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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 12/4/2014, 23:04     +1   +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Giorni fa, avevo detto di non aver nulla di nuovo di umoristico, salvo ovviamente mi fosse venuta la classica idea strafulminante.
La mattina dopo tale dichiarazione, ZOT! Idea.
Tutta la giornata è trascorsa con me ringhiante: quando sono pronta a scrivere e non posso farlo, il mio umore, già di suo poco amabile, peggiora ulteriormente.
Quella sera, cacciati i maschi fuori dai piedi, ho scritto di getto ciò che segue, un racconto decisamente perfido d'argomento pasquale.
Lo posto oggi, visto che i prossimi giorni sarò via, mi auguro, e sul forum potrò venire pochino.

Un ringraziamento speciale a Shooting Star e Calatea 4, per il loro fantastico I need a hero. La follia che segue è dedicata a loro (e spero di non causare guai con questo. Ricordo ancora il terremoto accaduto l'ultima volta che ho dedicato qualcosa a qualcuno...^^).

Buona lettura!


SORPRESE PASQUALI


– Esigo sapere perché hai boicottato il mio piano! – sbraitò Dantus.
– Perché è cretino – rispose Zuril.
Seduti in disparte della Sala Comando, Gandal e Hydargos si godevano la scena, due larghi ghigni dipinti sulle facce. Poche cose li divertivano come il vedere l’odioso (e odiato) collega Dantus messo alle strette da Zuril.
– Non è vero! – esplose Dantus – Il mio è un progetto originale, completamente diverso dalle tue strategie assurde, e siccome hai paura che funzioni…
Zuril lo guardò come si guarda un povero deficiente, disponendosi a portare molta, ma molta pazienza: – Ascolta, Dantus, io capisco che tu creda nel tuo progetto… sarebbe assurdo se così non fosse… ma non ti è nemmeno venuto il dubbio che forse…
– Io non ho dubbi circa il mio piano!
– Ecco, il problema è proprio quello.
Dantus prese a camminare rabbiosamente in su e in giù nella sala, mentre Zuril, seduto al suo posto, scambiava con i colleghi uno sguardo da santo in procinto di martirio. Più avanti, Gandal e Hydargos avrebbero giurato d’aver intravisto un’aureola al neon luccicargli sulle ali da pipistrello.
Arrivato ormai al culmine dell’ira, Dantus non resse più e puntò il suo dito accusatore: – Zuril, possibile che tu debba ostacolare sempre i miei progetti?
Zuril congiunse piamente le mani, mentre l’aureola baluginava: – Io ostacolo solo quelli ridicoli.
– Cioè, tutti – sussurrò Gandal dando di gomito a Hydargos, che ghignò.
Dantus gonfiò il torace di giusta indignazione: – Oseresti asserire che…
– Oso asserire che truccare il King Gori da Coniglio Pasquale ed inviarlo contro Goldrake armato di cestello contenente tre uova giganti di cioccolata ripiene di vegatron triplo rinforzato sia un progetto ridicolo, sì – rispose Zuril, calmissimo – L’unica possibilità di successo che io vedo per un piano simile è che Actarus schiatti dalle risate, eventualità che ritengo alquanto improbabile.
Dantus sembrò vacillare: aveva avuto cieca fiducia nella sua idea, ma ora, sentendola enunciare da Zuril con quel tono pieno di compatimento, suo malgrado era costretto ad ammettere a sé stesso che sì, sembrava piuttosto ridicola. Per non dire totalmente idiota.
– Come Ministro delle Scienze, ho avuto da Sua Maestà in persona la facoltà di sovrintendere qualsiasi innovazione tecnologica venga adottata dal nostro esercito – stava intanto continuando Zuril, mentre l’aureola emanava azzurri barbaglii – Se comunque ritieni che io ti stia trattando ingiustamente, che stia abusando della mia autorità, puoi sempre andare dal nostro beneamato sovrano, spiegargli dettagliatamente il tuo progetto e sentire la sua opinione. È tuo diritto farlo.
Improvvisamente, Dantus ebbe la visione di sé stesso di fronte al temutissimo sire di Vega, intento a parlare di Conigli Pasquali e di cestelli colmi di uova al vegatron, ed ebbe un certo capogiro.
– Io… – tossicchiò – Io temo di essermi lasciato… come dire…
– “Trasportare dall’entusiasmo”? – l’aiutò Zuril, indulgente.
Fin troppo indulgente… Gandal e Hydargos si diedero uno sguardo interrogativo.
– Entusiasmo, sì… – Dantus deglutì – Diciamo così.
– Certo – Zuril era il ritratto della comprensione – Ultimamente, hai lavorato forse un po’ troppo, capisco benissimo. Vedremo di fare in modo che Re Vega non ne sappia nulla.
Occhiate molto interrogative sia da parte di Dantus che da Gandal e Hydargos.
– Cosa vuoi dire? – chiese Dantus, diffidente. Sapeva benissimo che Zuril lo riteneva simpatico almeno quanto un attacco di scabbia purulenta siriana, per cui trovava quantomeno sospetto che volesse tenere per sé un simile ghiottissimo segreto invece di spiattellarlo al sire facendogli fare una figura da sottoprodotto intestinale.
Zuril lo guardò con l’occhio accorato da santo vergine e martire:– Stai forse pensando che io potrei abbassarmi al punto da denunciarti a Sua Maestà?
– Sì – rispose Dantus.
– Mi ferisci – espressione addolorata, mano contratta sul cuore in un gesto di estrema sofferenza, ulteriori scintille bluastre attorno all’aureola – Io non farei mai una cosa simile! A un collega!
Gandal e Hydargos lo fissarono, gli occhi che erano tutto un punto interrogativo.
– Esiste lo spirito di corpo! – continuò Zuril – Dobbiamo restare uniti! …Senza contare il fatto che la notizia del tuo errore, chiamiamolo così, getterebbe fango su tutti noi. Siamo alti ufficiali di Vega, abbiamo una reputazione da mantenere.
– Ah ecco, a questo credo di più – rispose Dantus – Allora, non dirai nulla a Re Vega?
Zuril alzò una mano quasi a chiamare il Cielo stesso quale testimone di quanto stava affermando: – Non riferirò nulla a Re Vega. Hai la mia parola.
– E non lo farai informare da qualcun altro? – chiese Dantus, che conosceva bene il suo pollo.
– Non farò nulla di simile! Dantus, – aggiunse, la voce che quasi gli si spezzava dalla commozione – io per primo non ho alcun interesse che Sua Maestà venga a sapere del King Gori in versione Coniglio di Pasqua.
Dantus rabbrividì per il raccapriccio: ora che gli si era intiepidito il fervore e che gli era passata l’arrabbiatura, lui per primo si rendeva conto di quanto fosse stato assurdo il suo piano… ma cosa gli era venuto in mente? Forse Zuril aveva avuto ragione, dicendo che lui lavorava troppo. Avrebbe fatto meglio a prendersi quelle ferie cui stava rinunciando da fin troppo tempo.
– Io, uh, suppongo di doverti… hm… – si fece forza per buttar fuori quella parola che non voleva proprio uscirgli dalle zanne – ringraziare.
– Ma di niente, figurati! – la voce di Zuril grondava melassa ad ogni sillaba – Non è nemmeno il caso di parlarne!
Con un ultimo saluto imbarazzato Dantus usci quasi di corsa, mentre Gandal e Hydargos andavano a piantarsi davanti alla scrivania del loro inspiegabilmente troppo angelico collega.
– Si può sapere che ti è preso? – sbottò Hydargos.
– Coprire quella carogna di Dantus! – esplose Gandal – Questa da te non me la sarei mai aspettata!
Zuril scosse il capo con riprovazione: – Vedo che avete davvero una cattiva idea di me…
– Sì! Perché tu sei cattivo! – esclamò Hydargos.
– Una carogna fuoriclasse! – aggiunse Gandal – Persino mia moglie, che non è certo una santa, davanti a te è una dilettante!
– Immaginiamo che tu abbia in mente qualcosa – continuò Hydargos, mentre Zuril lo guardava con l’aria innocente del gatto che si è pappato latte, canarino e pesce rosso – per cui non abbiamo detto nulla e ti abbiamo retto il gioco…
– Però, adesso ci spieghi cos’hai in mente! – concluse Gandal – Pensi davvero di non denunciarlo?
– Mi meravigliate – rispose Zuril, l’aureola che si allargava raggiungendo le dimensioni di un ombrello – Avete sentito che ho dato la mia parola…
– Ma non intendi mantenerla! – disse Hydargos, facendosi quasi supplichevole – Dimmi che non intendi mantenerla…
– Hydargos – Zuril lo guardò con gentile rimprovero (l’aureola era ormai un ombrellone da spiaggia) – in vita mia, io non ho mai mancato alla mia parola!
– Vuoi davvero coprire Dantus – disse Gandal, stupefatto – Ma… perché?
Zuril aprì le mani in un gesto serafico: – Ragazzi… è Pasqua. Pace tra i cuori.
– All’inferno! – Hydargos diede una manata sulla scrivania e poi puntò alla porta – Scusate, devo andare a vomitare!
– Vengo con te! – rispose Gandal, gettando uno sguardo indignato a Zuril; lo seguì fuori della sala, e la porta si richiuse dietro di loro.
Rimasto finalmente solo, Zuril accese l’intercom collegandosi ai laboratori. Subito, uno scienziato lo salutò rispettosamente: – Sì, signore?
– Avete sedato il King Gori?
– Appena adesso, signore. Stiamo per sottoporlo all’intervento per rimuovere le orecchie da coniglio, i dentoni e la coda a pompon.
– Ottimo – rispose Zuril, che soffriva all’idea del più letale mostro di Vega ridicolizzato a quel modo da quel cretino di Dantus – La cesta con le uova…?
– Ho obbedito ai vostri ordini, signore – ripose subito lo scienziato, abbassando la voce – Come da accordo, ho classificato le uova… scusate, le bombe, come esplose e ve le ho nascoste personalmente nel vostro magazzino privato.
– Perfetto. Non appena il King Gori avrà ripreso il suo aspetto originario considereremo chiuso l’incidente, e non ne parleremo più. – chiuse la comunicazione, prendendo mentalmente nota di mandare un regalino a quel suo uomo fedelissimo. Quindi aprì un cassetto della scrivania, ne estrasse tre biglietti decorati con colombe e coniglietti pasquali e cominciò a scrivere il primo:
“Caro Actarus…”


Prima sorpresa

– Ma è… è… fantastico! – esclamò Mizar, guardando il meraviglioso, gigantesco uovo di cioccolata che campeggiava sulla tavola attorno alla quale erano raccolti tutti per il pranzo pasquale: oltre alla famiglia Makiba c’erano ovviamente Actarus, Maria e Procton, e poi Alcor, Banta e relativa madre. Era una bellissima giornata di festa, il pranzo era stato squisito e quell’immenso uovo ne sarebbe stato la degna conclusione.
– È davvero colossale! – commentò Procton.
– Ma chi l’ha comperato? – chiese Maria.
– Non l’abbiamo comperato! – esclamò Venusia – Ci è stato recapitato… è un dono per Actarus.
– Per me? – si stupì l’interessato.
– C’è un biglietto, guarda – Alcor staccò una busta che era stata incollata alla carta viola e al nastro verde vegatron dell’uovo. Actarus l’aprì, la lesse e scosse la testa, imbarazzato.
– Chi lo manda? – chiese Venusia.
– Delle… ammiratrici – Actarus s’imporporò leggermente sugli zigomi – Una specie di fan club italiano, credo… devono essere delle signore, non capisco bene.
– Fammi vedere – Alcor scorse il biglietto: frasi colme d’ammirazione per l’eroico pilota, per il suo coraggio, il suo altruismo, la sua possente figura, i suoi occhi blu zaffiro… qualche altra sospirosa dichiarazione… seguivano delle firme assurde, Calatea, Shooting, Aster… – Ma come si chiamano, queste?
– Ma è ovvio – rispose Mizar, con l’aria di chi sa il fatto suo – Non sono nomi veri, sono nicknames, come quelli che si usano sui forum di internet.
– Mah, io di queste cose capisco poco – asserì bonariamente Procton.
– Io non capisco niente, invece! – sbottò Banta – Però non m’interessa chi lo manda, voglio mangiare quest’uovo, e basta!
– Sono d’accordo con te, Banta, una volta tanto! – esclamò Rigel – Vogliamo aprirlo, una buona volta?
Applausi tutt’attorno. Spinto dagli altri, Actarus sciolse il nastro, aprì la carta: l’uovo era davvero immenso. Un profumo delizioso di cioccolata giunse alle narici di tutti.
– Apritelo, presto! – gridò Rigel – Voglio assaggiare quella cioccolata!
– Ci penso io! – Banta alzò un pugno grosso come un maglio, ma Alcor lo fermò a mezz’aria.
– Un momento, amico, se colpisci quell’uovo con un tuo pugno lo schianti!
– Ma Alcor, dev’essere molto spesso! – Mizar tamburellò sull’uovo, che suonò come se fosse stato pieno – Per me non ci riesce nemmeno Banta a romperlo!
– Allora, lasciate fare all’esperto! – Alcor andò allo sgabuzzino e ne tornò con un martello – Secondo voi, un uovo così grande che sorpresa può contenere?
– Qualcosa di prezioso? – azzardò Maria.
– Più facilmente, qualcosa di voluminoso ma che non vale molto – osservò Procton, razionale come sempre.
– Al diavolo! – urlò Rigel – Alcor, aprilo e vediamo finalmente la sorpresa!
Alcor alzò il martello, lo lasciò cadere…
BA-WOOOMMM!!!!


Seconda sorpresa

Per me? – giubilò il sire di Vega, e mancava poco che battesse le mani nel vedere quel meraviglioso, gigantesco uovo di Pasqua fasciato da una carta viola metallizzata chiusa da un nastro verde vegatron.
– Papà, lo sai che la cioccolata ti fa venire la colite – sospirò Rubina.
Suo padre non le badava nemmeno. Al diavolo la colite! Scorse un biglietto attaccato all’uovo e lo aprì: auguri… servili omaggi… prosternazioni varie… l’umilissimo e devotissimo Dantus.
– Dantus! Ma che pensiero carino! – mani frementi, Re Vega cominciò a sciogliere il nastro verde – Si è ricordato di quanto mi piaccia la cioccolata…
– Dovrebbe anche sapere che ti fa male! – esclamò la principessa – Il tuo fegato…
– Lascia perdere il mio fegato! – la carta cadde, e Re Vega rimase abbagliato nel fissare la lucida superficie marrone dell’uovo: – Portatemi qualcosa per aprirlo!
Un soldato corse via, tornando subito dopo con una bipenne d’argento, dono di Himika; Sua Maestà fece una smorfia ben poco galante, scorgendola, ma poi l’agguantò disponendosi a spaccare l’uovo: – Rubina, ricordami di mandare a Dantus i miei ringraziamenti! Non vorrei fare figuracce.
– No, per carità, non è il caso che la tua popolarità debba soffrire…
– Chissà cosa contiene! – Re Vega alzò la bipenne, calandola poi con forza: – Io adoro le sorprese…
BA-WOOOMMM!!!!


Terza sorpresa

Due uova, due esplosioni.
Zuril ghignò, pensando al terzo ed ultimo uovo che aveva lasciato nello studio privato di Barendos: quando questi fosse tornato dalle sue ultime efferatezze su Ruby, avrebbe trovato ad attenderlo una bella sorpresa accompagnata da un messaggio di Dantus… la stessa firma che Re Vega aveva trovato sul proprio biglietto. C’era da supporre che non appena Sua Maestà fosse uscito dal reparto Grandi Ustionati del Centro Medico avrebbe avuto qualcosina da discutere con il suo ministro della Difesa.
Fortunatamente, uno dei suoi molti talenti era riuscire a falsificare firme, e quella di Dantus, modestia a parte, gli veniva davvero bene.
Oltretutto, lui non aveva mai fatto sapere nulla al sire circa le uova, per cui nessuno avrebbe potuto accusarlo d’aver mancato di parola.
L’idea poi del club di ammiratrici… sempre modestia a parte, era stata un vero colpo di genio. Chissà poi se le signore in questione avrebbero ancora ammirato tanto Actarus se l’avessero visto com’era conciato ora… ma forse sì, l’avrebbero adorato ugualmente. Certe donne vanno pazze per gli eroi, specie quando sono un po’ scassi.
Dev’essere per lo spirito da crocerossina che alberga nell’animo femminile, si disse Zuril entrando in sala comando e arrestandosi immediatamente sulla porta, colmo d’orrore.
Un immenso uovo di cioccolata… gettati a terra, carta viola metallizzata, nastro verde vegatron…
– Ehi, Zuril! – esclamò allegramente Gandal – Guarda cos’abbiamo trovato nello studio di quella carogna di Barendos!
– Arrivi giusto in tempo! – Hydargos alzò un martello – Adesso vediamo qual è la sorpresa!
– No! – urlò Zuril, ma il martello calò, inesorabile.
BA-WOOOMMM!!!!


Perché, come disse quel tale, una Pasqua non è una vera Pasqua se non si rompono le uova.
Specie quelle nei panieri altrui.




Per i vostri graditissimi commenti, possibilmente non corredati di uova di cioccolato al vegatron: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1650#lastpost
 
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view post Posted on 10/5/2014, 17:54     +1   +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Una battuta di mio marito ha dato l'idea, e ne è seguita questa one-shot, decisamente scema ma che almeno qualche risata la strappa... se non ai lettori, ai protagonisti.
Abbiate pazienza, è l'età.^^

IENE (UMANE) RIDENS


– Allora? – chiese il sovrano di Vega – Cosa intendete fare contro Goldrake?
Dantus e Barendos scattarono sull’attenti, occhi brillanti ed enormi sorrisi stampati sulle facce.
– Sire, abbiamo un piano! – esclamò Dantus.
– E abbiamo anche un violino! – annunciò Barendos.
– Così potremo suonargliele di santa ragione! – conclusero entrambi, scoppiando in un’irrefrenabile risata.


Gandal rimase pensoso ad osservare la porta attraverso cui i suoi sghignazzanti colleghi erano stati condotti via, direzione camera delle torture; poi s’avvicinò con aria noncurante a Zuril, che era rimasto fino ad allora alla sua postazione, tutto occupato a lavorare sul suo computer.
– Permetti una domanda – disse il Comandante di Vega – Non è che ci sia una relazione tra la misteriosa scomparsa di quella confezione di euforin dalla dispensa medica e la bottiglia di liquore che ieri hai regalato a Dantus per il suo compleanno?
Zuril lo guardò, vero ritratto dell’innocenza oltraggiata: – Ma cosa ti viene in mente?
– Tu sei pazzo! – esclamò Gandal sudando freddo – Dantus avrebbe potuto offrire anche a me quel liquore!
– Tu sei mezzo astemio, avresti rifiutato.
– Ma Hydargos non lo è, avrebbe accettato di corsa!
– Certo, ma quel fetente di Dantus non avrebbe mai offerto del liquore a Hydargos, ti pare?
– Noi avevamo un accordo – sibilò Gandal – Qualsiasi scherzo avessimo combinato a quelle due iene, non avrebbe dovuto far correre alcun rischio a noialtri! L’hai dimenticato?
– No – rispose impassibile Zuril – E infatti, noialtri non abbiamo corso alcun rischio.
– Sei un incosciente…! – e Gandal s’allontanò a grandi passi, sdegnato.


Era un’ingiustizia!
Profondamente deluso, il sovrano di Vega rientrò nelle sue private stanze.
Aveva fatto sacrosantamente torturare quegli imbecilli dei suoi comandanti, rei d’averlo preso per le regali natiche, e si era ritrovato a dover assistere ad uno spettacolo che non esitava a definire raccapricciante: quei due, sottoposti alla frusta elettrificata protonica, invece delle regolamentari urla di dolore non avevano fatto altro che ridere quasi gli stessero solleticando la pianta dei piedi. Si erano praticamente strangolati, dalle risate… Non era giusto, gli avevano rovinato tutto il bello della tortura.
In preda alla sua giusta collera, il sire si guardò attorno, corrucciato; solo allora notò una bottiglietta posata sul tavolo. C’era un bigliettino… un assaggio di un pregiatissimo liquore inviatogli proprio da Dantus, che si firmava come sempre umilissimo e devotissimo. Che carino! Quasi gli dispiaceva averlo fatto frustare… beh, per fortuna che Dantus l’aveva presa in ridere, va’.
Un goccetto è quel che ci vuole, si disse, versandosene una generosa dose in una coppa.


Poco dopo, vedendo il padre prillare per la sala del trono giocando a calcio con la sua corona ed emettendo urla giulive sul genere yodel, la principessa Rubina non ebbe la minima esitazione e chiamò subito il Centro Medico, sezione neurodeliri.


– Hai visto? – esclamò sottovoce Gandal, mentre il sire, tutto trilli e gorgheggi, veniva debitamente impacchettato e condotto via.
– È spiacevole, certo – rispose con calma Zuril, con l’aria appagata che assumeva sempre quando una delle sue era arrivata non solo a buon fine, ma aveva avuto anche sublimi, inaspettati sviluppi – però è come ti dicevo, no? Tu e Hydargos non avete corso rischi.
– Ma guarda cosa è successo a Re Vega!
– Lui non fa parte del nostro patto…
– Però ha bevuto quel liquore!
– Ed è stato un incosciente a farlo, vista l’ipertensione di cui soffre.
– Ma l’ha bevuto perché gliel’ha dato Dantus…
– Incosciente anche lui. Vedi che gli è stato bene, quello che gli è successo?
Gandal serrò pugni e zanne, e lasciò perdere: niente da fare, Zuril aveva sempre ragione.


Esausta, Rubina rientrò nelle regali stanze: papà era finalmente calmo, ora. C’era voluta una dose di sedativo taglia King Gori, ma finalmente il sire aveva smesso di cinguettare e riposava come un grosso angiolotto.
Ma cosa gli era preso, da comportarsi così…? Questo, non riusciva a spiegarsi…. Beh, ci avrebbe pensato più avanti, ora era troppo stanca.
Crollò su una poltrona, e subito gli occhi le caddero su una graziosa bottiglia posata sul tavolo: liquore… quel che le ci voleva.
Afferrò una coppa e se la riempì: chissà che un sorsetto non le risollevasse un po’ il morale…


Affamandatemi pure a questo link, grazie: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1680#lastpost
 
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view post Posted on 5/6/2014, 18:07     +1   -1
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Terza puntata del what if, il mio personale finale di Goldrake.

Per chi non ricordasse i due precedenti, o semplicemente non avesse voglia di sciropparsi un simile malloppo, aggiungo un breve riassunto di quanto accaduto nei due precedenti lavori.
A tutti, buona lettura.

Distrutto dalla morte di Kein e Fritz, vista morire anche Rubina, Zuril si lascia catturare dai terrestri, convinto di venire ucciso. Si trova invece a parlare con Actarus: i due scoprono di volere entrambi la stessa cosa, la fine di quella guerra rovinosa, e trovano un accordo. Zuril torna su Skarmoon per negoziare la pace; Re Vega, impazzito per la perdita della figlia abdica in suo favore e si chiude in uno stato catatonico. La popolazione di Skarmoon acclama il nuovo sovrano ed esulta per la pace. Unico a non accettare questo è Gandal, che si rifiuta di continuare a vivere in un mondo che non riconosce più come suo e si annulla, lasciando il campo completamente libero a sua moglie.
Actarus e Maria tornano su Fleed, dove incontrano i sopravvissuto della loro popolazione, liberati da Vega. Zuril porta quel che resta dei veghiani su Moru, divenuto un mondo interamente da ricostruire, e cominciano a ricostruirsi un’esistenza diversa da quella avuta fino ad allora. Tra i sopravvissuti ci sono Naida e Hydargos, ormai felicemente sposati e in attesa di un bimbo.

Per cementare l’alleanza tra Fleed e Vega Maria propone a Zuril di sposarla. In realtà lei prova solo paura e disgusto per lui, ma è rimasta impressionata dalla morte di Rubina e vuole contribuire come può alla pace, anche sacrificando sé stessa. Dopo primi tempi davvero difficili i due cominciano però ad intendersi. Su Moru arriva Rigr, fratello del defunto Gauss e attuale sovrano di Upuaut. Il suo scopo è vendicarsi uccidendo il vecchio Re Vega, ma è proprio Maria a dissuaderlo, facendogli notare la follia totale del sire. Successivamente, Actarus tenta d’aiutare Zuril a ricucire un minimo di rapporto con i regnanti di altri pianeti. Se con Zuul non c’è il minimo problema, Rigr si mostra scettico, le regine di Ruby e Dera appaiono piuttosto diffidenti e peggio ancora fa Holdh, sovrano di Galar, che promette rappresaglie. È proprio Actarus a dover salvare la comunità di Moru da un attacco sferrato da Holdh; in quell’occasione viene aiutato da Zuril ed Hydargos, che combattono in prima persona. Holdh viene infine convinto da Rigr, a modo suo, a firmare il trattato di pace. Alla fine, Zuril e Maria si scoprono profondamente innamorati l’uno dell’altra e partono per una luna di miele su Zuul, mentre Actarus torna sulla Terra per rivedere finalmente Venusia.




A Serena, con un grazie per la comprensione;
A Paola, che mi ha sopportata e bacchettata per i verbi servili (grazie!!!);
A Monica, che magari non lo sa ma è stata la principale ispiratrice di tutto.


FUTURO


1 – TERRA

Non gli era mai apparsa così bella: un vero gioiello blu contro il velluto nero dello spazio – e qui Actarus non avrebbe certo immaginato di star usando un’espressione molto simile a quella del non compianto comandante Gandal, una volta in cui la vista della Terra aveva solleticato la sua insospettabile vena poetica.
Casa… sentì un gran calore nel petto che si trasformò subito in uno spasmo. La Terra era un mondo meraviglioso che l’aveva accolto come un figlio, ma non era il suo pianeta natale: lui era di Fleed, e per un istante provò quasi vergogna per la propria dimenticanza.
Sorrise tra sé, mentre entrava in orbita: stava pensando un mucchio di cose inutili… del resto era troppo teso, e il motivo per cui era tornato sulla Terra – un motivo a dir poco fondamentale per lui – era anche la causa del suo nervosismo. Rimuginare tutte quelle sciocchezze, farsi inutili sensi di colpa era solo un modo per cercare di non pensare… la verità era che lui aveva rimandato troppo, e troppo a lungo, quel che avrebbe dovuto fare molto tempo prima, e ora aveva davvero paura.


Actarus conosceva troppo bene i cieli della Terra per non sapere come muoversi: si portò sul Giappone nascondendosi tra le nuvole, raggiunse la zona che l’interessava e scese non visto. A giudicare dai suoi calcoli, doveva essere inizio d’estate: fu fortunato nell’incappare in un gran temporale che nascose la sagoma bianca e rossa di Goldrake. Tanto meglio, non voleva essere causa di nuovi, straordinari avvistamenti di UFO. C’erano già stati fin troppi UFO, nella sua vita.
Provò un vero piacere nel rivedere quei posti che aveva tanto amato: conosceva bene quelle alture, quelle pinete, quel fiume… la diga… e là, il laboratorio del suo padre terrestre… più lontano, una certa fattoria. Era passato parecchio tempo da quando era partito, ma non sembrava che le cose fossero molto cambiate.
Puntò deciso verso le alture alle spalle del laboratorio: era una zona deserta, e là c’era una grotta che ben ricordava visto che un tempo vi aveva nascosto Goldrake.
Poco dopo, sceso dal suo robot, con addosso i suoi vecchi vestiti terrestri, Actarus uscì di corsa dalla caverna imboccando il canalone. Pioveva a dirotto ma lui sembrava non accorgersene nemmeno, mentre correva ad una velocità folle che nessun terrestre avrebbe potuto eguagliare.
Fradicio, sembrava letteralmente volare sul terreno.
Nemmeno lui sapeva da quanto tempo non si fosse sentito così felice.


– A-Actarus…? – Procton barcollò, aggrappandosi alla porta per non cadere.
– Sono io – confermò il giovane, con un gran sorriso – Posso entrare?
Suo padre continuava a fissarlo, stupefatto; poi realizzò che fuori diluviava e che Actarus era totalmente inzuppato, e si fece subito da parte: – Vieni dentro… e togliti subito quella roba bagnata.
– Non ho freddo – disse il giovane, mentre Procton, le mani tremanti, chiudeva la porta di casa.
– Rischi d’ammalarti, se ti tieni quei vestiti – il professore sparì in bagno, tornandone con un accappatoio blu: – Mettiti questo, intanto, e fatti una doccia calda. Poi ti cercherò dei vestiti asciutti.
Actarus andò in bagno, uscendone poco dopo: aveva appeso i suoi abiti bagnati sullo stenditoio, proprio come faceva un tempo, aveva fatto una rapida doccia ed effettivamente ora si sentiva meglio. Suo padre aveva avuto ragione, ovviamente.
Sorrise vedendo Procton cercare di caricare la pipa: le mani gli tremavano talmente che non riuscì a farlo, e dovette lasciar perdere. Era talmente nervoso… tutto quel suo cercare di darsi da fare, Actarus lo sapeva bene, nascondeva la sua intima agitazione. Procton era un padre meraviglioso, ma i rapporti umani non erano mai stati il suo forte, ed ora era imbarazzatissimo trovandosi improvvisamente davanti quel figlio di cui non aveva avuto più notizie da troppo tempo.
Il professore tentò ancora d’armeggiare con la sua pipa; Actarus gliela tolse gentilmente di mano e la depose su un tavolino. Rimasero un istante l’uno di fronte all’altro poi si abbracciarono in silenzio, troppo commossi per poter dire una sola parola; ma come sempre, si intesero alla perfezione.
Actarus sentì stringerglisi il cuore: Procton appariva felicissimo di vederlo, naturalmente, ma lui non poté fare a meno di notare che i capelli gli si erano imbiancati, il viso appariva segnato, il corpo smagrito. Sotto le sue mani, le spalle erano più ossute di quanto ricordasse.
Da parte sua, il professore lo scrutava cercando in lui il ragazzo che un giorno aveva raccolto moribondo nella neve; il tempo era però passato, non c’era più nulla di adolescenziale nel giovane uomo che aveva davanti. Era cresciuto, era maturato; aveva assunto un modo tutto suo di tenere alta la testa, le spalle indietro. Una sorta di nobiltà naturale che lui aveva sempre mantenuto, anche quando si dedicava ai lavori più umili alla fattoria di Rigel… in qualche modo quella dignità, quell’autorevolezza si erano accentuate. Era divenuto un vero re.
Padre e figlio si guardarono, evidentemente felici di vedersi, di essere ancora insieme; riservati entrambi, pur avendo infinite cose da raccontarsi facevano fatica a rompere l’imbarazzo.
Fu Actarus a risolvere la situazione: – Avresti un po’ di tè? Su Fleed beviamo il taketh, che però è tutt’altra cosa.
– Ma certo – Procton si diresse nel cucinino e poco dopo, ciascuno con la propria tazza in mano, cominciarono a scambiarsi notizie, cercando di colmare il vuoto di quel tempo. Sulla Terra erano trascorsi quasi tre anni, dal giorno in cui lui e Maria erano partiti.
Actarus s’appoggiò con le spalle allo schienale: tre anni…! Lui aveva preventivato di star via un anno, un anno e mezzo al massimo, prima di tornare… naturalmente, non aveva potuto prevedere quel che era successo.
Serrò le labbra: avrebbe tanto voluto chiedere di Venusia, ma allo stesso tempo non aveva il coraggio di farlo. Tre anni! Se lei si fosse stancata di aspettarlo, se avesse trovato un altro, lui non avrebbe certo potuto dire niente. In tutto quel tempo non avevano mai potuto neanche comunicare, lei non aveva saputo se lui fosse arrivato su Fleed o se si fosse perso nell’infinità dello spazio, se fosse ancora vivo o meno…
Con la consueta delicatezza Procton evitò qualunque domanda diretta, in attesa che lui si sentisse pronto; quando invece Actarus parlò, fu per ragguagliare il padre di quel che era successo su Fleed. Descrisse l’alleanza con Vega, giungendo poi al matrimonio di Zuril con Maria; e Procton, l’impassibile Procton, perse a questo punto parecchia della sua imperturbabilità.
– Zuril e Maria? Ma tua sorella ha sempre detestato tutto ciò che è Vega…!
Gli occhi di Actarus ebbero un bagliore azzurro: – Oh, credo proprio che abbia cambiato idea.
– Vuoi dire che riesce a tollerare di vivere assieme ad un veghiano?
– Tollerare? – nonostante la sua signorile compostezza, Actarus stava divertendosi parecchio – Io direi che Maria stia benissimo con Zuril. E lui con lei.
Stavolta Procton si strozzò con il tè, e ci volle qualche minuto buono perché riuscisse a riprendersi dall’attacco di tosse: – Vuoi dire che vanno d’accordo?
– A quanto mi risulta, in questo momento stanno partendo per Zuul, il mondo natale di Zuril. Non vi sono ancora stato ma so che è un bel pianeta, piccolo e molto boscoso. E non credo proprio che stiano andando là perché lui vuol farle conoscere la sua famiglia, ammesso che ce l’abbia…
Procton depose la tazza, non voleva rischiare che gli scivolasse dalle dita: – Vuoi dire…?
– Un viaggio di nozze in piena regola.
Procton ricadde contro lo schienale.
Abbassò gli occhi sulla tazza: era una del servizio migliore. Aveva fatto bene a metterla giù.
– Maria e Zuril…? – mormorò – Non riesco ad immaginarmi niente di più assurdo.
Gli occhi di Actarus ebbero un altro bagliore: – C’è qualcosa di peggio, invece – e gli raccontò di come lui si fosse battuto con Goldrake per salvare i veghiani, aggiungendo il fatto che proprio Zuril e Hydargos, i suoi nemici storici, fossero corsi in suo aiuto. Quando concluse spiegando che la gente di Vega l’aveva portato in trionfo, Procton rimase totalmente attonito.
Il professore non era comunque uomo da rimanere inerte a lungo: quel che aveva sentito era di una tale assurdità… si ritrovò a ridere, e Actarus si associò subito alla sua allegria.
– Bene, con questo penso che non mi stupirò più di niente – concluse infine il professore; incrociò lo sguardo improvvisamente serio di Actarus e capì subito che il momento era arrivato: – Venusia sta bene.
– Ne sono felice – rispose Actarus, un po’ troppo impassibile.
– A quel che mi risulta, non è fidanzata con nessuno – aggiunse Procton, che pur non essendo telepate percepiva chiaramente la domanda inespressa di Actarus – Devo però dire che da quando sei partito non l’ho sentita più nemmeno nominarti… ma riservata com’è, questo può anche significare solo che preferisce tenersi tutto per sé. C’è anche da aggiungere che ormai la vedo molto poco.
– Non viene più al laboratorio? – si stupì Actarus – Credevo che la vita alla fattoria non fosse il suo ideale.
– Venusia passa la maggior parte del tempo in città – spiegò il professore – Quando sei partito lei per un poco non si è proprio fatta vedere, credo che stesse davvero male.
Il giovane chinò la testa: – Mi dispiace…
– Era inevitabile – gli fece osservare gentilmente Procton – Ne avevate parlato, sapevate tutti e due che sarebbe stato così.
– Sì – Actarus strinse i pugni – Mi dicevi che vive in città…?
– Infatti. Un giorno me la sono vista arrivare al laboratorio, aveva quell’aria decisa che… beh, hai presente cosa intendo.
– Perfettamente.
– Mi ha detto d’aver riflettuto su quel che voleva fare, e di essere arrivata alla conclusione di voler continuare a volare. Ne sono stato molto contento.
– Venusia è un pilota straordinario – ammise Actarus.
– È quel che penso anch’io, per cui le ho suggerito di prendere il brevetto di pilota privato, per poi prendere quello di pilota commerciale e pensare ad una carriera in una compagnia aerea. Era proprio quel che intendeva lei.
– E l’ha fatto?
– Il primo brevetto l’ha preso molto in fretta, brava ed esperta com’è c’era da aspettarselo. Adesso sta preparandosi per l’esame per il brevetto di pilota commerciale, dovrebbe avere gli esami a breve.
Actarus sentì un tormento nel petto: – Insomma, la sua vita ormai è qui?
– Cerca di ragionare – gli disse Procton, con gentilezza – Sono passati tre anni. Credi davvero che sarebbe dovuto restare a casa ad aspettarti e basta? Per quel che ne sapeva lei, tu saresti potuto non tornare mai più.
La voce di Actarus fu un filo: – È vero.
Ci fu un attimo di silenzio, piuttosto pesante.
– Non affrettarti a correre alle conclusioni – disse infine il professore – Non sai cosa lei abbia passato in tutto questo tempo. Non sai nulla di nulla. Puoi solo andare a parlarle.
Actarus guardò il padre, e i suoi occhi generalmente azzurri sembravano addirittura scuri: – Certo. Lo farò. Hai il suo indirizzo?
– Non ti serve – rispose Procton – Per il fine settimana Venusia torna sempre a casa per stare con la sua famiglia. Domani pomeriggio sarà qui; in più, il venerdì Rigel va sempre a prendere Mizar a scuola e poi vanno a fare la spesa, per cui alla fattoria non ci saranno – vide un pallido sorriso sulle labbra del figlio, ed aggiunse: – M’inventerò una scusa qualsiasi e gli dirò di passare da me prima di andare a casa, così avrete un minimo di tranquillità in più.
Stavolta il sorriso fu più marcato, anche se gli occhi rimasero seri: – Grazie.


- continua -


Potete stramandarmi qui, grazie: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1725#lastpost

Edited by H. Aster - 9/6/2014, 09:46
 
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Come ho detto, non sarà facilissimo...

FUTURO

2 – TERRA

Quella stessa sera Actarus spense il computer e rimase seduto sulla poltroncina, fissando lo schermo vuoto senza nemmeno vederlo.
Aveva avuto tanto entusiasmo, tante aspettative…
Era successo tutto esattamente come non se l’era immaginato, come aveva sperato che non accadesse, e ora la delusione era davvero cocente.
Ripensò a come erano andate le cose…
Suo padre l’aveva visto, per Venusia avrebbe dovuto aspettare l’indomani; l’altra persona che Actarus aveva molto desiderato incontrare era Alcor, il suo grande amico, il compagno di tante battaglie.
Procton era sembrato un po’ sospeso: subito dopo la fine della guerra con Vega Alcor era tornato in America, dove ancora si trovava, occupatissimo con il suo lavoro alla NASA. Tuttavia, era possibile parlarsi: con Alcor aveva l’abitudine di sentirsi regolarmente via internet, Actarus avrebbe potuto usare lo stesso mezzo.
Pieno d’entusiasmo, Actarus si era chiuso nello studio del padre pregustandosi la sorpresa che avrebbe fatto all’amico: avrebbe creduto una normale videochiamata dal professore, e invece…
La sorpresa c’era stata, ed enorme. Alcor aveva sbarrato gli occhi, vedendolo, aveva balbettato penosamente mentre tentava di riprendere fiato ed infine era esploso in un ululato di gioia, e per un poco era stato tutto uno scambiarsi notizie da una parte e dall’altra.
La parte dolente, come Actarus si era aspettato, era giunta quando Alcor gli aveva chiesto di Maria.
Nonostante il giovane avesse ostentato un’aria tranquilla, quasi indifferente, Actarus sapeva bene che non era così: tra lui e sua sorella anni prima era corso del tenero, un legame importante per entrambi e che a quanto pare non era stato affatto dimenticato. Occorreva armarsi di coraggio.
Spiegargli che Maria non era tornata con lui sulla Terra era stato già di per sé sgradevole.
Dirgli che si era sposata, era stata dura.
Specificare che lo sposo era Zuril era stata durissima.
Aggiungere che si trattava di un matrimonio veramente felice era stato tremendo.
Alcor aveva sempre detestato i veghiani: scoprire che la ragazza che per lui aveva significato tantissimo era felicemente sposata con uno di loro, l’attuale Re di Vega addirittura, lo aveva lasciato attonito, persino indignato.
Balbettando, il giovane aveva chiesto se lui, Actarus, approvasse quel legame; onesto come sempre, lui aveva risposto che sì, l’approvava. Vedere sua sorella finalmente serena ed appagata era per lui fonte di vera gioia.
Alcor aveva risposto che naturalmente era giusto così, e da quel momento Actarus aveva percepito qualcosa di diverso, tra di loro… come se fosse calato un velo, impalpabile ma resistente, a separarli. Avevano continuato a parlarsi con la massima cordialità, ma era stato come se ogni parola che si erano scambiati avesse contribuito ad allontanarli.
Quando infine Actarus aveva lanciato la sua proposta di andare con lui su Fleed, Alcor era stato cortesissimo ma deciso: no. La sua vita ormai era in America, alla NASA.
Solo allora il giovane aveva notato una fotografia appesa alla parete alle spalle di Alcor, che lo raffigurava felice e spensierato abbracciato ad una giovane donna sorridente che doveva essere Sayaka. Poco più in là, su un mobile, Actarus notò una borsetta molto femminile: evidentemente, Alcor non viveva da solo, là, in America…
Però, si era detto Actarus, nonostante tutto non ha dimenticato Maria… chissà come sarebbe felice Sayaka di saperlo.
Avevano continuato a parlarsi, ma ogni frase era stata un addio, ormai avevano entrambi ben poco in comune. Quando, dopo l’ultimo saluto affettuoso, Actarus aveva spento la comunicazione si era trovato svuotato, inerte.
Era cambiato tutto, tutto, e lui aveva perso quello che era stato il suo amico terrestre.
Come è successo per Markus, riconobbe il giovane.
Il giovane principe di Moru era stato il grande amico della sua infanzia ed adolescenza, Alcor quello della giovinezza. Fasi della sua vita che erano trascorse e passate… Ora, uomo, chi aveva per amico?
L’unico nome che gli venne alla mente fu quello che anni prima avrebbe ritenuto totalmente assurdo: Zuril.
Erano stati nemici per tanto tempo, ora contavano si può dire ciecamente l’uno sull’altro. Si erano aiutati, si erano sostenuti, in varie occasioni si erano salvati reciprocamente la vita. Amico di un uomo di Vega! Lui! Talmente assurdo da essere ridicolo.
Rise quasi istericamente, ritrovandosi poi con gli occhi pieni di lacrime e un gran peso nel petto al pensiero di Alcor; poi gli tornò in mente Venusia, e il peso si fece insopportabile.
Uscì quasi di corsa dallo studio del padre, andò a chiudersi in camera propria, si buttò ancora vestito sul letto, affondò il capo nel cuscino e rimase là, sperando almeno di poter sfogare il suo dolore; ma le lacrime non vennero.


Procton sospirò leggermente: da camera sua aveva sentito Actarus precipitarsi nella propria e chiudervisi dentro, e aveva capito subito che il colloquio con Alcor non era andato bene. Erano sempre stati così diversi, quei due… si erano intesi benissimo nel periodo in cui avevano vissuto e combattuto assieme, ma poi avevano preso strade differenti, ed erano diventati due uomini che evidentemente avevano poco in comune; e poi c’era la faccenda di Maria, che sicuramente non aveva aiutato. Nelle loro chiacchierate, Alcor di tanto in tanto si era lasciato scappare qualche mezza frase, qualche allusione… Procton era troppo discreto per indagare, ma aveva capito benissimo come stessero le cose, e si era chiesto come avrebbe reagito Sayaka se avesse saputo che Alcor pensava a Maria un po’ più spesso di quanto lei avrebbe desiderato…
Campo minato, si era sempre detto Procton.
Rimase in ascolto: aveva sperato che Actarus sarebbe venuto come un tempo a fare una chiacchierata notturna, ma evidentemente parlare con Alcor era stato più penoso di quanto si fosse aspettato. Non aveva sentito il figlio alzare la voce, per cui immaginò che si fosse trattato di uno di quei dialoghi gentilissimi ma che poi ti lasciano più amarezza di un litigio vero e proprio.
Sospirò ancora; poi aprì il libro, pur sapendo che non sarebbe riuscito a capire una sola riga di quel che avrebbe letto.


La fattoria non sembrava granché cambiata, da quel che poteva vedere.
Pareva tutto come un tempo… gli animali al pascolo, gli alberi, i fiori… nei recinti c’era un paio di cavalli che non aveva mai visto, un altro quando lui era partito per Fleed era un puledrino ed ora, adulto, faticava a riconoscerlo. Ma tutto sembrava rimasto quel che era stato. Mancava solo veder Rigel arrampicato sulla sua torretta a scrutare il cielo in cerca di UFO, e sarebbe stato tutto perfetto.
Rigel però non c’era, era in città a far spese, e Venusia sarebbe arrivata tra breve: sembrava incredibile avere la possibilità di rivederla senza avere terzi incomodi attorno…
Actarus respirò, cercando di dominare l’agitazione che l’invadeva: in quel momento, gli avrebbe dato meno tensione affrontare un mostro di Vega, uno qualsiasi, anche il King Gori… ma doveva andare. Doveva sapere.
Quasi per farsi coraggio tastò un certo pacchettino che aveva in tasca; fece poi per far partire la moto ma in quella notò, in fondo ad un campo, la sagoma di un uomo che non conosceva. Doveva essere il nuovo fattore di cui gli aveva parlato suo padre. Bene, non aveva alcun desiderio d’incontrarlo, almeno per ora.
L’uomo era distante, occupatissimo a legare le piante di pomodoro nell’orto; se lui si fosse mosso silenziosamente, non si sarebbe accorto di nulla. Actarus scese dalla moto e la condusse a mano giù per il sentiero, entrando poi sull’aia. L’uomo non s’era accorto di niente.
Rigel dovrebbe prendere un cane, qui potrebbe entrare chiunque, si disse Actarus, riponendo la moto nella rimessa.
Un nitrito: uno dei cavalli nel recinto doveva aver percepito qualcosa. Actarus scivolò dietro la porta della rimessa mentre l’animale – Silver, naturalmente! – nitriva ancora, raspando terra con uno zoccolo.
Nell’orto, il fattore si diede un’occhiata in giro prima di tornare ai suoi pomodori.
Ben nascosto, Actarus cercò di dominare l’agitazione che sentiva crescere in sé. Cercò di pensare alla sorpresa di Venusia vedendoselo comparire all’improvviso davanti… Venusia che non sapeva ancora nulla del suo ritorno… sorrise tra sé, camminando nervosamente in su e in giù nella rimessa.
Un altro nitrito.
Silver, ti prego, basta!
Era talmente agitato che percepì il rumore del motore quando ormai l’automobile doveva essere all’ingresso della fattoria. Actarus sbirciò attraverso il vetro non troppo pulito della finestra: una berlina blu scuro, lucida ed elegante. Un’auto cittadina, non certo una delle jeep che si usavano normalmente in campagna.
L’auto si fermò davanti alla casa: Actarus sbarrò gli occhi vedendo scenderne un giovane, elegantissimo in un completo di ottimo taglio; uno di quelli che Banta avrebbe definito con disprezzo “un signorino di città”.
L’uomo girò attorno alla macchina, aprì galantemente la portiera del passeggero facendo scendere… Venusia… quasi sentì mancargli il fiato, mentre un rombo sordo gli ruggiva nelle orecchie.
Rimase attonito a fissarla: indossava un morbido tailleur pantalone di una tinta tra il rosa e il viola, con una camicetta d’una sfumatura più chiara. Quella giovane donna elegante, così sicura di sé, non somigliava per niente alla ragazzina in jeans che aveva diviso con lui le fatiche e le gioie della vita in campagna… quella era una giovane cittadina, raffinata e alla moda.
È cambiata, si disse, mentre sentiva un dolore sordo al petto, non è più lei.
Una risata, morbida e femminile; l’uomo si chinò a dirle qualcosa e lei rise ancora, gli occhi brillanti. Era evidente che quell’uomo le piaceva; Actarus strinse i pugni. Non sarebbe dovuto tornare.
No, sarei dovuto tornare prima, ecco la verità… prima che lei cambiasse così, prima che mi dimenticasse, prima che… ma ero troppo impegnato a salvare il mio mondo per occuparmi della mia vita. Sono stato un idiota.
Comunque, non poteva restare lì e far finta di niente: era arrivato letteralmente dall’altra parte dello spazio per rivedere Venusia, non voleva andarsene senza nemmeno salutarla… e non voleva nemmeno rimanere dentro la rimessa, quasi stesse spiando. No, meglio farsi avanti, salutare e fare finta di nulla.
Fece per uscire allo scoperto, ma s’arrestò ancora: rimase a guardare l’uomo girare attorno all’automobile, aprire il bagagliaio ed estrarne una valigia… allora si fermava lì alla fattoria! Se Rigel permetteva questo, doveva trattarsi di un fidanzamento ufficiale. Maledizione…
Tre volte idiota…!
Lei frugò nella borsetta e ne estrasse le chiavi; Actarus non resse più ed uscì finalmente allo scoperto: – Ciao, Venusia.
Ebbe la soddisfazione di vederla diventare bianca come un lenzuolo, mentre chiavi e borsetta le sfuggivano di mano. Vacillò come se fosse stata sul punto di cadere, e il giovane lasciò la valigia per correre ad afferrarla, prima di voltarsi verso di lui con uno sguardo che di amichevole aveva ben poco.
– …Actarus…? – non era precisamente una frase originale, ma era troppo stupefatta per riuscire a mettere assieme qualcosa di meglio.
– Lo conosci? – chiese il giovane.
Lei deglutì, gli occhi sempre fissi su Actarus; assentì, in quel momento non riusciva nemmeno a spiccicare parola.
Vedendola così stravolta, lui equivocò: – Se vuoi che lo mandi via…
Lei scosse il capo, mentre cercava di riprendere un minimo di controllo: – No… oh, no. Non è come credi… è un, hm, amico.
Actarus raccolse chiavi e borsetta e glieli porse: – Il fatto è che non ci vediamo da tanto tempo.
– Troppo – lei si sforzò di non far tremare mani e voce – Ormai pensavo che non ci saremmo incontrati più, io… – prese fiato, tornando ad essere la Venusia educatissima che Actarus ben conosceva: – Scusate, sono così sorpresa che dimentico le buone maniere. Seiji, ti presento Actarus, il figlio del dottor Procton.
Stavolta il giovane si fece molto più amichevole: – Sono davvero felice di conoscerti. Ho avuto il piacere di collaborare con tuo padre.
– Actarus, questo è Seiji Fujinami, il mio – pausa quasi impercettibile – istruttore di volo.
Al giovane non era sfuggita quella lievissima esitazione; fece comunque buon viso a cattivo gioco e gli rivolse un sorriso disarmante, mentre si stringevano le mani.
Con la cordialità di due pugili, si disse Actarus.
– Istruttore di volo…? – chiese.
– Ho preso il brevetto di pilota d’aerei – l’informò lei, con un lampo negli occhi – Non ci sarei riuscita, senza Seiji.
– Non è vero, sei bravissima – rispose subito lui.
Puoi ben dirlo, è meravigliosa, si tenne per sé Actarus.
– Ho solo una certa quantità di ore di volo – si schermì Venusia.
– “Una certa quantità di ore di volo”? – Seiji si voltò verso Actarus: – Lo sapevi che lei ha combattuto contro i veghiani? …Ma che stupido, sei il figlio di Procton! Devi saperlo per forza.
– In effetti, ne ho sentito parlare – rispose Actarus.
– Chi lo direbbe che una ragazza come te ha combattuto assieme a Kabuto, il pilota dello Z? – Seiji la guardava con aperta ammirazione – Io impazzirei per volare con lui!
– Venite a prendere un tè? – disse in fretta Venusia, che cominciava a non poterne più.
– Veramente… – cominciò Actarus, che non aveva molta voglia di fare da terzo incomodo; Venusia lo sospinse in casa, Seiji li seguì portando la valigia (“Proprio come se fosse in casa sua!”), e poco dopo Actarus si ritrovò seduto in soggiorno, una tazza tra le mani e un piatto di dolcetti di riso davanti.
Seiji sembrava galvanizzato dall’idea che Actarus conoscesse di persona il grande pilota dello Z: pieno d’entusiasmo, continuava a magnificare alternativamente le caratteristiche di umano e robot, chiedendo di tanto in tanto conferme circa le proprie cognizioni e dimostrandosi stupito che Actarus parlasse con tanta semplicità di un simile uomo. Non a tutti era dato conoscere un vero eroe, che diamine! E Kabuto era un autentico guerriero, un combattente perfetto…
– È davvero bravo – solo che io l’ho steso a pugni varie volte, si tenne per sé Actarus, l’espressione da pokerista.
Seiji era troppo occupato a magnificare il suo eroe per accorgersi delle occhiate che Actarus e Venusia si scambiavano l’uno quando era sicuro che l’altra non guardasse, e viceversa; dopo aver abbondantemente tessuto le lodi di Alcor, il giovane depose la sua tazza vuota, guardò l’orologio e si girò vero Actarus: – Oh, si sta facendo tardi.
Ed io dovrei andarmene, suppongo, si tenne per sé il giovane, stringendo i denti.
– Vai già via? – chiese Venusia.
Actarus fece per rispondere di non averne la minima intenzione, quando Seiji lo precedette: – Devo, ormai è tardi e ho da andare a prendere Aiko.
Solo il suo ferreo autocontrollo permise ad Actarus di mantenersi impassibile e non lasciar cadere a terra la tazzina. Seiji partiva? Aiko? Ma se aveva portato in casa un bagaglio…
La valigia era posata a terra a breve distanza: era un trolley blu, serio, ma personalizzato da una targhetta dorata decorata da strass… nessun uomo sarebbe andato in giro con un simile accessorio.
Il sollievo quasi gli tolse il fiato. Guardò Seiji con molta maggior cordialità e s’accorse che in effetti era un giovane educato e davvero simpatico. Si salutarono con molto calore, Seiji uscì, Venusia agitò la mano mentre partiva e infine rientrò, chiudendo la porta dietro di sé.
Lui non disse una parola rimanendo in silenzio a guardarla, gli occhi brillanti.
– Te lo dico visto che non me lo chiederai mai – disse Venusia, col consueto tono tranquillo – Seiji non è altro che un amico.
– Va bene – rispose Actarus, che in quel momento si sentiva il morale alle stelle.
– Tempo fa, avrebbe voluto essere qualcosa di più di un amico – continuò lei – Sarebbe una bugia se ti dicessi che non ci ho pensato, e molto.
Il morale di lui ebbe una brusca picchiata: – Davvero…?
– Actarus, tu non c’eri. Seiji, sì – osservò Venusia, sempre calma.
Vero, innegabile.
– Sembra un tipo simpatico – osservò Actarus, dopo un attimo.
– Lo è, ed è davvero in gamba. Con lui sto bene, parliamo tanto.
Una stretta in mezzo al petto… – Vuoi dire…?
– Voglio dire quel che ho detto: è un mio amico, e gli voglio davvero bene. Basta. Se avessi voluto impegnarmi con lui, avrei potuto farlo senza problemi; solo che non l’ho fatto, perché sapevo che per me è solo un amico. Non potevo prendere in giro lui e Aiko.
– Aiko…?
– Sua figlia, una bambina deliziosa – Venusia rimise a posto un cuscino del divano – Seiji è separato. Abita a Tokyo, ma la sua ex moglie è di queste parti e lui viene tutti i fine settimana a trovare la piccola. Ecco perché mi accompagna sempre a casa. Vuoi un altro po’ di tè?
– No, grazie – rispose lui, che si sentiva piuttosto frastornato.
– Allora rimetto tutto a posto. Tra un poco dovrebbero tornare papà e Mizar.



- continua -


Link per uova ormai stantie al vegatron: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1725#lastpost

Edited by H. Aster - 9/6/2014, 09:47
 
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Realizzo ora che non avevo mai messo il titolo del malloppo. Rimedio. :lol:

FUTURO


3 – TERRA

La porta si spalancò con violenza e Rigel fece la sua comparsa: – È vero?
Disorientato, Procton alzò gli occhi dalle varie carte che aveva sulla sua scrivania: – Che cosa?
– Quello che ci ha detto Hayashi! – fece eco Mizar, apparso dietro il padre.
Dentro di sé, il professore stramaledisse il suo linguacciuto sottoposto.
– Perché? Cosa vi avrebbe detto? – chiese, con calma, mentre si toglieva gli occhiali che ormai doveva indossare per leggere.
– Che Actarus è tornato! – urlò Mizar.
Procton ricordò improvvisamente di non aver detto ad Hayashi di tacere l’arrivo di Actarus, e ritirò tutto quel che aveva pensato. Colpa sua, avrebbe dovuto dargli severe istruzioni: – In effetti sì, è tornato.
– Ecco! Actarus è tornato, e non mi si dice niente! – esplose Rigel – Sono sempre l’ultimo a sapere!
– Papà, smettila di fare la vittima! – sbottò Mizar.
– Non sono una vittima, sono offeso!
Suo figlio alzò le spalle. Era fin troppo abituato alle geremiadi paterne per esserne impressionato, per cui si rivolse al professore: – Dov’è adesso Actarus?
Procton trattenne il fiato: sapeva che Actarus era andato da Venusia, ed era sicurissimo che l’ultima cosa che avrebbe desiderato era un’intrusione di quei due, o di chiunque altro, anche. Esitò, rimise in pila le carte e ne batté l’orlo sulla scrivania cercando di prendere tempo: – Mah, veramente non saprei…
– Non è possibile! – esplose Rigel – Actarus torna, ed io non posso salutarlo!
– Se non è qui – disse Mizar, che alle volte sapeva essere fin troppo perspicace – forse sarà a casa, da Venusia.
– Ma certo! – giubilò suo padre – Di sicuro Actarus è andato là per salutarmi! Non poteva sapere che eravamo fuori… Grazie, Procton, arrivederci!
– Un momento, è meglio che venga anch’io! – Procton gettò le carte sulla scrivania e corse dietro ai due che stavano precipitandosi fuori del laboratorio, puntando allo spiazzo esterno dove avevano lasciato la jeep.
Poco dopo, guidata da un Rigel più forsennato del solito, l’auto sfrecciava a tutta velocità in direzione della fattoria mentre Procton, sballottato sul sedile posteriore, rimpiangeva amaramente il fatto che Actarus non si fosse portato via un cellulare: almeno, avrebbe potuto avvertirlo con un messaggio!
Gli venne in mente di mandarne uno a Venusia, sperando che se ne accorgesse… ma ormai, erano in vista della fattoria.


In silenzio Venusia raccolse le tazze, le rimise sul vassoio e riportò il tutto in cucina.
Actarus la seguì con lo sguardo: l’aveva osservata infinite volte riordinare la casa, ma rivedere quei gesti che ricordava ancora in ogni loro minimo particolare gli diede un senso di malinconia e rabbia – rabbia per sé stesso, che aveva sempre trascurato quello che per lui era davvero importante. Aveva conservato con sé ogni minimo ricordo di lei, ma non aveva mai potuto o voluto capire chiaramente quanto Venusia fosse importante per lui. Se ne rendeva conto ora, proprio ora che aveva rischiato veramente di perderla… se già non l’aveva persa.
Recuperò il piatto con i dolci e seguì Venusia in cucina: lei stava rimboccandosi le maniche, pronta a lavare le tazzine.
– Non puoi farlo più tardi? – chiese lui.
Venusia versò il detersivo sulla spugnetta: – Sai che detesto il disordine. O l’hai dimenticato?
Actarus sedette, disponendosi ad aspettare pazientemente: – Non ho dimenticato niente.
– Mi fa piacere saperlo – e lei cominciò a lavare le tazzine.
Lei occupata con le stoviglie sporche, lui costretto ad attendere… non era stato così che si era immaginato il loro primo incontro. Niente stava andando come aveva sperato… tra loro era sorta come una barriera invisibile, non era facile infrangere tre anni di silenzio totale. Non era certo possibile far finta di nulla, come se il tempo non fosse passato… provò un senso d’irrealtà, come aveva provato quando, del tutto inaspettatamente, dopo anni e anni si era ritrovato davanti Rubina. Rubina, che per lui era diventata un’estranea…
Ma qui è diverso, Venusia non può essere un’estranea! Però sta accadendo tutto così in fretta…
All’improvviso comprese il perché lei avesse invitato Seiji a bere il tè: non era stato per farlo ingelosire, esattamente come non era per esasperarlo che si era messa a lavare le tazzine. Stava cercando di prendere un po’ di tempo perché anche lei si sentiva come stretta in un vortice inarrestabile…
Le parole gli uscirono senza che se ne rendesse conto: – Venusia, mi dispiace.
– Sono felice di sentirtelo dire – lei lasciò ricadere le braccia, come se fosse stata stanchissima, poi si voltò a guardarlo: – Sono passati tre anni, Actarus.
– Lo so.
– Tre anni, quando mi avevi assicurato che saresti stato via al massimo un anno. Tre anni senza nessuna notizia! Hai idea di cosa ho passato?
– Sono successe tante cose…
– Io non sapevo nemmeno se eri vivo! Non sapevo nulla, di te!
– Anch’io non sapevo niente di te…
– Oh no, se permetti, è diverso – sciacquò la prima tazzina, deponendola rovesciata su un canovaccio – È molto diverso. Tu eri sicuro che io fossi qui, sulla Terra; di te, io invece non sapevo niente di niente, se ti eri perso nello spazio, se eri arrivato su Fleed, se le radiazioni erano davvero scomparse come aveva detto Rubina… – sciacquò la seconda tazzina, mentre si sforzava di parlare con calma – Per quel che sapevo io, tu potevi essere morto da qualche parte nell’universo, oppure potevi esserti trovato qualcun'altra che ti aveva fatto dimenticare tutto.
Lui chinò la testa: – Hai ragione.
– Certo che ho ragione! – Venusia depose sul canovaccio la terza tazzina – Non sapere niente, ma proprio niente, dell’uomo che si ama, credimi, è qualcosa che può farti impazzire! In questo tempo, ho pensato di tutto… e poi, non ho più voluto pensare a niente. Stavo troppo male. Non volevo più cercare di immaginare cosa ti fosse successo, volevo solo dimenticarti.
– Mi dispiace – lui sembrava incapace di dire altro.
– E ora, quando ormai ho ricominciato a farmi uno straccio di vita, quando sono riuscita a riavere un minimo di stabilità, di equilibrio, quando finalmente sto cominciando a rimettermi il cuore in pace, tu torni come niente fosse!
– T’avevo promesso che sarei tornato…
Venusia si voltò da una parte, per non fargli vedere le sue lacrime: – Ormai non ci credevo più!
Lui trasalì, come se fosse stato colpito in pieno viso: – Ma te l’avevo promesso…
– Lo so. Non ho mai dubitato della tua parola, questo sia ben chiaro – disse lei, asciugandosi nervosamente gli occhi – Ma poteva esserti successo qualcosa, potevi essere scomparso nello spazio, potevi essere morto, o che so io… potevi magari essere stato costretto a sposare un’altra.
– Questo no! Io non avrei mai…
– Rubina – disse semplicemente lei.
Dentro nella borsetta lasciata in soggiorno, il cellulare di Venusia trillò annunciando l’arrivo di un messaggio, ma né lei né Actarus si accorsero di nulla.
– È diverso – rispose lui, con fermezza – Allora ero anch’io molto più giovane… e non ti conoscevo. Adesso sono qui, sono tornato apposta – prese fiato – per te.
Lei non riuscì nemmeno a rispondere, mentre si sentiva scossa da capo a piedi da un tremito interiore mai provato prima. In quegli anni si era come raggelata per costringersi ad andare avanti, a vivere anche se la mancanza di lui l’aveva fatta sentire incompleta, mutilata. Con Actarus erano partiti i sogni, la bellezza, la poesia, tutto quello che aveva reso la sua vita degna d’essere vissuta. Per sopravvivere, lei si era rinchiusa in una corazza di gelo; e ora, all’improvviso, il ghiaccio si stava sciogliendo e si sentiva tornare un essere umano.
Fece per rispondergli, ma le tremò il mento e dovette coprirsi la bocca con una mano, mentre gli occhi continuavano a fissarlo, così lucidi, così brillanti… Actarus si fece istintivamente avanti, ma lei l’arrestò con un gesto, accennandogli alla finestra aperta.
Solo allora lui s’accorse di quel che avrebbe dovuto sentire da prima, e che era stato troppo occupato per farvi caso: dal cortile veniva il rumore di un’auto che si fermava, portiere sbattute e poi un gran schiamazzare di voci: Rigel, inconfondibile, poi un grido di gioia che doveva essere di Mizar, ma soprattutto… pareva incredibile… altissima, la voce di Procton. Il compassatissimo professore stava… urlando? Possibile?
Actarus e Venusia si scambiarono uno sguardo stupefatto; poi lei si ravviò in fretta i capelli, mentre la porta d’ingresso sbatteva – e ancora, incredibile, la voce di Procton a tutto volume: – Insomma, Rigel, non puoi agitarti a quel modo! Ti farà male! La tua pressione…
– Ma che m’importa della pressione! – questo era Rigel, inconfondibile – Actarus è tornato! Dov’è?
La porta della cucina si spalancò e Mizar fece la sua comparsa: – Eccolo! È qui!
Un istante dopo Actarus fu letteralmente travolto da padre e figlio, mentre Procton faceva capolino sulla porta: il professore passò rapidamente con lo sguardo da lui a Venusia e parve finalmente rilassarsi.
Mentre cercava di sopravvivere agli abbracci e alle urla festose dei due, Actarus improvvisamente comprese il comportamento di suo padre: aveva tenuto la voce alta per segnalare meglio il loro arrivo, in modo che lui e Venusia avessero avuto un minimo di tempo per ricomporsi nel caso che… pensando a come si era svolto il loro ritrovarsi, gli venne da ridere, e fu un bene, perché così poté mascherare meglio il disappunto.
Di riprendere il dialogo con lei, loro due soli, non era neppure da pensarlo. Actarus fece buon viso a cattivo gioco e si dispose a mostrarsi cordiale con quei due che, dopotutto, erano tra i suoi amici più cari.
Rigel non era cambiato granché, gli anni sembravano scorrere su di lui senza lasciare troppe tracce; Mizar, ormai un ragazzo, non era cresciuto molto di statura ed era presumibile che mai sarebbe divenuto alto, ma aveva un’aria molto matura per la sua età. Tutto d’un tratto Actarus sentì quanto gli fossero mancati, e provò un’ondata di sincero affetto per quei due umani, un po’ buffi a dire il vero, ma che per lui erano sempre stati dei veri amici.
Il resto della serata passò molto cordialmente; Rigel costrinse letteralmente Actarus e Procton a fermarsi a cena, avevano così tante cose da dirsi! Silenziosa ed efficiente, Venusia preparò da mangiare, mentre suo fratello e Actarus apparecchiavano la tavola. Mentre cenavano, Actarus dovette ripetere cos’era accaduto in quegli anni, la ricostruzione di Fleed, l’alleanza con Vega, il matrimonio di Maria con Zuril (e qui, come prevedibile, la meraviglia fu tanta), il fatto che detto matrimonio fosse davvero felice (altri, e molto più vivaci, commenti stupiti), i rapporti più o meno cordiali con gli altri pianeti. Descrisse l’esistenza sul suo mondo, dove lui era il re di un popolo in miseria ma pieno di voglia di vivere. Povertà, ma dignità ed ottimismo, ecco cos’era la vita su Fleed; mentre parlava lanciò uno sguardo verso Venusia, ma lei teneva lo sguardo basso sul piatto, assorta ed impenetrabile.
Lui ebbe un brivido: forse l’aveva spaventata con la sua descrizione del palazzo in rovina, della vita dura? Ma era la verità, non poteva raccontarle il falso! Se lei avesse accettato di divenire regina di Fleed doveva sapere che non sarebbe stata una vita facile e comoda… del resto, era tutto quel che lui aveva da offrirle. Non aveva altro.
Terminò il suo racconto, e un attimo di silenzio cadde sulla tavola; allora, e solo allora, Venusia alzò gli occhi e i loro sguardi s’incontrarono.
Commozione, tenerezza, ammirazione… amore, sì, c’era anche amore. In quello sguardo, c’era tutto quel che lui aveva sognato di trovare.
Improvvisamente, la piccola sala da pranzo sembrò squillare luce.

- continua -


Link per parlare di graticole e friggiture: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1740#lastpost
 
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Ok, visto che nel weekend e fino a martedì non potrò postare, metto adesso un nuovo capitolo.

FUTURO

4 – TERRA

Un discreto bussare alla porta, e su invito del padre Actarus entrò, andandosi poi a sedere sul bordo del letto come aveva fatto infinite volte.
Procton si mise a sedere chiudendo il libro e si tolse gli occhiali. La loro chiacchierata serale, entrambi in pigiama, lui a letto e Actarus che veniva a trovarlo, era stato uno dei loro piccoli riti quotidiani, soprattutto durante il periodo della guerra di Vega. Si erano scambiati confidenze, speranze, timori; alle volte avevano anche discusso di strategie, di tecniche di combattimento, di difesa. Tante decisioni che poi avevano influito sull’andamento della guerra con Vega erano state prese lì, in quella semplice camera da letto.
Nei tre anni successivi, tutte le sere Procton si era dovuto dire e ripetere che non avrebbe più sentito quel passo leggero fuori della sua porta, quel bussare; non ci sarebbero state più le chiacchiere e le confidenze notturne, e quel pensiero l’aveva sempre raggelato. Era soprattutto nelle ore serali in cui lui prendeva coscienza di quanto fosse vuota la sua vita, quanto lui fosse ormai completamente solo.
La sera prima aveva sperato che… ma naturalmente, dopo il burrascoso dialogo con Alcor Actarus aveva avuto bisogno di solitudine – e infatti gli aveva raccontato tutto quella mattina, a colazione.
Ora, ritrovarsi il figlio che come un tempo era venuto a chiacchierare con lui era un qualcosa che gli colmava il cuore, che lo faceva sentire di nuovo vivo – non quell’individuo freddo ed efficiente che tutti conoscevano, no, quello era il professore, non l’uomo Procton.
– Non mi sarei mai aspettato di sentirti alzare la voce – cominciò Actarus, serio ma con uno scintillio di sorriso negli occhi.
– Non mi è stato facile farlo – ammise subito il professore – Avrai comunque capito perché io abbia gridato a quel modo.
– Certo, e te ne ringrazio – rimase un attimo silenzioso; accanto a lui, Procton non disse nulla, rimanendo però sospeso. Troppo rispettoso per fare domande era comunque roso dalla curiosità di sapere come fosse andato il suo colloquio con Venusia; Actarus prese quindi a raccontargli brevemente quello che era successo, spiegando come fosse rimasto male nel sentire Venusia così colma d’amarezza, e come alla fine lo sguardo luminoso di lei l’avesse fatto sperare nuovamente.
– Ho aspettato troppo – concluse, testa bassa e mani strette – Prima c’è stata la guerra, poi Fleed… non ho mai avuto tempo per lei.
– Per voi – corresse gentilmente Procton.
– Per noi, già – Actarus alzò la testa, passando lo sguardo dal soffitto alle pareti, senza soffermarsi su niente – Ho attraversato lo spazio per tornare da lei, e ora non so nemmeno come chiederle se vuole ancora diventare mia moglie.
Procton lisciò tra le mani gli occhiali: – Non m’intendo molto di queste cose, lo sai.
Il giovane lo guardò, una muta domanda nello sguardo: non aveva proprio nulla da consigliargli?
– C’è solo una cosa che posso dirti – aggiunse il professore – Sii te stesso.
Sii te stesso… un consiglio semplicissimo, all’apparenza, e in realtà così difficile da mettere in pratica. Però il professore aveva ragione: lui era lui, non sarebbe mai stato capace di discorsi infiorettati e romanticismi stucchevoli. Venusia era semplice e diretta, tutto quel che avrebbe dovuto fare era essere diretto anche lui. Assentì: – Hai ragione.
Si alzò: per quella sera le confidenze erano finite, quindi. Procton si rimise le lenti, prese in mano il libro, ma s’arrestò vedendo che Actarus s’era fermato sulla porta con l’aria di chi non ha ancora detto tutto.
– Qualcosa che non va? – chiese il professore, vedendo l’imbarazzo del giovane.
– No – Actarus aveva l’aria di chi sta per togliersi finalmente un peso di dosso: – Non è solo per Venusia che ho fatto tutto questo viaggio.
Procton sentì crescere in sé una certa inquietudine: – Cos’è il problema?
– Io sono venuto anche per te – adesso che l’aveva finalmente detto, Actarus parlava quasi in fretta – Sono venuto a chiederti se vuoi venire con me su Fleed… non per sempre, se vorrai tornare sulla Terra io capirò e ti riporterò subito, ma almeno per un po’ di tempo… per favore, pensaci un poco prima di dirmi di no.
Il libro cadde a terra, le pagine si sparpagliarono, ma il professore sembrò non accorgersene nemmeno. Gli occhi fissi in quelli del figlio, cercò disperatamente di parlare ma non gli uscì suono dalle labbra.
Sii te stesso… – La verità è che mi sei mancato moltissimo. – ecco, l’aveva detto.
Procton deglutì, aprì la bocca, inghiottì ancora come se si stesse soffocando; Actarus tornò a sedersi davanti a lui, guardandolo con aria preoccupata: – Ti senti male?
Sentirsi male? Benedetto ragazzo… – Io… – tossì, riprese fiato – Io speravo tanto che me l’avresti chiesto.
Il giovane parve illuminarsi: – Vuol dire che verrai? Almeno per un poco?
Padre e figlio si strinsero le mani: riservatissimi entrambi faticavano non poco a dare voce alle emozioni che rischiavano di travolgerli, ma si compresero perfettamente. Si erano ritrovati, e non si sarebbero lasciati.
– Certo che vengo! – Procton aveva la voce spezzata dalla gioia, quasi un sussurro, ma gli occhi gli ridevano.
Actarus gli sorrise, un sorriso vero, che arrivava allo sguardo: – Ne sono felice. Ho talmente tante cose da farti vedere… – si fece serio: – Se vorrai comunque tornare sulla Terra, non avrai che da dirmelo.
Ti ho già perso una volta, non potrei sopportare di perderti ancora… – Ti ringrazio; ma non credo proprio che te lo chiederò.


Seduto sul proprio letto, Actarus tolse di tasca un sacchettino di stoffa e ne versò il contenuto sul palmo della mano.
Quando per la prima volta aveva ispezionato il palazzo reale di Fleed per controllarne lo stato, aveva saputo da subito che non vi avrebbe rinvenuto nulla di prezioso: troppi veghiani avevano razziato ogni cosa, portando via tutto quel che era loro piaciuto. Nel palazzo non erano rimaste che devastazione e morte.
In un angolo, seminascosti da un mucchio di calcinacci, aveva trovato dei poveri resti che aveva identificato senza alcuno sforzo: ricordava ancora molto bene quel vestito grigio perla con il ricamo attorno al collo… Hayya, la segretaria di sua madre, l’amica più onesta e fidata. Actarus si era sentito stringere il cuore, ritrovandola: ricordava ancora il suo sorriso, la sua voce dolce, il tocco leggero di quando gli carezzava i capelli.
Aveva raccolto personalmente quelle povere ossa per dar loro una degna sepoltura, ed era stato allora che s’era accorto che Hayya aveva ancora in mano una specie di sudicio involto grigiastro. L’aveva aperto, ed era rimasto strabiliato: le due corone regali ed alcuni dei molti gioielli di famiglia… evidentemente la povera donna stava cercando di metterli al sicuro quando era stata uccisa dai veghiani. Per colmo d’ironia, il fatto che lei avesse scelto di avvolgere quei tesori in uno straccio lurido li aveva salvati, nessuno si era fermato a controllare quell’involto disgustoso.
La regina l’aveva incaricata di mettere in salvo i gioielli, e lei vi era riuscita.
Fedele fino all’ultimo, si era detto Actarus, vivamente commosso, e aveva scelto per lei uno degli angoli più belli di quello che era stato il parco della reggia, in una macchia di arbusti dai fiori bianchi e rosa a cascata, profumatissimi.
Actarus non era certo un uomo superstizioso, anzi, ma l’aver ritrovato a quel modo gli ori di famiglia in mezzo ai ruderi di casa sua era stato ai suoi occhi una sorta di presentimento: la dinastia reale di Fleed non era morta, anzi, era pronta a rinascere dalle sue stesse rovine. Quel pensiero gli aveva infuso una forza che nemmeno lui avrebbe mai sospettato di possedere.
Tra i gioielli ritrovati c’era un anello in oro bianco con due grandi perle candide e perfette: Actarus l’aveva visto infinite volte al dito di sua nonna prima e di sua madre poi, da generazioni e generazioni le regine della casa di Fleed se l’erano passato l’un l’altra.
Il giovane guardò ancora l’anello che ora splendeva nel palmo della sua mano: era giunto il momento che fosse portato da una nuova regina.


Il giorno dopo, Actarus tornò di buon’ora alla fattoria: non aveva potuto fare a Venusia la sua richiesta il giorno prima, le avrebbe parlato oggi. Del resto non poteva più aspettare, doveva sapere.
Gli fu subito evidente che tra lui e Venusia si sarebbe frapposto un ostacolo pressoché insormontabile: Rigel l’accolse con la massima cordialità, e prima che il giovane potesse protestare lo trascinò in un lungo giro per tutta la fattoria, in modo da potergli mostrare tutto quel che era cambiato durante la sua assenza, dai puledri che erano nati alle nuove gabbie dei conigli, dalle carote nell’orto alla carriola fiammante di fabbrica, da usare per il letame.
Sentendo il padre cianciare a ruota libera Venusia uscì di casa nel vano tentativo di salvare Actarus, ma si ritrovò anche lei trascinata nel giro turistico della fattoria: era praticamente impossibile sfuggire a Rigel, questo lo sapevano entrambi. Se Actarus si fosse provato a sottrarsi, l’altro sarebbe stato capacissimo di immobilizzarlo con il suo lazo e trascinarselo dietro.
I due giovani si scambiarono uno sguardo di rassegnazione: meglio assecondare Rigel, ci sarebbe stato tempo per parlare più tardi. Actarus si dispose quindi a portare molta pazienza, cosa del resto cui era abituato.
Venne così informato della nuova routine che avveniva alla fattoria. Per seguire il suo corso per prendere il brevetto di pilota commerciale Venusia si assentava ogni settimana, partendo il lunedì e tornando il venerdì pomeriggio. Venendo a mancare il lavoro fornito da lei e soprattutto da lui, Actarus, Rigel si era trovato costretto a cercare un nuovo fattore; la scelta era caduta su un giovane, Hachiro, che abitava in un casolare confinante – non Banta, spiegò Rigel, troppo lazzarone per badare alla propria terra, figuriamoci a due fattorie. Hachiro, un giovane grande e grosso dall’aria simpatica che fu presentato ad Actarus, si era rivelato un’ottima scelta: gran lavoratore, avendo dei fratelli maggiori che si occupavano della terra di famiglia aveva addirittura chiesto a Rigel di vendergli il tutto, ma aveva avuto un rifiuto… almeno per il momento.
Mentre si allontanavano, lasciando Hachiro occupato a dare il fieno alle vacche, Rigel bisbigliò ad Actarus, con una voce perfettamente udibile a svariate centinaia di metri di distanza, che lui aveva sperato che un giorno Hachiro e Venusia…
– Papà! – esclamò lei, rossa in viso.
– Che male ci sarebbe? – rispose suo padre, candido – La terra resterebbe in famiglia!
– C’è sempre Mizar che potrà occuparsene – disse in fretta Actarus, tanto per stemperare la tensione.
– Mizar è ancora un ragazzino, deve pensare alla scuola – tagliò corto Rigel – Non se ne parlerà per almeno sette-otto anni. Ma è ormai ora di pranzo! Naturalmente ti fermi qui, non è vero?
Non sarebbe stato possibile rifiutare, questo Actarus lo sapeva bene, per cui accettò subito. Chissà che prima o poi non ci fosse finalmente il tempo di poter parlare a Venusia…
Rientrarono alla fattoria, e subito lei si mise a preparare il pranzo. Actarus avrebbe voluto aiutarla, ma Rigel lo catturò nuovamente: c’era da apparecchiare la tavola. Sarebbero stati in cinque, perché Mizar rientrava da scuola, e Hachiro si fermava sempre a pranzo da loro.
Il pasto si svolse come Actarus si era aspettato, con Rigel che continuava a cianciare, Mizar che sbuffava di tanto in tanto e Venusia, Hachiro e lui a scambiarsi quelle occhiate che intercorrono tra compagni di sventura.
Dopo pranzo finalmente ci fu un poco di pace: Mizar andò in camera propria per fare i compiti, Hachiro tornò ai campi e Rigel, appesantito dal pranzo abbondante e dalle ancora più abbondanti bevute, s’appisolò sulla sua sedia, bocca aperta e russata gagliarda.
In silenzio, Actarus e Venusia riportarono in cucina i piatti sporchi. Poi lui chiuse la porta, lei s’appoggiò con le spalle contro la credenza emettendo un sospiro di sollievo. Dalla sala giunse una russata più sonora, e i due scoppiarono a ridere, ritornando seri un istante dopo.
Non c’era tempo da perdere, per cui il giovane fece appello a tutto il suo coraggio (affrontare mostri di Vega era stato meno duro!) e si decise: – Senti, Venusia…
Lei, che stava per disporre le stoviglie nella lavapiatti, si girò subito verso di lui, aria indifferente ma occhi brillanti come stelle: – Sì, Actarus?
– Sai perché sono tornato – cominciò lui – Te l’avevo promesso. Mi spiace solo aver tardato così tanto…
Venusia rigirò tra le mani uno strofinaccio: – Lo so, ho capito che non l’hai fatto di proposito.
– Non avrei mai voluto farti soffrire.
Lei assentì, gli occhi bassi e il cuore in tumulto: – So anche questo.
– Io… – Actarus esitò, incerto su come formulare la sua domanda; alzò le braccia, le lasciò ricadere, impacciato.
Sii te stesso…
C’era solo una cosa da fare: dirle la verità, per quanto poco allettante potesse essere. – Io non posso offrirti molto, Venusia. A parole sono un re, in pratica sono poco più che uno straccione. Vivo in una reggia, ma è mezzo distrutta. Ho un popolo, ma in miseria quanto me. Con me non potrai avere agi e ricchezze, questo è bene che tu lo sappia subito.
– Actarus…
– Aspetta, fammi finire, o non riuscirò a dirti tutto – pregò lui – Io lo so che meriteresti di più, infinitamente di più di quello che posso darti, ma… tutta la nostra ricchezza è nel nostro mondo, che sotto le rovine sta germogliando, e nella nostra voglia di vivere, di ricostruirlo… io… – s’impappinò, perse definitivamente il filo del suo discorso. Alzò gli occhi su di lei, li riabbassò subito, confuso: – Non avresti una vita facile, con me.
– Ma a me non sono mai piaciute le cose facili.
La voce di Venusia era suonata dolcissima, simile ad una carezza delicata che scioglie la tensione; finalmente Actarus osò alzare lo sguardo, incontrò quello di lei e ancora una volta vi trovò tutto quello che aveva sperato, tutto ciò che aveva sognato, e più ancora.
Lui le afferrò le mani, gliele strinse nelle proprie: – Venusia, davvero… vuoi dire che…?
– Stai attento a quello che fai – mormorò lei – Se mi chiedi qualcosa, c’è pericolo che ti risponda di sì.
– Ma tu sai cosa voglio domandarti… io…
La porta fu spalancata con energia, e Rigel si stagliò festosamente sulla soglia: – Ah, ecco dov’eravate finiti! Ma… che sta succedendo, qui? – sbraitò, mentre tutto il suo buonumore spariva di colpo nel vedere sua figlia tra le braccia di Actarus – Cos’è tutta questa confidenza? Ma siamo impazziti?
– Insomma, papà! – esclamò Venusia, guardandosi bene dall’allontanarsi da Actarus – Vuoi lasciarci in pace, una buona volta?
– Ah, è così che parli a tuo padre, figlia ingrata? – sbottò il genitore, pestando rabbiosamente a terra gli stivali – Non ti vergogni, a stare così… così appiccicata a… Qui in cucina! E cosa stavate facendo, poi?
– Se proprio vuoi saperlo, Actarus mi stava chiedendo di sposarlo! – esplose Venusia.
– Sposarlo?! – Rigel si fece violaceo – E tu avresti intenzione di accettare?
– Certo che sì!
Adesso prende il fucile, si disse Actarus.
Rigel sembrò congelarsi, restando per qualche istante immobile, lo sguardo fisso.
Actarus sentì un brivido scorrergli giù per la schiena.
Ha fatto un colpo, si disse. Mio Dio, ho chiesto a Venusia di sposarmi e le ho stroncato il padre…
– Ti sposi…? – chiese Rigel, con una vocina sottile sottile.
Venusia andò a dargli un bacio: – Sì, papà.
– Con lui?
– Sì.
Il padre esitò ancora: la sua bambina si sposava…
Ma Rigel era Rigel. Si scrollò di dosso la malinconia, gonfiò il torace ed esplose in un urlo che anche i vicini di casa dovettero sentire: – Ma è MERAVIGLIOSO!!!
Un istante dopo Actarus si trovò abbrancato a mezza vita da Rigel, che ridendo e piangendo insieme lo chiamò figlio adorato, aggiungendo poi che se avesse trattato male la sua piccola gli avrebbe fatto la pelle.
– Volete farla finita con questo chiasso? – esclamò Mizar, apparso anche lui sulla porta della cucina – Sto cercando di studiare, domani ho la verifica!
– Venusia si sposa! – l’informò suo padre, cavandosi di tasca un fazzoletto ed inzuppandolo abbondantemente di lacrime – Si sposa con Actarus! Ci pensi?
– Beh, era ora! – rispose suo figlio, rivolgendo però alla sorella un gran sorriso.
– “Era ora”? – esclamò Rigel, tornato subito combattivo – Tu sapevi che quei due… voglio dire…
– Papà, ma era talmente evidente…! – rispose Mizar con aria da uomo di mondo, mentre Actarus e Venusia si scambiavano uno sguardo d’intesa.
– Evidente? Come sarebbe, evidente? – Sbottò Rigel, mentre alle sue spalle i due fidanzati s’allontanavano in silenzio, chiudendo piano la porta alle loro spalle – A me non avevano detto nulla!
– Ma papà…
– Insomma, in questa casa io sono sempre l’ultimo a sapere!


- continua -


Link in cui presumibilmente si parlerà di padri: #entry558451825
 
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Come preannunciato, in questi giorni posto quotidianamente.

FUTURO

5 – TERRA

Il solo pensiero di Rigel urlante e paonazzo li fece nuovamente ridere.
Erano riusciti a scivolare fuori di cucina mentre Mizar (santo ragazzo!) tratteneva il padre a suon di chiacchiere, avevano preso due cavalli e s’erano allontanati di corsa, sparendo subito tra gli alberi.
Poco dopo, sdraiati sull’erba vicino al ruscello, stretti l’uno all’altra, Actarus e Venusia stavano finalmente dicendosi quello che l’interferenza di Rigel aveva troncato, mentre i cavalli lasciati liberi brucavano pigramente.
– Sei davvero sicura? – chiese dolcemente lui – Ti ho detto le cose proprio come stanno, vivere su Fleed non è né facile né comodo.
– Abbiamo combattuto assieme – rispose Venusia – Dovresti conoscermi abbastanza da sapere che non mi spavento per questo.
Actarus sembrò incupirsi: – Meriteresti di meglio.
– Questo è il meglio – lei gli mise le braccia attorno al collo e gli diede un bacio cui lui rispose subito, tenero ed appassionato allo stesso tempo. Si guardarono un attimo, lui tentò un bacio più profondo, la sua mano scivolò su di lei in una carezza più intima, e Venusia sussultò, ritraendosi: – Ti prego…
Lui parve sconcertato: – Sto andando troppo in fretta?
– Sta succedendo tutto un po’ troppo in fretta – mormorò lei, imbarazzata – Ti prego di scusarmi, ma due giorni fa nemmeno sapevo se tu fossi ancora vivo, ed ora…
– È vero – si tirò indietro, anche se con un certo rammarico, ma dentro di sé sapeva che lei aveva ragione. Bruciare tutte le tappe… no, lui stesso sapeva che dopo l’avrebbe rimpianto.
Si scostò un poco da lei, non voleva rischiare di doversi pentire poi.
Venusia si rimise a posto la camicetta, lo sguardo fisso sul torrente e un’ombra che le era scesa sul viso.
– Cosa succede? – chiese Actarus.
Lei si voltò a guardarlo, gli occhi lustri: – Se vengo via con te, che ne sarà di mio padre e mio fratello?
Actarus trattenne il respiro: – Preferisci restare con loro?
– Io voglio stare con te – disse subito Venusia – È normale allontanarsi da casa, quando ci si sposa… Però venire su Fleed non è come vivere sulla Terra. Cerca di capirmi, io non li vedrò più, non potrò nemmeno comunicare con loro… non fraintendermi, io ti amo e voglio vivere con te… ma…
– Avevo pensato a questo – rispose lui, prendendole una mano. – Possono venire con noi su Fleed, se lo desiderano.
Lei rimase a fissarlo, incapace di parlare.
– Avrei davvero piacere se rimanessero con noi – continuò lui – Ma naturalmente, se lo vorranno potremo sempre riaccompagnarli qui. Il viaggio da Fleed alla Terra è lungo, ma non impossibile.
Venusia deglutì, riprese fiato: – Vuoi dire… che davvero…?
– Non potrei mai separarti dalla tua famiglia. Io ho perso la mia, so quanto sia importante… e comunque, ho detto la stessa cosa anche a mio padre.
– Il professore…?
– Ha accettato. Verrà con noi su Fleed.
– Con noi…? Ma Goldrake può trasportare al massimo due persone...
– In orbita attorno alla Terra c’è una nave fleediana. È schermata in modo da non essere rilevata, ma c’è. Se tuo padre e tuo fratello accetteranno di venire, viaggeranno molto più comodamente di quanto faremo noi su Goldrake – aggiunse, con un sorriso.
Incapace di parlare lei gli gettò le braccia al collo, e ci vollero vari istanti prima che riuscisse a sussurrargli un ringraziamento. Actarus la strinse a sé, e sentendola tremare comprese che stava piangendo; avrebbe voluto dire qualcosa per rasserenarla, ma poi capì che si trattava di lacrime di gioia, lacrime benedette, e si limitò a tenerla stretta aspettando che si calmasse.
Improvvisamente ricordò qualcosa, qualcosa che avrebbe dovuto rammentare prima, e si frugò in tasca.
– Su Fleed non esiste l’abitudine dell’anello di fidanzamento, ma mi sono ricordato che sulla Terra è importante… o almeno, era importante nei film che ti piacevano – Actarus aprì il sacchettino di stoffa, rivelando agli occhi attoniti di Venusia le due meravigliose perle scintillanti.
– Actarus… ma è… è troppo! – esalò, mentre lui glielo infilava al dito.
– Spero che ti piaccia – parlava in tono di scusa, quasi le avesse donato un oggetto di poco conto – È l’anello che portano le regine di Fleed. È stato di mia madre, di mia nonna e delle mie antenate…
– Regine…? Ma io non posso portarlo! Io non…
– Venusia – le ricordò lui, un lampo di divertimento nello sguardo – Se mi sposerai, diventerai una regina anche tu. L’hai dimenticato?
Sì, l’aveva dimenticato… ma con lui si sarebbe sentita regina comunque, di questo Venusia ne era più che sicura. Scoppiò a ridere e rise anche lui, un riso spontaneo e felice come da troppo tempo non gli era più capitato di avere, si strinsero l’uno all’altra e continuarono a ridere come ragazzini, mentre poco più in là i cavalli alzavano il muso dall’erba e li guardavano con blando interesse.
Poi, saggiamente, i due animali scossero le orecchie, sbuffarono e tornarono a brucare margherite.


I giorni successivi furono talmente convulsi che Actarus e Venusia non ebbero praticamente possibilità di stare un poco assieme. Rigel e Mizar avevano accettato al volo la proposta di trasferirsi su Fleed, entrambi non volevano separarsi da Venusia, per cui ci fu un’infinità di cose cui pensare, bagagli da preparare, questioni da sistemare.
Venusia dovette disdire la sua partecipazione al corso per il brevetto di pilota, e soprattutto dovette dare una spiegazione soddisfacente a Seiji. Era dispiaciuta di dovergli mentire, per lei era un vero amico, ma cos’altro avrebbe potuto dirgli? “Sposo un principe extraterrestre e divento regina di un pianeta che la Terra ancora non conosce”? Ridicolo. Ripiegò parlando di un ex tornato nella sua vita e con cui voleva ricominciare… e siccome lui lavorava in marina, si sarebbero dovuti trasferire. In qualche modo, gli aveva detto la verità.
La stessa scusa fu usata per i vicini, per la scuola di Mizar, per tutto: Venusia si sarebbe sposata e l’intera famiglia Makiba stava per trasferirsi all’estero.
Procton lavorò intensamente a sua volta: doveva trovare un sostituto per l’Istituto, doveva sistemare ogni cosa prima di lasciare il posto e doveva inventarsi una scusa qualunque per far sapere ai suoi colleghi che non sarebbe più stato reperibile. Ovviamente gli unici a conoscere la verità furono i suoi fedelissimi assistenti, Hayashi, Saeki e Yamada. Congedarsi da loro non fu facile.
Per Rigel e Mizar passare la fattoria ad Hachiro fu relativamente semplice: difficilissimo fu separarsi dagli animali cui erano affezionati, le caprette, i conigli, le mucche e soprattutto i cavalli.
Actarus stesso andò a salutarli uno per uno, per tutti ebbe una carezza e una parola speciale; davanti a Silver non resse e l’abbracciò nascondendogli il viso nella folta criniera candida. Avevano condiviso talmente tante cose, loro due… anche anni prima era stato duro separarsi da quel suo amico, ma ora era peggio, perché ora sapeva che non sarebbe tornato mai più. Quello era davvero un addio.
Gli carezzò a lungo il muso, e il cavallo gli strofinò il naso contro il viso; poi il giovane si girò di scatto e s’allontanò senza più voltarsi indietro, gli occhi che gli bruciavano.


I bagagli erano pronti, tutto era sistemato: il momento della partenza era finalmente giunto.
Furono i tre assistenti di Procton ad aiutarli: sapevano dove erano diretti e si erano offerti ad accompagnarli al punto d’incontro con i fleediani, una zona nella pineta piuttosto fuori mano dove difficilmente sarebbero stati visti da qualche importuno.
Actarus caricò tutto sulla jeep, che avrebbe guidato personalmente avendo Venusia al suo fianco.
Yamada, Hayashi e Saeki li avrebbero seguiti su altre due auto, con Procton, Rigel, Mizar e il resto dei bagagli.
Partirono, cercando di parlare con tono fintamente gaio, il cuore stretto però dall’angoscia per tutto quello che stavano lasciando per sempre; Mizar rimase col naso pigiato contro il vetro del finestrino, intento a guardare quella che era stata la sua casa, e continuò a restare così anche quando ormai gli alti pini l’avevano nascosta completamente alla sua vista.
Venusia si asciugò le lacrime di nascosto, non voleva che Actarus pensasse che lei non fosse felice di seguirlo; poi s’accorse che anche lui aveva gli occhi lustri e gli mise una mano sulla spalla. Si guardarono, si capirono: non era facile per entrambi.
Svoltarono in una stradina stretta che si perdeva tra i pini; dopo un breve tratto la strada divenne un viottolo non asfaltato che proseguiva nel verde. Improvvisamente gli alberi s’aprirono in una radura in cui si trovavano un paio di uomini. A terra, seminascosta tra dei cespugli, c’era una navetta.
Actarus salutò cordialmente i due, il primo ufficiale e un giovane graduato, e li presentò a quella che era a tutti gli effetti la sua famiglia terrestre. I bagagli furono caricati, ci furono gli ultimi, difficilissimi saluti; poi Procton, Rigel e Mizar seguirono i due uomini sulla navetta che poco dopo si librò a mezz’aria sfrecciando poi via a tutta velocità. Era schermata, i primitivi radar terrestri non avrebbero potuto rilevarla.
Actarus e Venusia risalirono sulla jeep e ripartirono, seguiti da Hayashi, Yamada e Saeki. Puntarono verso il canalone in cui Actarus aveva nascosto Goldrake. Venusia ricordava bene quando lui l’aveva nascosto anni prima in quello stesso posto: proprio allora, lei per la prima volta aveva dato il suo personale contributo alla lotta contro Vega… i ricordi sembrarono sommergerla, e voltò il viso da una parte per non fargli vedere che stava ancora piangendo – allo stesso tempo, era sicura che lui stesse avendo i suoi stessi pensieri.
Ancora una volta i bagagli furono caricati, i saluti furono scambiati. Saeki aveva gli occhi lustri, Hayashi dovette soffiarsi il naso; Yamada balbettò un augurio anche a nome dei colleghi, incespicando penosamente in ogni parola. Venusia li abbracciò tutti e tre, ad ognuno diede un bacio e sussurrò un ringraziamento; poi Actarus la prese per mano e salirono insieme su Goldrake, voltandosi per un ultimo cenno di saluto prima di prendere posto.
Poco dopo il disco bianco e rosso usciva dalla grotta e s’alzava in volo, puntando verso l’alto.


Alle loro spalle la Terra rimpiccioliva poco a poco, un puntolino azzurro contro il nero assoluto dello spazio.
Adesso basta, o non farò che piangere tutto il tempo… Venusia si asciugò ancora una volta gli occhi e guardò avanti, sopra la spalla di Actarus, verso le stelle che scintillavano davanti a lei: là c’era Fleed, il suo futuro… nonostante il timore che provava nel sapersi in quel vuoto oscuro sentì un minimo di calore nel petto e si guardò attorno in cerca di qualcosa da fare. La cabina di Goldrake era piccola, ma…
– Finalmente soli – scherzò Actarus. Si erano lasciati alle spalle la nave di Fleed, dove per l’appunto i loro cari stavano viaggiando ben più comodi di quanto non fossero loro due, e stavano sfrecciando a tutta velocità nello spazio.
Giusto. Perché no?
– Actarus – disse Venusia – qui su Goldrake c’è il pilota automatico, vero?
– Certo – rispose lui, un po’ sorpreso.
Lei si protese in avanti mettendogli le braccia al collo e lo baciò: – Allora, è il momento di inserirlo.


– Qualcosa non va, papà? – chiese Mizar.
– Non capisco – sbottò Rigel, armeggiando con il comunicatore che gli era stato fornito da un ufficiale di Fleed – Volevo fare due chiacchiere con Venusia, ma non mi risponde… è come se avesse staccato il contatto.
– Oh, papà – Mizar alzò gli occhi al cielo – avrà qualcosa da fare…
– Ah sì? E cosa vuoi che abbia da fare, dentro quel robot?
Dall’alto dei suoi dodici anni, Mizar guardò il padre con sincera commiserazione: – Eh, già… magari si sta persino annoiando.
Rigel lo guardò storto: – Non essere impertinente! Ho come l’impressione che tu mi stia prendendo in giro.
– Io? Non mi permetterei mai…


- continua -

Link per critiche ed eventualmente improperi: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1755#lastpost
 
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Proseguiamo. Come preannunciato, cambio totale di protagonisti e di luogo - ed ecco spiegato perchè ogni inizio capitolo indica il luogo in cui prevalentemente si svolge la vicenda.

FUTURO

6 – ZUUL

– È splendido! – esclamò Maria, entusiasta.
– Sì, è bello – convenne Zuril.
Davanti a loro il pianeta risplendeva, verde e azzurro. Zuul era un mondo piccolo ma, a giudicare dalle descrizioni pur molto pacate di Zuril, doveva essere una specie di paradiso: foreste, laghi, natura libera ed incontaminata. Maria sentì la felicità colmarle il cuore: davanti a loro avevano un’autentica luna di miele in quel luogo meraviglioso. Finalmente niente impegni, scadenze, orari: solo loro due, tanto tempo libero e quel magnifico pianeta da scoprire.
La navetta entrò in orbita e poi scese verso la superficie del pianeta; Maria continuava a guardare a terra, il naso pigiato contro il plastivetro della finestra. Accanto a lei Zuril, pur impegnato a guidare la nave, sorrise tra sé del suo entusiasmo; a dire il vero sotto la sua apparenza tranquilla pure lui si sentiva parecchio euforico. Zuul era il suo mondo natale, cui lui era profondamente legato; tornarvi dopo tanto tempo, e in compagnia di Maria, gli sembrava quasi impossibile.
Ma tutto quel che era accaduto in quegli ultimi tempi gli sembrava assurdo, a partire proprio dal loro matrimonio: nato come un legame di convenienza si era trasformato poi in un’unione autentica ed armoniosa. Entrambi si erano sposati per rafforzare l’alleanza esistente tra Vega e Fleed, e ora si ritrovavano felici, uniti ed in procinto di trascorrere un po’ di tempo loro due soli. Sembrava persino impossibile, tanto appariva meraviglioso.
Zuril stesso non riusciva a crederci: ormai maturo, si era innamorato come un ragazzo di quella sua giovane, bellissima moglie, e quel che più era straordinario, era corrisposto.
– Sai che mi pare incredibile? – disse accanto a lui Maria – Non molto tempo fa avevo persino paura di te… e ora, non riesco a togliermi questo sorriso idiota dalla faccia. Non è assurdo?
Non potrei spiegare meglio quel che sto provando… – Per niente.


La casa le piacque subito.
Zuril le aveva spiegato che su Zuul le abitazioni s’integravano perfettamente nel paesaggio, e così era: si trattava di una costruzione bassa, interamente in pietra bianca e legno chiaro, ed era nascosta tra gli alberi come del resto lo erano tutte le dimore attorno. L’illusione era di trovarsi completamente isolati nel mezzo di una foresta; invece tutt’attorno c’erano altre persone, altre case, altri edifici.
Maria vi entrò con un misto di gioia, curiosità e timore: quella era la casa in cui suo marito era nato e divenuto adulto, là aveva vissuto ed era stato felice con Shaya, la sua prima moglie, là erano cresciuti i suoi figli Fritz e Kein, carne della sua carne il primo, schiavo di Fleed il secondo, entrambi molto amati ed entrambi strappatigli dalla guerra.
Era tutto in perfetto ordine, naturalmente: anche se Zuril non vi si recava da tantissimo tempo c’erano i robodomestici a pulire e ad eseguire qualsiasi lavoro di manutenzione fosse necessario. Fortuna che anche su Zuul esistevano quei meravigliosi, fidatissimi camerieri meccanici, Maria era negata per qualsiasi lavoro casalingo: ai vecchi tempi sulla Terra, i suoi tentativi di cuocere anche solo un uovo alla coque erano stati motivo di grande ilarità.
La casa non era grande. Lo sarebbe stata per il severissimo metro veghiano, era normale per le abitudini un po’ meno spartane di Zuul, un terrestre avrebbe trovato impossibile che un sovrano abitasse in così poco spazio, praticamente una villetta circondata da un giardino. La semplicità era la nota dominante in quella casa: mobili in legno chiaro e tessuto naturale, grandi finestre, luce a volontà. Anche il giardino era semplice, un prato tagliato basso e alberi che circondavano l’intera abitazione. Tuttavia era una casa accogliente e serena: Maria percepì subito che i suoi abitanti vi erano stati felici, per cui si guardò attorno con maggior entusiasmo.
Il soggiorno era molto luminoso, fornito di mobili lineari ma dalle linee morbide. Maria diede uno sguardo rapido alla cucina – non era particolarmente attratta dalle cucine – e poi andò a vedere la camera che avrebbe condiviso con Zuril: ampia e ariosa, con un balcone che dava sul giardino.
Una piccola porta l’incuriosì: una cabina armadio, un’olocamera…? Com’era successo anche a Kein un’infinità di tempo prima, Maria rimase attonita nel trovarsi davanti una parete ricurva e trasparente, una luce azzurra, bolle d’aria e decine di corpi argentei che nuotavano pigramente nell’acqua… un enorme acquario. Bastava chiudere la porta della stanzetta, sedersi sulla poltroncina girevole posta al centro, lasciarsi cullare dalla musica lenta che sembrava colare dall’alto e l’illusione di trovarsi sul fondo del mare era perfetta.
Diede poi un’occhiata allo studio di Zuril, che era esattamente come lei s’aspettava che fosse: piccolo, essenziale, ordinatissimo e con un ritratto di Shaya in evidenza sulla scrivania. Come sempre, vedere l’immagine della prima moglie di Zuril non le diede dolore – non per sé stessa, almeno. Non era gelosa di lei, quel viso dolce e intelligente non le ispirava certo questo… a dire la verità le era simpatica, le sarebbe persino piaciuto conoscerla. Se mai, vedere i suoi ritratti le dava un’idea esatta di quello che lui doveva aver patito, avendola persa.
Il passo successivo furono le stanze dei ragazzi: due camere molto simili, la prima personalizzata da una collezione di legni levigati e sassi colorati (Fritz amava cercare tesori sulle rive del lago, le aveva spiegato Zuril), la seconda piuttosto spoglia ed un po’ anonima.
– Kein non lasciava trapelare molto di sé stesso, nemmeno qui, in casa sua – Zuril sembrava essersi materializzato alle sue spalle.
– È stato il mio compagno di giochi quando ero bambina, l’ho ritrovato anni dopo solo per vederlo morire, e non rammento quasi nulla di lui – mormorò Maria – Speravo che venendo qui avrei potuto trovare qualcosa che mi aiutasse a ricordarlo.
Quando lei accennava all’amnesia che le annebbiava i ricordi della sua infanzia, Zuril provava sempre una fitta di dolore: se aveva dimenticato era stato a causa dell’attacco che Vega aveva sferrato contro Fleed. Il trauma era stato tale da cancellarle persino i visi dei genitori… Zuril aveva sperimentato in prima persona quali danni avesse subito Kein, le notti insonni, gli incubi ricorrenti, il suo chiudersi ostinato in sé stesso; aveva percepito l’angoscia che aveva tormentato il ragazzo ogni giorno della sua breve vita. Fortunatamente Maria sembrava aver sofferto meno, ma…
– Mi parlerai ancora di Kein, vero? – chiese improvvisamente lei, mentre uscivano dalla camera.
– Certo, se ti fa piacere – Zuril esitò un attimo, prima di aggiungere: – Maria, tormentarti con i ricordi…
– Non mi fa bene, lo so – completò lei. Ne avevano già parlato, ma tentar di rammentare era più forte di lei. Quella casa in cui Kein aveva trovato un minimo di serenità forse avrebbe aiutato anche lei…? Tornò quasi di corsa in soggiorno, e subito incrociò lo sguardo di Shaya.
Maria si avvicinò e guardò il ritratto, scrutandone ogni lineamento.
Shaya non era stata una bellezza vistosa, con ogni probabilità in un gruppo di donne sarebbe stata l’ultima a venire notata; aveva però una sua grazia quieta, un qualcosa che le ricordò Venusia (e qui Maria provò una fitta di nostalgia al pensiero di quella che era stata la sua amica più cara).
Osservò meglio quel viso, cercando di comprendere la donna che era stata: dolce e calma, due occhi scuri ed intelligenti, un guizzo d’umorismo che le accendeva lo sguardo. Capiva perché Zuril l’avesse amata tanto, perché non si fosse mai dimenticato di lei. Quel ritratto che aveva in mano, ad esempio…
– Ah, eccoti – la voce di Zuril risuonò alle sue spalle, lievemente incerta: non si era aspettato di trovare la sua seconda moglie intenta ad osservare il ritratto di colei che era stata la prima, e la cosa lo imbarazzava un poco – Quella è Shaya – aggiunse, tanto per dire qualcosa.
– Lo so – Maria depose il ritratto sul mobile, rimettendolo nella stessa posizione in cui l’aveva trovato.
– Ti dà fastidio il fatto che ci siano le immagini di Shaya, qui in casa?
– No… non proprio.
– Capisco. Possiamo toglierle, se vuoi – aggiunse, e una lieve ombra sembrò calargli sul viso.
Toglierle… è quel che vorrei?
Maria rifletté, e le ci volle un attimo per trovare la risposta: – No. Non le togliamo, come non toglieremo le immagini di Fritz e Kein. Non sarebbe giusto.
– Ma se vedere Shaya ti dà noia…
– Non mi dà noia – lo guardò in viso, diretta come sempre perché lui comprendesse che non stava raccontandogli una bugia – Davvero. Sto solo cercando di capire chi sia stata tua moglie… sono curiosa, non gelosa.
Lui le sorrise, mentre lei gli si rannicchiava tra le braccia come una gattina: – Va bene, fingo di crederci.
– Solo un pochino gelosa – assicurò Maria – Appena appena. Un niente.
– Non ne hai motivo.
Maria guardò ancora quel viso, quegli occhi: – Shaya dev’essere stata una donna fuori dal comune.
– Oh, sì. Lo era. E anche tu lo sei.
– Due mogli… Sembra che tu stia parlando del tuo harem.
Zuril parve sinceramente sconcertato, non conosceva quella parola terrestre: – Il mio che cosa?
– Sai cosa facciamo? – Maria lo guardò, gli occhi azzurri brillanti – Lasci Shaya dov’è e metti sul mobile anche la mia immagine! In fondo faccio parte anch’io della famiglia, no?
– In effetti… – rispose lui, fin troppo serio. Maria gli gettò le braccia al collo, e mentre lui chinava la testa per baciarla incrociò lo sguardo sorridente di Shaya.
Due ritratti. Perché no?


Il giorno successivo Zuril cominciò a far conoscere Zuul a Maria: andarono a passeggiare nella foresta arrivando a un corso d’acqua che era stato la meta preferita di Fritz e Kein, e come avevano fatto i ragazzi un tempo mangiarono i frutti rossi degli alberi che crescevano ai lati del ruscello, catturarono i plee-mph, molluschi bianchicci che una volta fritti risultarono squisiti, guardarono i gamberetti nell’acqua trasparente, si rinfrescarono… fecero anche qualcos’altro, la scarsità di popolazione e la vegetazione fitta davano garanzia di protezione dagli sguardi di qualunque estraneo… insomma fu una giornata perfetta, come lo furono anche le successive, quando andarono al lago, o girarono per i boschi per osservare gli animali o Zuril la portò a fare il bagno in una polla d’acqua sotto una meravigliosa cascata. Ci fu anche un giorno in cui un acquazzone impedì loro di uscire, ma la cosa non li contrariò perché trovarono ugualmente di che passare il tempo; quando la pioggia cessò e andarono a fare spese, con gran stupore di Maria non vennero assaliti da folle di curiosi. S’era aspettata da subito di trovarsi al centro dell’attenzione, cosa che la metteva non poco a disagio, e così non era stato. Anche quando andarono a trovare Lauer fu una visita molto tranquilla, quasi loro fossero stati tre amici qualsiasi e non una coppia di sovrani e il governatore di un pianeta… Maria si ripromise di chiedere lumi a Zuril, prima o poi.

- continua -


Link per eccetera, e se date un'occhiata ai post inorridite con la versione italianizzata dei nomi degli eroi: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1770#lastpost
 
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FUTURO

7 – ZUUL

– Un lupo con la bocca aperta – disse Maria.
– A me sembra un sauride galarita – rispose Zuril – Ha persino le ali.
– Quelle sono le orecchie!
Zuril si arrese: in fatto di fantasia nel riconoscere forme nelle nuvole sua moglie era imbattibile, almeno per lui.
Erano su un prato, lei seduta nell’erba e lui sdraiato con la testa sulle sue ginocchia; sopra di loro il vento sembrava giocare con le nuvole, avvolgendole, accartocciandole e poi spiegandole in un’infinità di forme in un eterno fare e disfare.
– C’è una cosa che non capisco – osservò ad un certo punto Maria – Noi due siamo persone con una certa fama, no?
– Un poco, sì – convenne lui.
– Allora, mi ero aspettata di aver a che fare con curiosi di vario genere, dai cronisti a qualche personaggio importante fino alle persone comuni; invece, niente.
– Te ne dispiace?
– No, affatto! Sono solo stupita.
– Non vedo perché. Fossimo arrivati qui per una visita ufficiale, puoi star sicura che sarebbe stato tutto molto diverso.
– Oh. E invece?
– Invece, siamo scesi su Zuul in maniera molto anonima e viviamo per conto nostro. Il messaggio che lanciamo è “lasciateci stare”; la gente di Zuul l’ha capito benissimo, e rispetta il nostro desiderio.
Lei si allontanò i capelli dal viso, un gesto che, ormai Zuril lo sapeva bene, indicava sorpresa ed incertezza: – Pare incredibile… voglio dire, che ci lascino in pace. Non me lo sarei mai aspettato.
– Questo significa che sulla Terra non sarebbe successo?
– No, naturalmente! Per un terrestre, un qualsiasi divieto in genere non è che un invito ad infrangerlo. Avremmo potuto chiedere di essere lasciati in pace, e proprio per questo ci avrebbero tormentati.
Zuril parve sinceramente sorpreso: – Insomma, ci avrebbero infastiditi pur sapendo che noi desideriamo star tranquilli? Ho sempre trovato i terrestri privi di rispetto e piuttosto irritanti, e continuo a pensare di aver ragione.
– Irritanti? – esclamò vivacemente Maria – Detto da un perfido veghiano…
Zuril si rialzò su un gomito per poterla guardare bene in viso: – Senti, è vero che noi siamo dei perfidi veghiani e che il nostro prossimo possiamo bombardarlo e sterminarlo; ma importunarlo, no!
– Eh già, questo sì che sarebbe imperdonabile…
Per tutta risposta, lui l’afferrò tirandola nell’erba e la zittì con un bacio.
– Voialtri veghiani risolvete tutto con la violenza – disse poi Maria; quindi attirò a sé il marito e lo baciò a sua volta.
Sopra di loro, le nuvole continuavano il loro pigro divenire.


Il resto dei giorni volarono via l’uno dopo l’altro: di giorno andavano in giro, di sera restavano in casa, allungati sul divano a sentire musica e parlare, e Maria approfittava di quelle chiacchierate per farsi raccontare di Kein, del ragazzo che era stato, di come avesse vissuto. Quel che Zuril le raccontò non sollevò alcun velo sui suoi ricordi ma almeno le completò un poco quella specie di mosaico scomposto che era il suo passato.
In quei giorni la loro fu una vita tranquilla, alcuni l’avrebbero trovata persino monotona, ma era ciò di cui avevano bisogno. Dopo quello che era accaduto ultimamente quel periodo di pace fu un vero toccasana, e Maria già pensava con fastidio che presto avrebbero dovuto tornare alla loro quotidianità… quella vacanza su Zuul sarebbe divenuta solo un bel ricordo – beh, a dire il vero di bei ricordi ce ne sarebbe stato più d’uno, parecchi anzi.
Proprio una delle ultime sere, una serata sufficientemente calda perché potessero restare in giardino ad osservare le stelle, Zuril le disse quello che si era tenuto per sé fino ad allora, una sorpresa che aveva voluto farle: Rigr, il sovrano di Upuaut, li aveva invitati sul suo pianeta.
– Stai scherzando? – esclamò Maria. Era notorio che la gente di Upuaut fosse molto chiusa e poco incline a ricevere visite.
– Rigr mi ha contattato in persona poco prima che partissimo per venire qui – spiegò Zuril – Andremo a trovarlo prima di rientrare su Moru.
Maria si fece pensierosa: – Non mi avevi detto nulla… adesso non so se ho i vestiti adatti per Upuaut.
Zuril conosceva troppo bene sua moglie per capire che lei non stava riferendosi certo ad abiti eleganti e gioielli: – Quelli che abbiamo usato qui andranno benissimo, al limite può servire qualcosa di adeguato per il clima ventoso. Possiamo procurarci quello che ci occorre.
– C’è molto vento, su Upuaut? – chiese Maria, allungandosi pigramente sulla sua poltrona sdraio.
Zuril, che col proprio scanner stava osservando Hojel, uno dei due satelliti di Zuul, alto sulle loro teste, abbassò lo sguardo su di lei: – Direi di sì… Non conosci Upuaut?
– Io non ho un computer incastrato in testa, signor professore – gli ricordò lei.
– Beh, non occorre un computer per questo… le nozioni su Upuaut e gli altri pianeti che sono stati soggetti a Vega sono materia di studio elementare – le fece rilevare lui.
– Ti sfugge il piccolo particolare che io non ho frequentato le vostre scuole.
– È vero – ammise lui, allungandole il proprio computer portatile – Qui puoi trovare tutto quel che ti serve.
Maria fece una smorfia: – Non credo che sia necessario…
– Come fai ad andare in un posto di cui non sai niente? – in Zuril parlava lo scienziato, più che il marito – Upuaut è un mondo singolare. Dovresti documentarti.
Ha ragione, naturalmente, si disse Maria, facendo una smorfia: studiare non era mai stato uno dei suoi passatempi favoriti, ricordava ancora troppo bene quanto poco le fosse piaciuto andare a scuola… con quale profitto, poi, era meglio lasciar perdere.
E ora, aveva sposato uno scienziato che aveva fatto dello studio e della cultura una delle sue maggiori priorità. La cosa era persino ridicola.
Restava però il fatto che lei stava per recarsi su un mondo di cui ignorava tutto…
Si allungò nella sua poltrona, accese il computer portatile e prese a scorrere i dati su Upuaut.


Si trattava di un pianeta roccioso, il secondo del suo sistema.
La caratteristica principale di Upuaut era il fatto che i tempi di rotazione su sé stesso e di rivoluzione attorno alla sua stella coincidessero, un po’ come avviene per la Luna rispetto alla Terra. Questo faceva sì che una faccia del pianeta fosse perennemente esposta ad un calore bruciante, e si presentasse come un deserto infuocato, totalmente invivibile a causa delle temperature elevatissime; l’altra faccia, al contrario, era eternamente coperta da uno strato di ghiaccio che la rendeva altrettanto inospitale. Il contrasto poi tra le masse d’aria roventi e quelle d’aria gelida creava dei venti d’intensità fortissima che squassavano la già più che tormentata superficie del pianeta.
Maria inarcò le sopracciglia: un mondo simile era un inferno… come potevano viverci, Rigr e la sua gente?
Continuando la lettura dei dati trovò subito la risposta: l’unica parte del pianeta che fosse adatta alla vita era la sottile fascia di zona temperata compresa tra il deserto di fuoco e quello di ghiaccio, tra l’eterno sole e l’eterna tenebra. In pratica si trattava di una striscia di terra relativamente stretta, riparata dai venti grazie a due catene montuose che scorrevano parallele ai suoi fianchi ed avvolta in un perenne crepuscolo, reso meno cupo dalla forte luminescenza dell’unico satellite, Yur.
Come aveva giustamente detto Zuril era un mondo singolare, ostile, costituito da zone rocciose ed interminabili steppe d’erba coriacea che fungevano da pascolo alle mandrie di ker-eyth, sorta di grosse lucertole lanose, che a loro volta fornivano il nutrimento alla gente di Upuaut.
Maria sentì stringersi il cuore: luce accecante, caldo rovente, tenebre, ghiaccio, vento… non c’era da meravigliarsi che il popolo di Rigr fosse poco numeroso, ma straordinariamente abile e resistente. Di nuovo si chiese come potessero sopravvivere in quelle condizioni.
Ancora una volta, gli uomini-lupo la sorpresero: abitazioni sotterranee... avrebbe dovuto immaginarselo.
Riprese a leggere, sempre più interessata a quel mondo duro e difficile e alla gente tenace che aveva saputo integrarvisi. Zuril le diede un’occhiata: lei appariva totalmente concentrata, come si era aspettato Upuaut aveva stimolato la sua curiosità. Ottimo.
Sopra di loro, Hojel continuava a splendere.


Maria s’affacciò al balcone per guardare ancora una volta il giardino ai suoi piedi: amava quel mondo tranquillo, quella casa nella natura, e lasciarla le costava molto. Sapeva naturalmente che prima o poi lei e Zuril vi sarebbero tornati, ma non aveva idea di quando sarebbe successo. Erano stati così felici, lì…
Rientrò rapidamente in casa e passò nel soggiorno: lì avevano ascoltato musica, avevano parlato, avevano guardato qualche olospettacolo, molto pochi in realtà, lì… beh, avevano fatto anche qualcos’altro – e qui Maria rise tra sé chiedendosi che avrebbe detto il suo compassato fratello se avesse saputo…


…da tutt’altra parte della galassia, nel silenzio dello spazio il per nulla compassato Actarus era a sua volta molto impegnato, e chissà che avrebbe detto Maria se avesse saputo cosa stesse succedendo nell’abitacolo di Goldrake…


La voce di Zuril la fece sussultare: – Maria, sei pronta?
Lei guardò ancora il soggiorno, il mobile su cui ora erano allineati quattro oloquadretti e non più solo tre, sentì pizzicarle gli occhi e capì che non avrebbe retto ancora a lungo: – Andiamo pure.
– Torneremo, vedrai – promise Zuril, mentre uscivano di casa. Aveva pensato che Zuul le sarebbe piaciuto ma non avrebbe mai immaginato che lei si sarebbe affezionata così in fretta a quel posto.
Maria drizzò la testa, gettando indietro i lunghi capelli castani: – Certo, torneremo.
Si strinse al fianco di suo marito e s’incamminò con lui verso la navetta che li avrebbe portati su Upuaut. Le due robovaligie tennero subito loro dietro.

- continua -


Link per scopi intuibili: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1785#lastpost
 
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Un bel capitolone lungo lungo per farmi perdonare il fatto di non postare i prossimi giorni. potrò visualizzare i vostri commenti ma da cel non potrò rispondere. Me ne scuso fin d'ora.


FUTURO


8 – UPUAUT

Roccioso, mezzo ghiacciato e mezzo rovente, Upuaut si presentava subito per quel che era: un mondo duro che non concedeva nulla, su cui solo adattabilità e resistenza potevano permettere di vivere. Non per nulla i guerrieri-lupo che vi abitavano erano conosciuti per essere i migliori in assoluto.
– Yabarn diceva sempre che se fossero stati numerosi, avrebbero potuto conquistare la galassia – disse Zuril mentre faceva entrare in orbita la navetta.
Maria, che ben ricordava lo scontro che aveva avuto non molto tempo prima proprio con Rigr, il sovrano di Upuaut, ebbe un brivido: – Sono pochi, allora?
– Su Upuaut il territorio vivibile è molto ristretto. Devono essere pochi per forza.
Maria non rispose, guardando il pianeta attraverso il plastivetro del finestrino. Dal punto in cui si trovavano era visibile soprattutto la parte eternamente in ombra, che praticamente scompariva nel buio dello spazio; Upuaut appariva come una sottile falce arancio, e Maria sapeva che quella ridotta parte illuminata in realtà presentava temperature infernali… quella gente aveva per vivere solo un ridotto spicchio di territorio a metà tra l’inferno di fuoco e quello di ghiaccio, eppure aveva trovato il modo di sopravvivere nonostante tutto… anche se aveva letto parecchio su Upuaut, Maria non riusciva a figurarsi come sarebbe stato viverci, anche se per un breve periodo di tempo.


C’era vento, l’aria era molto secca e le irritò la gola facendola tossire: fu così che Maria comprese subito l’abitudine del popolo di Upuaut di portare sempre con sé dell’acqua.
Ancora tossendo seguì il marito giù per la passerella, e subito qualcuno le mise in mano una borraccia dicendole di bere. Maria non se lo fece ripetere: l’acqua era fresca e le calmò subito la tosse. Solo allora si accorse che a porgerle l’acqua era stato proprio Rigr, che ora la fissava con il suo sguardo da lupo.
– Vedo che Upuaut ti ha dato subito il suo benvenuto – sorrise lui, che non era certo uomo da perdersi in convenevoli.
– Mi dispiace – rispose Maria, con la voce ancora strozzata. Come inizio della sua prima visita ufficiale in veste di Regina di Vega era stato sufficientemente disastroso.
– Tieni l’acqua, l’avevo portata apposta – Rigr porse una borraccia anche a Zuril – Da noi l’aria è sempre secca, avere dell’acqua con sé è fondamentale.
– Non lo sapevo – mormorò Maria.
– Ne sono sicuro – rispose lui, in tono leggero – Difficilmente qualcuno lo sa, se non prova a vivere da noi; e Upuaut non è quel che si definirebbe una meta turistica.
Zuril bevve a sua volta, mentre tratteneva un sorriso: tipico della gente di Upuaut non perdersi in cerimonie, le avrebbero considerate un’ipocrita perdita di tempo. Il benvenuto di Rigr era come si era aspettato, pratico e del tutto informale.
Quasi a contraddirlo Rigr lo sorprese, chiedendo se il viaggio fosse andato bene. Zuril ebbe la netta sensazione che fosse una domanda fatta solo in onore degli ospiti, comunque apprezzò il pensiero: i guerrieri di Upuaut tendevano a comportarsi a modo loro senza preoccuparsi dell’opinione altrui, per cui Rigr aveva dimostrato una delicatezza davvero insolita, e gliene fu grato.
A breve distanza da loro un gruppetto di uomini e donne attendeva, in silenzio. Le presentazioni furono rapide ed informali, poi Rigr fece loro strada verso la propria abitazione. Zuril e Maria gli si affiancarono e le due robovaligie tennero loro bravamente dietro, muovendosi con insospettabile sicurezza su quel terreno e destando una certa meraviglia negli uomini-lupo, che non si erano aspettati che dei congegni del genere potessero aver ragione del suolo duro ed accidentato di Upuaut.
Mentre Zuril e Rigr conversavano tra di loro, Maria si guardò attorno. Il paesaggio appariva piuttosto desolato: una sorta di spianata color sabbia spazzata dal vento, costellata da qualche ciuffo d’erba argentea e rigida, che sembrava terminare contro delle rocce aguzze che si levavano dritte al cielo, simili a dita scheletriche. Lo strano era che quelle alture sembravano scaturire direttamente dal cuore del pianeta, non c’era un declivio dolce, solo pianura che s’infrangeva contro la parete rocciosa. Ma Upuaut era un mondo ostile, Zuril gliel’aveva detto e ripetuto. Bisognava conoscerlo, superare le sue difese, e solo allora si sarebbe potuto conoscerne il lato gentile… proprio come i suoi abitanti, guerrieri feroci e spietati e allo stesso tempo amici fidatissimi.
Maria alzò il mento: ce l’avrebbe fatta.
– Ecco qui – disse Rigr.
Maria si guardò attorno: il cielo era crepuscolare, certo, ma non così oscuro da non permettere di vederci; solo che lei, a parte una sorta di muro ovale, non vedeva nulla o quasi. Le case erano sotterranee, lo sapeva, ma lei aveva immaginato che si dovesse vedere almeno qualcosa.
Il muro risultò essere la recinzione di un cortile; più in là si potevano scorgere altri muri che delimitavano cortili esattamente uguali a quello in cui erano entrati, e Maria avrebbe scoperto nei giorni successivi che si trattava delle abitazioni di altri nuclei familiari.
All’interno del cortile si era al riparo dal vento – “Vento? Non ce n’è, oggi è una giornata calma”, rispose Rigr ad una domanda di lei. Una piccola costruzione semisepolta nel terreno risultò essere l’inizio di una scala che scendeva nel cuore della roccia aprendosi poi in una piccola stanza circolare; là si potevano lasciare le giacche e gli stivali ed indossare delle comode calzature da casa. Un breve corridoio li portò poi in una sala molto più grande, circolare anch’essa: su Upuaut le forme quadrangolari erano poco amate, e le stanze delle case erano tutte tondeggianti.
Maria imparò subito che una casa di Upuaut era abbastanza diversa dal genere di abitazioni cui era abituata: questo perché, proprio come gli animali terrestri cui tanto somigliavano, gli uomini lupo, o Uru come si chiamavano loro nella loro lingua, vivevano in branchi, tutti sottoposti all’autorità di un capo che a sua volta doveva rispondere al sovrano. Per quel che Maria poté vedere, non v’era però alcuna differenza tra lo stile di vita degli individui “normali” e quello dei componenti il branco di Rigr, che nonostante fossero quella che su altri mondi sarebbe stata chiamata la famiglia regale, vivevano, lavoravano e si vestivano esattamente come gli altri. Rigr stesso non aveva nulla nel suo abbigliamento che lo distinguesse; ma che fosse il sovrano, nessuno sembrava metterlo in dubbio.
La casa era quindi molto grande perché doveva ospitare parecchie persone, e si divideva in parti comuni e parti private. La grande stanza circolare era il cuore dell’abitazione, ed era suddivisa grosso modo in due zone, una per cucinare, con diversi forni e pietre refrattarie, e un’area soggiorno. Le pareti imbiancate a calce rendevano l’ambiente così luminoso da far dimenticare che ci si trovava sottoterra; il pavimento era in roccia, talmente lisciata da sembrare ricoperta da una colata di vetro, ma non era per nulla scivoloso. I mobili erano pochi, costituiti soprattutto da legno e fibre intrecciate. Stuoie dipinte e cuscini coloratissimi nei toni del giallo, arancio e verde olivo rendevano accogliente la zona soggiorno.
Maria comprese subito che quella casa rifletteva proprio quel che era Upuaut, un mondo di contrasti totali: il duro della roccia e le linee morbide della casa, il bianco immacolato della calce e i colori vivacissimi di cuscini e vasellame… non c’era via di mezzo, gli Uru per loro natura erano individui molto decisi.
Dal soggiorno partiva un corridoio che portava alle varie zone private: perché, se i pasti erano in comune, ognuno aveva però un suo spazio personale di cui disporre. Rigr stesso li guidò verso una camera tondeggiante. Maria s’era aspettata una sistemazione spartana; il gran letto morbido dalla coperta di pelliccia fu una vera sorpresa. Una grande cassapanca dipinta a colori vivaci, una stuoia a disegni e un tappeto appeso ad una parete rendevano piacevole la stanza. Una porta intagliata e dipinta dava su un bagno, rivestito in una sorta di maiolica di un bellissimo azzurro (“Solfato di rame”, fu il serafico commento di Zuril alle esclamazioni entusiastiche di lei).
– …E sono ritenuti selvaggi! – esclamò Maria, quando Rigr si ritirò discretamente perché avessero modo di sistemarsi.
– La gente li conosce soprattutto per i guerrieri spietati che sono – rispose Zuril.
Questo, lei poteva capirlo… lo sapeva molto bene. Maria ebbe un brivido improvviso e si gettò tra le braccia del marito, stringendosi con forza a lui.
– Qualcosa che non va? – chiese Zuril. Sapeva bene che a volte sua moglie poteva avere premonizioni che poi regolarmente s’avveravano.
Lei scosse la testa: no. Era stata una sensazione così fuggevole… in genere le sue premonizioni, quando avvenivano, erano ben chiare.
– Sono solo un poco stanca. Vai tu per primo a rinfrescarti, io intanto mi sdraio.
– Va bene, riposati – un rapido bacio, e Zuril sparì in bagno.


Quando rientrarono nella grande sala comune Zuril e Maria poterono conoscere gli altri Uru con cui in quei giorni avrebbero condiviso spazi ed esistenza.
Il branco di Rigr era composto da una ventina di persone, vincolate da legami troppo complicati perché Maria riuscisse subito a comprenderli: c’erano ad esempio due zie, talmente uguali tra loro da dover essere gemelle, c’erano alcuni bambini e ragazzi, ma c’erano anche diversi elementi che facevano parte a tutti gli effetti del gruppo pur non avendo legami di sangue con la famiglia. Come Maria ebbe a scoprire, per gli Uru esistevano vincoli ben più forti di quelli dati dalla semplice consanguineità: la gente di Upuaut non donava facilmente la propria amicizia, ma quando questo accadeva il legame che si creava andava ben oltre la parentela di sangue.
Uno di questi era Yai, un individuo di mezz’età molto alto e robusto, dalla folta pelliccia grigio scuro e dal viso solcato da una lunga cicatrice che accentuava il suo aspetto inquietante; Maria all’inizio ne fu intimorita, ma ben presto comprese che sotto l’aria selvatica Yai celava un animo riservato ma gentile. Per quel che riuscì a comprendere, pur non essendo vincolato da legami di famiglia era stato lui ad insegnare le tecniche di combattimento e caccia a Gauss prima e a Rigr poi: era considerato un guerriero valoroso ed un ottimo cacciatore, ed era trattato da tutti con molto rispetto.
Chi invece restava un mistero era una giovane donna lupo, Raska. Piccola e magra, tutta nervi e muscoli, aveva la pelliccia di una sfumatura piuttosto chiara, quasi nocciola; il viso era più strano che bello, con occhi obliqui grigio chiaro, penetranti e decisi. Una donna che era sicuramente meglio avere come amica.
Maria ebbe chiaro da subito che Raska, pur non essendo imparentata con Rigr, fosse a tutti gli effetti un membro del gruppo, e tra i più considerati. Da subito, Maria aveva pensato che fosse la compagna di Rigr (e qui, chissà perché, aveva avuto un’inspiegabile quanto inopportuna fitta di gelosia); era stato subito ben chiaro che così non era. Rigr era indubbiamente molto affezionato a lei venendone ricambiato, aveva grande stima del suo giudizio, le si rivolgeva spesso per un parere, ma il loro sembrava un rapporto fraterno, non certo quello che può esistere tra innamorati… pure, Maria aveva saputo che Rigr, a parte Gauss, non aveva parenti stretti. Non era una sorella, dunque.
Era ormai ora di cena, e dai forni si levavano profumini davvero invitanti che stuzzicarono subito l’appetito di Maria, ma allo stesso tempo la sorpresero: non sapeva bene nemmeno lei cosa si fosse aspettata da un pasto su Upuaut… carni sanguinolente agguantate e sbranate, o qualcosa di simile; ancora una volta, il popolo di Rigr la sorprese.
Sedettero in circolo in terra sulle stuoie dipinte, appoggiandosi ai cuscini che risultarono essere piuttosto comodi; Maria si ritrovò tra Zuril e Rigr, e con loro sedettero in circolo tutti gli altri, uomini, donne e ragazzi. In mezzo, sopra pietre refrattarie che avrebbero mantenuto il calore, erano stati posti tutti i piatti e i vassoi per il pranzo, in modo che nessuno fosse costretto ad alzarsi.
Rigr intonò un canto… ma forse era una sorta di lamento… che Maria non riuscì a comprendere, una preghiera, forse? Tutti gli altri risposero subito.
– Un ringraziamento – le sussurrò all’orecchio Zuril, il cui computer oculare aveva tradotto il significato di quanto stavano sentendo – e una richiesta di perdono per le vite prese per nutrirsi.
Maria deglutì: con una premessa simile, non sarebbe riuscita a mangiare un boccone… poi, lentamente, comprese.
Su Upuaut le condizioni di vita erano durissime, il cibo era scarso e quindi un pasto assumeva un valore sacrale, per questo diveniva una sorta di rito comunitario; in più la gente di Rigr si sentiva tutt’uno con la natura, uccidere per doversi nutrire era per loro una questione necessaria ma dolorosa, che comunque richiedeva rispetto per chi aveva dato la vita per loro, pianta o animale che fosse. Da qui il canto iniziale.
E li chiamano belve, si disse Maria, osservando i suoi ospiti con maggior rispetto.
Nonostante le loro abitudini frugali, gli Uru in determinate occasioni amavano tenere dei veri banchetti; l’arrivo dei due nobili ospiti era appunto un’occasione speciale, Rigr aveva voluto accoglierli con tutti gli onori.
La cena era costituita da varie portate, ci si serviva di quel che si desiderava senza un ordine preciso; il tutto avveniva parlando al minimo, in modo da dare la massima attenzione a quel che si stava mangiando. La conversazione sarebbe venuta poi.
Rigr stesso le offrì una ciotola di terracotta dipinta: Maria s’era aspettata carne cruda, invece conteneva semi di vario genere, leggermente tostati e salati. Li trovò deliziosi.
Con sua grande sorpresa Maria scoprì che la maggior parte degli alimenti era di origine vegetale, soprattutto semi, bulbi e tuberi. Uno in particolare, piuttosto simile alla patata, fungeva un po’ da jolly venendo utilizzato in infinite maniere, dal contorno, alla zuppa, al pane, al dolce; Maria lo trovò squisito.
Carne ce n’era, arrostita e gustosa, tenuta in ciotole di pietra che ne mantenevano il calore; c’erano poi dei legumi simili a lenticchie, diversi tipi di verdura e frutta e dei pani dolci cotti sulla pietra rovente. Per mangiare si usavano soprattutto le mani, in certi casi il cucchiaio o una sorta di spiedino personale per infilzare i bocconi.
Maria provò a prendere una “patata” con lo spiedino, poi lanciò un’occhiata al marito: stava mangiando tranquillamente un pezzo di carne con del pane tenendolo tra le dita, proprio lui, pignolo in fatto d’igiene come tutti i veghiani… lui, che si lavava le mani infinite volte in una giornata… Maria faticò parecchio a non ridere.
Diede un’occhiata tutt’attorno: aveva temuto che gli Uru a tavola fossero… come dire… un po’ rozzi, e il fatto che si mangiasse senza bastoncini o posate aveva accentuato il suo timore. Niente di tutto questo: avevano un’eleganza naturale che li rendeva molto dignitosi nonostante sedessero in terra e mangiassero con le mani.
Improvvisamente, Maria ricordò un documentario sui lupi che aveva visto ancora quando viveva sulla Terra: animali magnifici, fieri e dotati di una loro grazia aristocratica. Ancora una volta la colpì il parallelo tra la gente di Upuaut e quelle creature meravigliose.
Quando ebbero finito di mangiare cominciarono a chiacchierare, approfondendo la conoscenza dei loro ospiti: i parenti di Rigr risultarono persone riservate ma piacevoli.
Maria si ritrovò a chiacchierare con le due zie gemelle, che la presero subito in simpatia rivelandosi materne ed affettuosissime; incuriosita, lei cominciò a fare domande circa la vita quotidiana su Upuaut, poi il discorso passò ai vestiti e andò a finire che Maria sparì con loro per un confronto dei rispettivi guardaroba. Anche altri tra i presenti ad un certo punto salutarono e s’allontanarono, e Zuril e Rigr rimasero a parlare tra di loro.
– Sono sorpreso – disse Zuril, ed era sincero – Ovviamente mi ha fatto molto piacere che tu ci abbia invitati su Upuaut, ma…
– Non te l’aspettavi – concluse Rigr.
– Onestamente, no. Non c’è mai stato buon sangue, tra i nostri popoli.
Rigr versò ad entrambi un po’ di vino aromatizzato alla frutta, poi si guardò in giro, quasi stesse cercando le parole giuste: – Le cose stanno cambiando radicalmente, e non ci vuole l’istinto animale per capirlo. Io penso che sia giusto adeguarsi ai cambiamenti.
– Un atteggiamento completamente diverso da quello dei tuoi predecessori.
– Per nostra natura, noi tendiamo a starcene tra di noi – Rigr prese a giocherellare con una delle lame da lancio che teneva appese alla cintura – Come non bastasse voialtri, intendo non solo Vega ma tutti gli altri popoli, non avete mai cercato di instaurare un minimo di rapporto con noi. Siamo sempre stati ritenuti poco più che animali, e isolati. Sai qual è stata la conseguenza di tutto questo?
Zuril lo guardò con aria interrogativa.
– Che siamo rimasti tagliati fuori da tutto. Ricordi cos’è successo, tempo fa? Io sono venuto su Moru per uccidere Yabarn.
Zuril ebbe un brivido: in quell’occasione, Maria aveva rischiato di venire ferita, o peggio…
– Io non sapevo che Yabarn non è più il re di Vega – continuò Rigr – Nessuno di noi era a conoscenza del fatto che tu gli fossi succeduto. Pensare che ho rischiato di far del male a Maria…! – scosse la testa, cercando di scacciare quel pensiero che ancora lo tormentava – Ho capito che dovevamo uscire dall’isolamento, e ne ho parlato a tutti. La nostra è stata una decisione presa in comune: non possiamo continuare a vivere come se al di fuori di Upuaut non ci sia nessuno.
– Capisco…
– Così ho accettato l’invito di Duke, quando ci siamo riuniti tra sovrani… la volta in cui ho verificato di che pasta sei fatto.
– Me ne ricordo – Zuril si passò istintivamente una mano sulla gola, là dove Rigr gli aveva puntato gli artigli.
– Poi Holdh ha cominciato a mostrarsi per l’imbecille che è, e gli altri… beh, sai anche tu cos’è successo. Quel che conta, è che smettiamo di ignorarci.


- continua -

Link per commenti che immagino verteranno sui lupacchiotti: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1800#lastpost
 
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view post Posted on 19/6/2014, 22:42     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Dopo un intervallo più lungo di quel che avevo preventivato (scusate), andiamo avanti.

FUTURO


9 – UPUAUT

Upuaut era un mondo avaro.
Oltre alla durezza estrema delle condizioni di vita, un’altra caratteristica del pianeta era la scarsità di materie prime reperibili; la popolazione aveva sopperito con l’ingegno per ottenere quel che serviva, e con la fantasia e la pazienza aveva creato ciò che mancava. Il risultato, come poté ammirare Maria, era che la gente di Upuaut aveva sviluppato una maestria incredibile nella lavorazione dei pochi, scarsi materiali disponibili.
Un esempio Maria lo ebbe subito, quando ricevette in dono un vestito da parte da una delle zie di Rigr: era tagliato in un tessuto rosa morbidissimo che, come ebbe ad informarla Rigr, era ottenuto dalle stesse erbe argentee e taglienti di cui si nutrivano i ker-eyth e con le quali venivano intrecciate le stuoie multicolori usate per ricoprire i pavimenti.
Maria si rigirò tra le dita quella stoffa, incredula che fosse stata ricavata da un materiale così rigido come quelle erbe.
L’altra zia le donò un gioiello, un pendente con incastonata una pietra d’un viola chiaro: la gemma era scintillante, e il metallo era stato lavorato in maniera sopraffina, un argento quasi bianco, meraviglioso… poi le fu spiegato che non si trattava d’argento, non ve n’era di disponibile, su Upuaut, come non v’era oro… era ferro purissimo, ma talmente ben lavorato da sembrare un metallo ben più nobile.
Quando Rigr li condusse a vedere le grandi praterie spazzate dal vento in cui pascolavano i ker-eyth, Maria osservò incredula la distesa d’erba ai suoi piedi: la luce di Yur rendeva le erbe d’un colore tra l’argenteo e l’azzurrastro, e la prateria pareva perdersi all’orizzonte, intervallata solo da qualche roccia o qualche albero contorto e solitario. Sembrava una versione notturna della savana africana, a quel che Maria poteva giudicare… no, in realtà non era così, il paesaggio di Upuaut, così notturno e lunare, aveva una valenza magica tutta sua.
Toccò l’erba: dura, rigida e tagliente. Ancora una volta si chiese in quale modo gli Uru avessero potuto lavorarne le fibre in modo da ottenere quei loro morbidissimi tessuti. Mentre si faceva scivolare tra le dita i lunghi fili notò anche dei minuscoli fiori: ce n’erano di bianchi a stella, poi dei campanellini rosa e delle spighette gialle… però Actarus le aveva raccontato che le ultime parole di Gauss erano state proprio per i fiori scomparsi del suo mondo… ma allora..?
– Non erano stati del tutto distrutti – le spiegò Rigr – Alcune specie ho paura si siano estinte, ma altre hanno ricominciato a spuntare. Quando mio fratello è morto abbiamo temuto che Re Vega si sarebbe vendicato distruggendo il nostro mondo, ma per fortuna non è stato così. Deve averci risparmiato, anche se non ne capisco il perché.
– Non farlo migliore di quel che è – rispose Zuril, cupo – Yabarn aveva altro da pensare. Questo è l’unico motivo per cui non ha ordinato rappresaglie contro di voi.
– Non m’illudo sul suo conto – rispose Rigr, e le sue zanne parvero balenare – Non ti ricordi che volevo ucciderlo?
Maria represse un brivido: ricordava, eccome… non pensava d’aver mai avuto così tanta paura come in quell’occasione. Distolse lo sguardo e tornò ad osservare la prateria.
Alla luce di Yur, Maria poté distinguere delle grandi sagome, non molto lontano,: le ci volle un poco per comprendere che si trattava dei famosi ker-eyth di cui tanto aveva sentito parlare, una sorta di iguane grosse all’incirca come un cavallo, bipedi e coperte da una pelliccia color rossiccio.
– Siamo controvento, per questo non scappano – spiegò Rigr.
– Sono aggressive? – chiese Maria, che aveva un istintivo orrore per i rettili.
– Per nulla, sono molto timide. Se volessimo, potremmo sterminarle senza che loro nemmeno provassero a rivoltarsi; ma sarebbe un’idiozia colossale, visto che sono una delle nostre principali fonti di carne.
Maria ebbe una vertigine: – Vuoi dire che quello che abbiamo mangiato ieri…?
Ker-eyth – confermò Rigr, con un lampo nello sguardo.
– Era delizioso – disse in fretta Zuril, sperando vivamente che Maria non si mettesse a vomitare; in quella una delle bestie levò la testa e lanciò un richiamo. Maria s’era aspettata una specie di ruggito, invece fu un suono melodioso, quasi più da uccello che da rettile.
– Ci hanno sentiti? – bisbigliò Maria.
– Sono solo segnali tra i vari branchi – intervenne Yai, che a richiesta di Zuril prese poi a spiegare quale fosse l’effettivo rapporto tra gli Uru e i ker-eyth: ancora una volta, Maria si stupì per quel che stava sentendo. S’era aspettata che gli Uru considerassero quegli animali come una risorsa da sfruttare, invece la faccenda era diversa: ne parlavano con rispetto, avevano ben chiaro il fatto di dipendere da loro per la loro sopravvivenza e, come sottolineò Yai, non uccidevano mai, ma proprio mai, alcun animale che non servisse loro per nutrirsene. La caccia non era certo vissuta come un piacere ma come una necessità, e in ogni caso venivano abbattuti animali anziani, deboli o malati, mai una creatura giovane e soprattutto mai una femmina con cuccioli.
E li chiamano selvaggi, pensò ancora una volta Maria.


Quel soggiorno su Upuaut fu per Maria una sorta di continua rivelazione su quante cose potessero essere diverse da quel che lei avrebbe dato per scontato.
Ad esempio, con una certa sorpresa Maria dovette constatare che Rigr, pur essendo indiscutibilmente il sovrano di Upuaut, non solo non possedeva alcuna sala del trono, ma non portava nemmeno una corona o una qualunque altra insegna regale. Addirittura, come ebbe a spiegarle lui una volta in cui si trovarono soli a chiacchierare, non esisteva proprio, una corona.
– Nemmeno per la regina? – chiese Maria. Le pareva strano che una regina non indossasse una corona… rimasugli delle fiabe che il nonno le leggeva quando era piccola, evidentemente. Oltretutto anche lei portava pochissimo il suo diadema, però ancora faticava a pensare a sé stessa come ad una sovrana.
– Nemmeno – confermò Rigr – Comunque la cosa importa poco, visto che non ho una regina, e per quel che mi riguarda dubito che ce ne sarà una, almeno per un bel po’ di tempo.
– Ma… sei il re – osservò Maria – Dovrai avere un erede…
– Vuoi dire un cucciolo? – gli occhi gialli di lui ebbero un bagliore – Non è necessario. Posso anche scegliermi da me chi mi succederà.
– Sei fortunato – Maria sentì che stava finendo su terreno pericoloso, e continuava a parlare senza sapere bene come uscirne – Anche se qui non si usa, in altri posti ti farebbero delle pressioni…
– Pressioni? – lui la guardò con stupore – Per una cosa così personale come la scelta di una compagna?
– Beh, sì…
– Vorrei ben vedere che qualcuno volesse costringermi a sposarmi…! – disse Rigr, con un riso in cui v’era ben poca allegria.
– Alle volte ci si sposa non perché lo si desidera, ma perché si deve farlo – osservò Maria. Ma perché sto dicendogli queste cose?
Lui la guardò di traverso: – Davvero?
– A me è successo… voglio dire… avevo dei doveri, e…
– Capisco – Rigr la guardò dritto negli occhi: – E sei contenta d’averlo fatto?
– Allora non lo ero – ma che sto facendo?, si disse Maria, che sotto quello sguardo magnetico non riusciva ad impedirsi di dire la verità – Ma ora no, sono davvero felice.
Rigr rimase immobile, sempre fissandola; poi assentì: – Certo. Magnifico. Ne sono contento per te.


– Serre? – disse vivacemente Zuril, quella sera dopo la cena.
– Serre – confermò Rigr, accomodandosi meglio sul suo cuscino – Anche noi coltiviamo i prodotti che ci occorrono.
– E la coltivazione vi dà risultati soddisfacenti? – Zuril era davvero interessato, su Moru avevano creato grandi piantagioni ma con esiti inferiori alle aspettative.
– Non c’è male. Per lo meno, bastano per soddisfare le nostre esigenze.
Zuril rifletté. Il vero problema delle coltivazioni di Moru, a parer suo, era che fossero affidate a scienziati di vario genere… tutti abilissimi, tutti pluripremiati, tutti specializzati… ma si trattava di fisici nucleari, chimici, astrofisici, biologi, matematici, informatici, persino uno zoologo, ma nessun vero esperto di coltivazioni. Avevano su Moru il fior fiore della scienza di Vega, ma quello che sarebbe davvero loro servito – un botanico – mancava.
Del resto, tutto quel che restava del popolo di Vega era il personale della base Skarmoon, e in questo non vi erano mai stati botanici.
Rigr gli versò da bere una coppa di vino di frutta e fece altrettanto per sé stesso: – Se le serre t’interessano tanto, posso portarti a visitarle.
– Mi farebbe molto piacere – disse subito Zuril. Forse avrebbe potuto chiedere in prestito a Rigr un tecnico o due… almeno per un poco di tempo.
– Bene, allora domani ti accompagno a vederle – concluse Rigr.


La mattina dopo Zuril s’alzò per primo, andò a lavarsi e rientrò in camera per vestirsi; Maria non aveva accennato ad alzarsi, per cui la chiamò. Avrebbero fatto tardi, altrimenti.
– Non ce la faccio… – rispose lei, con una voce sottile.
– Cosa ti succede? – Zuril si chinò sulla moglie, che in quel gran letto coperto di pellicce appariva particolarmente piccola e fragile.
– Mi sento molto stanca… ma è così da quando siamo arrivati qui…
– L’atmosfera è più rarefatta di quella cui sei abituata.
– Un po’ come essere in alta montagna? – chiese lei. Una volta il suo nonno adottivo l’aveva portata sul monte Fuji, oltre i tremila metri: la sensazione che aveva provato era molto simile, stanchezza, mal di testa, una lieve mancanza di respiro. – Credo che tu abbia ragione…
– E poi, in poco tempo siamo passati da Zuul a qui. Probabilmente è stato un passaggio troppo brusco.
– Forse il problema è anche il fatto che ultimamente dormo poco – disse lei, con un lampo nello sguardo.
Zuril si fece serissimo: – E sì che sei una ragazza coscienziosa, che va a letto presto.
– Temo che il problema sia proprio quello…
Scoppiarono a ridere entrambi; poi lui si chinò su Maria, le diede un bacio e le scompigliò affettuosamente i capelli: – Cerca di riposarti. Dirò a Rigr che sei troppo stanca per venire con noi, va bene?
– Mi dispiace – Maria soffocò uno sbadiglio, si rannicchiò meglio sotto alle pellicce e sprofondò subito nel sonno.


– Uno skr’aur? – esclamò Rigr, improvvisamente cupo in volto.
– L’abbiamo visto mentre inseguiva i ker-eyth, giù verso il fiume – rispose Yai, altrettanto serio.
– Beh, non c’è tempo da perdere – Rigr controllò rapidamente le armi e i pesi da lancio che aveva alla cintura – Muoviamoci, prima che quella bestia faccia una strage.
Zuril, rimasto in silenzio fino ad allora, assimilò i dati che il computer oculare gli aveva inviato direttamente alla mente: uno skr’aur costituiva effettivamente un gravissimo pericolo, Rigr aveva ragione di mostrarsi così preoccupato.
– Mi spiace, ma oggi non potrò accompagnarti – disse Rigr – Andrai a visitare le serre assieme agli scienziati, io devo andare a guidare la caccia allo skr’aur. Sono bestie feroci, quelle, uccidere per loro è un piacere: se comincia ad ammazzare i nostri ker-eyth, prenderà gusto a farlo. Potrebbe sterminarne interi branchi.
Zuril assentì: – Ho appena ricevuto i dati dal mio computer su quegli animali. Invece di andare alle serre posso aiutarti in qualche maniera?
– Solo restando al sicuro, non voglio dovermi preoccupare per la tua incolumità – Rigr controllò rapidamente la pistola che portava al fianco; poi scosse il capo, l’aria di chi non capisce qualcosa.
– Che succede? – chiese Zuril.
– Non mi torna. Gli skr’aur sono animali di montagna, in genere evitano le pianure, sanno che qui ci siamo noi… viviamo da sempre in zone ben distinte, evitandoci a vicenda… che ci fa qui quella bestia?
– Avrà cercato di sconfinare – intervenne Yai – Se si sono riprodotti troppo può essere che non abbiano più territori di caccia, e che ne cerchino altri.
– Se è così, dovremo respingerli – rispose Rigr, cupo – Dai il segnale. Voglio qui subito tutti i cacciatori validi.
Zuril diede istintivamente un’occhiata alle sue spalle, in direzione della casa: – Maria non sa niente…
– Hai detto che è stanca, no? – rispose Rigr – Lasciala dormire. Qui non corre nessun rischio, quelle bestie non si avvicinano mai alle zone abitate. E comunque, rimangono qui abbastanza Uru da contrastare qualunque skr’aur.
Un ragazzo si fece avanti: era poco più che un bambino, troppo giovane per partecipare alla caccia. Indossava una tunica con una targhetta che l’identificava come un allievo… un futuro scienziato, dunque.
– Volete venire, signore? – chiese educatamente a Zuril. Stava cambiando la voce… Zuril ebbe una fitta al petto, mentre nell’anima gli risuonavano altre voci che non avrebbe mai dimenticato, Fritz, Kein… Quel giovane Uru dalla corta pelliccia grigia non somigliava certo ai suoi ragazzi, ma…
Basta così. – Vengo con te, fammi strada.
Il ragazzo lo guardò, preoccupato: – Vi sentite bene, signore?
– Non è niente – Zuril drizzò la testa, squadrò le spalle – Andiamo.


Il pensiero che stesse per accadere qualcosa di terribile la fece scattare seduta sul letto.
Ormai perfettamente sveglia Maria si vestì in fretta, si pettinò in qualche maniera e uscì di corsa dalla sua camera, andando quasi a sbattere contro una delle zie di Rigr… Kree, o era Griah? Erano gemelle, non riusciva a distinguerle una dall’altra.
Chiese di Zuril: era andato via con Rigr? Le zie le spiegarono rapidamente dell’allarme per lo skr’aur e del fatto che Zuril fosse alle serre, dove comunque sarebbe stato al sicuro. Maria non avrebbe avuto di che preoccuparsi.
Maria invece si sentì ancora più inquieta, anche se non avrebbe saputo dire il perché. Le zie tentarono di rassicurarla: gli skr’aur si tenevano lontani dalle zone abitate, e comunque Rigr, Yai ed altri guerrieri erano andati a dargli la caccia. Non c’era da aver timore, quindi. Era tutto a posto.


- continua -


Link per inviarmi contro uno skr'aur di pessimo umore: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1800#lastpost
 
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Riprendo a postare quotidianamente, finché posso farlo (più avanti andrò ancora via), o lungo com'è questo racconto non ne usciremo più.^^

FUTURO


10 – UPUAUT

Gli scienziati che l’avrebbero accompagnato a visitare le serre erano quattro in tutto, oltre al ragazzo: il capo era un anziano dall’aspetto fragile, molto gentile, poi c’erano due donne dall’aria competente e un giovane che dietro la facciata cortese sembrava piuttosto cauto nei suoi confronti. Vega era pur sempre Vega, evidentemente… Zuril fece finta di nulla e salì con loro su una navetta perché, come ebbe a spiegare Gr’uach, la più spigliata delle due scienziate, le serre erano abbastanza distanti dal centro abitato.
Dopo aver sorvolato la prateria, la navetta si posò su una spianata molto simile a quella in cui si trovava la dimora di Rigr; un muretto ovale ai piedi di un’altura di roccia vulcanica, quasi nera, segnava l’ingresso alle serre.
– Terreno lavico, ricchissimo in minerali – spiegò Whiil, l’anziano scienziato, con la sua voce mite – Per questo abbiamo scavato qui le grotte per le serre, le colture vengono molto meglio che in altre zone.
Erano scesi tutti, e il portello della navetta si richiuse.
– Un momento – esclamò il giovane scienziato, annusando l’aria.
Non fece nemmeno in tempo a finire: come se avessero ricevuto un segnale, alcuni soldati spuntarono proprio da dentro il cortile delle serre. Zuril fece appena in tempo a vedere i visi duri, le armi, le uniformi; una pioggia di raggi energetici s’abbatté contro di loro, e in un istante si ritrovò ad essere l’unico rimasto in piedi, totalmente illeso, mentre i suoi compagni giacevano a terra, fulminati.
Colpi precisi, freddissimi… gli scienziati erano stati uccisi prima ancora di essersi potuti rendere conto di quel che stava loro accadendo.
Il ragazzo giaceva a terra, il viso sporco di sangue, gli occhi sbarrati in un’espressione di stupore. Zuril non badò ai nemici – soldati di Galar, gli comunicò il computer oculare – che stavano venendo a catturarlo, non li guardò nemmeno: chino sul corpo del giovane gli tastava il petto in cerca del battito di un cuore che ormai non avrebbe pulsato mai più.
Fucili furono puntati su di lui, mentre un soldato si faceva avanti.
– In piedi! – esclamò, duro.
– Era un ragazzo! – disse Zuril, fissandolo dritto in viso – Un ragazzo che non aveva fatto niente. Perché?
– Era solo un animale – rispose l’altro, e pareva che stesse sputando le parole – Anche da noi c’erano ragazzi innocenti, e voi li avete uccisi. In piedi!
Zuril fece per obbedire quando un ufficiale si precipitò in avanti spingendo da parte il soldato e lo colpì con un pugno alla mascella, facendolo cadere all’indietro. Poi gli piantò un ginocchio nel petto, inchiodandolo con le spalle a terra contro le rocce, e mentre Zuril boccheggiava per respirare gli spalancò lo sportello che gli ricopriva l’orbita vuota e gli strappò via il computer oculare, gettandolo con violenza a terra.
ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE…
Zuril gemette, mentre il segnale sembrava lacerargli la mente; portò le mani all’orbita vuota per bloccare quel che restava del suo computer, e subito l’uomo con uno spintone lo fece rovesciare prono, immobilizzandogli i polsi dietro la schiena con un paio di manette.
ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE…
– Alzati! – ordinò, brusco.
– Il… segnale – Zuril si rimise a fatica in ginocchio – Per favore… fatelo smettere…
ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE…
– Muoviti! – l’uomo gli allungò un calcio in un fianco; Zuril strinse i denti e si alzò con fatica, le ginocchia che gli tremavano. Una vertigine improvvisa lo colse, mentre il segnale continuava a torturarlo.
ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE…



Maria osservò con orrore la creatura che giaceva morta in mezzo al cortile.
Attorno a lei fluttuava a mezz’aria una specie di uovo argenteo: Clem, il guardiano robotico che Zuril le aveva donato tempo prima e che lei quel giorno, in preda ad oscuri timori, aveva riattivato. Era programmato per reagire in caso di attacco, ma i suoi sensori gli indicavano come la sua padrone umana fosse alterata, ma non in pericolo. Almeno per il momento.
Maria deglutì, rabbrividendo: aveva immaginato lo skr’aur come un rapace e si trovava davanti ad un essere totalmente diverso, e forse ancora più spaventoso.
Innanzitutto, era enorme: per quel che poteva vedere doveva essere stato alto almeno tre metri, un possente corridore instancabile e letale, con cosce muscolosissime, zampe forti ed artigliate, ali inservibili per volare ma dotate anch’esse di artigli capaci di sventrare un animale di grosse dimensioni… Maria trattenne il fiato, mentre si diceva che affrontare quella bestia doveva richiedere un coraggio non comune. Gettò un rapido sguardo ai guerrieri che l’avevano abbattuto: quasi tutti presentavano qualche ferita, uno si era preso un colpo d’artiglio in una spalla ed era stato subito condotto via per essere medicato. Rigr stesso, abile e veloce com’era, aveva sulla tempia un taglio da cui il sangue gli sgocciolava lungo il viso.
Lui si volse a fissarla, lei incrociò il suo sguardo da predatore e subito tornò ad osservare lo skr’aur.
Nonostante gli artigli di zampe e ali, l’arma più possente di quell’animale era il becco, un rostro ricurvo come quello delle aquile ma infinitamente più grosso e pesante. Nel complesso lo skr’aur appariva sgraziato, tutto cosce muscolose e becco gigantesco… orrendo e spaventoso.
– Gli skr’aur inseguono le loro vittime – la voce di Rigr le suonò all’orecchio, lui doveva esserle scivolato alle spalle senza che lei se ne fosse accorta, troppo impressionata dal mostro che stava guardando – Sono veloci e molto resistenti, arrivano a sfiancare la loro preda, e quando la raggiungono… un colpo solo di quel becco, e non c’è scampo. Possono spezzare facilmente la schiena di un uomo.
– E voi l’avete affrontato ugualmente – Maria era impressionata, anche da morto lo skr’aur appariva terrificante.
– Dovevamo farlo – rispose Rigr, fissandola dritto negli occhi – L’alternativa era che lui sterminasse le mandrie di ker-eyth. Quando fiuta la preda non si tira più indietro, continua ad assalire; non scappa mai, non puoi scacciarlo, devi ucciderlo. O muori tu. È un predatore, come lo siamo noi: non è possibile vivere nello stesso territorio.
– È orribile – Maria distolse lo sguardo, tornò ad osservare il mostro: appariva costellato di ferite, in vari punti le piume brunastre erano incrostate di sangue. Doveva essersi battuto come una furia, ma…
– Non l’avete ucciso con i laser…! – osservò, stupefatta.
– Non ci piace sparare – rispose Rigr – Lo facciamo se dobbiamo, ma con uno skr’aur non ne vale la pena, diventa pericoloso anche per noi, rischiamo di colpirci l’un l’altro. L’unico modo in cui si può affrontarlo è in gruppo, bisogna accerchiarlo e poi…
– Ti prego, risparmiami i particolari! – esclamò lei.
Rigr sogghignò, osservando ancora l’enorme animale: – Comunque, è molto gustoso.
Maria deglutì, in quel momento dubitava che sarebbe riuscita ad assaggiare un solo boccone di quel mostro… improvvisamente s’accorse che la ferita di Rigr continuava a sanguinare: – Vai a farti medicare.
– Ti stai preoccupando per me? – la voce di lui aveva un qualcosa che le fece avvampare le guance… lui stesso le era vicino, davvero un po’ troppo vicino, e… e…
Un dolore fortissimo, prima al viso, poi al petto… un occhio sembrò esploderle, e si piegò in due lanciando un urlo strozzato. Clem, oscillò a mezz’aria, incerto: Maria non sembrava sotto attacco, ma…
Rigr l’afferrò immediatamente, impedendole di crollare al suolo: – Che succede?
Il dolore era mostruoso… un tormento in piena mente, una voce inarrestabile, ossessiva…
– Ti prego… basta… – Maria si strinse la testa tra le mani, spalancando la bocca in un urlo silenzioso… poi, improvviso come era iniziato, più nulla.
Rigr non era uomo da spaventarsi facilmente, ma quella volta sentì un brivido scorrergli giù per la schiena. Si guardò in giro in cerca d’aiuto, ma c’erano solo loro due, in quel cortile; allora depose dolcemente Maria al suolo, convinto che fosse svenuta, e subito lei gli si strinse addosso, quasi avesse avuto bisogno di aggrapparsi all’unico punto rimasto solido in un mondo impazzito. Riprese fiato, respirando a fondo; quando finalmente alzò gli occhi su di lui, Rigr ebbe l’impressione che fosse scampata a malapena dopo aver visto l’inferno.
– Zuril – mormorò, come risposta alla muta domanda di lui – L’hanno assalito.
Rigr scosse la testa: – Non è possibile.
– È così, l’ho sentito – lei si premette la mano sull’occhio sinistro – Il suo computer… dev’essere fuori uso, lui… non penso sia morto… cioè no, non dev’essere morto! Non ci credo!
– Ma non può essere… – la vide tentare di rimettersi in piedi e s’affrettò ad aiutarla – Ti sei impressionata vedendo lo skr’aur, tutto qui.
– No! – lei scosse la testa con forza – Io ho dei poteri, io so che…
– Rigr! – era Yai, alle loro spalle.
Se anche Rigr fu contrariato dall’interruzione, non lo diede affatto a vedere: – Sì?
– Qualcosa non va – Yai appariva serio, fin troppo – Ho contattato le serre per avvertire che non c’era più pericolo per lo skr’aur
– Le serre…? – esclamò Maria. Zuril…
– E allora? – chiese Rigr, teso.
– Non risponde nessuno. Ho chiamato e richiamato: niente. Non mi piace.
– Nemmeno a me. Andiamo a vedere – strinse un braccio a Maria: – Non preoccuparti, non sarà niente di grave.
– Vengo con voi – vide che Rigr stava per protestare e aggiunse: – T’avevo detto che era successo qualcosa, non puoi impedirmi di esserci! E poi, con voi non può accadermi nulla.
Rigr assentì, il viso fosco: – Andiamo.


In silenzio, Rigr, Maria e i loro compagni fissavano i corpi dei cinque scienziati riversi al suolo.
Zuril non era tra loro: se da un lato per sua moglie questo era stato un sollievo, da un altro aveva reso assillanti tutti gli interrogativi che l’angoscia le stava dettando.
– Erano otto – disse Yai, che aveva cominciato ad esaminare le impronte.
– Professionisti – mormorò cupamente Rigr, fissando il corpo straziato del ragazzo – Li hanno uccisi tutti al primo colpo. Era gente che sa sparare.
Maria si torse le mani restando però in silenzio, pallida come una statua di cera.
È colpa mia… se stamattina fossi andata con lui, ci sarebbe stato Clem a difenderci, e non avrebbero mai potuto portar via Zuril… è colpa mia…
Yai si fece avanti con attenzione, s’accosciò al suolo continuando il suo esame: era il più abile tra i cacciatori, le tracce difficilmente avevano segreti per lui. Controllò a lungo il terreno, senza toccare nulla e al massimo chinandosi per annusare; poi, solo quando fu sicuro del fatto suo indicò un punto sulla sabbia. – L’hanno colpito, ed è caduto qui. Non ci sono tracce di sangue, non ne sento nemmeno l’odore, per cui non credo che l’abbiano ferito.
– Non l’hanno ferito – ripeté Rigr a Maria, che annuì, incapace di rispondere.
– Guardate qui e qui – Yai accennò a dei frammenti metallici sparpagliati sulla sabbia – Circuiti, una scheda di memoria spezzata…
– Il computer che gli hanno strappato – Maria si premette istintivamente l’occhio sinistro con la mano e si girò verso Rigr: – Che t’avevo detto?
– Ti credo – rispose lui, impressionato.
Yai accennò ancora al suolo: – L’hanno costretto a rialzarsi. Erano in due. L’hanno trascinato via.
– Camminava da solo? – chiese Rigr.
– Stava in piedi, ma trascinava le gambe – Yai accennò alle tracce che si allontanavano – Niente sangue nemmeno qui, confermo che non devono averlo ferito. Vanno tutti in quella direzione – s’alzò, seguendo le tracce, e i suoi compagni gli tennero dietro badando a non calpestare la pista.
A breve distanza trovarono quel che Yai s’era aspettato di trovare: le tracce di un’astronave posata al suolo. Zuril vi era stato caricato sopra.
Maria continuò a fissare le tracce, inorridita, poi sembrò oscillare sulle ginocchia.
– Stai bene? – Rigr la sostenne, ma lei sembrò riprendersi subito.
– Ho avuto un altro contatto… – la voce sembrava provenire da lontanissimo – Continuavo a sentire quella voce nella mente, poi all’improvviso più niente…
– Vuoi dire…?
Maria scosse la testa: – Credo che se fosse… beh, lo saprei. Invece, no. Penso sia svenuto.


I due uomini osservarono il loro prigioniero: nonostante fosse legato e impossibilitato a muoversi, il sedativo che gli avevano somministrato sarebbe stato sufficiente a tenerlo fuori combattimento per un bel poco. Non avevano alcun desiderio di avere a che fare con un dannato veghiano. Peccato solo averlo dovuto prendere vivo… ma erano sicuri che una volta che fosse finito nelle mani di Holdh, il bastardo avrebbe rimpianto di non essere stato ucciso.
Era andato tutto alla perfezione, quelle bestie non avevano sospettato che le loro comunicazioni fossero intercettate e non avevano captato la loro nave schermata; loro avevano aspettato l’occasione giusta, e catturare il veghiano era stato veramente un gioco.
– Appena fuori dall’atmosfera, prendete contatto con Galar e comunicate che è andato tutto bene – ordinò il comandante, e il pilota assentì.
Il comandante prese posto sulla sua poltroncina e sogghignò: Holdh era uno stratega formidabile, questo glielo riconoscevano anche i suoi nemici – e lui non era certo tra questi. Grande, l’idea di catturare uno skr’aur di montagna e liberarlo in mezzo alle pianure per tenere occupati i lupacchiotti… era filato tutto liscio, proprio come Holdh aveva previsto.


Fino a non molto tempo prima Maria aveva ritenuto, come era opinione comune, che la gente di Upuaut fosse essenzialmente feroce e guerriera: le due zie di Rigr le mostrarono che non era così.
Affettuosissime, si presero subito cura di lei e la condussero via, lontano da sguardi indiscreti; Maria era talmente sconvolta da non capire bene che stesse accadendo, sentiva solo che stava male, malissimo, non sapeva nemmeno lei cosa avrebbe potuto darle un po’ di sollievo… le zie la strinsero tra le braccia, un abbraccio come quello di due mamme. Non era una posa, Maria percepì chiaramente il loro affetto, la loro preoccupazione per lei; sentì le lacrime scorrerle giù per le guance senza che lei potesse far nulla per fermarle, e poi comprese che non avrebbe nemmeno voluto arrestarle. Le due donne sentirono il suo dolore, lo condivisero e finalmente Maria pianse, sentendo a poco a poco sciogliersi il mostruoso groviglio di dolore che le artigliava il petto.

- continua -

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Capitolo corto, ma importante.

FUTURO

11 – UPUAUT

– È colpa mia – l’innaturale tono sommesso indicava quanto Rigr fosse abbattuto – Mi assumo io l’intera responsabilità di quello che è successo.
Lady Gandal non rispose: stava ancora assorbendo l’incredibile notizia. Zuril scomparso, catturato con ogni probabilità da uomini di Galar… non riusciva a crederci.
Accanto a lei, Hydargos masticò un’imprecazione.
– Un momento! – Maria apparve sullo schermo al fianco di Rigr – Hanno attaccato quando non potevamo aspettarcelo… voglio dire, non c’era alcun motivo per pensare che quelli di Galar facessero… quello che hanno fatto – concluse, con un tremito nella voce; poi si rivolse a lady Gandal, gli occhi arrossati di pianto: – Non c’era nulla che potesse far pensare a un attentato del genere!
Lady Gandal scambiò una rapida occhiata con Hydargos: – È vero, ma…
– Noi non possiamo ritenere responsabile il sovrano di Upuaut per quello che è accaduto.
– In effetti, no – rispose lady Gandal, quasi a fatica – non possiamo.
– È quel che penso anch’io! – esclamò Maria, mentre Rigr, abbattuto, continuava a tenere lo sguardo a terra – Non potevamo aspettarci un assalto, non siamo in guerra con Galar…
– Non ancora – corresse Hydargos.
– Già, non ancora – la voce sommessa di Rigr suonò feroce.
– Prenderò immediatamente contatto con gli altri sovrani – disse lady Gandal, in tono pratico; quindi tolse la comunicazione.
Cupo in volto, Rigr lasciò a un tecnico il compito di restare in attesa di altre comunicazioni e prese Maria per un braccio conducendola via. Clem fluttuò loro dietro.
Lei nemmeno badava a dove lui la stesse portando; si ritrovò infine in una stanza che non conosceva, una specie di studio privato, a giudicare dalla scrivania e dai videolibri allineati sugli scaffali.
– È meglio che discutiamo di questa faccenda – disse lui, serio.
Maria si torse le mani: – Cosa possiamo fare?
Rigr non rispose; immobile, il viso totalmente inespressivo, sembrava fissare un punto indefinito.
Sorpresa, lei si voltò a guardarlo: – Rigr…?
Lui si riscosse, non disse nulla, ma lei comprese che le stava dedicando la sua totale attenzione.
– Cosa pensi di fare? – insisté Maria.
– L’unica cosa intelligente – parlava lentamente, scandendo con cura ogni sillaba – Nulla.
Quell’unica parola impiegò qualche secondo per penetrare nella coscienza di lei ed assumere un significato preciso: – Cosa…?
– Parliamoci chiaro – disse Rigr, spiccio – Upuaut non è un pianeta ricco come Galar, Ruby o Dera. Siamo pochi. Non disponiamo di grandi armamenti. Il nostro mondo è stato devastato da Vega. Ti pare sensato che andiamo a dare battaglia contro avversari più forti di noi?
– Ma… esiste un patto, tra di noi… siamo alleati!
Rigr fece una smorfia come se avesse improvvisamente ricordato una seccatura: – È vero. Questo però non significa che noi dobbiamo andare a cacciarci in una guerra assurda.
Maria lo guardò con orrore, incredula di quanto stava sentendo: – Zuril ti considera un amico…!
– Eh già, immagino che si aspetti che io adesso lo aiuti, non è così? – Rigr si passò una mano sulla testa – Alle volte la gente si crea delle idee irrazionali.
– Ma tu devi essere pazzo! – esplose Maria – Zuril si fidava di te, e ora tu… tu…
– Io faccio i miei interessi, come chiunque al mio posto – la rimbeccò Rigr, gli occhi da predatore piantati nei suoi – e anche tu dovresti fare altrettanto. Ti hanno tolto di mezzo un marito che hai sposato per convenienza; adesso sei la regina di Vega, sei libera, puoi fare quel che vuoi senza rendere conto a nessuno…
Maria arretrò, scuotendo la testa: – Non è possibile… non ti credo! Tu…
– Io non ho nessun vantaggio ad inimicarmi qualcuno, ti pare? Il mio popolo è decimato, ti sembra che potrei sostenere una guerra?
– Ma… siamo alleati…
– Con quel tuo marito di Vega? – quello di Rigr non fu un bel sorriso – Maria, ti rendi conto che tu ed io siamo liberi, adesso?
Lei sussultò come se l’avessero frustata: – Cosa…?
– Non dirmi che non l’avevi capito – la voce di lui si abbassò, si fece morbida ed oscura come una carezza segreta – Io lo so da quando t’ho incontrata su Moru.
– Non eri stato molto… gentile, allora. Mi avevi terrorizzata.
– Ti credevo l’amante del vecchio porco – rispose lui, con semplicità – Ti pare che potessi impazzire all’idea che mi piacesse una donna del genere? Poi ho capito d’aver sbagliato, sul tuo conto.
Lei evitava di guardarlo: – Tante grazie.
– E so anche che tu mi ritenevi poco più che un animale.
– Cos’altro potevo pensare? – Maria cercò di ricacciare le lacrime: – Poi ho creduto che fossi un uomo diverso, migliore… e ora mi parli di interessi, di… che tu ed io possiamo… ma tu non hai capito niente!
– Sto solo esponendo un dato di fatto – lei fece per andarsene, disgustata, e Rigr l’afferrò per un braccio, trattenendola: – È la verità, Maria. Tuo marito non c’è più, tu ed io siamo completamente liberi di…
– No! Lasciami subito, o io… – non finì la frase ed accennò a Clem, che stava fluttuando a mezz’aria ronzando minacciosamente.
– Oh, quello – Rigr scoprì le zanne in un ghigno: – Ne ho già distrutto uno, ricordi?
– Questo è programmato anche per un guerriero di Upuaut. Non ti sarebbe così facile sconfiggerlo. Lasciami.
Rigr non rispose limitandosi a fissarla, e per un momento lei ebbe davvero paura; poi, tutto d’un tratto lui mollò la presa e si fece da parte: – Va bene, ti credo. Ti chiedo scusa.
Maria vacillò; aprì la bocca, ma non riuscì nemmeno a formulare la domanda che le bruciava sulle labbra.
– Ti ho messa alla prova – continuò lui – Dovevo vedere se tieni davvero a tuo marito.
– Non lo sapevi?
– Sì. Ma dovevo esserne certo. Capisci che per quello che è successo a Zuril dovremo affrontare con ogni probabilità una guerra?
– Ma…
– Per cui, ho bisogno di sapere come stanno le cose, ti sembra? Se tu fossi stata una moglie infelice, trovarti libera potrebbe piacerti molto, e se io cercassi di salvare Zuril tu potresti ostacolarmi.
– Ostacolarti? – Maria era trasecolata – Ti pare che lo farei? Io amo Zuril!
Rigr la guardò, un’espressione indecifrabile negli occhi: – Adesso lo so.
Maria sentì le forze mancarle e si accasciò su una sedia, respirando affannosamente.
– Mi spiace averti spaventata, ma era necessario – aggiunse Rigr. Andò a sedere di fronte a lei, le prese una mano: – Sei arrabbiata con me?
– Ma… perché? – chiese Maria.
– Te l’ho spiegato, dovevo sapere se davvero…
– Storie! È solo una scusa, e piuttosto debole.
Lui non rispose, il viso di pietra.
– Allora? – l’incalzò lei.
Rigr si rabbuiò: – Non credo che ti piacerebbe saperlo.
Maria scattò in piedi, gli occhi che mandavano lampi: – Dopo quello che mi hai… voglio dire, dirmi la verità è il minimo che tu possa fare!
– Molto bene, visto che vuoi che parli, parlerò – Rigr si alzò con un movimento fluido restando in piedi davanti a lei, e le piantò negli occhi il suo sguardo ferino – Noialtri di Upuaut passiamo per essere selvaggi, e forse è vero: abbiamo l’abitudine di fare quello che ci pare, dire quello che ci pare, comportarci come ci pare. Questo significa che se ci piace una donna legata ad un altro uomo, non abbiamo certi scrupoli morali…
Maria sussultò, imponendosi però di restare immobile, non mostrare il suo turbamento. Rigr non la toccava, non la sfiorava nemmeno, ma lei era totalmente consapevole di quel corpo muscoloso fin troppo vicino al suo.
– …ma naturalmente, anche lei dev’essere d’accordo – continuò lui, sempre fissandola – In questo siamo del tutto diversi dal tuo popolo di predatori. I veghiani prendono quello che vogliono, noialtri solo quello che possiamo prendere. Ecco perché ho voluto verificare se eri davvero legata a tuo marito.
– Oh… – arrossì violentemente, mentre sentiva mancarle il fiato – Vuoi dire che… se io…
– Se tu fossi stata una moglie annoiata ed infelice, puoi star sicura che ti avrei portata via a quel tuo marito di Vega – rispose Rigr, chinando la testa verso di lei – Ma non lo sei. Lo ami. Lui contraccambia. E, come non bastasse, provo rispetto per Zuril. Questo vuol dire solo una cosa…
Maria non riuscì nemmeno a rispondere: aveva la bocca secca e il cuore che le batteva all’impazzata. Lo guardò, interrogativa.
– …per me, sei intoccabile – concluse Rigr.
Ci volle qualche secondo perché quelle ultime parole acquistassero per Maria un senso compiuto.
– Cosa…? Ma allora…
– Già. Allora. – rispose lui, e stavolta c’era un’ombra di tristezza nel suo sguardo; poi, lentamente, quasi a malincuore, si scostò da lei facendosi da parte.
Maria sentì piegarlesi le ginocchia, e si lasciò cadere di nuovo sulla sedia.
Tutto si era aspettata, ma non certo questo… sapeva di piacere a Rigr, naturalmente, ma non avrebbe mai pensato d’aver scatenato una simile tempesta.
Il silenzio era ormai divenuto insopportabile, o almeno così parve a Maria che sentì il bisogno di dire qualcosa, qualsiasi cosa, pur di spezzarlo: – Mi spiace, io…
– Non hai da dispiacerti – rispose lui, in tono piatto – Non è colpa tua. Né mia, se è per questo.
– Zuril dice che a volte le cose accadono e basta – mormorò lei.
– In questo, tuo marito ed io siamo d’accordo – rispose Rigr, facendola sussultare per il modo quasi impercettibile con cui aveva sottolineato le parole tuo marito.
Maria, prese fiato, si rialzò: – Rigr, io…
– Va tutto bene, Maria.
No, non va affatto tutto bene, si disse Maria. Non ho nemmeno bisogno dei miei poteri per capirlo. Stai malissimo, e non vuoi darlo a vedere.
Era tutto così strano, così irreale… Quel che era successo a Zuril, e ora Rigr…! Sembrava quasi che una sorta d’incantesimo malefico stesse avvelenando ogni cosa.
– Rigr…? – la voce di Raska, alle loro spalle.
Quell’interruzione non causò in Rigr alcuna reazione visibile, mentre Maria ne fu sollevata: – Avrete da parlare, vi lascio soli – e s’affrettò a scostarsi da lui, allontanandosi subito.
Raska la seguì con lo sguardo mentre usciva camminando un po’ troppo in fretta, e poi guardò Rigr, che a sua volta continuava a fissare la porta da cui lei era scomparsa.
– Pessima idea – la voce di Raska non aveva nulla di brusco o sferzante, era se mai addolorata.
Rigr abbassò lo sguardo su di lei, poi guardò attorno senza fissarsi su nulla: – Non sono cose che si possano scegliere. Capitano e basta.
– Lo so – lei gli strinse affettuosamente una spalla: – Avrai da patire molto.
Rigr le prese la mano e fece quello che era solo un simulacro di sorriso: – Chi ti dice che non stia già succedendo?
– Mi dispiace…
Lui le passò le dita su una guancia: – E sei tu a dire questo a me…!
– Proprio perché so cosa significhi – Raska lo strinse tra le braccia, Rigr rispose all’abbraccio e rimasero immobili, quasi cercando di darsi l’un l’altra la forza di andare avanti.

- continua -

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12 – GALAR

ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE… ERRORE…
Fu la prima cosa che sentì, la voce ossessiva che lo riportò penosamente alla coscienza.
Il dolore pulsante alla testa fu la seconda.
Non riusciva nemmeno a ricordare bene cosa fosse successo, frammenti di memoria gli volteggiavano nella mente senza assumere alcun senso compiuto, e su tutto c’era lo scandire inesorabile di quella voce robotica.
Zuril stava a malapena riprendendosi dagli effetti del sedativo quando venne rimesso bruscamente in piedi e trascinato giù dalla navetta. Si sentiva le gambe intorpidite e camminava con fatica, alle volte le ginocchia sembravano cedergli e allora le guardie lo strattonavano bruscamente per le braccia costringendolo ad andare avanti, e in fretta. Una volta inciampò rischiando di cadere trascinando con sé una guardia, e subito qualcuno lo colpì alla schiena col calcio d’un fucile. Il dolore gli s’irradiò lungo la spina dorsale fino a raggiungere il pulsare spasmodico delle tempie.
Per un attimo ebbe paura di dover vomitare lì, davanti a tutti, e nonostante fosse intontito cercò di reprimere la nausea: l’idea di star male davanti a quella gentaglia gli era insopportabile.
Mani brutali lo rimisero in piedi, fu spostato su una navetta, un altro viaggio… perse di nuovo conoscenza, e si risvegliò quando fu ancora una volta rimesso in piedi e trascinato via.
Corridoi, stanze… non capiva bene dove si trovasse, a dire il vero nemmeno sapeva su che pianeta l’avessero condotto… era gente di Galar, per cui, forse…
Un’altra porta si aprì: una stanza enorme, grandi schermi, una massa indistinta di persone… tra tutti i visi, uno largo e dalla mascella aggressiva che lui ben conosceva.
Raccolse le sue forze e si drizzò in tutta la sua statura, guardando Holdh dall’alto in basso: sapeva bene quanto il re di Galar, piccolo e tarchiato, odiasse che gli altri torreggiassero su di lui.
Holdh berciò qualcosa ma il dolore, la voce robotica e il sedativo gli impedirono di comprendere quanto avesse detto; si limitò a restare a testa alta, il viso impassibile. Sperò che non gli parlassero, non sarebbe stato in grado nemmeno di capire cosa gli stessero chiedendo, e l’idea di fare una magra figura gli bruciava parecchio.
Per sua fortuna, Holdh non voleva parlargli, anzi, Holdh voleva proprio che lui stesse ben zitto: vederlo così passivo fu per il sovrano di Galar una meravigliosa sorpresa. Aveva temuto il contrario, di doverlo invece far tacere.
Lo schermo fu attivato: era enorme, copriva un’intera parete della grande sala, ed era collegato in modo da essere ricevuto dall’intero pianeta, non solo nelle case private ma anche nelle piazze più grandi di ogni città. Dovunque, così riportavano i rapporti degli addetti alla propaganda, folle oceaniche si erano raccolte per assistere al nuovo, attesissimo discorso del sovrano, che aveva appena annunciato enormi novità d’importanza epocale. La curiosità era a dir poco alle stelle.
Il silenzio scese nella sala, mentre il popolo di Galar veniva finalmente a conoscenza della sorpresa annunciata: su ogni schermo apparve Holdh trionfante sul suo nemico sconfitto.
A dispetto di tante sue sgradevoli caratteristiche il sovrano di Galar era un autentico leader, un trascinatore di folle: i suoi discorsi veementi potevano scuotere, infiammare, esaltare. Quella volta, Holdh superò sé stesso: ricordò tutti i torti subiti da Vega, la guerra, le perdite. Rammentò poi l’umiliazione vergognosa subita da lui stesso, legittimo sovrano di Galar, ad opera di un usurpatore come Zuril e di un individuo losco e discutibilissimo come Duke Fleed, un uomo che a dispetto delle sue nobili origini non aveva esitato a prendere le parti di gentaglia come i veghiani (e qui vennero rilevati urli indignati contro Vega e Fleed). Praticamente, un traditore (fischi).
Holdh rammentò poi d’aver promesso al suo popolo che avrebbe provveduto a cancellare l’umiliazione subita. Come sempre, lui aveva mantenuto la sua parola: ecco infatti il cosiddetto re di Vega, un uomo che nemmeno apparteneva alla casata del pur deprecato Yabarn il Grande (applausi frenetici). Un uomo che a non si sa bene quale titolo sedeva su un trono che non gli spettava (delirio).
Adesso, visto che i governi degli altri pianeti si erano vergognosamente rifiutati di fare giustizia, avrebbe pensato lui a punire Vega (urla), facendone processare il falso sovrano, che come tutti potevano vedere era loro prigioniero (urla deliranti, applausi frenetici, scene d’isterismo di massa).
Nelle piazze, la folla continuò ad urlare ed urlare la sua esultanza, mentre l’immagine trionfante di Holdh, con accanto a sé Zuril pallido e sofferente, i polsi stretti da manette, fece il giro della nebulosa, venendo visto su ognuno dei pianeti abitati.


Holdh conosceva bene i suoi sostenitori, sapeva che ai loro occhi vederlo vittorioso accanto al nemico sconfitto avrebbe portato la sua popolarità a vertici impensabili.
Quel che Holdh trascurò fu l’effetto che quella visione avrebbe potuto avere sui suoi detrattori. Naturalmente il sovrano sapeva che c’era una gran fetta del suo popolo che non l’apprezzava, anzi, che lo detestava proprio; si trattava però della gente più trascurabile, le classi più basse, persone povere ed insignificanti, una massa ignorante che non contava nulla e della cui opinione lui non si era mai curato. Tutto quel che pensò di loro fu che il fatto di vederlo vincitore avrebbe contribuito a ricordare a quella plebaglia di che pasta fosse fatto il loro sovrano: rammentassero che lui, Holdh era capace di trattare i propri nemici come meritavano.
Questo era il messaggio che quella sua immagine avrebbe dovuto trasmettere a qualunque suo avversario: a quella vista anche i sovrani degli altri pianeti avrebbero dovuto rimanere impressionati ed intimoriti dal suo trionfo.
Nel suo odio sfrenato per Vega quel che non calcolò assolutamente fu la possibilità di ottenere l’effetto opposto, e che tutte le simpatie potessero andare al vinto, e non al vincitore.
Lauer, governatore di Zuul e amica personale di Zuril fu a dir poco sconvolta: la popolazione, notoriamente calma e poco incline alle esternazioni violente, vedendo il trattamento riservato al suo illustre compatriota mancò poco che insorgesse reclamando giustizia. Lei stessa, mezzo soffocata dall’indignazione, espresse la più totale condanna per l’ignobile trattamento riservato a un legittimo capo di stato come il Re di Vega.
Degli altri regnanti, la prima a dar segni d’insofferenza fu Catressia: non aveva alcuna simpatia per Vega ma nutriva un grande affetto per Maria e stava iniziando a provare un certo rispetto per Zuril. Vederlo ridotto in quello stato l’irritò non poco.
Chi fu veramente furiosa fu D’reeth: la regina di Dera era una donna fredda e poco incline alla collera, ma quella volta fu presa da un attacco d’ira gelida contro Holdh e le sue menzogne. Trattare Zuril a quel modo era stato a dir poco vergognoso, a parer suo; mettere poi in discussione la sua autorità di sovrano era addirittura intollerabile. L’abdicazione di Yabarn era cosa nota, Zuril stesso era stato riconosciuto da tutti come successore legittimo: calunniarlo a quel modo era stata a parer suo un’autentica carognata – senza contare il fango gettato anche su Duke Fleed. Sdegnata, esternò la sua opinione in un intervento pubblico, usando un tono calmo e controllato che rendeva ancora più preoccupante l’irritazione che traspariva da ogni singola parola.
A dispetto della scarsa popolarità dei veghiani, anche i popoli di Dera e di Ruby ebbero reazioni simili a quelle delle loro sovrane: il trattamento riservato a Zuril venne giudicato illegale e vergognoso, e un’ondata di simpatia andò subito verso lui e Duke Fleed.
A peggiorare la situazione di Holdh fu Rigr, che senza mezzi termini accusò pubblicamente Galar non solo d’aver compiuto un vero e proprio rapimento ai danni di un legittimo sovrano suo ospite, ma di aver ucciso cinque persone, cinque civili inermi la cui unica colpa era stata trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. A peggiorare il tutto, fu il fatto che uno dei cinque fosse uno studente, un ragazzino.
Questa notizia causò un’ondata d’indignazione anche peggiore. Holdh cercò dapprima di negare, ma messo alle strette da Rigr, che fornì le immagini del massacro e la documentazione degli esami necroscopici, deprecò a denti stretti tale “tragica fatalità”; passò poi al contrattacco dichiarando di voler processare il re di Vega quale criminale di guerra, sfidando implicitamente Rigr e gli altri sovrani a mettersi contro la potenza bellica di Galar, forte del fatto di possedere l’esercito più formidabile e meglio armato dell’intera Nebulosa.
S’era aspettato che gli altri sovrani abbozzassero, davanti ad una simile minaccia. Rigr ovviamente rispose per le rime, pur sapendo di non avere dietro di sé gli uomini e gli armamenti necessari a far inghiottire a Holdh le sue stesse parole. A sorpresa, intervenne ancora una volta D’reeth: la regina di Dera si fece portavoce del suo popolo, indignato dal comportamento di Holdh e deciso a non lasciar passar liscio un simile, gravissimo atto: sarebbe stato un precedente davvero troppo enorme, da non potersi tollerare. Affermò subito di voler reagire; con lei si schierò Catressia, e Lauer si disse prontissima a sostenere con ogni mezzo chiunque si fosse opposto a Holdh.
Skander, in qualità di reggente al posto di Duke Fleed, dichiarò a sua volta l’indignazione di Fleed per quanto accaduto, cercando però di prendere tempo, visto che non aveva l’autorità per prendere una simile, gravissima decisione, cosciente com’era del fatto che l’esercito di Fleed, se si fosse aggiunto alle schiere di Dera e di Ruby, avrebbe fatto sì che le forze in campo fossero equilibrate. Se poi si fosse aggiunto lo stesso Duke Fleed con Goldrake, l’ago della bilancia non avrebbe certo puntato verso Galar.
A quel punto, Holdh avrebbe dovuto abbassare i toni, mostrarsi più conciliante, tantopiù che stavano cominciando ad arrivargli sgradevoli voci di malcontento della popolazione che non intendeva dover affrontare una nuova guerra; non era però da lui cedere, preferì mostrare i denti nella segreta speranza di spaventare i nemici e chiudere la faccenda a modo suo.
Purtroppo per lui né Rigr, né D’reeth erano persone tali da lasciarsi impressionare dalle sue parole; la loro fermezza diede coraggio a Lauer e Catressia, che si schierarono apertamente contro di lui.
Holdh si fece ancora più strafottente: mostra i denti in modo da spaventarli, si era detto.
Per tutta risposta, D’reeth inviò delle navi in orbita attorno a Galar, dando ordine che stessero nello spazio esterno, senza sconfinare. Non era certo donna da lasciarsi impressionare.
Fu proprio allora che Duke Fleed fece ritorno dal suo viaggio interplanetario, conducendo con sé la sua futura regina.


- continua -


Link per insultarmi visto che ho vilmente troncato proprio sul ritorno di Actarus e Venusia: #entry559098757
 
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view post Posted on 28/6/2014, 09:29     +1   -1
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Ho appena ri-avuto il collegamento col web, e ho subito pensato a voi. :wub:


FUTURO

13 – FLEED

Fleed appariva d’un verde chiaro e lucente marezzato di blu: una splendida goccia d’acqua, cangiante e luminosa.
Venusia lo guardò, sentendosi stringere il cuore: quel mondo sconosciuto sarebbe stata la sua nuova casa…
La nave fleediana che trasportava Procton, Rigel e Mizar sarebbe arrivata successivamente, Goldrake se l’era lasciata indietro già da tempo. Intanto sarebbero sbarcati loro due su Fleed: lui aveva fretta di mostrare a Venusia ogni cosa, il palazzo, il lago, l’abitato, l’intero suo mondo, insomma.
Actarus fece entrare Goldrake in orbita attorno al pianeta e, dopo un’infinità di tempo in cui aveva tenuto le comunicazioni chiuse, si mise in contatto con Fleed: fu allora che, invece dell’accoglienza festante che s’era aspettato, capì di trovarsi in piena tragedia.
Le notizie gli piombarono addosso come sassate: Zuril rapito… assalto di un commando di Galar… cinque Uru trucidati… Maria disperata ma salva ed incolume… reazioni furibonde dei vari sovrani… risposte strafottenti di Holdh… guerra imminente.
– Oh, mio Dio – fu tutto ciò che riuscì a dire. Venusia, seduta dietro di lui, gli strinse un braccio come per confermargli la sua vicinanza.
Gli fu riferito che stavano per giungere delegazioni da altri mondi; alcuni erano già arrivati, come Sua Maestà Rigr che aveva condotto con sé la Regina di Vega.
In tono neutro, Actarus rispose che sarebbe sceso immediatamente, pronto ad incontrare i regali ospiti; poi chiuse la comunicazione.
– Ancora in guerra…! – esclamò, esasperato. Possibile che quell’incubo non avesse mai fine?
– Ce la faremo anche questa volta – asserì lei, decisa.
In silenzio lui cominciò a far scendere Goldrake in un’orbita più bassa, pronto poi ad entrare nell’atmosfera di Fleed.
– Non avrei mai voluto coinvolgerti in tutto questo – esclamò.
– Actarus, ho accettato di sposarti, ricordi? – gli fece presente lei – Questo vuol dire che voglio condividere la vita con te, qualsiasi cosa succeda, e non che m’aspetto che tu mi tenga al sicuro sotto una campana di vetro.
Lui assentì: un tempo avrebbe protestato, deciso a proteggerla a qualunque costo, ora capiva che lei aveva ragione. Venusia era Venusia… sotto quell’aria fragile nascondeva una forza insospettabile. Non era più una ragazzina spaurita, era una donna, e una donna abile e coraggiosa. Non meritava di essere tenuta in disparte come un’inutile pupattola… e se fosse stata un’inutile pupattola, lui avrebbe provato ben poco, per lei.
– Te l’ho già detto, che ti amo? – chiese, in tono fintamente indifferente.
– Non oggi – rispose lei, gli occhi che le brillavano.


Yaret, la sublime Yaret che sapeva destreggiarsi meravigliosamente in qualsiasi situazione, aveva già trovato modo di ospitare i regali ospiti in quelle che erano le stanze migliori del palazzo; non appena Actarus e Venusia giunsero alla reggia lei andò loro incontro, rivolse un rapidissimo saluto ad entrambi e li scortò verso il salotto migliore, quello in cui un’infinità di tempo prima Rigr aveva minacciato Zuril con gli artigli per vedere se fosse dotato di coraggio.
Actarus entrò quasi a passo di corsa. Maria come lo vide gli volò letteralmente tra le braccia, e lui la strinse a sé con trasporto: almeno lei era salva… già era furioso per quello che era successo a Zuril, non avrebbe potuto sopportare l’idea che fosse stata catturata anche sua sorella.
Rigr si fece avanti, spalle curve e testa bassa. Quando parlò, nemmeno riuscì a sostenere lo sguardo di Actarus: – Duke, sono mortificato. Quello che è successo è tutta colpa mia.
Actarus dovette nascondere il suo stupore: quell’uomo pieno di vergogna non somigliava affatto al guerriero spavaldo che ben conosceva. Vedendolo così abbattuto, se anche avesse voluto attribuirgli qualche responsabilità non avrebbe potuto muovergli il minimo rimprovero – ma rimproverarlo era qualcosa che nemmeno si sognava di fare.
– Rigr, non ne sei responsabile – disse Actarus mettendogli una mano sulla spalla – Quello che è successo è stato un tradimento vero e proprio, non era possibile prevederlo.
– Zuril era a casa mia, avrei dovuto proteggerlo meglio!
Venusia s’affacciò timidamente alla porta: Actarus se l’era lasciata alle spalle senza nemmeno accorgersene, troppo angosciato com’era per sua sorella, e lei si sentiva parecchio a disagio su quel mondo non suo, in quel palazzo che le era estraneo… Maria la tolse d’imbarazzo correndole incontro ed abbracciandola, e per qualche istante le due donne rimasero strette l’una all’altra, come due sorelle che finalmente si sono ritrovate.
– Mi spiace, Venusia, ti ho lasciata indietro – si scusò subito Actarus.
– Non importa, mi hanno indicato dove andare – e Venusia rivolse un sorriso a Yaret, con cui aveva avuto un’immediata intesa.
– Vorrei presentarti un amico – disse Actarus – Sua Maestà Rigr, sovrano di Upuaut.
– I miei rispetti – era una voce profonda, venata d’ironia.
Venusia si girò verso il nuovo venuto ma subito il sorriso le morì sulle labbra, mentre alla mente le si affollavano i ricordi… quegli occhi da predatore, quel fisico tutto muscoli e nervi… gli artigli… emise un’esclamazione soffocata tirandosi subito indietro mentre Rigr, che le aveva rivolto un educato inchino, la fissava, lo sguardo scintillante: – Qualche problema?
– No, io… – esitò, umettandosi le labbra; poi, troppo onesta per mentire aggiunse: – Sì, invece. Gauss…
– Hai conosciuto mio fratello – quella di Rigr non era una domanda – A giudicare dalla tua reazione, non è stato un incontro piacevole.
Venusia respirò a fondo: a suo tempo lei si era scontrata con Gauss per salvare la vita di Actarus, dapprima interponendosi tra loro mentre duellavano con i coltelli, e poi arrivando a minacciarlo con un fucile… e lui l’aveva schiaffeggiata, legata e appesa sopra un precipizio, usandola come esca per costringere Actarus a battersi con lui. Era rimasta atterrita, contro quell’uomo così simile a un lupo; ma poi aveva superato i suoi timori, e quando l’aveva visto morire aveva provato una pena sincera per lui. Ritrovarsi davanti quell’individuo che tanto glielo ricordava l’aveva sconvolta.
– No, non direi che sia stato un incontro piacevole – dovette ammettere.
– Dev’essere una caratteristica di famiglia – Rigr scoprì le zanne in un sorriso, accennando a Maria – Fatti raccontare dalla tua amica com’è stato il nostro primo incontro.
– Ah, non voglio nemmeno pensarci! – esclamò Maria.
Il sorriso di Rigr si fece più aperto: – Non puoi negare che sia stato indimenticabile.


Subito dopo aver parlato con Rigr, la prima cosa che Actarus fece fu contattare Moru. S’era aspettato che i veghiani fossero sul piede di guerra e rimase sorpreso trovando una lady Gandal profondamente scossa e un Hydargos furibondo, ma perfettamente padrone di sé. Entrambi avevano un’idea sufficientemente realistica delle loro forze da capire di non essere assolutamente in grado di reagire contro Galar: quello che era stato il riluttante vassallo di Vega era ora infinitamente più potente del suo antico padrone.
– Concordiamo con Sua Maestà la regina Maria – disse subito lady Gandal – Non riteniamo in alcun modo che gli Uru siano responsabili per quanto accaduto al nostro sovrano. L’attacco di Galar è stato proditorio e del tutto imprevedibile.
Hanno imparato la lezione da voi, si tenne per sé Actarus, che non voleva peggiorare la situazione ma che non poteva dimenticare certe offensive ordinate da Yabarn.
– Siamo tutti d’accordo circa il condannare quest’azione – disse invece – Avete provato a contattare Galar?
– Naturalmente – rispose lady Gandal.
– E… cos’avete ottenuto?
– Niente di riferibile – sbottò Hydargos.
– L’invito a farci gli affari nostri… diciamo così – spiegò diplomaticamente lady Gandal.
– Proprio quel che è stato detto a noi – intervenne Rigr, che fino ad allora era rimasto in silenzio dietro Actarus – Devo ripetere le parole esatte?
– Non è il caso – tagliò corto Actarus – Ovviamente, proverò anch’io a mettermi in contatto con loro, ma temo di poter risolvere poco.
– Sarà una perdita di tempo – disse Hydargos, che non amava le perifrasi.
– Ne sono sicuro, ma devo tentare – Actarus abbassò istintivamente la voce – Zuril ha quel suo computer oculare… non ha modo di usarlo per comunicare?
Hydargos e lady Gandal si guardarono, e Actarus comprese d’aver centrato il problema.
– Naturalmente sì – rispose lei, parlando con cautela visto che oltre Actarus intravedeva il viso pallidissimo di Maria – In condizioni normali lui può stabilire contatti, inserirsi nei database, collegarsi come e quando vuole… ma non l’ha fatto.
Dietro la schiena di Actarus Maria trattenne il fiato, e subito Venusia le mise un braccio attorno alle spalle.
– Questo può voler dire che non può comunicare, giusto? – anche Actarus parlava con cautela – Magari gli è stato dato un sedativo.
Lady Gandal scosse il capo: – Non credo sia solo così. Se Zuril fosse semplicemente incosciente, il suo computer sarebbe comunque rilevabile.
Maria balzò in avanti ed Actarus ebbe una vertigine: – Non lo è?
– Devo dire – la voce di lady Gandal, normalmente forte e sicura, era quasi un sussurro – che abbiamo perso il segnale del computer oculare di Zuril. Non ci è possibile localizzarlo.
– Cosa significa, esattamente? – chiese Actarus imponendosi di rimanere freddo, mentre accanto a lui Maria si premeva i pugni contro la bocca per non urlare – Che Zuril è…?
– Non necessariamente – rispose lady Gandal, che a sua volta stava sforzandosi di essere la razionale comandante di sempre – Vuol dire che il computer è stato disattivato, ma questo può essere avvenuto anche perché è stato staccato. Se hanno catturato Zuril è molto probabile che gli abbiano messo fuori uso il computer… per lo meno, è l’ordine che al loro posto io avrei dato subito.
– Penso abbia ragione, Duke – intervenne Rigr – Morto, Zuril non gli serve a nulla. L’avessero voluto uccidere, l’avrebbero fatto mentre era assieme ai miei uomini. Lo volevano vivo.
– È quel che credo anch’io – disse Actarus stringendo a sé Maria, che scossa da un tremito da capo a piedi sembrava sul punto di svenire.
Silenziosa ed efficiente come suo solito, Venusia andò a prendere Maria, la condusse in disparte e sedette accanto a lei, tenendola abbracciata; rimasero così, strette l’una all’altra, senza perdere una parola di quanto veniva detto.
– La possibilità che ritengo più probabile – continuò lady Gandal – è che una volta catturato Zuril gli abbiano disattivato il computer prima ancora di portarlo via da Upuaut.
– Abbiamo trovato una scheda di memoria e dei circuiti – assentì Rigr – Se niente niente conosco quel porco di Holdh, ha fatto catturare Zuril vivo per togliersi il gusto di usarlo come trofeo. Come ha appunto fatto. Immagino che voglia vendicarsi per quello che è successo su Moru, quando le ha prese da Goldrake.
– Ma era stato lui ad andarsela a cercare… – osservò Actarus.
– Tipi come lui non se la vanno a cercare, per loro la colpa è sempre degli altri – gli fece notare Rigr.
– In questo caso, dobbiamo contattare anche gli altri sovrani – disse Actarus, deciso – Quello di Holdh è un precedente gravissimo: lasciarlo correre significa che quel che è successo a Zuril potrebbe accadere anche ad altri. Non possiamo permetterlo. Indirò una videoconferenza con Ruby, Dera e Zuul, e decideremo come agire contro Holdh.
Lo schermo venne spento.
Venusia condusse via Maria che la seguì in silenzio, le gambe che sembravano cedere ad ogni passo. Nella sala rimasero soli Actarus e Rigr.
– Holdh sarà furioso anche con te – osservò Actarus – Non credo che abbia dimenticato quando gli hai spiegato le buone maniere.
– Io gliele ho insegnate – rispose Rigr, cupo in volto – Il guaio è che lui non le ha volute imparare.
– In ogni caso, ti conviene stare attento.
– Oh, no – il sorriso di Rigr fu solo un’esposizione di zanne – È lui che deve stare attento.


- continua -


Link in cui dire peste e corna delle linee web che s'interrompono: #entry559198664
 
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