò Zuril, mentre dirigeva l’Ammiraglia verso i due combattenti – E comunque, quello era un prototipo che avevo costruito io, ma Yabarn aveva preteso di destinarlo a Markus. …Tieniti pronto, ora.


Totalmente concentrati l’uno sull’altro, i due avversari non videro la sagoma enorme dell’Ammiraglia che si stava avvicinando.
Usare il Raggio Antigravità aveva aperto ulteriormente lo squarcio nel petto, che ora appariva simile in tutto e per tutto a una ferita che gli attraversava diagonalmente il torace; il braccio sinistro del robot sembrava avere qualche problema di funzionamento.
L’unica volta in cui Goldrake era stato danneggiato seriamente era accaduto quando aveva combattuto contro King Gori, il mostro più forte contro cui si fosse misurato; ma allora con lui c’erano i suoi compagni di squadra, c’era il dottor Procton con i suoi assistenti, c’era stato persino Rigel, che con la sua conoscenza degli animali gli aveva dato consigli preziosi su come affrontare quel mostro… quel gorilla…
Gli animali… il mostro…
Actarus guardò il suo avversario come se non l’avesse mai visto prima d’allora.
Maledizione! Non è che un CAVALLO!


– Avvicinati ancora – Hydargos non batteva nemmeno le palpebre, gli occhi fissi sul suo display in attesa del momento preciso in cui far sparare una bordata di cannoni laser.


Actarus conosceva perfettamente i cavalli… quanti ne aveva montati, quanti ne aveva domati, di intrattabili e selvaggi?
E quello – robotizzato, mostrificato – era appunto un cavallo.
Ancora una volta, Holdh spinse il mostro contro Goldrake, con l’obiettivo di danneggiarlo sul torace per allargare lo squarcio; stavolta, Actarus non preparò alcuna arma, rimase semplicemente in piedi, pronto a scattare. Il cavallo s’impennò facendo l’atto di colpirlo, Goldrake si gettò in avanti schivando gli zoccoli ricoperti d’akton e con un balzo fu in groppa al mostro.
La reazione fu quella tipica dell’animale che era. Il cavallo sgroppò violentemente, cercando di scrollarsi di dosso il cavaliere; Actarus aveva tenuto testa ad animali indomabili, praticamente si ritrovava nel suo elemento. Da lì poi la bestia non avrebbe potuto colpirlo né con gli zoccoli, né con i raggi oculari né con il magma, e allora…
Il mostro gettò rapidamente la testa indietro, e la sua criniera scagliosa colpì con violenza il robot. Solo in quel momento Actarus si accorse che non si trattava di scaglie, ma di missili che avrebbero potuto venire lanciati … e uno era rimasto incastrato nello squarcio del petto. Se lo strappò via gettandolo lontano; proprio allora il cavallo sgroppò nuovamente, sbalzandolo e facendolo rotolare a terra.


– Ora! – esclamò Zuril, vedendo che Goldrake veniva scaraventato via, lontano dal mostro.
Un pensiero improvviso gli attraversò la mente, lasciandolo attonito: Hydargos ha sempre odiato Duke Fleed.
Zuril si voltò di scatto verso il collega, che stava puntando le armi contro il suo obiettivo.
– Hydargos, no! – gridò, allarmato.
– Stai calmo, so quel che faccio – rispose freddamente l’altro, gli occhi fissi sul suo bersaglio; e fece fuoco.
Colpito in pieno fianco, esattamente là dove era caduto uno degli scudi protettivi, il mostro venne scagliato all’indietro di varie decine di metri, lasciando il tempo a Goldrake di rimettersi in piedi.
– Puntagli addosso! – gridò Hydargos, sparando un’intera raffica di raggi energetici. Zuril spinse la nave contro il mostro, mentre Hydargos si preparava a lanciare una delle armi più letali di cui fosse dotata la nave, una bomba a grappolo al vegatron; proprio allora, Goldrake balzò in avanti, l’Alabarda Spaziale in pugno, mettendosi in mezzo, e Hydargos imprecò, rabbioso. Non poteva sparare certo ora!
Il cavallo chinò di scatto la testa, scagliando i missili che costituivano la sua criniera; Goldrake parò la raffica tranciando i proiettili con l’Alabarda. Poi la lama saettò nell’aria, e la testa del cavallo, spiccata dal corpo, venne scaraventata in alto. Con un balzo, Goldrake afferrò la testa, impedendo che cadesse, mentre il corpo esplodeva in una colonna di fuoco, investendo in pieno il muso della Grande Ammiraglia, che si schiantò al suolo.


– No! – urlò Maria, disperata. Accanto a lei, Naida si cacciò i pugni in bocca per non urlare e lady Gandal si morse le labbra a sangue. Persino Koyra, sempre calma e fredda, si coprì la bocca con le mani, soffocando il grido che le era venuto spontaneo. Bran, incredulo, fissava lo schermo scuotendo la testa. Non poteva essere vero, non poteva…
L’intera sala parve trattenere il respiro.


- continua -

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30

– …Oh, mio Dio…! – Actarus rimase solo un istante a fissare la grande nave, la cui corazza esterna sembrava accartocciarsi per effetto di tante piccole esplosioni che avvenivano al suo interno; poi depose a terra la testa del cavallo e si slanciò verso l’Ammiraglia. Individuò subito il ponte di comando: le esplosioni erano ancora lontane, ma comunque c’era poco, pochissimo tempo per agire. Afferrò il grande pezzo di plastivetro che chiudeva il finestrone e lo divelse con un unico, potente strappo. Inserì le dita di Goldrake nello squarcio e imprecò: se i piloti della nave fossero svenuti non sarebbe riuscito ad afferrarli, c’era troppo poco spazio per poter agire.


L’impatto era stato potente, e Hydargos aveva ricevuto il contraccolpo peggiore, visto che la nave era piombata a terra proprio dalla sua parte.
Zuril si riscosse: era stordito, sentiva ondate di nausea invaderlo, ma sapeva che c’era pochissimo tempo per fuggire. Sganciò le cinghie e si rimise in piedi: – Hydargos, stai bene?
Una specie di brontolio fu la risposta del suo collega. Se non altro, era ancora vivo!
Con le ginocchia che gli si piegavano, Zuril lo raggiunse: Hydargos era immobile, il viso grigiastro e inondato di sangue.
Sforzandosi di mantenersi freddo (Purché non sia morto! Non potrei dirlo a Naida!), Zuril tentò d’aprire le cinghie, ma vi era colato sopra del sangue rendendo viscosa la chiusura.
Stai calmo.
Prese fiato e riprese in mano la cinghia, obbligandosi a muoversi con lentezza, come se avesse avuto davanti a sé tutto il tempo del mondo; uno scatto secco, e le cinghie si allentarono. Ci era riuscito.
Hydargos emise un gemito e si riscosse, guardandolo con aria interrogativa.
– Andiamo, su! – Zuril l’afferrò sotto alle braccia per aiutarlo a rialzarsi – Adesso ti porto fuori di qui.
Uno schianto terrificante gli gelò la voce in gola; poi entrambi vennero investiti da un soffio d’aria fresca. Goldrake aveva strappato via il plastivetro che sigillava la grande finestra del ponte di comando.
Erano salvi, bastava un piccolo sforzo. Hydargos raccolse tutte le sue energie per rimettersi in piedi, Zuril lo sostenne e mossero qualche passo verso le grandi dita che Goldrake aveva infilato nello squarcio. Hydargos tremava in tutto il corpo per lo sforzo: la ferita in testa non era profonda ma continuava a sanguinare, ed era scosso dalle vertigini. Occorrevano pochi passi per raggiungere la mano di Goldrake, tre… due… Zuril lo spinse contro le dita, facendolo rotolare sul palmo, prima di raggiungerlo a sua volta.
Rapido, Actarus ritirò la mano e s’allontanò di corsa, mentre l’Ammiraglia sembrava rabbrividire violentemente. Poi un’esplosione squarciò la fiancata, un’altra fece eco e con un’ultima fiammata la nave scoppiò tingendo di rosso il cielo; ma Goldrake era ormai lontano, e serrava contro il petto le mani a coppa, proteggendo con il suo corpo metallico i due uomini di Vega.
Si voltò solo quando ormai era fuori portata dell’esplosione: della colossale Ammiraglia di Yabarn non era rimasto che un guscio annerito ed accartocciato e una colonna di denso fumo fuligginoso, il resto stava consumandosi in una grande vampata rossa.
– State bene? – chiese Actarus, aprendo delicatamente le mani.
Zuril sentì il proprio corpo pesto e dolorante: non era nulla, rispetto quel che avrebbe sofferto nei prossimi giorni, ma sapeva d’aver avuto fortuna. Esaminò Hydargos: a parte il taglio in testa e svariati lividi che stavano cominciando ad apparirgli addosso, anche lui era in condizioni passabili.
– Siamo stati peggio – rispose Zuril.
– Non ce l’avrei fatta senza di voi – disse Actarus.
– Siamo noi che non ce l’avremmo fatta senza di te, per cui non buttiamola sul sentimentale – sbottò Hydargos, la voce burbera ma gli occhi che brillavano.
– Che ne è stato di Holdh? – domandò Zuril, tanto per cambiar in fretta argomento.
Tenendo in una mano i due uomini di Vega, Goldrake raccolse con l’altra la grande testa del cavallo: attraverso gli occhi trasparenti dell’animale, si poté scorgere Holdh ancora al posto di comando. Appariva pressoché illeso, ed era semplicemente furibondo: le sue cinghie di sicurezza si erano bloccate, e lui era intrappolato al suo posto.
Da quel signore che sapeva essere, Actarus ignorò gli insulti che il sovrano di Galar rivolse a lui e alla sua ascendenza, specie quella di sesso femminile, ed interruppe la comunicazione. Avrebbero parlato quando, e se, il sovrano si fosse mostrato più ragionevole.
Con un ultimo sguardo a quel che restava dell’Ammiraglia, Actarus ordinò al robot di cacciarsi la testa di cavallo sotto al braccio; quindi, stando ben attento a quel che trasportava nella mano a coppa, si diresse a grandi passi verso Vega.
Sopra la sua testa, lo Spacer sfrecciò nel cielo, precedendolo verso la capitale.


Actarus si fece avanti: lo scontro era stato davvero duro, si sentiva a pezzi, tuttavia vedendo arrivare di corsa Maria riuscì a sorridere…
Rimase sbalordito, mentre Maria si gettava tra le braccia di Zuril, ridendo e piangendo allo stesso tempo.
È giusto così, si disse il giovane riprendendosi dallo stupore, lui è il marito, io sono solo il fratello. È giusto, ma mi sembra ancora strano…
Si voltò vero Naida, cui la gravidanza aveva tolto il fiato rallentandone la corsa, ma la giovane donna sembrò non notarlo neppure e corse senza esitazione da Hydargos, abbracciandolo e stringendosi a lui come avrebbe fatto qualsiasi sposa innamorata del marito. Actarus si guardò attorno, un po’ a disagio: un gran gruppo di veghiani, lady Gandal in testa, stava venendo verso di loro, e lui non sapeva bene come comportarsi, che dire.
Vide Zuril mentre veniva vigorosamente abbracciato da lady Gandal, vide Koyra gettare le braccia al collo di Hydargos e intanto già esaminargli la ferita sulla fronte, e rimase impacciato, immobile nel tripudio generale.
In quel momento Maria gli saltò al collo, stampandogli sulle guance un paio di baci; Actarus le sorrise, sorrise anche a Naida che ora stava abbracciandolo a sua volta, strinse le mani di Zuril e Hydargos, sentì la folla di veghiani gridare tutto il suo giubilo…
Fu allora che Maria vide ciò che mai si sarebbe aspettata di vedere: i veghiani circondarono Actarus, lo sollevarono sulle loro spalle e lo portarono in trionfo tra urli d’esultanza.


Dopo aver fatto un giro trionfale per la città, fu la stessa folla esultante a portare un frastornato Duke Fleed all’ingresso del Centro Medico; subito un’infermiera venne a prenderlo in consegna, mentre il resto della gente restava fuori a gridare tutto il suo giubilo.
Il giovane venne accompagnato in una sala; in un angolo sedeva Hydargos, con Naida seduta al suo fianco che gli teneva una mano. Il Comandante di Vega appariva un po’ tirato, aveva un gran livido nerastro su una tempia e il taglio sulla fronte appariva ricoperto da una specie di pellicola trasparente – una sorta di gel solidificato dermostimolante, come Actarus avrebbe scoperto poi.
In un altro angolo, guardato da due soldati e in attesa del proprio turno, sedeva l’ingrugnito Holdh; a parte qualche graffio e una caviglia slogata, appariva in buone condizioni.
Actarus non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca, che venne introdotto nell’ambulatorio; all’interno trovò Maria e Zuril, che evidentemente era appena stato medicato. Subito, Koyra in persona prese ad occuparsi di lui.
Actarus venne fatto entrare in una cabina ed analizzato dalla testa ai piedi. Venne rilevata la sua antica ferita, fu controllata e ricontrollata, e per sicurezza venne ri-irradiata con vegatron invertito. Poi in giovane fu immerso per qualche minuto in una sorta di luce bluastra che, gli fu spiegato, avrebbe ridotto i tempi di guarigione delle ecchimosi. Infine, la sua ferita alla testa venne ripulita, disinfettata e ricoperta dello stesso gel che era stato impiegato per Hydargos, e che si rivelò piacevolmente fresco. Quando uscì, trovò ad attenderlo Zuril, Maria, Hydargos e Naida; Holdh doveva essere stato condotto via dalle guardie.
All’esterno, la folla continuava ad urlare tutta la sua gioia per lo scampato pericolo.
Zuril guardò fuori dalla finestra la gente che sembrava impazzita e si rivolse alla moglie, con un piglio serio che non ingannò nessuno: – Lo sai, vero, che tutto questo è colpa tua?
Maria scoppiò a ridere: – Solo per quella festa che ho organizzato tempo fa…
– Ridi, ridi – brontolò lui – Qualcosa mi dice che oggi è nata una nuova solennità nazionale.
– Beh, ci vogliono anche queste cose, no? – Maria gli dette un rapido bacio sulla guancia, prima di rivolgersi al fratello: – Non partirai subito, vero?
– Non credo di poterlo fare, con Goldrake in quelle condizioni – osservò Actarus.
– Se disattiverai il sistema di sicurezza, potremo cominciare le riparazioni – disse Zuril – Con quello che hai fatto per noi, è il minimo.
– Grazie, ma… – esitò: Goldrake era ricoperto di gren, era un mezzo superiore a quelli mai costruiti da Vega… come avrebbero potuto sistemarglielo?
Zuril sembrò leggergli nella mente: – Se a suo tempo te l’ha riparato Procton, vuoi che non possa farlo io?
Vero anche questo… Actarus sorrise; un istante dopo sembrò gelarsi vedendo Maria seduta accanto a Zuril, in atteggiamento decisamente complice. Anche Naida ed Hydargos apparivano sereni, felici di essere assieme… due vere coppie.
Sentì un dolore al petto, un dolore che nulla aveva di fisico ma che non per questo era meno lancinante… risentì una voce dolce che non aveva mai dimenticato, rivide occhi limpidi e sinceri che l’avevano sempre guardato con amore…
Si alzò bruscamente, andò a mettersi ad una finestra fingendo di guardare fuori, mentre tutto quello che voleva era non essere visto, e appoggiò la fronte contro il plastivetro.
Oh, Venusia, Venusia… quanto mi manchi!


Sono impazziti, si disse Rigr.
Incredulo per quanto stava vedendo, ripensò rapidamente a ciò che era appena accaduto…


Non appena entrato nell’orbita di Moru con un gruppo di astronavi, pronto a dare manforte a Duke Fleed contro quel pazzo di Holdh, si era imbattuto in una flotta di mezzi provenienti da Galar. Un rapido scambio di comunicazioni gli aveva permesso di comprendere come l’ammiraglio in capo non avesse il minimo desiderio di combattere: avevano seguito il loro sovrano per pura obbedienza, ma non avevano potuto tenergli dietro data la velocità del mostro, molto più rapido dei loro mezzi. Erano arrivati a scontro già avvenuto, avevano saputo che il loro sovrano era stato sconfitto ed era prigioniero di Zuril… in breve, stavano orbitando attorno a Moru in attesa di prendere qualsivoglia decisione. Combattere era l’ultima cosa che desideravano, ma l’avrebbero fatto se fosse stato necessario.
Visto l’imbarazzo dell’ammiraglio, Rigr aveva deciso di prendere in pugno lui la faccenda e si era messo in contatto con Moru: Zuril, appena uscito dal Centro Medico, aveva garantito subito circa la salute di Holdh, definendolo suo ospite. Un attimo dopo, lo stesso Holdh, piuttosto ingrugnito, aveva confermato quanto detto da Zuril. Questi poi aveva invitato una delegazione di Galar a scendere su Moru per verificare la situazione. Quanto a Rigr, era più che benvenuto.
Subito dopo era stato Duke Fleed ad apparire sullo schermo, ribadendo quanto affermato da Zuril: parole di pace e distensione, quando Galar, e con lui anche gli altri pianeti coinvolti, aveva temuto di sentir minacce di rappresaglie e fulmini di guerra.
A quel punto, Rigr era sbarcato personalmente su Moru, assieme a qualcuno dei suoi uomini e un gruppetto di alti ufficiali di Galar; quel che aveva trovato l’aveva lasciato semplicemente strabiliato.
I veghiani sembravano in delirio: urla di gioia, gente che si abbracciava, che gridava, che pareva letteralmente uscita di senno, come ubriaca.


Sono impazziti, pensò ancora una volta il sovrano di Upuaut.
Tutt’attorno a lui, ai suoi uomini e agli strabiliati ufficiali di Galar, la gente continuava a gridare, ad acclamarli come se fossero stati degli eroi liberatori. Ancora una volta fu Rigr a prendere in mano la situazione, cominciando a fendere la folla, subito seguito dai suoi uomini e dagli ufficiali di Galar.
Nemmeno lui sapeva dove dirigersi, quella folla festante gli impediva di orientarsi, e comunque non aveva idea di dove trovare Zuril; alla reggia, forse?
Davanti a lui all’improvviso la gente fece ala, lasciando passare un uomo altissimo… no, era una donna dai capelli rossi… seguita da alcuni soldati. Evidentemente, Zuril aveva mandato a prenderli.
– Sono lady Gandal, inviata da Sua Maestà Zuril – disse la donna con la sua profonda voce di contralto – Se volete seguirmi…
– Accogliete sempre così i visitatori? – chiese Rigr, seguendola attraverso la folla.
– Solo quando evitiamo la possibilità di essere totalmente annientati – rispose lei, alzando la voce per sovrastare il baccano.
Fece strada lungo la via principale, quella progettata per collegare la reggia al Palazzo; ovunque, folla urlante. Distribuiti tra la gente, dei soldati controllavano che le situazione non degenerasse; Rigr comprese che sarebbe stato impossibile reprimere le manifestazioni di gioia di quel popolo salvato e liberato dopo decenni di terrore, e apprezzò il fatto che Zuril avesse scelto di lasciar sfogare la gioia della sua gente – col debito controllo, però.
Lady Gandal scortò Rigr all’interno del Palazzo; le porte di plastivetro si chiusero alle loro spalle, lasciando fuori la folla in delirio. Il sovrano di Upuaut e i suoi uomini respirarono: tutto quel frastuono risultava davvero molesto, alle loro sensibili orecchie di lupo.
L’atrio era grande, luminoso e piuttosto spoglio: che fosse in costruzione, era più che evidente.
Un gruppo di veghiani, decisamente più calmi, rimase impacciato in un angolo, osservando con una certa diffidenza i visitatori; proprio allora, una porta scivolò di lato e Zuril fece la sua comparsa, seguito da Duke Fleed.
– Benvenuto su Moru – disse il sovrano di Vega, mentre una piccola folla cominciava a raccogliersi attorno a loro.
– Oh, il re dotato di fegato – nonostante l’ironia con cui stava parlando, il gesto con cui gli tese la mano artigliata fu spontanea, e Zuril la strinse senza esitazione – Non avrei mai pensato di fare amicizia con un veghiano.
– Sono proprio felice di vederti, Rigr.
– Qualcuno lo è un po’ meno, direi – sogghignò guardandosi attorno, mentre i veghiani, intimoriti, sembravano rimpicciolire sotto il suo sguardo da lupo. – Non credo d’avere molti estimatori, qui.
– Probabilmente a causa della tua ultima visita – rispose Zuril – Temo abbia lasciato un ricordo di te… come dire… spiacevole.
– Di’ pure orribile – sogghignò Rigr; poi rivolse ad Actarus un largo sorriso: – Mi spiace davvero, Fleed. Speravo d’arrivare in tempo per darti una mano, ma i tuoi amici di Vega avevano fatto un lavoro davvero buono, con quel loro mostro. È parecchio più veloce delle mie navi.
– Sono abili costruttori, sono il primo ad ammetterlo – Actarus gli tese una mano che l’altro strinse con calore.
Zuril si rivolse ad uno degli inviati di Galar, il Primo Ufficiale dell’Ammiraglia, una donna dall’aria competente che, pur mantenendosi disciplinatamente silenziosa, stava mandando chiari segnali di nervosismo: – Potete parlare, capitano.
– Vi ringrazio, Maestà – la donna parlava un po’ a scatti, era a disagio come può esserlo chi non sa se si trova tra nemici o meno – Sono Shaneth, Primo Ufficiale dell’Ammiraglia reale Har-vath. Sono venuta a chiedere notizie di Sua Maestà Holdh, dato che… – non trovò le parole adatte: sapeva che il suo re era prigioniero, o così almeno era logico supporre, ma non voleva offendere Zuril… e comunque, lei era un soldato, non un diplomatico. Annaspò penosamente.
– Sua Maestà Holdh è nostro ospite – le corse in aiuto Zuril – È in buona salute, a parte una slogatura alla caviglia che al momento gli impedisce di camminare. Vi prego di seguirmi – fece strada verso la porta scorrevole da cui lui ed Actarus erano giunti. Shaneth, pur con una certa inquietudine, entrò assieme ai suoi uomini nella sala delle riunioni.
Seduto ad un tavolo, Holdh appariva più ombroso ed ingrugnito che mai, ma indubbiamente era in ottime condizioni; accanto a lui, come una padrona di casa che cerca d’intrattenere un ospite difficile, sedeva Maria.
Shaneth provò un vero sollievo, nel vedere vivo ed illeso il suo sovrano; fino ad allora non aveva davvero creduto… ma lui era lì, stava bene ed appariva malmostoso come suo solito. Il saluto che rivolse loro, brusco e fatto col consueto tono sgarbato, fece capire alla donna che il re era nelle sue normali condizioni.
– Potete pure comunicare al vostro Ammiraglio che Sua Maestà Holdh è vivo, sta bene ed è mio ospite – disse Zuril.
– Può risalire a bordo con noi? – chiese subito Shaneth.
Holdh aprì la bocca per berciare una rispostaccia, ma incontrò lo sguardo grigio e gelido di Zuril; alzò la testa, e incrociò quello blu ma altrettanto gelido di Actarus. Voltò il viso di lato, e si scontrò con i beffardi occhi gialli da lupo di Rigr. Brontolò allora qualcosa d’inintelligibile, chinando la testa per guardare ostinatamente un certo punto sul tavolo.
– Ma certo, potrà farlo – disse Zuril – Ovviamente, dopo che avremo discusso su un argomento o due. Dati i recenti avvenimenti… voi mi capite.
Shaneth deglutì: come molti altri, aveva trovato troppo avventato il comportamento del sovrano. Naturalmente, lei dal basso del suo grado non poteva permettersi di criticare, ma… – Capisco, Maestà. – guardò Holdh, che emise un grugnito d’assenso: – Aspetteremo che abbiate preso i vostri accordi.


- continua -

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Terz'ultimo capitolo.

31

La riunione ebbe luogo in quella stessa stanza; oltre ai quattro sovrani e Maria, in qualità di semplici uditori avrebbero partecipato lady Gandal, Hydargos, Shaneth e i suoi uomini.
Da subito, fu evidente che le cose avrebbero preso una cattiva piega.
– Se credete che sia finita, vi sbagliate! – esclamò Holdh, che non aveva perso nulla della sua arroganza; fece una smorfia di disprezzo verso il trattato di pace che era stato posto sul piano del tavolo davanti a lui e lo scaraventò via con un gesto secco della mano: – Non firmerò mai!
Actarus e Zuril si scambiarono uno sguardo, esasperato il primo, profondamente disgustato il secondo. Poco più in là, almeno in apparenza dimenticato, Rigr si dondolava negligentemente su due zampe della sua poltroncina. Immobili e silenziosi, in un angolo sedevano anche Maria, lady Gandal e Hydargos. Shaneth scambiò un’occhiata piena d’angoscia con i suoi uomini: la follia del loro sovrano li avrebbe trascinati alla rovina, era evidente.
– Cos’hai intenzione di fare, Holdh? – scattò Actarus, ormai sul limite di perdere la pazienza – Hai attaccato Moru, nonostante tutti noialtri ti avessimo detto di non farlo…
– Cosa hai in mente tu, piuttosto! – ribatté Holdh, con ineguagliabile faccia tosta – Mi hai aggredito, hai distrutto il mio mezzo!
– Avrei anche potuto ucciderti – rimarcò Actarus – e non l’ho fatto.
– Chissà perché, poi – brontolò Hydargos – Già che c’era…
Una gomitata di lady Gandal lo zittì; dal suo posto, Rigr sembrò sorridere tra sé, mostrando le affilate zanne di lupo.
Non sarebbe stato poi un così gran danno se l’avesse eliminato, si disse Shaneth. Accanto a lei, i suoi uomini stavano pensando la stessa cosa.
– Puoi farlo ora – lo sfidò Holdh – Nessuno qui dentro ti direbbe niente. Perché non mi togli di mezzo e poi racconti in giro che è stata una tragica fatalità, che tu non volevi, o una qualunque delle solite scuse che hai sempre trovato per giustificare le tue azioni?
– Non è Duke Fleed a doversi giustificare, ma tu – intervenne Zuril, visto che Actarus sembrava davvero sul punto di uscire dai gangheri – Siamo in pace, e tu ci hai attaccati, contro il parere di tutti gli altri sovrani…
– Non si può essere in pace con voialtri! – sbottò Holdh, alzandosi in piedi – E comunque non perdo tempo a parlare con te, mostro schifoso. Sto rivolgendomi al nostro prode eroe Duke Fleed, che a suo tempo ha abbandonato il suo pianeta…
– Taci…! – esclamò Actarus.
– …perché era troppo codardo per difenderlo – completò Holdh – e che adesso, pur di non combattere, ha regalato sua sorella a… a… – annaspò cercando le parole adatte con cui offendere Zuril; Actarus d’istinto alzò un pugno, ma il re di Vega l’afferrò per un polso, trattenendolo.
– Adesso ci calmiamo. Tutti – Zuril scoccò un’occhiata di ammonimento ad Actarus, che cedette subito, prima di voltarsi verso Holdh: – E tu, siediti.
Per tutta risposta, nonostante il dolore alla caviglia Holdh si molleggiò sui calcagni.
Zuril non disse niente. Si drizzò in tutta la sua statura, piantandosi di fronte ad Holdh; dovette chinare la testa per guardarlo dritto negli occhi.
Quando finalmente parlò, lo fece con una voce sommessa che suonò anche più minacciosa di uno dei ringhi di Rigr: – Hai invaso il mio mondo. Hai cercato di sterminare il mio popolo. Con la tua follia, stai per accendere una guerra interplanetaria. Avrei potuto ucciderti subito, e nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Adesso sei in casa mia, la tua lurida vita dipende unicamente da quel che deciderò di fare di te, per cui siediti!
Holdh, che aveva aperto la bocca per ribattere, ammutolì e, pur brontolando, sedette.
Questa è da segnarsela, pensò Shaneth. Il vecchio fetente che obbedisce senza fiatare…!
– Seconda cosa – continuò Zuril, con un pericolosissimo tono calmo – trovo offensive e del tutto gratuite le tue accuse a Duke Fleed. Si è battuto contro di noi sia su Fleed che sulla Terra, ed è stato un avversario di tutto rispetto – vide Holdh agitarsi come se avesse voluto dire qualcosa, e aggiunse: – Dovresti riconoscere anche tu il suo valore, visto che ti ha appena sconfitto.
Holdh guardò da un’altra parte, mentre emetteva un brontolio che forse era un assenso.
– Bada bene, ti ha sconfitto senza ucciderti – puntualizzò Zuril – Sarebbe stato molto più semplice, per lui, distruggerti assieme al tuo mostro. Non l’ha fatto. Considera perciò che gli devi la vita.
Holdh alzò le spalle; tuttavia, brontolò un qualcosa in direzione di Actarus che magari era un insulto, ma che il giovane volle generosamente prendere per un ringraziamento.
– Ora – Zuril gli pose di nuovo davanti il trattato di pace – ti consiglio di ripensare a quello che stai facendo. Galar si troverebbe solo contro le forze di Fleed, Vega, Upuaut, Zuul, Ruby e Dera. Sei così sicuro di vincere la guerra?
No, nemmeno Holdh poteva essere così folle da sperare di sconfiggere simili nemici. Sapeva che non ci sarebbe stata alcuna speranza, che il suo popolo ne sarebbe uscito distrutto; ma allo stesso tempo, il sire di Galar non intendeva sottomettersi e accettare il trattato di pace, era troppo orgoglioso per farlo. Cedere davanti a… a un dannato veghiano, poi…! E, come non bastasse, farlo di fronte ai propri uomini…!
Mai.
– Holdh – disse Actarus, che era tornato perfettamente calmo – Ti prego di riflettere su quello che fai.
Per tutta risposta, il sovrano di Galar si mise a braccia conserte, voltando la testa da una parte. Volevano sterminarli? Che lo facessero pure… tantopiù che, pensandoci meglio, dubitava che Actarus o Catressia avrebbero davvero dato un simile ordine. Zuril avrebbe avuto il fegato di farlo, ma non aveva mezzi, e così Lauer; restavano D’reeth e Rigr, ma non era ancora chiaro cos’avrebbero deciso, e comunque contro di loro avrebbe potuto avere buone probabilità di vittoria. Doveva solo tener duro e non firmare quell’assurdo trattato.
Shaneth trattenne il respiro, mentre accanto a lei i suoi uomini si agitavano nervosamente sulle sedie. Quel pazzo, quel maledetto pazzo…
Un silenzio pesante cadde nella stanza: Maria sentì la paura gelarle le ossa, mentre al suo fianco Hydargos brontolava qualcosa a proposito di torture “per fargli entrare in testa un po’ di buon senso”. Accanto a lui, lady Gandal annuì, convinta. Più in là, Actarus e Zuril si scambiarono sguardi pieni di collera impotente, mentre Holdh ghignava, sicuro ormai d’aver vinto.
Fu allora che Rigr si mise in piedi e si fece avanti: – Lasciate che gli parli io.
Actarus lo guardò con un certo timore: – Rigr, non credo sia il caso…
– Tranquillo, userò le buone maniere.
– Credi di potermi spaventare, tu? – sghignazzò Holdh.
– Penso proprio di sì – rispose pigramente Rigr; poi di scatto l’afferrò per il bavero, piantandogli negli occhi il suo sguardo da lupo, le zanne aguzze scoperte: – Cacciati in quella testa dura che è finita. Capisci quel che ti dico? Basta con le ostilità. Nessuno vuole la guerra, né Duke Fleed, né Zuril, né Catressia, né D’reeth né Lauer. E nemmeno io. Credi di poterci affrontare tutti assieme?
– Voi… non lo farete – articolò Holdh, semisoffocato.
– Stammi a sentire, idiota – Rigr abbassò la voce in un ringhio minaccioso – Se farai tanto da far scoppiare una guerra, hai la mia parola che io verrò a cercarti. Di persona. Sai che cosa significa, quando un guerriero di Upuaut si mette in caccia? Che la preda è morta.
Holdh non rispose. Non riusciva a staccare gli occhi da quelli gialli e spietati di Rigr, e il suo viso non aveva più l’espressione strafottente di poco prima, anzi, stava impallidendo mentre un sudore gelido cominciava ad imperlargli la fronte.
– Questo vuol dire che prima o poi, io riuscirò a prenderti – continuò Rigr, soddisfatto nel vedere la paura farsi strada nell’animo del suo nemico – E quando succederà, perché sicuramente succederà, non credere che sarò così pietoso da finirti in fretta: penso anzi che mi divertirò molto, con un bastardo come te. Ci siamo capiti? – Mosse appena un dito, e con un artiglio gli punzecchiò la iugulare.
– S-sì – Holdh deglutì, prese fiato – Ma…
– Ovviamente, verrò a cercarti anche se succedesse qualcosa di brutto qui su Moru – continuò Rigr, la voce divenuta una sorta di sussurro oscuro – Se capitasse un incidente a Sua Maestà Zuril, o peggio, alla regina Maria, sarei davvero furibondo. – l’artiglio affondò lievemente nella pelle, facendo uscire una goccia di sangue – Hai capito?
– Sì…
– Molto bene – Rigr mollò la presa, e Holdh barcollò per restare in piedi. Non vi era più la minima traccia della sua baldanza – Adesso immagino che sarai felice di firmare il trattato che ti avevamo proposto. Sono certo che troverai le condizioni di pace molto eque.
Holdh tossì, si rimise a posto i vestiti: era terreo in viso, gli tremavano le mani e dovette sedersi visto che gli si piegavano le ginocchia. Scorse rapidamente il trattato di pace e lo firmò senza fiatare.
Shaneth, che era stata sul punto d’intervenire e che non l’aveva fatto solo perché trattenuta dai suoi ufficiali, ricadde contro lo schienale della sua sedia mentre sentiva la tremenda tensione che l’aveva invasa lasciare il posto all’incredulità e al sollievo. Scambiò dei sorrisi con i suoi uomini: niente guerra…
– Che vi dicevo? – disse Rigr, mentre Actarus e Zuril lo guardavano con un misto di stupore e ammirazione – Ci volevano solo le buone maniere.


Come ebbe in mano il trattato di pace firmato da Holdh, Zuril fece stabilire una comunicazione con Galar per annunciare la notizia; di comune accordo con Actarus e Rigr, decise di glissare sull’attacco subito da Moru.
Con Maria al suo fianco e Actarus, Rigr e Holdh visibili sullo sfondo, Zuril si rivolse al pianeta Galar con un discorso molto semplice e diretto, in cui dichiarava che ogni incomprensione era finalmente appianata e che il trattato di pace era stato liberamente firmato. Omise qualsiasi allusione al mostro, alla battaglia, all’intervento di Goldrake; fece quindi cenno a Holdh di parlare a sua volta e il sovrano di Galar, una smorfia che con molta fatica si sarebbe potuta prendere per un sorriso, confermò in poche parole quanto detto da Zuril. Per quel che lo riguardava, era ormai pace.
– Un buon discorso – commentò lady Gandal, non appena fu chiusa la comunicazione.
– Inviate la registrazione anche a Fleed, Upuaut, Zuul, Dera e Ruby – ordinò Zuril; si girò verso la moglie, cui fino ad allora aveva continuato a stringere una mano: – Mi spiace, temo che avrai un po’ di lavoro, nei prossimi giorni.
– Non sai quanto sono felice di questo – sorrise lei.
Zuril si rivolse a Holdh, ingrugnito in un angolo: – Mantengo la mia parola: adesso che il trattato è firmato, sei libero di ripartire con i tuoi uomini. Non sarò certo io a fare cenno a quanto è accaduto veramente. Naturalmente, la versione ufficiale è che il tuo mostro mi è stato restituito come pegno di pace.
– Naturalmente – ringhiò Holdh, furioso.
Actarus intervenne a sua volta: – Ti abbiamo lasciato scegliere tra il trattato di pace o il trovarti in guerra contro Dera, Upuaut, Zuul, Moru e Fleed. Mi dispiace aver agito così, ma non ci hai lasciato alternative. Lo capisci?
Con fatica, Holdh assentì. Comprendeva, certo. Sapeva che il suo popolo non avrebbe retto un’altra guerra… quando aveva deciso di annientare Vega, non aveva calcolato che gli altri sovrani si sarebbero opposti. Aveva pensato ad uno sterminio rapido e senza conseguenze, e invece… – Capisco.
– Non credo che ti convenga cambiare questa versione, in futuro – aggiunse Rigr, studiandosi le mani artigliate – Esattamente come non ti conviene rimangiarti la parola data. Tutti vogliamo la pace, io per primo.
Holdh sembrava incapace di staccare gli occhi da quegli artigli: – Certo, certo.


Zuril mantenne quanto aveva promesso e permise a Shaneth di riportarsi via praticamente subito il suo sovrano. Ormai esisteva un trattato di pace tra Moru e Galar, infrangerlo avrebbe significato una guerra interplanetaria totale. Oltretutto, nemmeno il popolo di Galar voleva essere coinvolto in un nuovo conflitto, questo il sire di Vega l’aveva compreso dalle reazioni dei funzionari con cui aveva parlato. Se Holdh avesse insistito con la sua follia, sarebbe rimasto isolato e probabilmente la sua corte avrebbe considerato l’ipotesi di un cambio al vertice.
La partenza di Holdh fu salutata con giubilo dalla folla, che poi si accalcò nuovamente attorno al Palazzo, manifestando tutta la sua gioia.
– Fermatevi per i festeggiamenti – propose Zuril ad Actarus e Rigr.
Il giovane sorrise: – Con Goldrake in quelle condizioni, non posso certo ripartire subito.
Rigr osservò la gente, che nonostante il tripudio si teneva ben distante da lui: – Non credo che mi considererebbero l’anima della festa.
– Ormai siamo alleati – intervenne Maria – Non è il caso che la nostra gente e la tua inizi a conoscersi?
Rigr si voltò a guardarla, una luce di vero interesse negli occhi: – Una conoscenza ravvicinata? È una proposta cui davvero non potrei dire di no.
Improvvisamente Maria percepì su di sé quello sguardo intenso che la stava percorrendo da capo a piedi con evidente ammirazione, e ammutolì, stringendosi d’istinto contro Zuril; subito, Rigr riprese il suo consueto modo di fare noncurante.
– Sua Maestà la regina Maria ha ragione – disse, rivolto ai suoi uomini – Ormai siamo alleati. È giusto che impariamo a conoscerci e a superare certi pregiudizi. Ci fermeremo, a patto che più avanti siate nostri ospiti su Upuaut.
– Con vero piacere – rispose Zuril; e se si era accorto di qualcosa, lo tenne per sé.
– Ne approfitterò anche per dare un’occhiata alla vostra città – aggiunse Rigr – Non è che l’altra volta io abbia potuto visitarla molto bene.


- continua -

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Penultimo capitolo. Corto ma intenso.

32

– Zuril dice che Goldrake è praticamente pronto, ormai – Maria guardava il mare oltre la balaustra della veranda – So che domani vuole ultimare gli ultimi test di controllo. Questo vuol dire che presto andrai via?
– Devo farlo – rispose Actarus – E troppo tempo che manco da Fleed.
– Già, certo – dovere, sempre dovere…
Maria guardò il cielo: stava scurendosi, e le prime stelle cominciavano ad essere visibili. La forma irregolare di Rander stava levandosi all’orizzonte, mentre il luminosissimo Jeyel brillava alto nel cielo.
– Però – disse lui – prima di partire, c’è una cosa che intendo fare.


Il giardino interno era silenzioso, a quell’ora mattutina. L’albero svettava slanciato, e le sue foglie frusciavano alla brezza leggera che proveniva dal mare. Ai suoi piedi, un’intera aiola di campane rosso scarlatto.
Actarus mosse qualche passo in avanti, e il rumore secco dei suoi tacchi echeggiò sulle pietre; poco più indietro, Maria scivolò verso l’ingresso dell’alloggio: Arbogast e Neela erano là, in piedi, come incorniciati dalla portafinestra, intenti a guardare quanto stava accadendo. Accanto a loro, il nuovo robot oscillava dolcemente a mezz’aria. Clem fece altrettanto. Nessuno dei due percepiva pericoli.
Erano finalmente di fronte, dopo tanto, troppo tempo.
La figura davanti a lui appariva rattrappita, come congelata: Yabarn, l’antico Re Vega, sedeva come suo solito sulla sua panchina, gli occhi fissi sulle corolle scarlatte. Per contrasto, Actarus appariva singolarmente forte e vigoroso, davanti a quel relitto che era stato l’Imperatore della Nebulosa, il tiranno tanto odiato, il mostro.
In silenzio, Actarus contemplò i capelli grigi, il viso sfatto, gli occhi inespressivi, persi in un mondo irraggiungibile; c’erano tante, tantissime cose che aveva sempre sognato di poter dire a quell’uomo che finalmente ora aveva davanti… tante parole, tanti nomi che avrebbe voluto gettargli in faccia – Fleed, Moru, Rubina… ma ormai era tardi, era tutto inutile. Il tempo di parlare, Actarus lo vedeva da sé, era irrimediabilmente perduto.
Guardò ancora quell’uomo che aveva causato tante morti, tante distruzioni, tanto dolore… quell’uomo che aveva devastato il suo mondo, demolito la sua casa, assassinato i suoi genitori, sterminato i suoi amici… cercò di rivedere in quei lineamenti stanchi il mostro che aveva così ben conosciuto.
Fu allora, in uno di quegli imprevedibili momenti di quasi lucidità sempre più rari, che l’anziano sire alzò la testa e guardò il giovane che lo stava fissando così intensamente: – Ci conosciamo…?
Actarus trasalì, strinse i pugni; incrociò quegli occhi ansiosi che l’osservavano con aria interrogativa, e sentì sbollire l’ira, svanire l’odio.
– No – disse lentamente – non ci conosciamo.
– Ah – rassicurato, Yabarn tornò a contemplare le Rubine, remoto, perso nei suoi incomprensibili pensieri.
Actarus respirò a fondo, guardò attorno a sé, vide le pareti del cortile, il cielo, osservò senza vederli Maria e i due custodi di… del vecchio… poi voltò le spalle e s’allontanò a passo deciso.
Adesso il passato era davvero morto e sepolto.


A riprova dell’operosità dei veghiani, ci volle solo qualche giorno perché Actarus rientrasse in possesso di Goldrake. Nonostante il timore del giovane, Zuril aveva mantenuto la sua parola: tutti i test rivelarono la perfetta efficienza del robot. Anche il rivestimento di gren appariva in eccellenti condizioni: dopo aver visto lo squarcio aperto da Holdh sul petto del robot, sembrava impossibile poter vedere quel rivestimento compatto e scintillante…
– Che t’avevo detto? – disse Zuril, mentre Actarus esaminava con tanto d’occhi Goldrake – Se ce l’ha fatta Procton… e considera che è molto più facile attaccare un braccio che riparare quel disastro.
Maria tacque, impressionata. Aveva sempre creduto che i veghiani non sapessero trattare il gren, per quello non l’avevano mai usato per i loro mostri… ma allora…?
– Noi siamo perfettamente capaci di lavorarlo – spiegò Zuril, che sembrava averle letto nel pensiero – A dire il vero, è un materiale relativamente facile da trattare. La vera difficoltà è ottenere la lega: basta sbagliare di pochissimo le proporzioni, o usare materie prime scadenti, e il risultato è pessimo.
– La lega di gren è sempre stata un nostro segreto – ammise Actarus.
Zuril si rabbuiò: a suo tempo, Yabarn aveva dato ordine di catturare gli scienziati di Fleed esperti nella composizione del gren, ma tutti o si erano uccisi per non cadere vivi nelle loro mani, o erano morti tra i tormenti, senza rivelare nulla. All’epoca, era stato il comandante Barendos a darsi da fare per ottenere il segreto sulla composizione del gren, ma…
– Non sei stato tu, lo so – disse Maria, guardandolo in viso.
Zuril si riscosse: ancora una volta, la capacità quasi telepatica di sua moglie lo lasciò stupefatto.
Prima o poi si sarebbe abituato anche a questo.


La riparazione di Goldrake segnò anche la partenza di Duke Fleed: era via dal suo pianeta da troppo tempo, ormai. Il giovane salutò Zuril e Rigr, che era stato invitato a fermarsi qualche giorno, abbracciò calorosamente la sorella e risalì sul suo mezzo.
Mentre sfrecciava nello spazio, si disse che quella era la prima volta in cui si separava da Maria senza provare angoscia: ormai la sapeva felice con suo marito, accettata ed amata dal suo popolo. Non era più il caso che lui si preoccupasse per lei, non era più una bambinetta bisognosa dell’aiuto del suo fratellone: era una donna con un suo ruolo, i suoi doveri e la sua vita – una vita felice, oltretutto.
Smettila di fare la chioccia, si disse Actarus, scacciando gli ultimi pensieri molesti.
Adesso, sarebbe tornato su Fleed, avrebbe controllato quel che era successo durante la sua assenza, si sarebbe accertato che ogni cosa fosse a posto, e poi… poi…
Poi, toccherà finalmente a me, si disse Actarus.
Un viaggio interstellare, e poi la Terra… Procton, Alcor, Rigel, Mizar… tutti i suoi amici terrestri che non aveva mai dimenticato… e soprattutto lei, Venusia.
E finalmente, anche Fleed avrebbe avuto la sua regina.

- Continua - la fine nel prossimo capitolo

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Tutto finisce, prima o poi...

33

– È stato un vero piacere, Zuril – Rigr gli batté sulla spalla, in quello che sul suo mondo era un saluto molto cordiale – Teniamoci in contatto.
Zuril non si era assolutamente aspettato tanta espansività da un guerriero di Upuaut; fece appena in tempo a restituire il saluto battendo sulla spalla di Rigr che questi, voltatosi di scatto, con un balzo fu a metà della passerella della sua navetta. Solo allora tornò a girarsi, rivolse un cenno ai due sovrani di Vega, guardò un po’ troppo insistentemente Maria e poi sparì all’interno dell’astronave. Gli addii strazianti non erano certo nel suo stile.
Maria si accostò al marito che le mise un braccio attorno alle spalle, e rimasero a guardare la navetta di Rigr mentre s’innalzava nel cielo, sparendo poco a poco.
– Hai fatto colpo – disse Zuril.
– Ha un suo fascino, ma in genere preferisco gli uomini meno pelosi – rispose lei, fingendosi molto seria.
Il cielo stava incupendosi, mentre Yrea s’abbassava oltre le cime degli alberi.
Maria si affiancò a Zuril, mettendogli un braccio attorno alla vita in un gesto che ormai stava divenendole abituale, e gli si rannicchiò contro, mentre rientravano in casa.
– Posso sbagliarmi, ma stai per chiedermi qualcosa – disse lui, che ormai la conosceva bene.
Anche Maria ormai lo conosceva bene, per cui non perse tempo in preamboli e chiese quel che ormai da tempo desiderava domandargli: – Vorrei vederti senza casco.
Lui trasalì: – Non è un bello spettacolo.
– Quando eri sposato con Shaya, lo toglievi?
– Sì, ma…
– Quanto pensi di aspettare, prima di farmi vedere come sei veramente? Credi davvero che potresti non piacermi più? – ribatté lei, prontissima.
Entrarono nella loro camera, e Zuril chiuse la porta, quasi avesse voluto lasciare fuori qualunque estraneo. – Sei davvero sicura?
– Sì.
Tempo prima, togliere il casco gli aveva sempre causato forti vertigini; non succedeva più da tantissimo, ormai, tuttavia Zuril sedette sul letto, non compiva mai quell’operazione stando in piedi. Maria gli si mise accanto.
In silenzio, lo sguardo basso, lui toccò il casco poco sotto gli zigomi; con uno scatto, la protezione per la mandibola si aprì. Zuril strinse tra le mani il casco e lentamente se lo sfilò dalla testa, rimanendo poi completamente esposto allo sguardo della moglie.
Maria non riusciva nemmeno a fiatare, fissando suo marito come se non l’avesse mai visto prima: era rimasta la benda scura sull’occhio mancante, che ora risultò essere una sorta di coperchio di chiusura per il computer oculare, ma la protezione per il naso e soprattutto le ali da pipistrello erano completamente scomparse, lasciando davanti a lei la fisionomia di un uomo che non conosceva.
La parte sinistra della fronte appariva segnata da una vasta cicatrice biancastra, che spariva tra i capelli – sì, Zuril aveva i capelli, ancora fitti, tagliati molto corti e un po’ arruffati: in gioventù dovevano essere stati di un tono scuro di verde, anche se ora in gran parte apparivano argentei. Il naso, segnato alla base da una cicatrice sottile, presentava una elegante linea dritta. Zigomi e mento mostravano dei tratti per nulla spiacevoli. Liberate dalla presenza delle ali, le orecchie appuntite apparivano più evidenti, ma Maria non le trovò sgradevoli.
A lungo, lei rimase in silenzio a fissare il marito, i cui lineamenti le apparivano nuovi, una sorpresa; lui la guardò furtivamente e tornò ad abbassare lo sguardo. Si sentiva nudo, esposto, vulnerabile.
E orrendo.
– Ti avevo detto che non sono bello – disse a mezza voce, innervosito da quel silenzio.
Si era aspettato orrore, repulsione o peggio, un compatimento finto, qualche frase goffa e molto falsa circa la non importanza del suo aspetto; Maria lo sorprese ancora una volta.
– Devi aver sofferto molto – mormorò, e non c’era alcuna simulazione nel suo dispiacere; ma era un dispiacere per lui, non per sé stessa.
Sorpreso, Zuril si voltò a guardarla; lei alzò timidamente una mano, la tese verso di lui e gli sfiorò i capelli. Erano più morbidi di quanto si fosse aspettata, piacevoli da toccare. Ripeté la sua carezza e lui non vi si sottrasse. Maria sfiorò con la punta delle dita la cicatrice tra i capelli, ne seguì il percorso lungo il viso.
– Non sono bello – ripeté lui, come se avesse voluto mettere ben in chiaro quel punto.
– Forse no – rispose Maria – ma a me piaci.
– Meriteresti qualcosa di meglio – insisté Zuril – Qualcuno con la faccia a posto, con due occhi, e magari con un bel po’ di anni in meno.
– Meriterei qualcuno che non dicesse certe sciocchezze! – esclamò di scatto lei.
– Non sono sciocchezze. Sono vecchio.
– Se non la pianti, t’assicuro che stanotte torni a dormire in camera tua, e domani ti cerco una badante.
Zuril parve sconcertato: – Una che?
– Un termine terrestre – spiegò lei – Una donna che si occupa degli anziani. Li imbocca, li cambia, li lava... Se ti senti così decrepito, vuol dire che magari ne hai bisogno.
Lui scosse il capo, azzardò un sorriso: – Forse non sono un caso così disperato.
Maria gli sorrise a sua volta: – Ne ero sicura.
S’era aspettata che lui la baciasse, a quel punto, ma Zuril la strinse tra le braccia nascondendole il viso contro una spalla: non aveva mai pensato che lei... che loro... non riusciva nemmeno a crederci, era talmente felice da provare persino dolore. Incredulo, pieno di gratitudine, tenne la moglie stretta a sé come se avesse avuto paura di venire abbandonato: e così era stato, infatti. Aveva davvero temuto di perderla, quella sua moglie così giovane e bella, aveva avuto paura che il suo vero aspetto l’avrebbe riempita d’orrore; invece, ancora una volta l’aveva sottovalutata.
Maria percepì il suo turbamento: – Cosa c’è?
– Niente – lui sentiva l’occhio bruciargli – Sono un vecchio scemo.
– Scemo, senz’altro – Maria lo baciò e lui rispose subito con una passione tutt’altro che senile – Quanto al resto, adesso ti dimostro io che non sei poi così vecchio…


La luce filtrava attraverso i tendoni mal chiusi; del resto, la sera prima avevano avuto ben altro da pensare che serrare le cortine. Zuril fece scorrere lo sguardo sui giochi di luce ed ombra sul soffitto, prima di guardare Maria che dormiva serenamente, rannicchiata contro il suo fianco. La luce le accendeva scintille dorate tra i capelli, presto le avrebbe sfiorato il viso; lui avrebbe voluto alzarsi per andare ad accostare le tende, ma non poteva farlo senza svegliarla.
Rimase immobile, guardando e riguardando quei lineamenti che gli erano così cari; come se avesse percepito il suo sguardo, Maria si mosse, aprì gli occhi.
– È già ora di alzarsi? – mormorò, allungandosi pigramente.
– Quasi – Zuril ricordò improvvisamente di non avere addosso il suo casco, forse adesso avrebbe visto un lampo d’orrore negli occhi di Maria… ma lei invece lo guardò con gli occhi che sorridevano.
– Sono contenta che tu ti sia tolto quell’affare – commentò, arruffandogli i capelli – Durante il giorno porta il tuo casco quanto vuoi, ma per piacere, di notte non tenerlo più. Mi piace vederti come sei veramente.
Questa non se la sarebbe mai aspettata… Zuril si chinò a baciarla, e lei gli carezzò la nuca, la testa finalmente libera. Non c’era orrore, non c’era nemmeno compatimento, per fortuna; quello, Zuril non avrebbe potuto sopportarlo.
– Come sei, con il tuo lavoro? – chiese improvvisamente Maria – Ne hai sempre così tanto?
– Parecchio, sì – lui fece per alzarsi dal letto, ma lei lo trattenne.
– Allora non mi avevi detto una bugia per evitare il viaggio di nozze?
– Non ti ho mai detto bugie – rispose Zuril, serio – Il lavoro c’era, e c’è tutt’ora. Avevo immaginato che il viaggio di nozze t’avrebbe imbarazzata, e ti avevo detto che avevo troppi impegni per partire, il che corrisponde a verità.
– Oh – Maria chinò la testa, delusa, e prese a giocherellare con un angolo del lenzuolo – Non era una scusa…
– No. Però potrei vedere di liberarmi per un poco di tempo.
Lei alzò di scatto il viso, gli occhi che brillavano come stelle: – Davvero?
– Posso farcela, Yube può sostituirmi. Basta che organizzi il lavoro per gli altri. Dove vorresti andare? Su Fleed?
Maria scosse il capo: – Da mio fratello? No. Non te ne intendi di viaggi di nozze, vero?
– Non è una nostra usanza, ne so poco.
– Gli sposi in genere vanno via da soli. Niente parenti, niente amici. Solo loro due – spiegò Maria – Una volta hai detto che avresti voluto mostrarmi il tuo pianeta, Zuul.
– Davvero, ti piacerebbe? – lui era piacevolmente sorpreso – È un mondo molto tranquillo e silenzioso, foreste, laghi… non preferiresti un posto più movimentato?
– Mi sembra che sia perfetto – poi aggiunse, con uno scintillio malizioso negli occhi: – Qualcosa mi dice che al movimento potremo pensarci noi.
– Sembra una prospettiva interessante – disse lui, serio, fin troppo – Visto che tu sembri tenerci molto…
– Andiamo su Zuul? Noi due soli? – esultò Maria, gettandogli le braccia al collo.
– Ma certo – rispose lui, un lampo d’umorismo nello sguardo – Però, la nave la piloto io.


FINE



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Fratello di Trinità e Bambino

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E' da troppo tempo che lascio in pace il mio sire prediletto... :wahaha.gif:

ROMANTICI LEGAMI


– Idiozie!!! – sbottò Sua Maestà Yabarn il Grande, Imperatore della Nebulosa, Tiranno Unico ed Inossidabile, Sovrano di Vega per volere suo e per disgrazia degli uomini.
In piedi davanti a lui, dignitosissimo ed impassibile, il ministro Ikima lo considerò con palese disapprovazione. La sua signora, la regina Himika, l’aveva inviato a svolgere un compito che gli garbava poco, per non dire che gli ripugnava proprio; tuttavia lui, fedelissimo come sempre, avrebbe compiuto il suo dovere a qualunque costo.
Ora si ritrovava nella sala del trono del signore di Vega, al cospetto di tanto sovrano; gli importava poco il fatto che il sire lo stesse considerando con la stessa simpatia che avrebbe dedicato a un verme particolarmente viscido e disgustoso, perché tali sentimenti erano ampiamente ricambiati.
Accanto a Re Vega, la principessa Rubina aveva l’aria di chi s’appresta a portare tanta, ma tanta pazienza; poco più in là, i tre principali tirapiedi del sovrano sembravano… Ikima gettò loro uno sguardo di sfuggita… no, non riusciva a catalogare correttamente la loro espressione… facce d’angeli e cuori neri…?
Si riscosse: doveva dedicare tutta la sua attenzione al nervosissimo sire, ora.
– Vostra Maestà – cominciò Ikima, carezzandosi la corta barbetta giallastra – trovo fuori luogo che sia io, un semplice ministro, a dover ricordare che quando un sovrano assume un impegno…
– Impegno del…!!!
– PAPÀ! – esclamò Rubina, tagliandogli in bocca la parola invero poco regale che stava per fiorire sulle sue auguste labbra.
Zuril si passò una mano sul viso per nascondere il ghigno che gli era venuto spontaneo.
Gandal ed Hydargos si scambiarono una gomitata.
– Hhhhrumph! – Re Vega sistemò meglio i regali quarti posteriori sul regio trono – Non ci risulta che sia stato preso alcun impegno con quell’impiastr… con la vostra regina, voglio dire. Per cui…
Ikima scosse il capo: – Temo che le cose stiano diversamente, Maestà.
– Non dite cazz…!
– Mio padre vorrebbe avere maggiori ragguagli circa l’impegno di cui state parlando – gli tagliò prontamente la parola Rubina.
– Mi riferisco al fidanzamento esistente tra voi e la nostra graziosa sovrana – rispose Ikima, che stava mantenendo una calma ammirevole.
Re Vega tacque, mentre il suo colorito da arancio vivo si faceva vermiglione carico.
Altra gomitata tra Gandal e Hydargos: vuoi vedere che alla vecchia carogna stavolta esplode la cistifellea?
Nonostante tutto, Yabarn era pur sempre Yabarn: dominò la bile che stava ribollendo e riuscì a parlare con un tono di voce ancora umano: – Non esiste alcun fidanzamento. Io non ho mai, e sottolineo mai, chiesto in moglie quella…
– La regina Himika – completò in fretta Rubina.
Ikima si diede una tiratina di barba, preparandosi alla lotta.
– Sono molto spiacente, ma le cose non stanno come dite – rispose, godendo malignamente nel vedere il sire sobbalzare sul regio trono – Non è forse vero che lo scorso Natale la nostra beneamata regina abbia ricevuto in dono un anello con un diamante tagliato a cuore da 32 virgola 6 carati?
Un silenzio attonito cadde nella sala. Trentadue carati e sei?
Gandal emise istintivamente un fischio, ma nessuno vi fece caso.
– Trentadue…? – esalò lady Gandal, sognante.
– …e a me a Natale regali solo quelle dannate armi da distruzione di massa...! – sibilò Rubina, velenosa.
– E quando gli chiediamo fondi per costruire mostri più forti, ci dice sempre che è a corto! – brontolò Zuril.
Il sovrano recuperò l’augusta mascella che gli era crollata sul petto e la riportò ai normali alloggiamenti: – Ma io veramente non ho mai…
– La regina non ha forse ricevuto quell’anello? – domandò Ikima – Rispondete solo sì o no.
– Beh… sì, ma io non…
– L’anello non era in una scatolina di velluto rosso a forma di cuore?
– Ma che romantico…! – ghignò Hydargos.
– A cuore…? – rispose lo stupefatto sire – Non so, non…
– Anche il diamante è a forma di cuore – puntualizzò Ikima, che ormai aveva la situazione saldamente in pugno – Come ben saprete, la forma a cuore ha un significato ben preciso. Ne convenite?
– Suppongo di sì, ma…
– E l’anello era accompagnato da questo biglietto – Ikima accese il suo oloproiettore tascabile: l’immagine di un foglietto apparve a mezz’aria. Ikima regolò l’ingrandimento perché tutti potessero leggere quanto vi era scritto: “Che ne dici? Uniamo le nostre forze? Y.”
Nonostante tutti i presenti si sforzassero di restare seri ed impassibili, un certo sarcasmo malefico era perfettamente percepibile nell’aria. Persino Rubina dovette dare un diplomatico colpo di tosse per mascherare la sghignazzata che le era venuta spontanea.
– Ma io non ho mai scritto quel biglietto! – esplose Re Vega – E non ho mai comperato quel dannato anello! E anche l’avessi fatto, mai l’avrei dato a quella… a Himika, ecco!
– Potete provare tutto ciò? – chiese Ikima, sempre irritantemente padrone di sé stesso.
– Beh, no – rispose il sire, disorientato – Però anche voi non potete provare che sia stato io a darle quel dannato anello, per cui è la mia parola contro la vostra, e…
– Non per la nostra legge – gli tarpò gli entusiasmi Ikima – Secondo il Codice Haniwa, se non potete provare di essere innocente, siete colpevole. In poche parole: se non potete dimostrare di non aver donato voi l’anello alla nostra regina, siete fidanzato.
– Ma questo è illegale! – esclamò il sire, che sentiva mancarsi la terra sotto ai regali piedi – Per la legge di Vega…
– Il Codice Haniwa non riconosce altre leggi – l’informò premurosamente Ikima.
– Sappiamo perciò cosa possiamo farcene della nostra legge – aggiunse a mezza voce Zuril, che da un pezzo non si era divertito tanto.
Accanto a lui, Gandal e Hydargos stavano facendo sforzi titanici per restare seri, il viso atteggiato ad una composta gravità.
Re Vega gonfiò il torace: non si sarebbe certo fatto intrappolare da quel ministrucolo color pistacchio e dalla barbetta caprina, che diamine!
– Al diavolo voi e le vostre stramaledette leggi! – sbottò – Ammettiamo pure che questo ridicolo fidanzamento esista: cosa m’impedisce di romperlo?
Ahia, sta’ a vedere che il vecchio fetente ha trovato la scappatoia…
Preoccupati, come un sol uomo i tre comandanti si girarono verso Ikima. Il ministro Haniwa aveva assunto l’aria del gatto che sta per papparsi il canarino, per cui i tre si rilassarono.
Lo spettacolo continuava.
– Certo che potete rompere il fidanzamento – rispose Ikima, con una voce che era tutto una sciroppo colante – Ne avete il pieno diritto.
– Vorrei ben dire…! – rispose il sire, soddisfatto.
– Naturalmente – continuò Ikima, con il suo tono più soave – rompere un fidanzamento presuppone delle conseguenze…
– Ma certo – Re Vega liquidò la questione con un gesto sprezzante – La zitellona strillerà e piangerà, ma poi dovrà farsene una ragione.
– Sto parlando di conseguenze finanziarie – quel “finanziarie” fu una sorta di melodioso gorgheggio a mezza voce.
Altro scambio di gomitate tra i comandanti. La faccenda si faceva ancora più divertente del previsto.
– Finanziarie…? – chiese Re Vega, col tono con cui avrebbe detto “oh-oh”.
– La mia signora, illusa e tradita, chiederebbe un risarcimento consono al suo stato di sovrana – Ikima trafficò ancora col suo oloproiettore portatile – Avevamo previsto la vostra reazione, ed abbiamo già quantificato la somma che dovrete versarle per indennizzarla per il suo tenero cuore spezzato e le sue trepide speranze deluse. Ecco.
Una cifra apparve a mezz’aria… una cifra con dozzine di zeri… una cifra con cui si sarebbe comodamente comprato non solo un qualche quintale di diamanti da trentadue carati, ma anche l’intera miniera.
Altra gomitata tra i comandanti: niente scappatoie per il vecchio fetente, stavolta.
Rubina si coprì il viso con le mani, in un atteggiamento di solidale disperazione; in realtà, le spalle le stavano sussultando in maniera molto sospetta.
– Ma è assurdo…! – esalò il sire, annientato – Voi non potete pensare…
– Noi PRETENDEREMO quella cifra – rispose Ikima, irremovibile – Lo esigono l’onore e la rispettabilità della nostra graziosa e beneamata sovrana.
Re Vega deglutì: – Ma… è una cifra… come dire… importante…
– Lo è anche il dolore che infliggerete alla nostra regina, se romperete il fidanzamento – rispose Ikima.
– Voglio dire… se noi non pagassimo… non è che non vogliamo, badate bene, ma…
– Ma, non li abbiamo – disse Zuril, a voce non troppo bassa.
– Allora, sarebbe la guerra – disse Ikima, imperturbabile.
– Ma siete già in guerra con Jeeg – osservò Re Vega – Siete sicuri di potervi permettere un secondo conflitto? Voglio dire, con i costi che…
– Per noi Haniwa, l’onore viene prima di ogni cosa – Ikima alzò fieramente il mento, e la sua barbetta gialla fremette – Se voi offendete la nostra regina, offendete l’Impero Yamatai. Sarà nostra cura stipulare un trattato di pace con Jeeg, per poterci dedicare immediatamente alla guerra contro di voi.
Gandal emise un altro fischio: anni di lotta contro Goldrake avevano ridotto praticamente l’Impero di Vega con le pezze al didietro. Ci sarebbe mancato giusto il conflitto contro Himika…!
Lo stesso pensiero baluginava anche nelle regali meningi del sire: combattere Goldrake era già dura, ma vedersela anche con l’Impero Yamatai…
Senza contare il fatto che Jeeg, non avendo più da combattere, si sarebbe ritrovato con le mani d’acciaio in mano. E se il maledetto Hiroshi Shiba, che era un tipetto attivo, avesse deciso di allearsi con il dannatissimo Duke Fleed?
Goldrake… Himika… e Jeeg.
Rubina tossicchiò: – Papà… non sei stato forse un poco precipitoso…?
Il sovrano guardò sua figlia.
La figlia ri-guardò il padre.
Il sire guardò i suoi fedeli comandanti.
I fedeli comandanti ri-guardarono il loro signore con un compatimento che puzzava parecchio di falso.
– …Hhhhhiii… – esalò Sua Maestà.
Solo allora Ikima permise all’angolo della sua bocca di rialzarsi in un sorriso alquanto fetente.
– Cosa devo dire alla mia signora? – chiese, zuccheroso – Che è stato tutto un malinteso e che il fidanzamento resta valido?
Re Vega guardò ancora Rubina. Era un sovrano e i sovrani non mostrano mai la loro disperazione: questo fu l’unico motivo per cui non pianse.
– È stato tutto un malinteso, naturalmente – disse Rubina, mentre suo padre si accasciava contro il regio schienale del regio trono.
Poco più in là, le bocche dei tre comandanti si rialzarono in un sorriso sadicamente perfido.
– Molto bene, sono certo che la mia signora sarà felicissima di questa splendida notizia – come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa, Ikima aggiunse: – La settimana prossima è per l’appunto il compleanno della mia signora Himika. Sono certo che, come fidanzato affezionato e fedele, voi non mancherete al vostro dovere…
– Sarebbe a dire…? – gemette il sovrano.
– Le farete un regalo – spiegò Ikima.
Schiantato, il sire ricadde contro il regio schienale.
– E – aggiunse Ikima, spietato – le dedicherete una serata romantica.


Il locale era molto elegante ed esclusivo, con camerieri impeccabili, tavolini a lume di candela e un complessino che suonava discretamente musica soft. L’ideale per una tenera coppia d’innamorati; e infatti la maggioranza degli avventori erano appunto coppie, tutti molto distinti, i signori in scuro, le signore in abito da sera.
Ma una e una sola era la coppia che attirava gli sguardi di tutti, la più elegante, la più ammirata. I due non erano certo ragazzini di primo pelo, ma lei era alta, biondissima e molto affascinante nel suo abito color zaffiro, e lui, con la sua barba scura e l’aria cupa e tormentata, aveva un aspetto tenebroso che faceva palpitare il cuore delle signore.
Ben pochi avrebbero potuto riconoscere, sotto quel finto aspetto umano, il truce sire di Vega e la fiera regina Yamatai.
Il sovrano stava soffrendo come mai gli era capitato prima. Aveva dovuto invitare la fidanzata per una serata romantica, le aveva portato in dono un fascio di rose e un collier di brillanti – la solita Rubina, naturalmente! Lui avrebbe voluto mandarle una pianta velenosa e un pacco esplosivo, ma per colpa di quell’impicciona di sua figlia…
Himika gli sorrise attraverso le lunghe ciglia: – Sono così felice, Yabby!
Lui serrò le zanne per non digrignarle.
Poco più in là, ad un tavolo in disparte, ma da cui si poteva godere una vista perfetta, sedeva un gruppo un po’ eterogeneo di umani… anche lo psico-cammuffatore aveva i suoi limiti… in cui il sovrano riconobbe Gandal, Hydargos, Zuril e persino quella pettegola di Rubina. Tutti là, a controllare che lui facesse il suo dovere, e soprattutto a ghignare alle sue spalle. Fetenti.
Afferrò il calice e trangugiò qualche sorso di champagne, che per un pelo non gli andò di traverso nello scorgere, ad un tavolo all’altra estremità della sala, il ministro Ikima, riconoscibilissimo nonostante avesse la pelle rosea e non più color pistacchio. Accanto a lui, un altro paio di accoliti Yamatai assortiti… maledizione!
Fu allora che il complessino attaccò un motivo particolarmente romantico, per non dire mieloso, che fece subito drizzare i peli sulla nuca del sovrano. Disgustoso…
– Che musica romantica, Yabby! – sospirò Himika – Che dici? Balliamo?
Una risposta invero poco gentile venne spontanea al sovrano… poi, immediato, gli baluginò alla mente il pensiero della cifra a davvero troppi zeri di rimborso. Oltre alla guerra.
Ma porc…!!!!
– Va bene – grugnì, alzandosi e puntando dritto verso la pista da ballo. Himika, rapidissima, gli fu dietro e qualche secondo dopo erano persi nel più languido ballo da veri innamorati, il ballo della mattonella… cioè, ballare è un po’ una parola grossa. Himika si muoveva con sensuale eleganza, lui aveva le aggraziate movenze di un orso un po’ goffo, e soprattutto si teneva il più possibile lontano dalla sua dama, ma lo spettacolo dovette avere l’approvazione del severo ministro Ikima, che si permise un sorriso compiaciuto.
Al tavolo di Vega, il clima era ben diverso, ai limiti del goliardico: i tre comandanti stavano trascorrendo forse la migliore serata della loro vita. Praticamente, non ricordavano d’essersela mai spassata tanto. Persino Rubina stava divertendosi come non mai: rispetto filiale o meno, lei con papà aveva qualche conticino aperto. Quella romantica serata la ripagava di un bel po’ di torti subiti.
E fu allora che avvenne il dramma: occupatissimo a tenersi il più lontano possibile dalla sua fidanzata, l’infelice sovrano sconfinò nello spazio occupato da un’altra coppia, venendo subito fatto segno di due pestoni, uno da un calibro 44 e uno da un 37. Tacco a spillo, ovviamente.
Con un gemito strozzato, il sire cadde in avanti, aggrappandosi all’unica cosa che potesse impedirgli di scrosciare a terra, e cioè Himika stessa; e lei, incredula di tanta improvvisa passione, lo ripagò con il bacio più ardente del suo repertorio.
Lui tentò inutilmente di svincolarsi, lei rese il suo bacio ancora più infuocato, un po’ sul genere sturalavandini; era uno di quei bacioni fiume da film, di quelli che magari richiederebbero un minimo di privacy, e il sovrano era imbarazzatissimo… e a completare il tutto, giunse alle orecchie del sire il commento commosso di una signora, fatto con un tono che tutta la sala dovette udire:
– Sono proprio due colombini!
E con questo, ho toccato il fondo, pensò lo sventurato sovrano; ma si sbagliava.
Proprio allora, il complessino attaccò un infuocatissimo Tango della gelosia: a Himika non parve vero abbrancare il suo uomo e trascinarlo nel vortice della danza. L’infelice Yabarn avrebbe tanto voluto sottrarsi alla sua dama, ma sfuggire a Himika, e al suo abbraccio piovresco, si rivelò un’impresa più dura di quel che si fosse mai aspettato. Fu costretto a ballare, e lo fece cavandosela nel complesso passabilmente, considerando la sua scarsissima attitudine per qualsivoglia tipo di danza.
Dal tavolo Yamatai, giunse un cenno d’approvazione da parte di Ikima: la sua adorata signora appariva semplicemente radiosa, per cui lui si riteneva ampiamente soddisfatto.
Dal tavolo di Vega arrivarono sorrisi d’incoraggiamento – ma il sire sapeva benissimo che non appena avesse voltato loro le spalle, quei quattro fetenti avrebbero riso sciaguratamente delle sue disgrazie. Vigliacchi.
Il maledetto tango sembrava non aver mai fine… adesso si era aggiunta anche una donna, che con voce sensual-stracciacore cantava “Amooor vuool dir geeelosiaaa…”
Non può esserci niente di peggio, si disse lo sventurato sovrano.
Invece il peggio giunse dopo, e del tutto inaspettato.
Per nulla abituato a qualsivoglia sforzo fisico che non fosse pigiare i tasti delle bombe al vegatron, Re Vega cominciava a risentire per il prolungato esercizio; poi, improvviso, un crampo tremendo gli attanagliò il regale polpaccio, facendogli lanciare un ululato che tutta la sala dovette udire; un secondo crampo all’altro polpaccio fu causa di un secondo urlo che stroncò le parole in bocca alla cantante e arrestò immediatamente tutte le coppie. Tutti si voltarono verso l’infelice, che in preda a dolori lancinanti stava dimenandosi sguaiatamente in mezzo alla pista: un ballerino solista che stava evidentemente esibendosi in un assolo tersicoreo.
Fu così che tutti fecero cerchio, mentre l’infelice sire s’agitava pazzamente in preda a dolori sempre più terrificanti. I musicisti non persero tempo e attaccarono un brano veloce, una sorta di danza russa, mentre tutti battevano ritmicamente le mani e il tapino si agitava sempre più in una specie di incrocio tra il Ballo di San Vito e un attacco di tarantismo.
Il poverino ballò, ballò sempre più pazzamente, sempre più freneticamente… e poi alla fine, stroncato, crollò su una sedia mentre attorno a lui scrosciavano applausi frenetici.
E mentre il meschinello si guardava in giro in cerca di una voragine in cui sprofondare, Himika gli si materializzò accanto, gli diede un bacio e gli sussurrò, dolcissima: – Hai visto quanto sei bravo e come ti diverti, Yabby? E poi non volevi portarmi a ballare…!



Gli amici di Re Vega possono affamandarmi qui: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1515#lastpost
 
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Un racconto dolorosamente autobiografico... a chi non è successo?

INFERNO INFORMATICO


– Perché non puoi controllare tu i dati? – chiese Gandal, e si sentiva il dolore vibrare nella sua voce – Lo sai che io non sono capace… cioè, non me la cavo granchè…
– Appunto per quello – rispose Zuril, implacabile come solo certi professori di matematica sanno essere – Devi imparare a entrare nel database da solo e cavartela da solo.
Gandal mugugnò: era un soldato, lui. Detestava armeggiare con quegli infernali computer… lo facevano sentire cretino.
Santo cielo, non che lui fosse una cima; però quegli infernali aggeggi peggioravano il suo senso d’inadeguatezza.
Gettò un ultimo sguardo pietoso da agnello al macello al collega: niente da fare.
Tentò di contattare mentalmente lady Gandal: ci sguazzava nei computers, lei… in due minuti gli avrebbe potuto aprire il database, scovargli i dati che gli servivano e richiudere il tutto.
Una risata di scherno fu la risposta della signora, che poi si trincerò in un silenzio totale.
Doveva cavarsela da solo, era evidente.
Sospirò e sedette alla consolle, aprendo la schermata d’ingresso.

INSERIRE NOME UTENTE E PASSWORD.

Eeeh…?
Rilesse: non c’era errore, era proprio scritto così.
Cosa significasse, però, era qualcosa che gli rimaneva oscuro.
Chiese lumi al collega che lavorava un paio di postazioni più in là.
– È per l’identificazione dell’account – fu la risposta che ottenne.
– Questo dovrebbe spiegarmi tutto? – chiese, più disorientato che mai.
Zuril si dispose a portare molta, ma molta pazienza: – L’account è un’identità. Il sistema vuole es-sere sicuro che tu sia veramente tu. Ti sei mai registrato?
– No! – esclamò subito Gandal, come a mettere bene in chiaro che lui non aveva fatto nulla di ma-le.
– Allora devi registrarti. Guarda sullo schermo, c’è il link per farlo.
– Il che cosa?
– C’è una scritta tipo “non sei iscritto? Registrati”. Cliccaci sopra e segui le istruzioni – e Zuril si tuffò sulla sua tastiera, pregando in cuor suo d’essere lasciato in pace almeno per i prossimi trenta secondi.
Gandal riguardò meglio la schermata. In un angolo in alto, campeggiava una scritta che non aveva notato prima:

NON SEI REGISTRATO? CLICCA PER CREARE IL TUO ACCOUNT.

Account, già… identità, come aveva detto Zuril.
Va bene, proviamo.
Cliccò coraggiosamente sulla scritta; un attimo dopo, si trovò al cospetto di una serie di frasi che dovette leggere più volte prima di poter dar loro un senso.

DETERMINARE IL NOME UTENTE, CHE NON SARÀ PIÙ POSSIBILE MODIFICARE.
CONFERMARE, SPECIFICANDO IL CODICE DI LETTERE QUI SOTTO RIPORTATO.

Ah, doveva dire qual era il suo nome e confermare, ecco…
Digitò “Gandal” e cliccò su conferma.
Niente.
Ah già, avevano parlato di un codice di lettere… osservò meglio: erano cinque tra lettere e numeri, ma scritte deformate come se a tracciarle fosse stato Hydargos dopo uno dei suoi consolatori tu-per-tu con una bottiglia di bumba. Che stupidaggine… ma specificavano che ciò avveniva per essere sicuri che chi inviava il codice fosse un essere umano. E va bene…
Decrittò con fatica lettere e numeri, le scrisse e premette il tasto “conferma”.
Nuova schermata:

RIEMPIRE I CAMPI SOTTOSTANTI CON I VOSTRI DATI.
I CAMPI SONO TUTTI OBBLIGATORI.

Cominciò pazientemente a compilare la scheda elettronica: nome… data e luogo di nascita… gra-do… codice personale… codice del comunicatore personale… mail…
Mail…?
Ma lui non aveva una casella di posta elettronica! Perché diavolo avrebbe dovuto averla? Detesta-va tutto quel che era informatica…
Magari basta inserire un indirizzo falso…
Ringalluzzito all’idea di far scemo il sistema, Gandal inserì una mail fasulla: [email protected]
La risposta fu immediata:

INSERIRE UNA MAIL REALE E FUNZIONANTE.

Come dire, “non mi freghi, bello”.
– Zuril, il bastardo vuole la mia mail – esclamò, contrariato.
– E tu accontentalo – sospirò il collega, che stava ricontrollando per l’ennesima volta il progetto, piuttosto complesso bisogna dire, per un mostro iguanodonte armato al doppio vegatron bipolare.
– Non posso farlo! – rispose Gandal – Non ho una mail.
Zuril s’impose di rimanere molto, ma molto calmo: – Allora, forse è il momento di averne una, ti pare?
– Come si fa? – chiese subito Gandal, guardandolo con grandi occhi supplichevoli.
Zuril trattenne a fatica le parolacce che gli erano venute spontanee alle labbra.
Davanti a sé aveva due possibilità: o aprire lui la mail a Gandal, o dirgli come fare ad averne una, il che significava perdere almeno mezz’ora in spiegazioni varie, senza avere poi l’effettiva certezza che il collega avesse ben compreso ogni cosa.
Senza contare il fatto che oltre alla mail, Gandal aveva anche da entrare nel database, il che significava nuove domande e richieste di spiegazioni.
– La mail te l’apro io – ammonì, mettendosi al lavoro – ma al resto, devi pensarci tu.
– Ma certo! – esclamò Gandal, con un ampio sorriso trionfante; qualche minuto dopo, quando si ritrovò titolare della mail [email protected], si rabbuiò: – Ma non potevi darle un nome diverso?
– Se non ti piace, apritene un’altra – rispose Zuril, tornando al suo iguanodonte.
Gandal masticò qualche parola poco parlamentare, ma inserì la mail nel campo giusto.
Tutti i campi erano completi: li rilesse attentamente, e confermò.
Nuova schermata:

PER TUTELA DELLA PRIVACY, INFORMIAMO CHE TUTTI I DATI INSERITI NON VERRANNO RESI DISPONIBILI A NESSUNO, RIMANENDO AL SICURO NEGLI ARCHIVI DI STATO.
INFORMIAMO INOLTRE CHE IN CASO DI NECESSITÀ LO STATO POTRÀ IMPIEGARE OGNI SINGOLO DATO CONTRO DI VOI.

Adesso mi sento proprio tranquillo…
Comunque, aveva creato la sua identità, cioè l’account o come accidenti si chiamava (quanto odiava il linguaggio informatico, con i suoi BIT, i suoi PIN, i LOGIN, i LOGOUT, i LINKS, gli SWAP – e un VAFF non c’era?).
Ce l’aveva fatta!
Un secondo dopo, comprese d’aver cantato vittoria troppo presto.

DETERMINARE PASSWORD.
SCEGLIETENE UNA DI ALMENO 10 CARATTERI.

Ah già, la password… vero, se n’era dimenticato.
Troviamone una che non sia difficile da ricordare…
Compunto, digitò: 0123456789
Subito, apparve una scritta.

VUOI SAPERE SE LA PASSWORD È SICURA? CLICCA.

Cliccò, venendo così a scoprire che la sua genialissima password era banale, trita e ritrita. Prati-camente, la usavano cani, Dantus e porci.
Tentò ancora di pensare a una diversa password: non aveva mai avuto molta fantasia, lui… lo sforzo immaginativo era un po’ al di sopra delle sue forze… forse goldrakebastardotiuccido…?
Provò: password troppo semplice. Apparve una nuova scritta.

CONSIGLI PER UNA PASSWORD SICURA:
USARE LETTERE E NUMERI.
USARE QUALCHE SEGNO D’INTERPUNZIONE. (Qualche che cosa…???)
USARE MINUSCOLE/MAIUSCOLE.
USARE CARATTERI SPECIALI (& % £…).

Ma quanto caspita dev’essere lunga, ‘sta password del…? Un’enciclopedia completa?
Alla fine ebbe un’illuminazione: inserì a casaccio lettere, numeri, simboli vari, ottenendo qualcosa d’illeggibile: GrmphFXyy44!&$?
Accettata. Meno male…

INSERITE LA PASSWORD UNA SECONDA VOLTA PER CONTROLLO.

Riscrivere quell’assurdità…?
Ebbe un lampo di genio: bastava fare copia e incolla… dai, che ce l’aveva fatta! Finalmente avrebbe potuto accedere ai dati che gli servivano e liberarsi da quell’incubo…
Una nuova scritta gli tolse letteralmente il fiato.

È ORA NECESSARIO DETERMINARE LA PASSWORD DEFINITIVA (Ma come…??? Non è ANCORA finita…?) CHE VERRÀ DETERMINATA DAL SISTEMA.

In poche parole: tutto il tuo lavoro fin qui non è servito a nulla, tanto per usare un frasario da fascia protetta.

LA PRIMA METÀ DELLA PASSWORD DEFINITIVA VI VERRÀ INVIATA VIA MAIL, LA SECONDA SUL VOSTRO COMUNICATORE PERSONALE.
PREGO INSERIRE LA NUOVA PASSWORD.

Omettiamo pietosamente quello che esclamò il Comandante di Vega nel leggere queste righe: in genere, ci piace immaginare un alto ufficiale mentre sostiene impavido le dure prove che la vita gl’impone.
Omettiamo anche per amor di brevità tutti i penosi tentativi dell’infelice di aprire la mail, trovare il messaggio e decrittare la password: quello fu il meno.
Veniamo quindi a quando Gandal, che finalmente era entrato in possesso delle due mezze password, le inserì nel campo che aveva di fronte, e premette il pulsante di conferma.

TEMPO SCADUTO.
È NECESSARIO DETERMINARE UNA NUOVA PASSWORD.
PREGO INSERIRE NUOVA PASSWORD.

Una parola appartenente all’autentico gergo militare (di bassa forza) fiorì improvvisamente sulle labbra del Comandante Supremo di Vega, che accompagnò il tutto con un paio di pugni sulla scrivania.
Nonostante la curiosità, Zuril si trattenne saggiamente dal chiedere che stesse succedendo e si tuffò sui progetti dell’iguanodonte.
Malgrado tutto, Gandal era un uomo coraggioso, incapace d’arrendersi: scelse una nuova password, l’inserì, ricevette le due mezze password definitive, inserì pure quelle…

PASSWORD ERRATA.

Ma come…? Erano le due mezze password che gli erano state inviate, com’era possibile…?
Provò ancora:

PASSWORD ERRATA.

Riguardò le due mezze password, e infine comprese: le aveva inserite in ordine inverso. Bastava invertirle.

TEMPO SCADUTO.
È NECESSARIO DETERMINARE UNA NUOVA PASSWORD.
PREGO INSERIRE NUOVA PASSWORD.

Altra serie di parolacce, altri pugni sul tavolo, altra password, altro inserimento.

PASSWORD ERRATA.

– Eh no, stavolta no… stavolta era giusta!!! – fu ciò che Gandal esclamò tra un termine gergale e l’altro.
– Qualche problema? – chiese Zuril.
– Sì! Questa password birichina non viene accettata da questo sistema un po’ zuccone – ovviamente, Gandal aveva profferito altre parole, invero più triviali.
– Sei sicuro d’avere inserito la password corretta?
Diancine!!! – idem come sopra.
– Allora può essere un errore di sistema. Dev’esserci un link d’aiuto: ti conviene cliccarlo e se-gnalare il problema.
Gandal cliccò il link, entrando in una nuova, interminabile schermata in cui gli veniva chiesto di quale genere fosse il problema: non riceveva la password? Non riusciva ad inserirla? Lo schermo si bloccava? Eccetera.
Varie parolacce, qualche pugno e un mezzo esaurimento nervoso dopo, Gandal ebbe finalmente la soddisfazione di vedersi dare ragione: la sua password era giusta. Si trattava appunto un errore di sistema… praticamente “Ooops, ci spiace molto, abbiamo sbagliato. Siamo molto spiacenti. Non accadrà più. Vi spiace intanto rifare tutto? E scusateci tanto”.
Password.
Controllo.
Metà password definitiva.
Altra metà.
Inserire.
Ok. C’è.
Ri-inserire per controllo.
Nuova schermata con lettere deformate da decrittare: ma perché?
La risposta fu immediata:

SICCOME VOI AVETE SBAGLIATO PIÙ VOLTE, DOBBIAMO CONTROLLARE CHE VOI SIATE PROPRIO CHI DITE DI ESSERE.
INSERIRE LA SCANSIONE DELLA VOSTRA IRIDE SINISTRA, GRAZIE.

Esclamazione di genere gastro-intestinale.

PER MAGGIOR SICUREZZA, VI PREGHIAMO DI INSERIRE ANCHE IL VOSTRO CODICE PERSONALE E DI APPOGGIARE I POLPASTRELLI DI ENTRAMBE LE VOSTRE MANI SULLO SCHERMO PER LA LETTURA DELLE IMPRONTE DIGITALI.

Altra esclamazione, stavolta di genere decisamente genital-sessuale.
Sorvoliamo l’inserimento dei dati richiesti: quello fu il meno. Arriviamo al punto in cui Gandal vide apparire sullo schermo la sospirata scritta:

ACCOUNT ACCETTATO.

Ce l’aveva fatta, finalmente!
Un attimo dopo notò una scritta un po’ più in basso:

VI CONSIGLIAMO DI SCRIVERE UNA DOMANDA PERSONALE CON RELATIVA RI-SPOSTA ESATTA: VI SARÀ UTILE NEL CASO DIMENTICASTE LA PASSWORD, PERCHÉ VI SARÀ RICHIESTO DI DARE LA RISPOSTA CORRETTA PER IDENTIFICARVI.
PREGO, INSERIRE DOMANDA E RISPOSTA.

Beh, questa era facile… “Qual è il mio colore preferito? Rosso.”
– Blu! – esclamò lady Gandal.
– Rosso! – ruggì Gandal – E se non ti va bene, rifai TU tutto l’account!
Lady Gandal scomparve.
Inserì domanda e risposta.
Perfetto. Tutto a posto.
Davanti a lui, la schermata di benvenuto: poteva entrare nel database, esaminare ogni cosa, acce-dere finalmente ai dati di cui aveva bisogno… ci era riuscito!!!
Adesso doveva solo cliccare per entrare…
Ci sono misteri destinati a rimanere tali: uno di questi, è il fatto che Gandal invece di premere “entra” scelse “logout”.
Trovandosi fuori.
Con davanti a sé la schermata che diceva:

INSERIRE NOME UTENTE E PASSWORD.

Tutto daccapo…


Zuril scosse il capo, mentre osservava il suo collega, urlante e sbavante, venir portato via impacchettato, direzione Centro Neurodeliri.
E tutto perché non era riuscito ad entrare nel database.
Niente da fare. Certa gente si perde proprio in un bicchier d’acqua…



Link: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1530#lastpost
 
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view post Posted on 23/7/2013, 21:33     +1   -1
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Un breve racconto con cui saluto e auguro buone vacanze. In Agosto sono in campagna, e là prendere il segnale è davvero dura. Ci si rivede a settembre, salvo qualche sporadica passata.



INASPETTATI RITORNI


Dopo tanto, troppo tempo, Meet di Yura stava facendo ritorno all’Alkadia. Al suo uomo.
Era passato un’infinità da quando lei si era allontanata dalla nave pirata per una rimpatriata sul suo pianeta. Allora aveva creduto che sarebbe stato un addio più o meno definitivo, ma il tempo le ave-va fatto capire che non era così: lei era ancora legata indissolubilmente ad Harlock, il suo posto era al suo fianco. Ecco perché era tornata.
– Meet…! – esclamò Yukie, stupefatta – Sei qui…? Ma…
– Credevamo che te ne fossi andata per sempre! – aggiunse il giovane Tadashi.
– Lo credevo anch’io – rispose Meet, con la sua voce musicale – Ma ho scoperto di non poter re-stare lontana da Harlock.
Scambio d’occhiate atterrite tra Yukie e Tadashi.
– Da Harlock? – esclamò il ragazzo – Ma…
– È meglio che tu ti sieda, sarai stanca – intervenne Yukie, allungando un calcetto negli stinchi del giovane compagno.
– Non posso – rispose dolcemente Meet – È troppo tempo che non vedo Harlock. Dov’è?
– Nella sua cabina, ma… Ouch! – ululò Tadashi, fatto segno d’un calcetto, stavolta molto più po-deroso, di Yukie.
– Nella sua cabina? Vado! – e Meet puntò decisa verso la porta, i lunghissimi capelli azzurri che le oscillavano giù per la schiena.
– Meet, ti prego, aspetta! – gridò Yukie – C’è qualcosa che dovresti sapere…
Tentò di correrle dietro, ma Meet era troppo veloce. Nonostante la sua aria trasognata, la voce dolcissima e un po’ cantilenante e i movimenti lenti e dondolanti, quando voleva Meet sapeva essere molto rapida.
Disperata, Yukie rientrò in sala comando e tentò di mettersi in comunicazione con la cabina del capitano: impossibile, naturalmente. Harlock aveva tolto i contatti, com’era logico aspettarsi…
Rifletté febbrilmente: Meet era una creatura profondamente buona ed altruista, l’essere più tran-quillo e generoso che sia possibile immaginare… forse non c’era troppo da preoccuparsi…
– Yukie – chiese Tadashi, con la voce di chi vorrebbe tanto sentirsi rispondere “nooo” – sono ge-lose, le donne di Yura?
– Non ne ho idea – rispose Yukie – ma temo che lo sapremo molto presto…


La porta scivolò di lato, Meet entrò nella cabina che per anni aveva condiviso con l’uomo che amava, Harlock… l’uomo cui era sempre stata fedelissima… l’uomo che lei non aveva mai e poi mai potuto dimenticare… l’uomo che…
Meet sgranò i suoi occhi obliqui, mentre guardava quel che mai s’era aspettata di vedere.
Guardò ancora.
Essendo di Yura non aveva la bocca, e non aveva nemmeno le iridi, il che rendeva il suo viso in genere alquanto inespressivo; bisogna dire che quella volta i suoi lineamenti, generalmente placidi, espressero, eccome.
Non c’era dubbio: Harlock era a letto, addormentato come un pupo.
Fin qui, nulla di male.
Quella che però dormiva abbarbicata a lui come un viticcio era indiscutibilmente un’altra donna… e qui, ci sarebbe stato da dire qualcosa.
– Harlock…! – esclamò Meet, con la sua voce dolce.
Il pirata sussultò, svegliandosi dal suo roseo sogno, giusto in tempo per trovarsi catapultato in un incubo.
Accanto a lui, Venusia si riscosse e fece tanto d’occhi trovandosi davanti un’aliena alta, sottile sottile, e con lunghissimi capelli azzurri che le incorniciavano un viso dolce e privo di bocca.
– Meet…? – nonostante la sua imperturbabilità, Harlock apparve piuttosto sorpreso – Non t’aspettavo…
– Me l’immagino – rispose con dolcezza Meet, osservando curiosamente Venusia, che tentava di coprirsi con il lenzuolo.
– Avevi detto che saresti tornata per sempre sul tuo pianeta, Yura – continuò Harlock, che avrebbe tanto voluto alzarsi dal letto ma che esitava a farlo, dato che in quel momento indossava solo la sua benda.
– È vero, l’ho detto – confermò Meet, la voce che era una melodia – Ma poi ho capito che non po-tevo vivere senza di te, e sono tornata.
Per sua natura, la gente di Yura quando si emozionava tendeva ad illuminarsi e a sviluppare calore, anche a temperature altissime: in pratica, più erano alterati e più s’illuminavano e si scaldavano. Meet appariva ancora d’aspetto e temperatura normali. Meno male.
– Sono felice che tu comprenda – disse Harlock, un po’ più sicuro di sé, mentre cercava con gli occhi dove fossero finiti i suoi pantaloni.
– Io ti ho sempre capito, Harlock – disse Meet, dolcissima – Ti conosco perfettamente. Lo so che sei un porco.
Harlock trasalì, ma si riprese subito: – Meet, mi avevi lasciato. Ti pare sbagliato se mi sono rifatto una vita?
– Sì, mi pare sbagliato, tu eri legato a me – rispose lei, sempre più melodiosa.
– Ma io credevo che te ne fossi andata per sempre! Credevo che tu mi avessi lasciato libero!
– Eri in errore…
– E va bene, è colpa mia. Tu sei sempre stata una creatura buona e generosa, sei la persona più al-truista che io abbia mai conosciuto…
– Lo so.
– Per cui spero che mi vorrai perdonare.
– Oh, no, io non ti perdono – rispose con dolcezza Meet; con un gesto pieno di grazia prese la pi-stola laser che Harlock aveva lasciato su una sedia, puntò con cura e con calma e dolcezza premette il grilletto.


Più tardi, mentre contemplava il disastro totale che era divenuta la sua cabina, devastata dai colpi precisi e accurati di Meet, Harlock si disse che in effetti sì, lei era stata davvero gentile ed altruista, lasciando vivi sia lui che Venusia, e prendendosela soltanto con la mobilia, le pareti, il pavimento eccetera.
Ripensò poi ai danni che Meet aveva causato, allo scafo dell’astronave che necessitava riparazioni immediate dato che si era indebolito, alle pareti sfondate, alla struttura stessa del pavimento che si era danneggiata, al plastivetro da sostituire (e si sa quanto costi il plastivetro!), ai suoi mobili antichi e preziosi irrimediabilmente perduti, a tutti i vestiti di Venusia distrutti, a Venusia stessa che si era piuttosto alterata per quel che era accaduto e si disse che forse no, non era stata così gentile…


Link per lancio di verdure fresche, grazie, c'è caldo): #entry539011895
 
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view post Posted on 20/9/2013, 10:57     +1   -1
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Questa è dedicata a Joe, che mi ha chiesto un incontro Harlock/Raflesia.

L'idea di base è di quell'animo gentile di mio figlio K8-88, sempre tanto delicato.
La realizzazione, è mia.

Buona (breve) lettura.


SOLUZIONE FINALE


Dopo tanto, troppo tempo, i due irriducibili avversari erano finalmente l’uno di fronte all’altra: Harlock, pirata dello spazio, e Raflesia, la regina di Mazone, erano pronti all’inevitabile duello finale.
Da sempre avevano saputo che quel momento sarebbe giunto: troppe cose li dividevano, educazione, razze, scopi, visioni generali delle cose… del resto, troppo diverse erano le loro stesse essenze, umano lui e vegetoide lei. Un’intesa era impossibile, erano entrambi troppo fissi sulle rispettive posizioni: Raflesia determinata ad impossessarsi della Terra, che vedeva come una sua legittima proprietà, e Harlock altrettanto determinato ad impedirglielo.
E ora, finalmente, il momento decisivo era arrivato.
– Harlock – disse Raflesia, la bella voce fredda e tagliente come una lama – non ci sono più astronavi da far scontrare o soldati da mandare all’attacco: siamo tu ed io, come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio.
Harlock non rispose, limitandosi ad un breve cenno col capo.
– Non aspettarti pietà, da me – continuò lei – Le circostanze non mi permettono di essere misericordiosa. Io ti sconfiggerò, e lo farò per salvare il mio popolo dalla distruzione. Questo è un duello all’ultimo sangue, ricordatelo.
Altro breve cenno d’assenso.
– Perciò, in guardia! Io vincerò per la gloria dell’immortale Mazone! – e Raflesia brandì la sua spada mettendosi in guardia, la mortale lama che scintillò sinistramente nella penombra.
Harlock non fece una piega.
Alzò il braccio che fino ad allora aveva tenuto seminascosto dietro la schiena, puntò la bomboletta in faccia a Raflesia e spruzzò abbondantemente.
Con uno stridio, la regina parve accartocciarsi su sé stessa; cadde a terra e vi rimase, il viso che fino a un istante prima era stato bellissimo si era fatto improvvisamente vizzo, le mani erano divenute nodose come quelle di una vecchia.
Harlock spruzzò ancora esaurendo lo spray (no gas, naturalmente); controllò che la regina fosse totalmente fuori combattimento, riguardò la bomboletta. Era stata una carognata, certo, ma la posta in gioco era troppo alta.
Rilesse l’etichetta: “DISERBANTE ISTANTANTANEO”.
Osservò i rimasugli di Raflesia.
Richiuse la bomboletta che poi avrebbe eliminato gettandola nello smaltitore di rifiuti dell’Alkadia.
– Istantaneo davvero – commentò.
Poi s’allontanò, pensando che alle volte la pubblicità mantiene quel che promette.
Alle volte.



Link per affamandarmi: #entry542962136
 
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view post Posted on 26/9/2013, 20:46     +1   -1
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Prima parte di un racconto tutt'altro che serio che ha protagonista Alcor.
La conclusione tra pochi giorni.
Buona lettura!

QUESTIONE DI CHIMICA


Per Alcor, una delle certezze nella vita era l’angoscia causata dal dono che suo fratello gli faceva ogni compleanno.
In genere, i regali di Tetsuya si distinguevano per bruttezza e scarsa utilità.
Il fatto era che il giovane li sceglieva spinto dalla praticità (leggi: spirito economico) più che dal buon senso; e il risultato era intuibile.
Per questo motivo Alcor, il giorno del suo compleanno, non si aspettava un granché dal fratellone: con un po’ di fortuna, forse avrebbe rimediato un oggetto utilizzabile… una paletta scacciamosche, magari. O un berretto con visiera, possibilmente non troppo orrendo.
Si comprenderà la sua sorpresa quando, scartato il pacco (piuttosto scalcagnato, dato che la carta da regalo era riciclata e Tetsuya era bravissimo a far fuori i mostri, ma non certo a confezionare doni), Alcor si trovò al cospetto di un paio di scarpe da trekking, nuovissime, di gran marca. Oltretutto, erano del numero esatto.
Le guardò meglio: non erano due destre o due sinistre, come si era aspettato… un vero paio di scarpe, nuove, belle e dall’aria costosa.
– Hai vinto alla lotteria? – chiese, stupefatto.
– È stata un’occasione – ci tenne a precisare Tetsuya, che non voleva passare per scialacquatore – Il prezzo era accettabile (“piuttosto basso”, tradusse Alcor), e ho pensato che potessero piacerti.
– Ma… sono bellissime…! – esclamò il giovane, che continuava a rigirarsele tra le mani in cerca della fregatura che, lo sapeva, da qualche parte doveva pur esserci.
Non riuscì a trovare nulla che non andasse.
Apparentemente, si trattava proprio di ciò che doveva essere: un bel paio di scarpe sportive di ottima marca.
A dire il vero, poi, più le esaminava, e più gli piacevano.
Provò ad indossarle: gli calzavano perfettamente.
Camminò: sembrava d’avere due piume ai piedi.
– Sono… perfette! – esclamò, stupefatto, mentre Tetsuya lo guardava con aria “lo dicevo io”.
Fu così che il giovane partì per la campagna, le nuove scarpe ai piedi, in direzione del ranch di Rigel: voleva che tutti ammirassero il magnifico dono.
Era una giornata piuttosto calda, ma Alcor camminava volentieri: le scarpe erano impeccabili, gli sostenevano il piede, gli sembrava di volare sul terreno. In più era una giornata meravigliosa, il sole splendeva, gli uccellini cantavano.
Quando fece il suo ingresso sull’aia, si sentiva come il vincitore che giunge per primo al traguardo, osannato dalla folla – a dire il vero erano presenti solo quattro galline e una capra che masticava pensosamente delle bucce di patate, ma andava bene lo stesso. Ci voleva ben altro per abbattergli il buon umore.
Si guardò in giro, e poi puntò verso la rimessa: come aveva immaginato, Maria era là, intenta a lustrare la sua moto.
– Non noti niente? – esclamò, mettendo in bella mostra le nuove calzature.
– Bellissime! – esclamò Maria – Devi aver speso un patrimonio, sono di gran marca…
– Non ci crederai, ma non ho speso nulla.
– Non vorrai dirmi che le hai sgraffignate, perché non ci credo!
– Me le ha regalate Tetsuya.
Maria sbarrò gli occhi: – A questo, credo ancora meno.
– Invece è così! – esclamò Alcor – È stato proprio mio fratello, evidentemente sapeva che sognavo delle scarpe da trekking! E tu, che l’hai sempre accusato di essere un po’ tirato…
– No. Io l’ho sempre accusato di essere un gran taccagno. È diverso.
– Beh, queste meraviglie non sono certo il regalo di una persona avara!
Maria osservò meglio le scarpe: – In effetti, non si direbbe…
– Ah! – esclamò lui, trionfante.
– …a meno che non sia stato lui a sgraffignarle – concluse dolcemente lei.
– Ma non ti vergogni a pensare una cosa del genere? – sbottò Alcor, indignato.
– Hai ragione. Allora, posso solo pensare che quelle scarpe fossero difettose e che per questo costassero poco.
Stavolta, Alcor sentì scaldarglisi le orecchie, mentre tutto il suo amor fraterno gli ribolliva nel petto: – Ma ti sembrano difettose, queste scarpe? Guardale bene!
Alzò un piede perché l’incauta fanciulla potesse osservare da vicino tanto splendore e magari rimangiarsi quanto testé affermato, e Maria si tirò subito indietro: – Bleah! Devi avere pestato qualcosa!
Alcor controllò prima un piede e poi l’altro: le suole erano in ordine. – Non ho pestato proprio niente.
– Eppure, sento puzza – insisté Maria – come se tu avessi schiacciato qualcosa di… come dire… marcio, putrefatto…? Un vero schifo, insomma.
– Ti dico che non ho pestato nulla!
– Oooh… da quanto è che non ti lavi i piedi, allora?
– Vuoi insinuare che i miei piedi puzzano?
– Io non insinuo che i tuoi piedi puzzino. Io affermo che si sente un tanfo nauseabondo che proviene dalle tue estremità inferiori. Che poi siano i tuoi piedi o le scarpe, questo non posso stabilirlo.
Adesso, Alcor si sentiva veramente offeso. Maria aveva denigrato Tetsuya prima, la sua igiene personale poi e le sue favolose scarpe per ultime: c’era di che far scappare i cavalli anche ad un uomo infinitamente paziente – e lui non lo era proprio.
– Questo è troppo! – esclamò – Adesso vado a far vedere le mie scarpe a Venusia, vediamo se sentirà odori strani!
– Non sto parlando di odori strani – puntualizzò Maria, che amava essere precisa – ma di una semplice puzza nauseabonda.
Alcor avrebbe avuto molte cose da dire, e tutte rigorosamente non adatte a delicate orecchie femminili; da quel gentiluomo che sapeva essere, il giovane represse il turpiloquio e s’incamminò verso il cortile posteriore, là dove con ogni probabilità avrebbe trovato Venusia intenta a stendere i panni. Maria gli corse dietro.
Fu così che poco dopo, Alcor ebbe occasione di mostrare all’amica il lussuoso dono ricevuto da Tetsuya (“Tuo fratello avrebbe speso così tanto? Da non credere!”).
– Che ne dici? – esclamò il giovane, mostrando le scarpe – Non sono belle?
– Bellissime – convenne Venusia, aggrottando la fronte – però… mi sembra…
– Ti sembra di sentire un cattivo odore, forse? – chiese Maria, due candide alucce che le si aprivano sulle spalle.
– No, non un cattivo odore… proprio una puzza, ecco.
– Non ho pestato nulla! – mise le mani avanti Alcor.
– Non è odore di… ehm… è un’altra cosa – Venusia scosse il capo, desolata: – È da molto che non ti cambi i calzini?
– Li ho messi puliti stamattina, dopo aver fatto la doccia! – sbottò il giovane, vivamente risentito.
– Allora sono le scarpe – disse Venusia – Alle volte lo fanno…
– Certo! – intervenne Maria – Specie quando è caldo.
– Proprio come oggi – specificò Venusia.
– Certo! Col caldo, il piede… come dire...
– …Cuoce.
– Cuoce, proprio! Suda.
– Suda molto.
– E il sudore emana un odore… non mi viene la parola…
– Nauseante…?
– Di’ pure disgustoso.
– Insomma, secondo voi ho i piedi che puzzano! – esclamò Alcor, offeso.
– Sì – disse Maria.
Fu proprio allora, mentre Alcor stava per dare il via a una nuova scena d’indignazione, che da dietro la casa fecero la loro comparsa Rigel e Mizar, canne in spalla e cesti al fianco, pronti per andare a trascorrere il pomeriggio a pesca lungo il fiume.
– Ehilà, Alcor! – esclamò gioiosamente Rigel, salutandolo con ampi cenni delle braccia – Vuoi venire con noi a catturare qualche trota?
– Magari più tardi – il giovane corse loro incontro, seguito dalle due ragazze – Ho bisogno del vostro parere di uomini esperti. Guardate un po’ le mie scarpe…
– Bellissime! – asserì Mizar.
– Devono essere costate una fortuna – aggiunse Rigel.
– Le ha comperate Tetsuya – si premurò d’informarli Maria.
– Allora erano in liquidazione – disse subito Rigel.
– Mi pare strano, però – osservò Mizar – Sono bellissime, alla moda… perché avrebbero dovuto costare poco?
Venusia scambiò un’occhiata con Maria: – Forse hanno qualche piccolo difetto…
– Sembrano fatte bene – obiettò Rigel.
– Magari non fanno traspirare bene il piede – flautò Maria, la voce tutta un gorgheggio.
– Fatela finita! – Alcor si rivolse ai due uomini: – Queste due continuano ad insinuare che per colpa di queste scarpe mi puzzano i piedi! Sentite cattivi odori, voi?
– Beh… – disse Mizar.
Rigel fiutò l’aria: – Un odore lo sento.
– E non è profumo di rose e viole – aggiunse Maria, perfida.
– E va bene! Te la sei voluta! – Alcor sedette sull’orlo dell’abbeveratoio e cominciò a sciogliere le stringhe – Adesso vi proverò che è tutto falso, e che i miei piedi non puzzano!
Tolse le scarpe.
Quattro persone crollarono immediatamente a terra, schiantate.


- continua -

Link per stramandate varie: #entry543204528
 
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QUESTIONE DI CHIMICA - CONCLUSIONE

Fu un Alcor agitatissimo quello che si precipitò (a piedi) verso il laboratorio.
Era sopravvissuto alla nube gassosa che aveva stroncato le due ragazze, Rigel e Mizar, per il semplice motivo che, trattandosi di una reazione chimica causata dai suoi piedi, lui ne era praticamente immune. Si era accertato che i quattro stessero bene e si fossero ripresi dallo svenimento. Quando poi gli era stato ben chiaro che i suoi amici fossero tornati di nuovo in forma (la cosa era avvenuta quando Rigel aveva imbracciato il suo schioppo e gli era corso dietro per tutta la fattoria), aveva deciso di recarsi al laboratorio: sicuramente Actarus e Procton, molto più equilibrati di Rigel, gli avrebbero dato un parere più imparziale circa il bouquet delle sue nuove calzature.
Procedette a passo spedito: il sole era alto, il caldo era afoso, la strada ancora molto lunga.


– Ooops – disse una mezz’ora dopo Alcor, osservando desolato i corpi esanimi di Procton, Actarus e dei tre assistenti del professore; poi aprì le finestre, perché la nube tossica si disperdesse all’esterno, e si dispose a rianimare le vittime.


– Micidiale – fu il commento di Actarus.
– Guai a te se porti ancora quelle dannate scarpe nel nostro laboratorio! – esclamò il gentile Hayashi, che quel giorno appariva tutt’altro che bonario.
– Avresti potuto ucciderci! – ruggì il mite Saeki.
Yamada si fece avanti: era il più calmo dei tre, Alcor aveva sempre ammirato la sua freddezza anche nei momenti peggiori.
– Sentimi bene, Alcor – disse, la voce perfettamente controllata – se torni qui con quelle scarpe, giuro che te le faccio ingoiare.
Il giovane chinò la testa, afflitto: le sue belle scarpe… il dono di suo fratello Tetsuya…
– Mi dispiace molto, Alcor – disse Actarus, comprensivo – Ma sono troppo… ehm… pericolose.
– Capisco – Alcor osservò le scarpe: erano state sigillate in un sacchetto di nylon, chiuso a sua volta in una busta a tenuta stagna – Pensare che sono così belle… così nuove…
– Ragiona, Alcor – disse gentilmente Actarus – Quelle non sono calzature… sono armi chimiche.
– Appunto – disse dietro di loro la voce di Procton.
I due giovani si voltarono: il professore, pur pallido per la recentissima disavventura, appariva stranamente su di giri. Nei suoi occhi, in genere così calmi, scintillava una luce… canagliesca, si sarebbe potuta definire.
– Hai in mente qualcosa – quella di Actarus non fu una domanda.
Procton posò una mano sulla spalla di Alcor: – Ragazzo mio, capisco che ti dispiaccia disfarti del dono di tuo fratello; purtroppo, però, è necessario.
Alcor sospirò: – Lo so. Ma non riesco a decidermi a buttarle via.
Procton si permise un sogghigno: – E chi ha parlato di gettarle via?
Alcor e Actarus si scambiarono un’occhiata stupefatta: era proprio il pacato professor Procton, quello che stava parlando?
– Comincio a preoccuparmi – asserì Actarus.
– Scusate professore – disse Alcor – che cosa avete in mente?
– Utilizzarle, si capisce.
– Adesso sono davvero preoccupato – aggiunse Actarus.


Cubica, incartata in azzurro e chiusa da un enorme fiocco rosso, la scatola faceva bella mostra di sé sulla regia scrivania del sire di Vega; il quale sire di Vega stava facendo il broncio perché moriva dalla voglia di aprirla, e non capiva perché quei noiosi dei suoi accoliti volessero impedirglielo.
Erano stati fatti tutti i controlli: niente congegni misteriosi, niente esplosivi, niente gas velenosi. Lo scanner aveva rivelato il più innocuo dei contenuti: un bel paio di scarpe sportive, nuove fiammanti. Dopo anni in cui tutto quel che riceveva erano pantofole e armi di distruzione di massa, si capisce che aveva voglia di scartare il dono!
Dantus, che aveva eseguito personalmente i controlli, gli aveva dato il permesso di farlo; e subito, era intervenuto quella pittima di Zuril. Non si era sicuri… era meglio controllare ancora… forse…
– Insomma, basta! – esplose il sovrano, battendo sul tavolo il regale pugno – Volete piantarla con le vostre stupidaggini?
– Maestà, vi prego – insisté Zuril – Non è prudente aprire senza precauzioni un pacco inviato dai nostri nemici…
– Odio dirlo, ma penso che abbia ragione – aggiunse Gandal.
– Non c’è da fidarsi. Io butterei quella roba nel disintegratore – concluse Hydargos.
Dantus emise un verso da teiera che sta per bollire: – Se io dico che non c’è pericolo…
– Appunto per questo! – rispose Hydargos, prontissimo.
Dantus lo guardò con sdegno: – Stai dicendo che non ti fidi delle mie analisi?
– Il concetto è quello.
– Piantatela! – sbraitò il sire, battendo ancora il regio pugno.
– Maestà, vi supplico! – intervenne Gandal, mentre dietro le sue spalle Dantus e Hydargos, non potendo uccidersi, stavano facendosi gli occhiacci – Vi invito alla prudenza. Si tratta di un dono di Duke Fleed e dei suoi amici terrestri!
– Un gesto molto carino da parte loro. Fatti da parte.
– Vi prego, Maestà! – intervenne Zuril, dando man forte al collega – Fatemi almeno eseguire delle analisi più approfondite!
– Ma per piacere! – sbottò Re Vega, come avrebbe fatto un bimbo cui stavano per sottrarre la cioccolata – Devono aver saputo che la settimana prossima è il mio compleanno, e mi hanno mandato il regalo… e poi, sappiamo già cosa contiene. Fatti da parte!
– Ma…
– FATTI DA PARTE! – era il ruggito del comando, e Zuril obbedì immediatamente.
Subito, il sovrano s’impossessò del pacco: un vero regalo, finalmente… non le solite scemenze che riceveva sempre, pantofole, armi di distruzione di massa… un autentico dono. Per lui. E volevano impedirgli di aprirlo! Questa era proprio bella.
– Ci mancherebbe che non aprissi il mio regalo – brontolò, mentre armeggiava per sciogliere il gran fiocco rosso che chiudeva la scatola – Zuril, tu vedi sempre insidie ovunque!
– Faccio solo il mio dovere – rispose lo scienziato, tutto sostenuto. Alle sue spalle, Gandal, Dantus e Hydargos occhieggiarono la scatola, curiosi.
– La verità è che sei troppo sospettoso – borbottò il sire, gettando da parte il nastro – Questo è solo un regalo, un innocente regalo! Non c’è nessun pericolo, me lo sento! Sai che io, per queste cose, ho naso!
E con un ampio gesto, scoperchiò la scatola.


Link per inviarmi un paio di bellissime, ECONOMICHE scarpe nuove: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1575#lastpost
 
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Prima parte delle nuove pene di cuore del sire di Vega.



CE N’È PER TUTTE


– L’onore che ti faccio è davvero immenso – disse Raflesia – Spero che tu sia in grado di comprenderne l’importanza.
– Io… io… – il sire di Vega era letteralmente senza parole, e fissava attonito la bellissima donna che lo osservava attraverso lo schermo.
Nonostante il brutale attacco al diserbante subito in un recentissimo passato, la Regina di Mazone appariva il ritratto della salute, bianca e verde come una foglia: il suo viso era sempre bellissimo, le maschere al concime avevano fatto miracoli.
– Un’alleanza tra i nostri popoli non porterà che enormi benefici per il futuro – continuò lei, imperturbabile – l’unione tra il Grande Regno di Mazone e il vostro… come si chiama…
– Impero di Vega! – esclamò il sire, attonito. Possibile che quella femmina ignorasse il nome della più distruttiva potenza dell’Universo?
– Impero di Vega, già – Raflesia dilatò lievemente le narici – Una simile alleanza ci renderà invincibili.
– Un momento – cercò di tarparle le ali il sire – Innanzitutto, noi siamo già invincibili…
Raflesia inarcò un sopracciglio: – Ah sì?
– …Seconda cosa, io non sono affatto disponibile a…
– Attento a come parli, uomo! – l’avvertì Raflesia, la voce scesa a temperature polari – Le nozze con la Regina di Mazone sono un onore incommensurabile.
Re Vega non era certo un vile, tuttavia sentì un brivido attraversargli la barba: – Ma certo, sono onoratissimo, si capisce, però… insomma, non voglio sposarti.
Raflesia sentì la linfa ribollirle in corpo: – Non vuoi?
– Non posso! – corresse subito Sua Maestà – Non è che non voglio, è proprio che non posso… cioè, io… non posso davvero, ecco, sì.
– Oh – Raflesia socchiuse gli occhi, guardandolo come si guarda un verme particolarmente disgustoso: – E quale sarebbe, di grazia, questo impedimento?
– Io… – il sire annaspò penosamente – Innanzitutto, sono molto più vec… ehm, c’è una certa differenza d’età, e…
– Sciocchezze. So di portare molto bene i miei duecentotrentasei anni.
– Duecen…? – Re Vega riuscì miracolosamente a non mostrarsi troppo stupefatto – Voglio dire, non li dimostrate proprio…
– Sì, vero? – lei si permise un sorrisetto – Me lo dicono tutti. …Altri problemi?
– Ecco… sono vedovo.
– Questo non è affatto un ostacolo, anzi.
– Lo è, perché in realtà io non ho mai potuto dimenticare la mia cara, carissima moglie… la mia adorata Telonna… – non era certo un grande attore, tuttavia riuscì a spremere una lacrimuccia.
– Capisco – rispose severamente Raflesia – Tuttavia siete un sovrano, nonostante tutto, e dovete avere bene in mente che il benessere del vostro popolo viene prima del vostro.
– In che senso? – chiese lui, spiazzato.
– Nel senso che è normale che un re debba sacrificarsi per la sua gente. È quello che sto facendo pure io chiedendo ad un individuo come voi di sposarmi.
– Che cosa vuol dire? – esplose lui, sentendosi decisamente offeso.
– Vuol dire esattamente quel che ho detto! – sibilò lei – Lasciatemi aggiungere anche che le vostre motivazioni sono davvero puerili. Capisco che non siate in grado di comprendere l’esatta entità dell’onore che del tutto immeritatamente state ricevendo, tuttavia… uh? Avete detto qualcosa?
– … – alitò il sire.
– Parlate più forte! Siete un re, possibile che non abbiate il coraggio delle vostre opinioni?
– Sono già fidanzato! – ecco, l’aveva detto.
Non avrebbe mai voluto usare Himika per salvarsi da Raflesia, ma era stato costretto a farlo.
– Fidanzato! – esclamò Raflesia, il tono di chi chiaramente non crede ad una sola parola – E chi sarebbe la fortunata?
– Sua Maestà Himika, regina del popolo Yamatai – rispose il sire, sentendosi piuttosto urtato dal tono con cui Raflesia aveva pronunciato quel “fortunata”.
– Himika! – più che un’esclamazione, sembrò uno sputacchio – La sovrana Haniwa! E tu, miserabile re di Vega, pensi di preferire una nullità come una regina Yamatai a… a me?
– Un momento, io… voglio dire, Himika…
– Se stai per dirmi che provi un qualsivoglia sentimento per quella sciacquetta, risparmiati la fatica, perché non credo a una sola parola – sbottò seccamente Raflesia.
Re Vega strinse i denti: ripensò ad Himika, al suo irritantissimo modo di comandarlo a bacchetta, di chiamarlo Yabby, di trattarlo in ogni occasione come un povero deficiente… però ricordò anche il suo sorriso pieno di luccichii quando lui era stato costretto a portarla a ballare, ricordò anche la gioia travolgente di lei quando aveva ricevuto l’anello di brillanti… non gliel’aveva mandato lui, certo, ma Himika aveva creduto così, ed era sembrata davvero felice. Forse, in qualche modo, lei provava un minimo di qualcosa per lui, mentre questa… questa mazoniana…
– Parliamoci chiaro – continuò Raflesia, la voce sempre più sottozero – Tu, Yabarn, re di Vega, vuoi rifiutare lo straordinario onore che ti faccio… vuoi respingermi… per una nullità insignificante come Himika? – stavolta, l’ultima parola l’aveva davvero sputazzata.
Re Vega gonfiò orgogliosamente il torace: – Beh, a dire il vero io… – incrociò lo sguardo tossico di Raflesia, e la sua voce sicura divenne un misero pigolio: – …ci devo pensare, ecco.
– Ottimo. Pensaci… e pensaci bene – e Raflesia tolse la comunicazione.
A lungo, Re Vega rimase immobile, attonito.
Non gli bastavano tutti i guai che gli aveva procurato Himika con le sue velleità matrimoniali… ora ci si era messa pure Raflesia!
Come avrebbe potuto barcamenarsi tra quelle due, ora?
Come avrebbe potuto salvarsi, evitando possibilmente tutte e due le signore e rimanendo libero e pulzello?
Non vedeva soluzione al suo dramma, purtroppo…
Dove sono tutte le lame rotanti e le alabarde spaziali, quando uno ha bisogno di loro?, si chiese, disperato.


– Adesso conoscete il problema – disse il sire, a mo’ di conclusione.
Un pesante silenzio cadde sul tavolo di riunione.
A dire il vero, non c’era nessuno tra i presenti che a suo tempo non avesse ghignato malignamente sapendo il sovrano angariato da Himika; adesso però Raflesia era davvero un po’ troppo, in questo concordavano tutti.
– Ben due pretendenti! – esclamò Rubina – Complimenti, papà. Ce n’è per tutte, eh?
Grugnito paterno.
– Sapete una cosa? – disse Gandal – Siamo fregati.
– Un parere illuminante – osservò velenosamente Dantus.
– Non vedo il problema – Barendos batté il pugno sul tavolo – Basta dire a quella donna di andare all’inferno.
– T’informo che quella donna ha un esercito immenso a sua disposizione! – lo rimbeccò subito lady Gandal – Trattarla in maniera scortese non mi sembra il modo più sensato di agire.
– Siamo fregati – ripeté Gandal.
Un attimo di silenzio, mentre tutti i cervelli presenti lavoravano alacremente in cerca di una soluzione.
– … Ma tentare di dirglielo usando le buone maniere? – chiese Hydargos, dimostrando un’insospettabile delicatezza d’animo.
– Vuoi dire, farle un discorso tipo “scusa Raflesia, ma sei arrivata troppo tardi”? – chiese Rubina.
– Non funziona, ci ho già provato – sospirò Re Vega.
– Allora, potreste liquidare Himika – suggerì Dantus.
– Per ritrovarmi Raflesia tra i piedi? – inorridì il sire – MAI!!!
– Come dicevo io – Gandal crollò sconsolatamente il capo – Siamo fregati.
Altra pausa, piuttosto lunga, che fu interrotta da Barendos che dopo aver pensato e pensato era giunto alla più brillante delle conclusioni: – Dite quel che volete, ma io penso che un “no” sul muso…
– Ma allora non hai capito niente! – esplose lady Gandal.
– Ma con una bombardata al vegatron! – spiegò candidamente lui – Non è un messaggio chiaro?
– Qui, di chiaro c’è solo il fatto che sei più idiota di quel che pensassi! – sbottò lei – E bada che pensavo già parecchio!
– Siamo fregati – ripeté Gandal.
Nuovo silenzio.
– Tentare la via diplomatica…? – chiese Dantus.
– Conosci il concetto di diplomazia secondo le mazoniane? – chiese lady Gandal.
– No.
– Ecco. Nemmeno loro lo conoscono.
– Oh.
– Siamo fregati.
Un altro silenzio, stavolta lunghissimo. Re Vega si guardò ansiosamente attorno, ma vide solo sguardi che evitavano accuratamente il suo… tranne uno, quello dell’unico uomo che aveva atteso ed atteso, e che fino ad allora aveva taciuto, lasciando che gli altri sviscerassero a modo loro la questione.
– Zuril, hai niente da suggerire…? – chiese ansiosamente il sovrano.
Lo scienziato lisciò un punto del tavolo di fronte a sé: – Vostra Maestà, credo che stiamo affrontando il problema dal punto di vista sbagliato.
– E ti pareva se per il professore noialtri facevamo qualcosa di giusto…! – brontolò Dantus, venendo subito zittito dal sire.
– Vengo al punto. Correggetemi se sbaglio, ma qui abbiamo ben due signore pronte a farsi impalmare da voi. La domanda è: perché evitarne una, quando potreste comodamente salvarvi da tutte e due?
– Come? – chiese Re Vega, guardandolo come si guarda un angelo inviato dalle celesti sfere.
– Tenere delle signore sulla corda è un’arte – continuò Zuril – Noi conosciamo perfettamente un uomo che è un maestro assoluto in questo campo… dico bene, Vostra Altezza?
Rubina masticò un qualcosa di fortunatamente incomprensibile: – Infatti…!
– Vuoi dire… Duke Fleed? – chiese Hydargos, stupito.
– Perché no? Da anni, Duke Fleed riesce a tenere a bada sua cugina Naida, Venusia e, perdonatemi Altezza, pure la nostra principessa Rubina. TRE donne. Senza il minimo sforzo. Se non è un esperto lui…
– E cosa pensi di fare? – chiese Dantus, sarcastico – Andare a chiedergli aiuto?
– Perché no? Noi l’abbiamo aiutato quando ha preso quella botta in testa che l’aveva reso imbecille – (qui lady Gandal trattenne a fatica un singhiozzo disperato) – Conoscendolo, sarà lieto di ricambiare il favore e collaborare.
– Che idea cretina! – sbottò Barendos.
– Che idea geniale! – esclamò quasi in contemporanea, ma non troppo, Re Vega – Zuril, mettiti subito in contatto con la Terra, e vedi che ne pensa Duke Fleed.


- continua - La conclusione la prossima volta

Affamandatemi pure a questo link: #entry543779470
 
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CE N'E' PER TUTTE - CONCLUSIONE

Fu così che un turpe figuro si presentò al ranch Makiba. L’aspetto era quello di un terrestre… santo cielo, un terrestre un po’ particolare, bisogna dire, visto che aveva una barbaccia nera e sfoggiava la considerevole statura di due metri e venti; il colorito era però perfettamente normale per degli standard terrestri, le orecchie presentavano una forma regolamentare e i vestiti non avevano nulla d’esotico.
Nonostante questo, Actarus lo riconobbe immediatamente quando se lo trovò davanti: era proprio lui, il sire di Vega.
Un attimo dopo il giovane s’accorse che il sovrano indossava scarpe da tennis, jeans, maglietta, giubbetto e berrettino con visiera, e ricorse a tutto il suo self control per restare impassibile.
– Buongiorno – disse, educato come sempre, mentre con la vanga distribuiva il concime attorno ad una pianta di zucca.
– Io… hm… buongiorno, sì – brontolò il sire. Saluti diversi per ogni momento della giornata… boh. Strane usanze terrestri.
– Posso fare qualcosa per voi, mi hanno detto – Actarus distribuì meglio il blocco di letame attorno al fusto della pianta, coprendolo accuratamente con la terra.
– Ecco, io… – il sovrano intrecciò le dita, come uno scolaretto vergognoso – Ho un problema.
Con la vanga, Actarus prese dalla carriola un altro blocco di letame, accingendosi a nutrire una nuova pianta di zucca: – Che genere di problema?
– Direi… sentimentale.
Actarus piantò la vanga nel terreno e guardò il sovrano, gli occhi azzurri pieni di stupore: – E venite a parlarne proprio a me?
– Mi è stato detto che… voglio dire, tu t’intendi di queste cose…
– Mi spiace, vi hanno informato male. Io non ci capisco niente – rispose gentilmente Actarus. Bietola, ma onesto.
– Il fatto è proprio questo… insomma… – il sovrano prese fiato e finalmente buttò fuori: – Ho due donne che mi fanno morire! So che tu sai cavartela benissimo, con le donne…
Stupore genuino: – Io?
– Insomma, mia figlia Rubina… e poi Venusia, e quella Naida…
Actarus rimase perplesso a considerare la cosa: – E allora?
– Come fai?
– A fare che?
– Beh… ma dobbiamo proprio parlarne qui, all’aperto? Non c’è un posto più tranquillo?
– Non avete torto. Venite – e il giovane lo guidò nella cucina del ranch. A quell’ora erano tutti fuori, difficilmente sarebbero stati disturbati.
Poco dopo, Re Vega da una parte del tavolo, Actarus dall’altra, una bottiglia di orzata in mezzo, cominciò la lezione.
– Allora? – chiese il sire, che era un tipo spiccio.
Actarus versò l’orzata per l’ospite e per sé – Allora, cosa?
– Le donne! – il sire mise da parte il bicchiere che gli era stato messo davanti – Come fai a giostrartele?
Il giovane guardò pensosamente la superficie della sua orzata: – Veramente, non saprei…
– Insomma, non sei perseguitato da ben tre femmine? E una è quella scema di mia figlia Rubina!
– Rubina non è scema – corresse gentilmente Actarus.
– Idiota totale, infatti. Sono suo padre, so quel che dico!
Actarus si strinse nelle spalle: contento il sire, contenti tutti.
– E poi non c’è solo mia figlia…
La porta esterna della cucina si aprì e Venusia fece la sua comparsa, un gran cesto di uova al braccio: sapeva che il sire di Vega sarebbe giunto in visita, per cui non si stupì trovandoselo seduto nella sua cucina.
Furono i jeans e soprattutto il berrettino con visiera a sconvolgerla.
Troppo presi dalla loro conversazione, i due non si accorsero nemmeno della sua presenza.
– Mi sbaglio – continuò il sire – o c’è anche quella contadinotta… quella Venusia…
Contadinotta…?
Fu un miracolo se il cesto non piombò a terra assieme alle relative uova.
– Venusia è una cara amica – corresse Actarus.
– Ma mi dicono che ti faccia una corte spietata. Poi, c’è quella Naida…
Naida! Venusia sentì il sangue ribollirle nelle orecchie.
– Naida è mia cugina – spiegò il giovane.
Cugina! Certo che era sua cugina! Ma bisognava essere bietole come Actarus per non capire cosa provasse la cara cuginetta… Venusia digrignò i denti.
– È tanto affettuosa – stava intanto continuando lo sciagurato.
Venusia sbatté con stizza sul tavolo il cesto pieno di uova. Si udì un “crac!” sospetto, ma nessuno parve farvi troppo caso.
– Oh, Venusia – sorrise il giovane – Tu conosci Yabarn, il sovrano di Vega, non è vero?
– Ho avuto il piacere – rispose lei, occhi baluginanti e sorriso tutto denti. In quel momento, però, non era con il sire che ce l’aveva, ma con il bellissimo e tordissimo principe. Quanto era bietola, Actarus… così bietola da non capire nemmeno di esserlo. Inghiottì, sforzandosi di fare la brava padrona di casa: – Vi offro qualcosa?
– No, grazie, Duke mi ha già dato… questa – il sovrano gettò uno sguardo perplesso all’orzata.
– Allora, vi lascio parlare – Venusia fece per allontanarsi, ma Actarus le fece cenno di restare.
– Aspetta, Venusia… forse puoi aiutarmi. Sua Maestà è convinto che io possa consigliarlo, ma io non credo che…
– Zuril sostiene che tu sia un grande esperto – assicurò Re Vega.
– Di cosa, perdonate? – chiese Venusia.
– Di donne.
Ci volle qualche minuto buono perché la poverina si riprendesse dall’improvviso e fortissimo accesso di tosse che l’aveva colta.
Da sotto il cesto di uova, stava cominciando a colare una strana sostanza giallastra.
Mentre Venusia riacquistava una parvenza di normalità, il sovrano assaggiò cautamente l’orzata: bleah! Totalmente priva di alcool.
– Buono, vero? – chiese Actarus – È totalmente analcolica. Ne vuoi, Venusia?
Il pensiero le corse subito ad Harlock, che in caso analogo le avrebbe offerto qualcosa a gradazione ben più alta: – Nooo, grazie, non ho sete.
Il sire tamburellò sul tavolo: – Possiamo parlare del mio problema?
– Posso sapere qual è? – chiese Venusia, prendendo posto.
– Semplice: già mi sono ritrovato invischiato da quella colla di Himika…
Venusia gettò uno sguardo al sire in tutta la sua scarsa avvenenza, pensò a Himika, bella ed elegante, e si disse che esistono misteri del grande universo destinati a restare tali.
– Adesso – continuò il sovrano – ci si è messa anche quella peste di Raflesia…
Raflesia? – ripeté Venusia, strabiliata. Raflesia, splendida, aristocratica, raffinatissima… e Yabarn Re di Vega…?
– Insomma, non so cosa fare, con quelle due! Ecco perché sono venuto a chiedere un consiglio, un parere, un aiuto…
Venusia nascose il viso nel cavo della mano, ostentando profonde riflessioni.
Dovette compiere sforzi sovrumani per impedire alle proprie spalle di sussultare, rivelando così la tragica verità.
Oh, poverino… tutte lo vogliono…
– Zuril dice che Actarus può aiutarmi – continuò l’ignaro sire.
Venusia sbarrò gli occhi: – Actarus? Ma che ne sa, lui?
– Beh, Zuril dice che riesce a tenere a bada quella scema di mia figlia, e poi Naida, e poi anche te… oh…hm… beh, insomma, lo dice Zuril.
– Certo – nonostante l’innata amabilità del suo animo, difficilmente si sarebbe potuto sentire alcunché di cordiale e giulivo risuonare nella voce di Venusia – Insomma, Actarus sa come cavarsela con le donne, vero? In effetti, è vero.
– Ma no – cominciò il giovane – in realtà io non…
– Il fatto è che lui non è cosciente del suo talento – continuò lei, la voce che sembrava trasudare acido solforico – La realtà è che lui è una sorta di anguilla insaponata.
– Una che? – domandò il sovrano, che non era mai stato un granché in biologia veghiana, e figuriamoci quella terrestre.
– Un pesce, simile a un serpente. Molto viscido.
– Io sembrerei un’anguilla? – esclamò Actarus – Non è molto gentile, questo…
– Dico per dire, caro – lo rassicurò lei.
Il liquame giallastro prese a sgocciolare sul pavimento.
Re Vega guardò il giovane tiracchiandosi pensosamente la barba: – Ma allora, se lui non può spiegarmi la sua tecnica, come faccio a sapere come cavarmela con quelle due streghe?
– Voi gli state facendo le domande in maniera sbagliata – disse Venusia – A dire la verità, non dovreste nemmeno domandare nulla a lui. Meglio che parliate con me, se volete informazioni precise.
– Non capisco…
– Lo so. Non potete capire – Venusia assunse un modo di fare da donna pratica – Adesso vi faccio vedere, una semplice spiegazione non sarebbe sufficiente.
Il sire tirò fuori da una tasca del suo giubbetto un piccolo apparecchio: – Posso registrare?
– Ma certo – Venusia si volse verso Actarus: – Ascolta, caro: per aiutare Sua Maestà, io dovrò farti delle domande. Tu rispondi tranquillamente, va bene? Ti avverto fin d’ora che potranno sembrarti domande un po’ imbarazzanti…
– Beh…
– …Ma è l’unico modo che abbiamo per aiutarlo.
– Allora, va bene.
– Attento, comincio – gettò uno sguardo d’intesa al sovrano di Vega, che accese il registratore – Actarus, usciamo stasera?
Lui la guardò con i suoi grandi occhi blu: – Venusia, non posso far tardi. Lo sai che domattina devo alzarmi presto per andare a concimare i broccoli…
– Ma non mi porti mai a ballare…
– Mi spiace davvero, ma lo sai che sono negato.
– Allora andiamo almeno a bere qualcosa…
– Ti ho appena spiegato che non posso far tardi – osservò pazientemente lui.
– Un aperitivo! Prima di cena!
– Ma io sono astemio…
Venusia si rivolse a Re Vega: – Scivoloso come un’anguilla insaponata. Cominciate a capire quello che intendo?
– Ma voi state solo parlando di uscire una sera, di bere qualcosa assieme – obiettò il sire – Io mi ritrovo con due donne che vogliono mettermi il cappio al collo, capite?
– Non è che le cose cambino molto, sapete? – rispose Venusia – Comunque, vi do una dimostrazione.
– Dovrei annaffiare l’insalata – disse Actarus, facendo l’atto di alzarsi.
– Solo un momento, caro – Venusia lo trattenne – Ascoltami: sono anni che continuiamo con questo tira-e-molla…
– Quale tira-e-molla?
– Sto parlando di noi due.
Actarus gettò uno sguardo verso il sire di Vega: – Non mi pare il caso di farlo davanti ad altri…
– Oh, non preoccuparti, lui non s’imbarazza. Adesso voglio una risposta…
– Quale risposta?
– Su di noi! Tu ed io! Sul fatto che non ci sia mai stato nulla di ufficiale.
– Io non amo le cose ufficiali, ti fanno sentire in trappola.
– Sto parlando del nostro rapporto!
– Ah. Qual è il problema?
– È tutto un problema! Non ci siamo mai ufficialmente fidanzati…
– Non credo che tuo padre sarebbe d’accordo…
– Papà non importa! Sono adulta, scelgo io per quella che è la mia vita!
– Ma certo, hai ragione.
– Certo che ho ragione! Adesso voglio sapere una cosa…
– L’insalata avvizzisce, devo andare.
– Siamo fidanzati o no?
– Dobbiamo proprio parlarne ora?
– SÌ!!!
Actarus guardò fuori dalla finestra: – La solita capra sta avvicinandosi al tuo bucato.
– Non voglio parlare di capre, ma di anelli di fidanzamento!
– Costano…
– Diventi economo come Tetsuya, adesso?
– No, ma… la capra sta mangiandosi uno dei tuoi collant.
– Non m’interessa!
– Ma è uno di quelli nuovi, di pizzo… quelli che hai comperato in quel negozio del centro.
Venusia ebbe un lieve mancamento: quei collant erano stati una piccola follia che si era concessa… e ora, erano destinati a finire come spuntino di una capra. – Oh…
– Vado a farla smettere – disse lui, alzandosi e andando alla porta.
– Actarus!!!
– Devo fermarla, se inghiotte il nylon poi dobbiamo portarla dal veterinario.
– Fermo lì! Dimentica quella dannata capra! Esigo una risposta: siamo fidanzati, sì o no?
Actarus la guardò con rimprovero: – Sei davvero crudele, pensare a queste cose quando un animale innocente rischia di stare davvero male.
Uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
Sfinita, Venusia si rivolse all’attonito Re Vega: – Avete capito cosa intendo?
Impressionato, il sire dovette riprendere fiato: – Fa sempre così?
– Sempre – ed è per questo che mi sono cercata qualcosa d’alternativo con Harlock, si tenne per sé lei.
Tuorli, albumi e frammenti di guscio si allargarono pigramente sul pavimento, inondando trionfalmente gli anfratti tra le mattonelle.


Mentre stavano col naso rivolto al cielo, osservando il puntolino che era la navetta del sire di Vega rimpicciolire sempre di più, Actarus fu colto da un legittimo dubbio: – Non ho ancora capito una cosa… ma che voleva, da me?
Venusia sospirò: – Non preoccuparti, caro.


Re Vega spense lo schermo, ghignando.
Due signore che ambivano alla sua mano… due donne invelenite ed attonite dalle sue risposte.
Cos’aveva detto, Venusia? Un’anguilla insaponata.
Adorava quella definizione.



Lanci di letame a questo link: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1590#lastpost
 
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view post Posted on 25/12/2013, 00:39     +1   -1
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Per restare in tema di feste, un racconto in due parti, con protagonisti i maschietti.



UN CAPODANNO DIVERSO DAL SOLITO


Base Skarmoon – 26 dicembre

– Ciao, Yabby! – esclamò garrula Himika – Non è vero che l’ultimo dell’anno mi porti a ballare?
Dall’altra parte dello schermo, il sire di Vega ebbe come un mancamento: – Co-coosa…?
– Adesso non farmi storie – ammonì lei – L’altra volta, quando finalmente ti sei deciso a portarmi a ballare, ti sei divertito…
– Io? – il sire cercò di respingere gli agghiaccianti ricordi di quella serata – Ma io veramente…
– Per cui è deciso – continuò Himika – Per l’ultimo dell’anno, serata danzante, brindisi di mezzanotte, eccetera eccetera.
Re Vega sussultò: aveva capito benissimo cosa intendesse Himika con quell’allusivissimo “eccetera eccetera”, e si sentiva come un coniglietto in trappola.
Non che mancasse di, chiamiamolo spirito d’iniziativa: le donne gli piacevano, e molto, e generalmente l’idea di una serata di festeggiamenti assieme ad una bella bionda l’avrebbe mandato in visibilio.
Il fatto era che la bella bionda in questione era Himika, e lei aveva su di lui lo stesso effetto che può avere un serpente su un malcapitato uccellino.
Insomma, in compagnia di quella signora il fiero sire di Vega si sentiva un fragile maschietto pronto a venir divorato, inghiottito e digerito, e la cosa lo metteva a disagio parecchio.
Senza contare che c’era un problema anche peggiore…
– Himika, no! – tentò di dire; un’occhiata al fulmicotone da parte di lei fu più che sufficiente per trasformarlo in una misera massa di gelatina: – Volevo dire…
– Volevi dire che sei felice di farmi da cavaliere per la serata dell’ultimo dell’anno, non è così? – chiese lei, voce mielosa e sguardo da serial killer.
Lui si passò il dito all’interno del regio colletto: – Uh… veramente…
– Non è così? – ripeté lei, molto meno amichevole.
– Io… – annaspò disperatamente: pochissimo prima era stato contattato da Raflesia, che col suo tono polare da regina dei ghiacci l’aveva informato che per l’ultimo dell’anno lui doveva sentirsi onorato per il fatto di essere impegnato con lei. Non era stato possibile arginarla (“ Sono certa che rammenterai gli obblighi dovuti al mio rango”), e il sire si era così trovato impegnato a far da cavaliere alla regina di Mazone.
Ora, come poteva spiegarlo ad Himika?
Era un problema, anzi, un vero dramma: come dirglielo?
A risolvergli le cose fu proprio Himika stessa, che dopo averlo salutato dandogli un arrivederci per la serata di Capodanno, chiuse la comunicazione, togliendogli così qualsiasi possibilità di parlarle.
Il sovrano colò sulla regia poltrona, continuando a fissare lo schermo spento.
Raflesia ed Himika avevano entrambe deciso di uscire con lui, pretendendo entrambe l’esclusiva; il tutto, mentre lui non desiderava altro che essere lasciato in pace.
Non aveva mai voluto un legame, e ora se ne trovava ben due.
Re Vega era pur sempre Re Vega: questo fu l’unico motivo per cui non pianse, sforzandosi invece di trovare una soluzione al suo dilemma.
Dopo una buona ventina di minuti, l’unica possibilità fattibile che ebbe trovato fu quella di andare a chiedere il parere di Rubina.
Si alzò dalla regia poltrona e trotterellò verso gli appartamenti della figlia.


Osservatorio del dr. Procton – 26 dicembre

– Come sarebbe a dire che sei impegnato con Naida? – esplose Rubina.
– Non è esattamente così – rispose Actarus, cincischiandosi nervosamente le mani – A dire il vero, è stata lei a dire che per Capodanno…
– Ma il Capodanno tu dovevi trascorrerlo con me! – esclamò lei.
– Non avevamo stabilito niente in questo senso…
– Duke, ma era ovvio che per Capodanno noi saremmo stati assieme! Non siamo fidanzati?
Actarus dovette riflettere un attimo su questo punto: – Beh, teoricamente…
Per sua fortuna, Rubina era troppo arrabbiata per badare a quel “teoricamente”: del resto, la gio-vane principessa, per quanto d’indole amabile e gentile, aveva tutti i suoi sacrosanti diritti di essere scocciata. Innanzitutto, era appena trascorso il Natale, festa che ormai le riusciva piuttosto indigesta dato il clima gaio della base Skarmoon.
Poi, e questo era il peggio, non si era ancora ripresa dallo shock causatole dai regali appena ricevuti (da parte di papà una fiala di bacilli da dissenteria crusticulare purulenta, in pratica una guerra batteriologica portatile da borsetta, e da Actarus un set completo di feltrini autoadesivi, di vari colori e misure, da incollare sotto alle zampe dei mobili).
Rubina era una fanciulla educata e dabbene: invece di tirare una testata nucleare sul cranio del suo fidanzato, l’aveva chiamato via schermo per ringraziarlo gentilmente del suo dono, e per assicurarsi per l’ultimo dell’anno una serata decente… e veniva a scoprire che Naida si era fatta viva per prima, e soprattutto che quell’emerito decerebrato si era impegnato con lei? C’era di che far scoppiare fe-gato e milza anche alla più angelica delle sante, e Rubina era pur sempre figlia del suo papà, per cui la sua giusta ira, ovviamente funesta, si era abbattuta appunto sul decerebrato di cui sopra.
Senza tanti giri di parole, la fanciulla intimò all’amato bene A) di liquidare “quella sciacquetta” (sic!), e, B), di ritenersi per la serata del 31 c.m. immediatamente, infallibilmente ed irrimediabilmente impegnato con lei e solo con lei, pena atroci ritorsioni future.
Lo schermo si spense, sfrigolando.
Actarus rimase attonito, immobile e silenzioso.
Venusia, capitata per caso nella stanza, e subito uscitane con la delicatezza che le era propria, si allontanò senza dir motto.
Era troppo discreta per mettere il naso negli affari di Actarus, avrebbe dovuto trovare lui il modo di districarsi tra le sue donne.
Quanto a lei, mandò un grato pensiero ad Harlock che, dopo averla avvertita della nuova partenza di Meet, l’aveva invitata sull’Alkadia per un Capodanno tra le stelle.


Base Skarmoon – 26 dicembre

Re Vega si fece da parte mentre Rubina, invelenita, gli passava davanti senza nemmeno vederlo e s’allontanava a gradi passi per il corridoio, un mostriciattolo radioattivo per ognuno dei suoi rossi capelli.
Forse non è il momento di chiederle consiglio, comprese il prudente genitore.
Rifletté febbrilmente: con chi poteva parlare? Gandal, Hydargos…? Discreti, ma in fatto di donne ne sapevano quanto lui, e cioè ben poco.
Dantus, Barendos…? Secondo loro, ogni cosa poteva venir risolta a suon di testate nucleari… non era il caso.
Restavano Zuril e lady Gandal, i due cervelli migliori di Skarmoon, gli unici da cui avrebbe potuto ricavare qualcosa; il problema era però un altro. Lui avrebbe anche potuto far giurar loro di mantenere il silenzio, che tanto quei due, carogne com’erano, avrebbero trovato il modo di far sapere tutto a tutti senza mancare minimamente alla parola data, e quindi facendolo scemo non una, ma due volte. No.
C’era solo un’unica speranza che gli era rimasta… una speranza assurda, ridicola, impossibile, impensabile ma, appunto, unica.


Rimessa del ranch Betulla Bianca – 26 dicembre

– …Capodanno…? – rantolò Alcor, alzando la testa dalla moto che stava riparando.
– Capodanno – disse Sayaka – Andremo a trascorrerlo in montagna, in una località elegante. Ho già prenotato l’albergo.
– Un momento – cominciò lui, cercando di pulirsi le mani sporche di grasso con uno straccio bisunto – Non pensi che prima di prenotare avresti dovuto parlarne con me?
– Ma caro, era sottinteso che avremmo trascorso il Capodanno insieme! – osservò Sayaka, col tono di chi dice la cosa più naturale di questo mondo.
– Mi spiace, non è così ovvio – da dietro un’altra motocicletta spuntò Maria, scarmigliata e sporca di grasso pure lei – Anch’io gli ho chiesto di trascorrere il Capodanno con me. Una settimana in un residence nei mari del sud.
– Ah, capisco – Sayaka si voltò verso Alcor. – E tu cosa ne dici?
L’interessato si sentì come se avesse avuto la gola piena di segatura.
Normalmente, due donne che vogliono entrambe lo stesso uomo hanno il buon gusto di cercare di cavarsi gli occhi, strapparsi i capelli, insomma, di vedersela tra di loro.
Maria e Sayaka invece erano rimaste amiche, e scaricavano tutta la responsabilità della scelta su di lui: loro non avrebbero mai definito la questione, no, loro aspettavano che fosse lui a decidere – e conoscendole, entrambe poi gli avrebbero fatto pagare le conseguenze della sua scelta. La sconfitta l’avrebbe perseguitato con il suo rancore, e la vincitrice avrebbe fatto pesanti osservazioni circa il modo crudele in cui era stata trattata l’amica-rivale.
In un modo o nell’altro, lui era fregato.
Adesso entrambe lo fissavano, silenziose: doveva scegliere. Mare o montagna? Occhi azzurri o occhi neri? Maria o Sayaka?


Fortezza delle Scienze – 26 dicembre

In vita sua, Tetsuya poteva vantarsi di non aver mai partecipato ad un veglione di Capodanno.
Fino ad ora.
Gli anni precedenti aveva trascorso la serata del 31 dicembre il più delle volte come qualsiasi altra serata, andando a letto presto, da solo s’intende.
Da qualche anno, la sua vita aveva preso un andamento decisamente più frivolo: Jun era entrata nella sua vita, il che significava che lui aveva continuato, la sera del 31 dicembre, ad andare a letto presto – non da solo.
Jun però da un poco di tempo s’era incaponita con parole come “feste” e “veglione”. L’anno precedenteTetsuya se l’era cavata con una cena tra amici a base di pizza e birra, e tempo prima c’era stato l’indimenticabile ricevimento sulla base Skarmoon. Quest’anno, Jun era stata irremovibile: voleva assolutamente andare al veglione di Capodanno.
– Un veglione? – Tetsuya aveva arricciato il naso: – Ma è un classico di Capodanno, una scelta così banale…
– Ma noi non ci siamo mai andati – la voce di Jun era sembrata uno sgocciolio di melassa – Per cui per noi sarà un Capodanno davvero insolito, non ti pare?
– Ma ci vanno tutti… – aveva osservato Tetsuya.
– Tutti, tranne noi! – aveva risposto lei, prontissima.
Lui aveva capito subito d’aver perso in partenza, ma aveva tentato un minimo di resistenza: – Il veglione è una cosa banale, scontata, come andare in discoteca il sabato sera…
– Altra cosa che non abbiamo mai fatto! – l’aveva rimbeccato lei.
La discoteca no, mai! Tetsuya aveva ceduto sul veglione: – E va bene. Ma, sia ben chiaro, non farò mai il trenino! È una cosa cretina!
Jun non aveva avuto il coraggio di insistere; trionfante per la sua vittoria, aveva scompigliato affettuosamente i capelli del suo accigliato compagno: – E va bene, brutto orso, niente trenino. Però faremo gli altri balli.
Un mancamento al cuore: balli? Ugh…
– Bisognerà vedere se c’è ancora posto, per il veglione – osservò lui, con un tono da bravo bambino che non avrebbe ingannato un neonato un po’ tardo – Magari hanno finito i biglietti…
– Può essere, la gente va sempre in massa alle feste – osservò Jun; vide l’aria speranzosa di lui, e aggiunse, perfida: – Comunque, ho già preso i biglietti, per cui noi siamo a posto.
Tetsuya era un vero guerriero, un uomo tutto d’un pezzo, e incassò molto bene la sconfitta: – Magnifico. Non vedo l’ora.

- Continua -

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Alloggio di Alcor – 27 dicembre (notte fonda)

Fu un Alcor di pessimo umore quello che, dopo l’ennesimo rotolamento nel letto, si alzò imprecando contro le insonnie notturne, le ore piccole e le donne che pretendono d’avere l’esclusiva su un uomo.
Era inutile rigirare attorno al problema, lui era troppo diretto per fare una cosa simile: la questione era semplicissima, Sayaka e Maria pretendevano che lui facesse la sua scelta.
Lui, da parte sua, non aveva la minima intenzione di scegliere.
Non era possibile uscirne, la questione era tutta qui. Intanto, la maledetta sera del 31 dicembre si avvicinava, minacciosissima.
Immagino che sia troppo sperare in un attacco di Capodanno combinato da parte di Vega, Mikenes e gli Yamatai, si disse subito. Inutile, quando ti servono davvero, i nemici si dileguano subito.
Trovare una soluzione… una parola.
Girellò nervosamente per la stanza, tirando un calcio ad una poltroncina imbottita che gli era sempre stata antipatica e ricordandosi troppo tardi che un piede nudo contro un solido montante di legno intagliato difficilmente ha la meglio.
Ricadde mugolando sulla sedia da lavoro; il computer era davanti a lui, spento e silenzioso.
Improvvisamente, sentì il bisogno di accenderlo e dedicarsi all’ultimo gioco che tanto l’appassionava, uno sparaspara d’ambientazione horror. Macellare qualche centinaio di zombi purulenti freschi di cimitero l’avrebbe fatto sentire meglio.
Accese il computer, e d’istinto aprì la mail; stava per chiudere la schermata, quando un nome catturò la sua attenzione.
Aveva ricevuto una comunicazione da parte di “Extraterrestre”.
C’era stato un tempo in cui, con il nome di Eroe Oscuro, aveva frequentato un forum e fatto amicizia con un individuo conosciuto appunto con quel nickname; da questa conoscenza era derivata una serie di equivoci, e Alcor alla fine aveva scoperto che il suo grande amico Extraterrestre altri non era se non il sire Yabarn, Re di Vega, in persona.
L’epistolario, manco a dirlo, si era interrotto bruscamente; ora, dopo anni e anni, Extraterrestre aveva fatto la sua ricomparsa.
Re Vega che mi scrive…?
Folle di curiosità, aprì la missiva e la lesse avidamente.
Disperato… due donne… Himika… Raflesia, anche peggio… serata di Capodanno… aiuto!
Alcor fischiò, sorpreso. Evidentemente, anche la vecchia carogna aveva i suoi drammi di cuore, chi l’avrebbe mai pensato?
Un istante dopo realizzò che lo stesso dramma ce l’aveva pure lui, e il senso di fratellanza maschile ebbe la meglio sul sarcasmo. Pensò a Sayaka e Maria: in confronto ad Himika e Raflesia, erano due timide scolarette… la solidarietà virile salì alle stelle.
Digitò frettolosamente la sua risposta: piena comprensione, stesso problema pure lui, appuntamento per la sera successiva con videocollegamento in modo da poter concertare insieme una comune via di fuga. Se non ci si aiuta tra uomini…
La risposta arrivò in pochi istanti, vibrante di gratitudine: ci sarò!!!


Ranch Betulla Bianca – 29 dicembre

Era un Actarus particolarmente serio e pensoso quello che spingeva la carriola colma di letame fumigante, direzione concimaia dietro l’orto.
– Qualcosa non va? – chiese una voce alle sue spalle.
Actarus rovesciò diligentemente la carriola, in modo che tutto il letame cadesse nel mucchio.
– Un problema per Capodanno – rispose, assorto – Cosa fai tu? Vai al veglione?
Alcor trattenne il fiato: – Maria non ti ha detto niente?
Actarus guardò con rimprovero uno schizzetto di letame che gli aveva imbrattato una scarpa: – Avrebbe dovuto?
– No, in effetti no – concluse troppo in fretta il giovane – Parlami del tuo problema, vuoi?
– Semplice – Actarus si ripulì la scarpa con un fazzolettino di carta – Naida vuole che quella sera esca con lei.
– Beh, grande! – rispose Alcor, con una punta d’invidia – Naida è una ragazza strepitosa, un vero schianto. Qual è il problema?
– Anche Rubina vuole uscire con me quella sera – Actarus appallottolò il fazzolettino, gettandolo sul mucchio di letame.
– Oh, ah. Ma se sei già impegnato con Naida…
– Veramente, è Naida che si è impegnata con me, io non…
– Certo, capisco – salame, aggiunse tra sé.
– E comunque, Rubina dice che lei è la mia fidanzata, e che ha la precedenza.
– Ma non eri fidanzato con Naida?
– Anche.
Alcor tacque, guardando con tanto d’occhi quel suo amico, bietola come nessuno e allo stesso tempo capace di essere impegnato con due tra le più splendide ragazze che lui avesse mai conosciuto. E il tutto, senza nemmeno essere cosciente della cosa! Esistono uomini che si dannerebbero l’anima per impegnarsi con UNA sola donna, magari nemmeno tanto bellina, e non ci riescono; senza muovere un dito, Actarus ne aveva addirittura due. No, tre, se contiamo anche…
– E Venusia? – chiese impulsivamente.
Occhiata vacua: – Che c’entra Venusia?
– Se non lo sai tu… voglio dire, lei per quella sera che fa?
Actarus si grattò il cocuzzolo per riflettere meglio: – Non ne ho idea.
– Lasciamo perdere. Probabilmente resterà a casa a giocare a tombola con suo padre e suo fratello.


Proprio in quel momento, Rigel stava sbottando che non capiva perché sua figlia dovesse partire proprio la mattina del 31 dicembre… pensare che lui aveva organizzato una fantastica lotteria con ricchi premi, ospiti Procton, Hara, Banta… insomma, c’era da divertirsi follemente. E lei, figlia ingrata, se ne andava via con quel tizio… quell’Harlock… oltretutto bruttissimo, con un occhio solo e il viso sfregiato… ma che ci vedeva, in quell’individuo? A lui proprio non piaceva.
– Spero bene che non ti piaccia – rispose Venusia, che sapeva benissimo che cosa ci vedeva in Harlock – Mi preoccuperebbe il contrario.
Seguì un ululato con imprecazioni varie circa il rispetto dovuto ai genitori, e la sfacciataggine dei figli, specie se femmine.


– Allora? – continuò Alcor, seguendo Actarus che stava riportando la carriola nella rimessa – Che pensi di fare?
– Non lo so – fu la risposta che ottenne.
Rapidamente, il giovane lo mise a parte del fatto che lui pure avesse lo stesso problema con Maria e Sayaka.
– Mia sorella…? – cominciò Actarus, ma Alcor non lasciò continuare e prese a parlare di Re Vega e dei suoi patimenti amorosi. In breve: tutti e tre erano nella stessa situazione.
È doloroso dirlo, ma in Actarus l’uomo angosciato la ebbe vinta sul fratello affezionato: – E cosa pensate di fare?
– Ne parleremo assieme stanotte – rispose Alcor, con aria da cospiratore – Vieni in camera mia, Re Vega si metterà in contatto con noi e vedremo il da farsi. In un modo o nell’altro, quelle vipere non ci avranno!
Actarus pensò a Rubina, pensò a Naida, ricordò come le due fanciulle, se irate, potessero diventare fortemente sgradevoli, tanto per usare un eufemismo, e mandò al diavolo qualsiasi scrupolo: – A che ora?


Alloggio di Alcor – 28 dicembre (notte fonda)

– …E questa sarebbe la mia idea – disse Alcor, a mo’ di conclusione.
Attraverso lo schermo del computer, il sire di Vega appariva addirittura giubilante: l’idea di giocare un simile, lercio tiro alle due streghe… pardon, le due gentildonne… lo deliziava. – Approvato in pieno!
– Non credo che sia un gesto molto carino – cominciò Actarus, dubbioso.
– Ti pare carino ridurci alla disperazione come hanno fatto quelle vipere? – sbottò il sire.
– Una delle vipere è tua figlia – osservò Actarus.
– E un’altra è tua sorella, così siamo pari – rispose il sire, prontissimo – Allora? Ci stai?
– Ma è una fuga ignominiosa…
– Chiamala “ritirata strategica” e deciditi, una buona volta! – sbottò il sovrano, che di ritirate strategiche se ne intendeva, eccome.
Actarus esitò un ultimo istante; ripensò a Rubina e Naida in versione fuori-dai-gangheri, e perse ogni scrupolo: – Sono con voi.
– Bravo ragazzo – sorrise Alcor.
– Magnifico! – il sire si strofinò allegramente le regie mani – Sarà un Capodanno diverso da qualsiasi altro!


Svariate parti dell’Universo – 31 dicembre

Erano sei, erano furiose, invelenite, bramose di vendetta. Sei donne che indossavano abiti elegantissimi, avevano i capelli in perfetto ordine ed erano truccate ed ingioiellate, pronte per una meravigliosa serata assieme all’uomo della loro vita.
Sei donne il cui pensiero era uno e uno solo: “Ma dove si è cacciato, quel maledetto???”
Sei donne che stavano trascorrendo un Capodanno indimenticabile. In tutti i sensi.


Da tutt’altra parte dello spazio, Venusia indossava solo una collana scintillante che aveva appena ricevuto in dono… il suo compagno addosso aveva soltanto una benda che gli copriva l’occhio destro… i calici tintinnarono, i due brindarono, e poi diedero il via ai festeggiamenti.
Anche il loro Capodanno fu veramente indimenticabile.


Salone delle feste – 31 dicembre

La sala era in bianco e oro, tutta luci e decorazioni natalizie. Una gran pista da ballo si apriva nel mezzo, e attorno erano distribuiti i tavoli, rotondi, ricoperti da candide tovaglie ed ornati da ciuffi di abete e vischio. In un angolo, un’orchestrina suonava un po’ di tutto, dai classici natalizi ai valzer viennesi, dai balli rock più sfrenati ai pezzi latino-americani.
Per quanto rotto ad ogni allenamento, dopo ore e ore di balli vari Tetsuya cominciava a sentire i polpacci esprimere chiaramente il loro dissenso; Jun, beata ragazza, stava divertendosi follemente, e sembrava del tutto instancabile. Era comunque quasi mezzanotte, l’ora dei brindisi e dei trenini; Jun captò l’occhiata da agnello al macello del compagno, e con un sorriso acconsentì a tornare al loro tavolo. Oltretutto, le scarpine da sera di raso con i tacchi stavano cominciando a farle vedere il sole, la luna, le stelle e pure un buon numero di pianeti.
Tornarono al loro tavolo, che si trovava in una posizione piuttosto felice, dato che era un po’ isolato dal grosso della calca ma permetteva una perfetta visione della pista da ballo.
Jun appariva semplicemente radiosa: aveva le guance colorite e gli occhi brillanti. Aveva scelto per la serata un vestito mozzafiato di un tono di rosso vermiglio che s’intonava perfettamente con la pelle scura e i capelli corvini; Tetsuya era praticamente sicuro che fosse lei la dama più bella presente nella sala. Innumerevoli occhiate di altri maschi gli avevano confermato la sua opinione.
Proprio mentre scortava verso il tavolo la compagna, e relative curve fasciate di rosso, Tetsuya incrociò altre occhiate bramose, cui rispose con uno sguardo “smamma, bello”.
Il veglione non era stato poi male: la sala era elegante, la cena appetitosa, la musica non del tutto insopportabile. Ballare… beh, si era mosso più o meno a ritmo di musica con la grazia di un amabile orso, ed aveva pure acconsentito a farsi mettere in testa uno di quegli assurdi cappellini da party, una bombetta verde tutta lustrini, molto più ridicola del piccolo cilindro d’oro toccato in sorte a Jun. Ma vabbé, era una festa…
Adesso ci sarebbe stato il brindisi di mezzanotte, poi avrebbe ghignato guardando gli altri fare il trenino, e poi sarebbero andati a casa per continuare i loro personali festeggiamenti di inizio dell’anno, e poi… beh, poi basta. Non c’erano certo sorprese in ballo, ormai…
Il presentatore interruppe la musica: ormai era il momento di iniziare il conto alla rovescia. Avevano tutti la loro coppa per lo champagne? Sì? Allora dieci… nove… otto…
In una serie di botti, i tappi saltarono, risate e grida d’auguri si intrecciarono e lo champagne venne versato nei calici.
Oltre le grandi vetrate delle sala, si poterono vedere le luci dei fuochi artificiali che salivano in cielo e ricadevano in piogge multicolori.
Jun tolse dal vasetto sul tavolo un ramoscello di vischio e se lo tenne sospeso sulla testa: – Tetsuya…?
Lui, che stava versando il vino, colse lo sguardo della compagna e depose subito la bottiglia.
Colse anche le occhiate bramose di alcuni maschi presenti, prontissimi a farsi avanti verso quella splendida creatura che si trovava sotto al vischio, e li bloccò con un’occhiata laser “non provateci, cocchi”.
Delusione dei maschi, stracarichi d’invidia verso quel tizio dall’aria poco amichevole, e dai bicipiti decisamente nodosi, che con tutti gli entusiasmi del caso si apprestava ad augurare il buon anno alla sua meravigliosa dama. Con facce da gatti dietro alla vetrina del pescivendolo, i vari maschietti si eclissarono uno ad uno.
Dopo essersi restaurata quel che le restava del suo trucco, e dopo essere scoppiata a ridere vedendo che il rossetto che le mancava si era misteriosamente trasferito sulle labbra di Tetsuya, Jun prese il suo calice per il brindisi di rito; lui fece altrettanto, le coppe tintinnarono, entrambi bevvero qualche sorso…
– Ossignore…! – solo grazie al proprio perfetto self-control Tetsuya riuscì ad inghiottire lo champagne che aveva in bocca, senza strozzarsi e senza far fare a Jun una doccia fuori programma.
– Ma che ti prende? – esclamò lei, battendogli sulla schiena mentre il giovane tossiva, gli occhi sbarrati e colmi d’orrore.
Mai Jun aveva visto in quello stato il suo compagno: nemmeno i più abominevoli mostri Mikenes erano riusciti a scuoterlo… e ora, Tetsuya stava fissando qualcosa in mezzo alla sala, visibilmente sconvolto.
Che cosa poteva aver visto, di tanto terribile, in mezzo a quella folla di gente festante? D’accordo che stavano ballando facendo il trenino, ma…
Jun gli prese una mano, gliela strinse amorosamente tra le sue: – Tetsuya! Cosa succede?
Incapace di rispondere (non trovava le parole adatte a farlo), il giovane puntò un dito tremante verso la causa di tanto orrore: – …Là…!
Jun guardò a sua volta, e il raccapriccio le fece mancare il fiato.
In mezzo alla sala, tra i più indiavolati tra gli indiavolati ballerini che si esibivano nel trenino, tre individui si distinguevano per il loro ballo scatenato.
Il primo era un giovanotto sui cui foltissimi capelli neri sempre in disordine campeggiava un fez da party rosso ciliegia decorato da una lunga piuma gialla tipo rajah.
Il secondo era un po’ più grande del precedente, aveva gli occhi più blu che Jun avesse mai visto, e indossava un cappellino a cono viola ornato di stelline.
L’ultimo, altissimo, magrissimo e dotato di folta barbaccia nera, portava in testa due orecchie azzurre da coniglietto.
Tutti e tre ballavano con la foga che solo tre uomini liberi possono avere, mentre nella sala echeggiavano le note della più classica musica da festa: “A–E–I–O–U–Ypsilon…”


FINE


Potete appiccicarmi le gengive con il vischio qui: #entry548934455
 
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