Ok, visto che nel weekend e fino a martedì non potrò postare, metto adesso un nuovo capitolo.
FUTURO4 – TERRAUn discreto bussare alla porta, e su invito del padre Actarus entrò, andandosi poi a sedere sul bordo del letto come aveva fatto infinite volte.
Procton si mise a sedere chiudendo il libro e si tolse gli occhiali. La loro chiacchierata serale, entrambi in pigiama, lui a letto e Actarus che veniva a trovarlo, era stato uno dei loro piccoli riti quotidiani, soprattutto durante il periodo della guerra di Vega. Si erano scambiati confidenze, speranze, timori; alle volte avevano anche discusso di strategie, di tecniche di combattimento, di difesa. Tante decisioni che poi avevano influito sull’andamento della guerra con Vega erano state prese lì, in quella semplice camera da letto.
Nei tre anni successivi, tutte le sere Procton si era dovuto dire e ripetere che non avrebbe più sentito quel passo leggero fuori della sua porta, quel bussare; non ci sarebbero state più le chiacchiere e le confidenze notturne, e quel pensiero l’aveva sempre raggelato. Era soprattutto nelle ore serali in cui lui prendeva coscienza di quanto fosse vuota la sua vita, quanto lui fosse ormai completamente solo.
La sera prima aveva sperato che… ma naturalmente, dopo il burrascoso dialogo con Alcor Actarus aveva avuto bisogno di solitudine – e infatti gli aveva raccontato tutto quella mattina, a colazione.
Ora, ritrovarsi il figlio che come un tempo era venuto a chiacchierare con lui era un qualcosa che gli colmava il cuore, che lo faceva sentire di nuovo vivo – non quell’individuo freddo ed efficiente che tutti conoscevano, no, quello era il professore, non l’uomo Procton.
– Non mi sarei mai aspettato di sentirti alzare la voce – cominciò Actarus, serio ma con uno scintillio di sorriso negli occhi.
– Non mi è stato facile farlo – ammise subito il professore – Avrai comunque capito perché io abbia gridato a quel modo.
– Certo, e te ne ringrazio – rimase un attimo silenzioso; accanto a lui, Procton non disse nulla, rimanendo però sospeso. Troppo rispettoso per fare domande era comunque roso dalla curiosità di sapere come fosse andato il suo colloquio con Venusia; Actarus prese quindi a raccontargli brevemente quello che era successo, spiegando come fosse rimasto male nel sentire Venusia così colma d’amarezza, e come alla fine lo sguardo luminoso di lei l’avesse fatto sperare nuovamente.
– Ho aspettato troppo – concluse, testa bassa e mani strette – Prima c’è stata la guerra, poi Fleed… non ho mai avuto tempo per lei.
– Per voi – corresse gentilmente Procton.
– Per noi, già – Actarus alzò la testa, passando lo sguardo dal soffitto alle pareti, senza soffermarsi su niente – Ho attraversato lo spazio per tornare da lei, e ora non so nemmeno come chiederle se vuole ancora diventare mia moglie.
Procton lisciò tra le mani gli occhiali: – Non m’intendo molto di queste cose, lo sai.
Il giovane lo guardò, una muta domanda nello sguardo: non aveva proprio nulla da consigliargli?
– C’è solo una cosa che posso dirti – aggiunse il professore – Sii te stesso.
Sii te stesso… un consiglio semplicissimo, all’apparenza, e in realtà così difficile da mettere in pratica. Però il professore aveva ragione: lui era lui, non sarebbe mai stato capace di discorsi infiorettati e romanticismi stucchevoli. Venusia era semplice e diretta, tutto quel che avrebbe dovuto fare era essere diretto anche lui. Assentì: – Hai ragione.
Si alzò: per quella sera le confidenze erano finite, quindi. Procton si rimise le lenti, prese in mano il libro, ma s’arrestò vedendo che Actarus s’era fermato sulla porta con l’aria di chi non ha ancora detto tutto.
– Qualcosa che non va? – chiese il professore, vedendo l’imbarazzo del giovane.
– No – Actarus aveva l’aria di chi sta per togliersi finalmente un peso di dosso: – Non è solo per Venusia che ho fatto tutto questo viaggio.
Procton sentì crescere in sé una certa inquietudine: – Cos’è il problema?
– Io sono venuto anche per te – adesso che l’aveva finalmente detto, Actarus parlava quasi in fretta – Sono venuto a chiederti se vuoi venire con me su Fleed… non per sempre, se vorrai tornare sulla Terra io capirò e ti riporterò subito, ma almeno per un po’ di tempo… per favore, pensaci un poco prima di dirmi di no.
Il libro cadde a terra, le pagine si sparpagliarono, ma il professore sembrò non accorgersene nemmeno. Gli occhi fissi in quelli del figlio, cercò disperatamente di parlare ma non gli uscì suono dalle labbra.
Sii te stesso… – La verità è che mi sei mancato moltissimo. – ecco, l’aveva detto.
Procton deglutì, aprì la bocca, inghiottì ancora come se si stesse soffocando; Actarus tornò a sedersi davanti a lui, guardandolo con aria preoccupata: – Ti senti male?
Sentirsi male? Benedetto ragazzo… – Io… – tossì, riprese fiato – Io speravo tanto che me l’avresti chiesto.
Il giovane parve illuminarsi: – Vuol dire che verrai? Almeno per un poco?
Padre e figlio si strinsero le mani: riservatissimi entrambi faticavano non poco a dare voce alle emozioni che rischiavano di travolgerli, ma si compresero perfettamente. Si erano ritrovati, e non si sarebbero lasciati.
– Certo che vengo! – Procton aveva la voce spezzata dalla gioia, quasi un sussurro, ma gli occhi gli ridevano.
Actarus gli sorrise, un sorriso vero, che arrivava allo sguardo: – Ne sono felice. Ho talmente tante cose da farti vedere… – si fece serio: – Se vorrai comunque tornare sulla Terra, non avrai che da dirmelo.
Ti ho già perso una volta, non potrei sopportare di perderti ancora… – Ti ringrazio; ma non credo proprio che te lo chiederò.
Seduto sul proprio letto, Actarus tolse di tasca un sacchettino di stoffa e ne versò il contenuto sul palmo della mano.
Quando per la prima volta aveva ispezionato il palazzo reale di Fleed per controllarne lo stato, aveva saputo da subito che non vi avrebbe rinvenuto nulla di prezioso: troppi veghiani avevano razziato ogni cosa, portando via tutto quel che era loro piaciuto. Nel palazzo non erano rimaste che devastazione e morte.
In un angolo, seminascosti da un mucchio di calcinacci, aveva trovato dei poveri resti che aveva identificato senza alcuno sforzo: ricordava ancora molto bene quel vestito grigio perla con il ricamo attorno al collo… Hayya, la segretaria di sua madre, l’amica più onesta e fidata. Actarus si era sentito stringere il cuore, ritrovandola: ricordava ancora il suo sorriso, la sua voce dolce, il tocco leggero di quando gli carezzava i capelli.
Aveva raccolto personalmente quelle povere ossa per dar loro una degna sepoltura, ed era stato allora che s’era accorto che Hayya aveva ancora in mano una specie di sudicio involto grigiastro. L’aveva aperto, ed era rimasto strabiliato: le due corone regali ed alcuni dei molti gioielli di famiglia… evidentemente la povera donna stava cercando di metterli al sicuro quando era stata uccisa dai veghiani. Per colmo d’ironia, il fatto che lei avesse scelto di avvolgere quei tesori in uno straccio lurido li aveva salvati, nessuno si era fermato a controllare quell’involto disgustoso.
La regina l’aveva incaricata di mettere in salvo i gioielli, e lei vi era riuscita.
Fedele fino all’ultimo, si era detto Actarus, vivamente commosso, e aveva scelto per lei uno degli angoli più belli di quello che era stato il parco della reggia, in una macchia di arbusti dai fiori bianchi e rosa a cascata, profumatissimi.
Actarus non era certo un uomo superstizioso, anzi, ma l’aver ritrovato a quel modo gli ori di famiglia in mezzo ai ruderi di casa sua era stato ai suoi occhi una sorta di presentimento: la dinastia reale di Fleed non era morta, anzi, era pronta a rinascere dalle sue stesse rovine. Quel pensiero gli aveva infuso una forza che nemmeno lui avrebbe mai sospettato di possedere.
Tra i gioielli ritrovati c’era un anello in oro bianco con due grandi perle candide e perfette: Actarus l’aveva visto infinite volte al dito di sua nonna prima e di sua madre poi, da generazioni e generazioni le regine della casa di Fleed se l’erano passato l’un l’altra.
Il giovane guardò ancora l’anello che ora splendeva nel palmo della sua mano: era giunto il momento che fosse portato da una nuova regina.
Il giorno dopo, Actarus tornò di buon’ora alla fattoria: non aveva potuto fare a Venusia la sua richiesta il giorno prima, le avrebbe parlato oggi. Del resto non poteva più aspettare, doveva sapere.
Gli fu subito evidente che tra lui e Venusia si sarebbe frapposto un ostacolo pressoché insormontabile: Rigel l’accolse con la massima cordialità, e prima che il giovane potesse protestare lo trascinò in un lungo giro per tutta la fattoria, in modo da potergli mostrare tutto quel che era cambiato durante la sua assenza, dai puledri che erano nati alle nuove gabbie dei conigli, dalle carote nell’orto alla carriola fiammante di fabbrica, da usare per il letame.
Sentendo il padre cianciare a ruota libera Venusia uscì di casa nel vano tentativo di salvare Actarus, ma si ritrovò anche lei trascinata nel giro turistico della fattoria: era praticamente impossibile sfuggire a Rigel, questo lo sapevano entrambi. Se Actarus si fosse provato a sottrarsi, l’altro sarebbe stato capacissimo di immobilizzarlo con il suo lazo e trascinarselo dietro.
I due giovani si scambiarono uno sguardo di rassegnazione: meglio assecondare Rigel, ci sarebbe stato tempo per parlare più tardi. Actarus si dispose quindi a portare molta pazienza, cosa del resto cui era abituato.
Venne così informato della nuova routine che avveniva alla fattoria. Per seguire il suo corso per prendere il brevetto di pilota commerciale Venusia si assentava ogni settimana, partendo il lunedì e tornando il venerdì pomeriggio. Venendo a mancare il lavoro fornito da lei e soprattutto da lui, Actarus, Rigel si era trovato costretto a cercare un nuovo fattore; la scelta era caduta su un giovane, Hachiro, che abitava in un casolare confinante – non Banta, spiegò Rigel, troppo lazzarone per badare alla propria terra, figuriamoci a due fattorie. Hachiro, un giovane grande e grosso dall’aria simpatica che fu presentato ad Actarus, si era rivelato un’ottima scelta: gran lavoratore, avendo dei fratelli maggiori che si occupavano della terra di famiglia aveva addirittura chiesto a Rigel di vendergli il tutto, ma aveva avuto un rifiuto… almeno per il momento.
Mentre si allontanavano, lasciando Hachiro occupato a dare il fieno alle vacche, Rigel bisbigliò ad Actarus, con una voce perfettamente udibile a svariate centinaia di metri di distanza, che lui aveva sperato che un giorno Hachiro e Venusia…
– Papà! – esclamò lei, rossa in viso.
– Che male ci sarebbe? – rispose suo padre, candido – La terra resterebbe in famiglia!
– C’è sempre Mizar che potrà occuparsene – disse in fretta Actarus, tanto per stemperare la tensione.
– Mizar è ancora un ragazzino, deve pensare alla scuola – tagliò corto Rigel – Non se ne parlerà per almeno sette-otto anni. Ma è ormai ora di pranzo! Naturalmente ti fermi qui, non è vero?
Non sarebbe stato possibile rifiutare, questo Actarus lo sapeva bene, per cui accettò subito. Chissà che prima o poi non ci fosse finalmente il tempo di poter parlare a Venusia…
Rientrarono alla fattoria, e subito lei si mise a preparare il pranzo. Actarus avrebbe voluto aiutarla, ma Rigel lo catturò nuovamente: c’era da apparecchiare la tavola. Sarebbero stati in cinque, perché Mizar rientrava da scuola, e Hachiro si fermava sempre a pranzo da loro.
Il pasto si svolse come Actarus si era aspettato, con Rigel che continuava a cianciare, Mizar che sbuffava di tanto in tanto e Venusia, Hachiro e lui a scambiarsi quelle occhiate che intercorrono tra compagni di sventura.
Dopo pranzo finalmente ci fu un poco di pace: Mizar andò in camera propria per fare i compiti, Hachiro tornò ai campi e Rigel, appesantito dal pranzo abbondante e dalle ancora più abbondanti bevute, s’appisolò sulla sua sedia, bocca aperta e russata gagliarda.
In silenzio, Actarus e Venusia riportarono in cucina i piatti sporchi. Poi lui chiuse la porta, lei s’appoggiò con le spalle contro la credenza emettendo un sospiro di sollievo. Dalla sala giunse una russata più sonora, e i due scoppiarono a ridere, ritornando seri un istante dopo.
Non c’era tempo da perdere, per cui il giovane fece appello a tutto il suo coraggio (affrontare mostri di Vega era stato meno duro!) e si decise: – Senti, Venusia…
Lei, che stava per disporre le stoviglie nella lavapiatti, si girò subito verso di lui, aria indifferente ma occhi brillanti come stelle: – Sì, Actarus?
– Sai perché sono tornato – cominciò lui – Te l’avevo promesso. Mi spiace solo aver tardato così tanto…
Venusia rigirò tra le mani uno strofinaccio: – Lo so, ho capito che non l’hai fatto di proposito.
– Non avrei mai voluto farti soffrire.
Lei assentì, gli occhi bassi e il cuore in tumulto: – So anche questo.
– Io… – Actarus esitò, incerto su come formulare la sua domanda; alzò le braccia, le lasciò ricadere, impacciato.
Sii te stesso…C’era solo una cosa da fare: dirle la verità, per quanto poco allettante potesse essere. – Io non posso offrirti molto, Venusia. A parole sono un re, in pratica sono poco più che uno straccione. Vivo in una reggia, ma è mezzo distrutta. Ho un popolo, ma in miseria quanto me. Con me non potrai avere agi e ricchezze, questo è bene che tu lo sappia subito.
– Actarus…
– Aspetta, fammi finire, o non riuscirò a dirti tutto – pregò lui – Io lo so che meriteresti di più, infinitamente di più di quello che posso darti, ma… tutta la nostra ricchezza è nel nostro mondo, che sotto le rovine sta germogliando, e nella nostra voglia di vivere, di ricostruirlo… io… – s’impappinò, perse definitivamente il filo del suo discorso. Alzò gli occhi su di lei, li riabbassò subito, confuso: – Non avresti una vita facile, con me.
– Ma a me non sono mai piaciute le cose facili.
La voce di Venusia era suonata dolcissima, simile ad una carezza delicata che scioglie la tensione; finalmente Actarus osò alzare lo sguardo, incontrò quello di lei e ancora una volta vi trovò tutto quello che aveva sperato, tutto ciò che aveva sognato, e più ancora.
Lui le afferrò le mani, gliele strinse nelle proprie: – Venusia, davvero… vuoi dire che…?
– Stai attento a quello che fai – mormorò lei – Se mi chiedi qualcosa, c’è pericolo che ti risponda di sì.
– Ma tu sai cosa voglio domandarti… io…
La porta fu spalancata con energia, e Rigel si stagliò festosamente sulla soglia: – Ah, ecco dov’eravate finiti! Ma… che sta succedendo, qui? – sbraitò, mentre tutto il suo buonumore spariva di colpo nel vedere sua figlia tra le braccia di Actarus – Cos’è tutta questa confidenza? Ma siamo impazziti?
– Insomma, papà! – esclamò Venusia, guardandosi bene dall’allontanarsi da Actarus – Vuoi lasciarci in pace, una buona volta?
– Ah, è così che parli a tuo padre, figlia ingrata? – sbottò il genitore, pestando rabbiosamente a terra gli stivali – Non ti vergogni, a stare così… così
appiccicata a… Qui in cucina! E cosa stavate facendo, poi?
– Se proprio vuoi saperlo, Actarus mi stava chiedendo di sposarlo! – esplose Venusia.
– Sposarlo?! – Rigel si fece violaceo – E tu avresti intenzione di accettare?
– Certo che sì!
Adesso prende il fucile, si disse Actarus.
Rigel sembrò congelarsi, restando per qualche istante immobile, lo sguardo fisso.
Actarus sentì un brivido scorrergli giù per la schiena.
Ha fatto un colpo, si disse.
Mio Dio, ho chiesto a Venusia di sposarmi e le ho stroncato il padre…– Ti sposi…? – chiese Rigel, con una vocina sottile sottile.
Venusia andò a dargli un bacio: – Sì, papà.
– Con lui?
– Sì.
Il padre esitò ancora: la sua bambina si sposava…
Ma Rigel era Rigel. Si scrollò di dosso la malinconia, gonfiò il torace ed esplose in un urlo che anche i vicini di casa dovettero sentire: – Ma è
MERAVIGLIOSO!!! Un istante dopo Actarus si trovò abbrancato a mezza vita da Rigel, che ridendo e piangendo insieme lo chiamò figlio adorato, aggiungendo poi che se avesse trattato male la sua piccola gli avrebbe fatto la pelle.
– Volete farla finita con questo chiasso? – esclamò Mizar, apparso anche lui sulla porta della cucina – Sto cercando di studiare, domani ho la verifica!
– Venusia si sposa! – l’informò suo padre, cavandosi di tasca un fazzoletto ed inzuppandolo abbondantemente di lacrime – Si sposa con Actarus! Ci pensi?
– Beh, era ora! – rispose suo figlio, rivolgendo però alla sorella un gran sorriso.
– “Era ora”? – esclamò Rigel, tornato subito combattivo – Tu sapevi che quei due… voglio dire…
– Papà, ma era talmente evidente…! – rispose Mizar con aria da uomo di mondo, mentre Actarus e Venusia si scambiavano uno sguardo d’intesa.
– Evidente? Come sarebbe, evidente? – Sbottò Rigel, mentre alle sue spalle i due fidanzati s’allontanavano in silenzio, chiudendo piano la porta alle loro spalle – A me non avevano detto nulla!
– Ma papà…
– Insomma, in questa casa io sono sempre l’ultimo a sapere!
- continua -
Link in cui presumibilmente si parlerà di padri:
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