Ogni promessa è debito: seconda - e ultima - parte del cenone di Capodanno.
A disagio, Venusia osservò i suoi vicini di tavola.
Da una parte sedeva Dantus, che la considerava con evidente apprezzamento; dall’altra, Barendos, che mentre la fissava pareva sul punto di esclamare “Yum! Yum!”
Di fronte a lei sedeva Hydargos, e Venusia aveva un chiarissimo ricordo della breve, bruciante avventura che aveva avuto con lui; a giudicare dal modo in cui il comandante di Vega la stava guardando era evidente che il medesimo ricordo era ben chiaro anche nella sua memoria. Evviva.
Improvvisamente, Venusia si sentì soffocare: aveva l’impressione che l’aria si fosse fatta di colpo pesante, mentre la temperatura sembrava essere salita d’una buona decina di gradi. Che si fosse guastato l’impianto di condizionamento?
Un nuovo sguardo ad Hydargos e ai due pessimi soggetti ai suoi lati la convinse che il condizionatore non c’entrasse affatto, e che il problema fosse tutto di genere emotivo. Fu allora che Venusia comprese l’esatto significato dell’espressione “essere seduti sulle braci ardenti”.
Osservò ancora di sottecchi i tre tipacci che la circondavano: sembrava che aspettassero solo il via.
Si agitò sulla sedia, guardandosi attorno in cerca d’aiuto, o almeno di una scusa plausibile per alzarsi ed allontanarsi da quei tre individui, quando s’accorse di qualcosa d’orrendo.
Proveniente dalla parte di Barendos, una zampaccia taglia quarantasette stava facendole piedino.
Venusia si spostò di lato e subito il piedone di lui l’incalzò, inevitabile, pestandole oltretutto l’orlo del vestito.
Venusia riuscì ad armeggiare per liberarsi, guardandosi angosciosamente attorno: nessuno era parso accorgersi del suo disagio, erano tutti occupati a mangiare e chiacchierare. Actarus non aveva occhi che per quella dannata Rubina, il tutto sotto lo sguardo ustorio di Zuril, Tetsuya appariva seccatissimo perché la sua dama era stata monopolizzata da Sua Maestà, Alcor appariva rilassato come può esserlo un uomo seduto in una cesta di cobra, Rigel mangiava e cianciava a ruota libera mentre dall’altra parte del tavolo Procton tentava, abbastanza inutilmente bisogna dire, di tenerlo calmo, Hara non aveva attenzione che per i maschi presenti e Banta sbafava qualsiasi cosa commestibile fosse capitata a portata delle sue ganasce. Nessuno badava a lei… nessuno si rendeva conto degli imbarazzanti approcci che stavano avvenendo sotto la tavola. Era proprio baciata dalla buona sorte, non c’è che dire.
Incalzata da Barendos, Venusia si tirò ancora più in parte, andando ad incocciare proprio contro la gamba di Dantus, che parve piacevolmente sorpreso.
Un attimo dopo, a farle piedino erano in
due: oltretutto, non c’era nemmeno la possibilità di sottrarsi ad uno senza incappare nell’altro. Quando si dice fortuna…
I due comandanti ostentavano visi innocenti e soavi espressioni, ma quel che avveniva sotto al tavolo di angelico aveva ben poco. Venusia tentò di sottrarsi al pressing cui era sottoposta, scartò, finse, riuscì persino a rialzare entrambi i piedi in modo che le zampacce dei suoi corteggiatori entrassero in contatto tra di loro – e fu allora che il Destino Crudele s’accanì contro di lei, sotto forma di una mano che le si posò su un ginocchio.
Afferrare la mano e rispedirla al mittente fu un tutt’uno; un istante dopo, dall’altra parte giunse una seconda mano che prese posizione sull’altro ginocchio. Altro respingimento inorridito, e successivo attacco su due fronti: due mani e due piedi avevano ricominciato la loro inesorabile marcia di conquista. Disperata, Venusia tentò ancora di liberarsi, ma era un po’ come fronteggiare quei mostri mitologici dalle molte teste: ne eliminavi una, e ti ritrovavi a doverne affrontare un’altra. Strapparsi di dosso un tentacolo significava trovarsene un altro, più pervicace e più sfacciato del primo.
Venusia continuò bravamente a difendersi, ma era chiaro che i due attaccanti erano ben decisi a compiere un assalto in piena regola. Per lei avere un po’ di pace sarebbe stato impossibile, a meno di spaccare un piatto in testa ad uno dei suoi corteggiatori; ora, quando si è invitati ad una cena di gala, disgraziatamente non è educazione intrattenere gli ospiti sfasciando loro suppellettili sul cranio.
Che altro poteva fare? Chiamare aiuto, strillare, prenderli a ceffoni…? Peggio che mai…
Se almeno qualcuno si fosse accorto del suo imbarazzo e fosse corso in suo aiuto…!
Occhieggiò Actarus: stava ascoltando beato ogni parola che usciva dalle labbra coralline di Rubina. Alcor? Occupatissimo a districarsi tra Maria e Sayaka. Tetsuya? Aria truce e occhi cupi fissi su Sua Maestà, stava affondando rabbiosamente il coltello nella tartina al salmone che aveva nel piatto.
A chi avrebbe potuto rivolgersi, allora…?
Disperata, incrociò lo sguardo di Hydargos, che sedeva esattamente di fronte a lei e che la fissava con occhio da pio bove.
Venusia non capì mai come fosse accaduto. Sicuramente, lei non aveva detto una sola parola; pure, la forchetta di lui cadde accidentalmente a terra. Il comandante di Vega si chinò a raccoglierla, sparì un istante sotto al tavolo e un secondo dopo, Dantus prima e Barendos poi, balzarono sulle rispettive sedie. Mani e piedi tornarono ai loro posti, dove finalmente rimasero.
Attonita, Venusia s’accorse che Dantus stava mugolando termini poco parlamentari, mentre sotto il tavolo si carezzava amorosamente il polpaccio; dall’altra parte, Barendos faceva altrettanto.
Venusia guardò con aria interrogativa Hydargos, che era prontamente riemerso; lui le strizzò l’occhio e si rigirò tra le dita la forchetta, i cui denti apparivano stranamente storti.
“Mio salvatore!”, espressero gli occhi di Venusia; un istante dopo, lei s’accorse che lo sguardo di lui aveva raggiunto l’espressività di una cernia al vapore.
Di male in peggio…
Nel frattempo, le portate si erano alternate sulla tavola. Dopo un antipasto variato e stuzzicante era stata la volta dei primi, semplici ma molto gustosi. Come sempre, Jun e Venusia avevano dato un’ottima prova del loro talento culinario.
L’eccellenza del pasto contribuì a riscaldare l’atmosfera: le chiacchiere si fecero più vivaci, certi atteggiamenti un po’ rigidi guadagnarono in scioltezza, una notevole animazione cominciò a serpeggiare tra i convitati. Dal lato di Re Vega provenivano continui scoppi di risa: Sua Maestà era brillante ed inarrestabile, e Jun e Maria stavano divertendosi come non mai. Persino Sayaka si protendeva oltre Alcor per partecipare anche lei all’ilarità generale, mentre Tetsuya sembrava incupirsi sempre più ad ogni minuto che passava ed Alcor occhieggiava angosciato l’orologio alla parete spiando quanto tempo mancasse alla fatidica mezzanotte. Dall’altra parte del tavolo, Rubina conversava amabilmente con Procton, mentre Zuril aveva assunto un’aria molto indifferente e molto falsa, e Actarus, totalmente imbambolato, non perdeva una sola parola che fosse uscita dalla bellissima bocca di lei.
La zona centrale della tavola era un po’ più calma, con Venusia intenta a districarsi tra i suoi corteggiatori, che pesti ma non domi sembravano attendere il momento propizio per tentare un nuovo assalto; e in quella, vennero portate in tavola le carni e soprattutto i contorni.
Un enorme vassoio colmo del manicaretto di lady Gandal s’avanzava, ineluttabile.
La signora aveva annunciato d’aver preparato crocchette di patate: apparivano come polpettine allungate, e fin qui tutto bene.
Presentavano una crosticina croccante, e anche questo andava bene.
Erano di un abominevole verde menta fluo… e questo non andava bene affatto.
Rubina si vide porgere il vassoio, fece rapidamente cenno di non desiderarne e il piatto passò da Actarus, che per quanto rimbecillito ringraziò e rifiutò a sua volta, e così fece anche Hara, che generalmente avrebbe spazzato qualsiasi cosa le fosse stata presentata davanti… insomma, il piatto fece il giro della tavola e alla fine, completamente intatto, venne presentato all’ultimo della fila, cioè Zuril
Lo scienziato non attendeva altro: si servì abbondantemente e fece cenno di tenergli in disparte quel vassoio; quindi, approfittato d’un momento di distrazione dei vicini, prese una delle crocchette e l’analizzò di nascosto usando lo scanner che aveva tenuto fino ad allora celato sotto al tavolo.
Lesse i risultati sul display: avrebbe voluto lanciare un fischio, ma si trattenne. Non per nulla era un freddo scienziato dal perfetto self-control.
Altri piatti vennero fatti girare frettolosamente, in modo da occultare alla signora lo scarsissimo successo avuto dalle sue crocchette. Nuovi contorni vennero portati in tavola, vini vennero fatti girare; proprio in quel momento Sua Maestà raccontò un aneddoto particolarmente divertente calamitando l’attenzione di lady Gandal.
Pericolo scampato, ormai toccava al dolce.
Skarmoon – 31 Dicembre – mezzanotte
Mezzanotte suonò, tappi di bottiglie saltarono, auguri s’intrecciarono.
L’anno nuovo era cominciato…
Era il momento del vischio.
Occhi neri e occhi azzurri lo fissavano, impietosi.
Le due fanciulle tacevano, ma per lui era chiarissimo quel che stavano pensando…
Devi baciare una di noi, Alcor. Solo una. Dovrai scegliere, finalmente!
Il giovane si sentì soffocare. Normalmente, l’idea di essere conteso tra due meravigliose ragazze l’avrebbe inorgoglito: adesso, stava cercando qualcosa, qualsiasi cosa potesse salvarlo da quella terrificante situazione.
Doveva baciare una ragazza, una sola… una sola di loro due, UNA…
Impallidì sudando freddo, mentre gli occhi neri e quelli azzurri lo continuavano a fissare, acuminati come succhielli. Una sola, maledizione! Una sola di loro due…
Piano.
Perché “di loro due”…?
Perché non…?
Alcor era un uomo impulsivo, coraggioso fino all’incoscienza, un vero temerario; tante volte in combattimento si era salvato grazie all’istinto, più che alla riflessione.
Effettivamente, anche quella volta non fu certo la ragione a spingerlo a fare quel che fece: d’un balzo, dribblò le due fanciulle, abbrancò l’ignara creatura che stava passando alle loro spalle, la trascinò sotto al vischio e prima che lei avesse potuto anche solo fiatare la sottopose al più interminabile bacio-sturalavandini del suo vasto repertorio.
Allibite, Sayaka e Maria rimasero immobili, come impietrite; si guardarono in faccia e poi, come su comando, si allontanarono dignitosamente andandosi a sedere in un angolo remoto della stanza. Avrebbero voluto rendere la pariglia ad Alcor baciando a loro volta un paio dei signori intervenuti, ma era bastata una semplice occhiata alla fauna maschile presente in sala per dissuaderle. Va bene la vendetta, ma a tutto c’è un limite.
Comunque, ormai era Capodanno, giorno di buoni propositi. Niente ostilità.
Per trasformare Alcor in trito di carne, avrebbero atteso il due gennaio.
Un’eternità dopo, ormai in piena apnea, Alcor finalmente lasciò la sua vittima e s’allontanò frettolosamente dopo aver mormorato un augurio di buon anno; attonita, completamente senza fiato, gli ormoni in totale subbuglio e con un lieto scampanio nelle orecchie, lady Gandal si ricompose.
Era una signora, che diamine.
S’allontanò tutta dignitosa, mentre rosei pensieri d’amore s’affacciavano alla sua mente – tenuto accuratamente in disparte, Gandal sputacchiava schifato mentre protestava affermando con veemenza tutto il suo disgusto.
Fu un’orrenda visione a strappare lady Gandal dai suoi romantici sogni: seminascosto in un angolo c’era il vassoio con le crocchette di patate. Intatto.
Delusione e collera s’alternarono rapidamente nell’animo della signora, sensibilissima come ogni vero artista; in quel momento doveva sfogarsi, trovarsi una vittima su cui scaricare il suo malumore… si guardò in giro e finalmente lo vide.
– Hydargos! – esclamò, il tono delle grandi occasioni – Vieni subito!
Lui sussultò, chiedendosi rapidamente che cosa avesse fatto per irritarla tanto; pur trovandosi innocente, si fece avanti con l’aria di chi s’aspetta una pettinata di prim’ordine: – Sì, mia signora?
– Non hai assaggiato le mie crocchette, vero? – esclamò lei, piazzandogli il vassoio sotto al naso.
– Ma… ecco, non ricordo – cominciò lui, che era un pessimo bugiardo – C’erano talmente tante cose buone… mi sembra che… forse…
– No, non le hai provate. Assaggiale ora.
Lui guardò quegli orrori verdi e sentì le gengive squassate dai brividi: – Veramente ho già mangiato il dolce…
– Non trovarmi scuse – ribatté lei, inesorabile – Mangia.
Hydargos represse un conato di vomito.
Maledizione, perché lui aveva un grado inferiore a quello di lady Gandal? Adesso naturalmente lei s’aspettava che lui trangugiasse uno di quei piccoli mostri…
Prese in mano un cilindretto; occhieggiò la signora implorando pietà con lo sguardo.
Mangia!, fu ciò che le lesse nelle pupille.
Hydargos deglutì; aprì la bocca, tentò d’infilarvi la crocchetta, ma per quanti sforzi facesse, la sua stessa mano si rifiutava di obbedire… che schifo… addio, mondo crudele…
– Gandal – intervenne inaspettatamente Zuril – Ti ricordi il regalo che ti ho fatto a Natale l’anno scorso?
– Certo! – fu un attimo: Gandal tirò fuori di tasca un minuscolo congegno e, prima che sua moglie potesse dire alcunché glielo premette contro la tempia. Uno sfrigolio e la signora cadde in catalessi, mentre il marito riprendeva il completo controllo della situazione.
Paralizzata dal neutralizzatore neuronico istantaneo di Zuril, lady Gandal non avrebbe più fatto la sua ricomparsa per almeno dodici ore; quel pensiero rese euforico il marito.
L’anno cominciava sotto i migliori auspici.
Attonito, Hydargos rimase dov’era, bocca semiaperta e crocchetta a mezz’aria; Zuril gliela tolse di mano e la rimise con le altre nel vassoio.
– …grazie…! – esalò Hydargos, incredulo d’essersi salvato.
– Dovere, amico mio – Zuril si covava letteralmente con l’occhio le crocchette – Credimi, non ti sarebbero proprio piaciute.
– È mezzanotte, Duke – sussurrò Rubina, la voce ammaliante da sirena – Non vuoi darmi un bacio di buon augurio?
– Uh... certo, sì – completamente rimbecillito, l’occhio vacuo del maschio ben felice d’essere stato catturato, Actarus si protese in avanti verso di lei, e subito Rubina lo fermò dolcemente:
– Non qui, caro. Sotto al vischio. Non avete questa tradizione, sulla Terra?
Ci vollero un paio di secondi perché nell’annebbiato cervello di lui si facesse strada il concetto “alzati e cammina fin sotto al vischio”. Si mise in piedi e lei lo prese per mano, dedicandogli il più ammaliante dei suoi sorrisi. Rubina poi mosse un passo verso l’angolo in cui era stato appeso il rametto di vischio e gli sorrise ancora, invitante; subito Actarus la seguì camminando un po’ come un automa, completamente perso in quegli occhi azzurri, totalmente affascinato da quella voce melodiosa, da quei capelli rossi...
Mentre gli passavano accanto, Zuril sorrise a sua volta al principe di Fleed: – Bene, bene. Mi sa che sarò il primo a farti le congratulazioni per le nozze.
– ...Eh? – Actarus parve riscuotersi, attonito – Quali nozze?
– Sono sicuro che sarete molto felici – aggiunse carognescamente Zuril, mentre Rubina, indispettita, emetteva un sibilo tipo pentola a pressione.
– Felici? – Actarus aveva l’espressione di chi si è appena ripreso dopo aver ricevuto una potente mazzuolata sul cranio – Ma di cosa stai parlando?
– Di niente d’importante! – esclamò in fretta Rubina, che aveva una gran voglia di afferrare una zuppiera e sfasciarla sulla testa del Ministro delle Scienze – Vieni, caro. Non volevi darmi un bacio?
– Ma certo che vuole – rispose Zuril, la voce che era tutto uno sciroppo – Spero poi che stabilirete di sposarvi presto... i fidanzamenti lunghi sono così noiosi...!
Sposarvi, nozze... le due orrende parole s’impressero a fuoco vivo nell’animo di Actarus, cui parve di sentir rimbombare marce nuziali mentre effluvi di fiori d’arancio sembravano intasargli le narici... e fu un attimo.
Actarus era un uomo d’azione: in quel momento, agì.
Esistono due diverse versioni su quello che veramente accadde in quel momento: la prima, quella ufficiale diffusa dalla principessa Rubina, vuole che Actarus sia stato improvvisamente colto da un malore e si sia allontanato precipitosamente, in preda ad atroci dolori di colica.
La seconda, quella sparsa per vie traverse da Zuril, ritenuta non ufficiale e del tutto ingiuriosa, sostiene che Duke Fleed sia stato messo in fuga dalla prospettiva di nozze assolutamente non volute. Venendo però proprio da Zuril si capisce come tale versione sia considerata di parte, falsissima ed offensiva; va però detto che tutti, pur accettando a parole la teoria dell’improvvisa colica, nel loro animo furono più propensi ad accettare la seconda ipotesi... ma naturalmente, nessuno ebbe l’ardire di farlo presente alla principessa.
Comunque siano andate le cose, Rubina si ritrovò completamente sola, piantata all’improvviso dal suo cavaliere proprio sotto gli occhi dell’ultimo uomo che lei avrebbe voluto assistesse alla sua sconfitta. In preda alla collera, le guance che le bruciavano, la principessa sentì su di sé lo sguardo insistente di Zuril, che era tutto un “te-l’avevo-detto”.
Aveva avuto ragione, dannato lui…
Rubina era una fanciulla timida e posata, tutt’altro che incline ai colpi di testa; tuttavia, quella volta agì come normalmente non avrebbe mai fatto.
Decisa a non dare soddisfazione a quell’odioso di Zuril si guardò rapidamente attorno, valutando in fretta i maschi presenti; avendone visto finalmente uno papabile, d’un balzo gli fu addosso, lo acchiappò trascinandolo sotto al vischio e diede il via ad un bacio a dir poco torrido. Gliel’avrebbe fatta vedere lei, a quel signor-so-tutto!
Si staccò da lui ansimando per riprendere fiato; avrebbe voluto scoccare un’occhiata di trionfo a Zuril, ma qualcosa le impedì di staccare gli occhi da ciò che aveva davanti.
S’era aspettata di cavarsela con un banale augurio di buon anno, ma invece si ritrovò a guardare con maggior attenzione quell’uomo.
Non era affatto brutto, anzi, era attraente… Molto attraente. Dire che le era dispiaciuto baciarlo sarebbe stata una bugia colossale.
Da parte sua, Procton faticò parecchio a recuperare la sua scientifica calma e la sua equilibrata compostezza; aveva i baffi arruffati, un fischio acutissimo gli lacerava le orecchie e non era ben sicuro che fosse solo l’apnea a fargli mancare il fiato. A dire il vero, quegli occhioni azzurri gli stavano impedendo l’insorgere di un qualsiasi pensiero coerente nel cervello.
– …Signorina! Voglio dire… Altezza… – farfugliò – Io… io non… – deglutì penosamente – Mi dispiace, io in genere non mi comporto così… cioè… Scusatemi…
– Perché dovreste chiedermi scusa? – si stupì lei – L’iniziativa l’ho presa io, mi pare.
Procton ammutolì. Era un tipo all’antica: era naturale per lui pensare che fosse l’uomo a fare il primo passo, per cui gli era venuto spontaneo scusarsi, quasi fosse stato lui il seduttore.
Erano entrambi persone calme, ragionevoli, riflessive. Mai in vita loro avevano agito d’impulso, mai si erano lasciati trascinare da inopportune passioni… ma Rubina comprese che il bacio che si erano scambiati era stato decisamente qualcosa di più di un augurio di buon anno, e Procton, da scienziato qual era, ebbe una netta percezione dell’aumento della pressione, della respirazione, del battito cardiaco eccetera. Solo anni e anni di abitudine alla calma e alla compostezza gl’impedirono di lanciare un nitrito da giovane stallone.
Rimasero imbambolati a guardarsi, occhi negli occhi, per un tempo interminabile.
Vedendoli così immobili, gli altri presenti per un po’ rimasero ad osservarli, in attesa di una parola, un gesto, qualsiasi cosa; poi, visto che persistevano con l’inerzia e lo sguardo lesso, altre cose attirarono sguardi e attenzioni, e i due vennero dimenticati.
Svariato tempo dopo, quando finalmente ci si ricordò di loro, ci si accorse che i due si erano silenziosamente dileguati… e per tutto il resto della serata, e dei due giorni successivi, non fecero più la loro ricomparsa.
Re Vega era rimasto un po’ male vedendo che Maria era sembrata in attesa di un bacio da Alcor; comunque, la sua preferita era indubbiamente Jun, per cui si consolò rapidamente.
Assunse un’aria ammaliatrice e regolò lo sguardo sulle fascinose mezze luci; poi, colto da un improvviso pensiero si voltò di lato controllando rapidamente l’alito (no, poteva andare), riassunse la sua espressione da perverso seduttore, tornò a girarsi verso la regina del suo cuore, che seduta accanto a lui stava sorseggiando con grazia il vino dal calice…
Tetsuya aveva sopportato fin troppo.
Non era certo un uomo dai forti istinti romantici, per cui lui per primo si sorprese di quello che stava facendo… sta di fatto che s’alzò di scatto, afferrò Jun per un braccio, la trascinò sotto al vischio e la baciò sotto gli occhi dell’attonito Re Vega.
Jun impiegò qualche secondo per riprendere fiato: a dirla proprio tutta, più che di venir baciata aveva avuto l’impressione di essere stata marchiata a fuoco, lo spirito di Tetsuya era stato un po’ quello di chi conficca la bandierina nel terreno per segnare la sua proprietà; ma andava bene lo stesso, quel suo ruvidissimo compagno si era lasciato andare e lei ora sentiva il cuore scoppiarle di felicità.
Gli gettò le braccia al collo mentre lui assumeva quell’espressione beata – e vagamente imbecilloide – del maschio irrecuperabilmente innamorato.
Re Vega rimase immobile, incredulo: ma come? Lei… quel tizio sopracciglioso… ma allora…?
A fatica, Sua Maestà recuperò la mascella che aveva abbandonato a sé stessa; s’impose di riacquistare la sua ieratica compostezza, di non dar a vedere quanto l’accaduto gli bruciasse; ma la verità era che si sentiva ferito, deluso.
Ci aveva contato tanto… e invece… Niente bacio di mezzanotte.
Era un’ingiustizia…
Fu allora che il Cielo rispose alla sua accorata disperazione.
Qualcuno scivolò alle sue spalle; venne abbrancato e fatto piroettare su sé stesso. Due mani l’afferrarono per la testa tirandolo in basso, e subito due labbra s’incollarono alle sue in un interminabile bacio-bostick con romanticissimo schiocco finale.
Re Vega barcollò, senza fiato; davanti a lui, ciglia sfarfallanti e ampio sorriso supersexy, Hara lo sogguardava con occhio concupiscente.
Lui si sentì mancare: allo sconvolgimento da apnea prolungata s’era aggiunto un disgusto per nulla galante. Approfittando della sua momentanea defaillance, lei lo pilotò verso una poltrona e con una spintarella ve lo fece sprofondare; accomodò poi sulle sue ginocchia il proprio quintale abbondante di curve procaci, impedendogli oltretutto con il proprio dolce peso qualsiasi via di fuga.
Lui avrebbe voluto protestare fieramente, ma era soffocato dall’indignazione, dalla collera e pure dal decimo di tonnellata che gli gravava addosso.
Mezzo minuto dopo, i presenti poterono godersi lo spettacolo di Re Vega, immobilizzato e furente, mentre Hara gli arricciava la barba attorcigliandosela sulle ditone a salsiccia; il tutto, mentre gli tubava con voce da sirena carinerie tipo “il mio puffettino”, ed altri consimili epiteti.
Alla sua destra, Barendos.
Alla sua sinistra, Dantus.
Alle sue spalle, pericolosamente vicino, il vischio brillava alle luci delle candele.
Non c’era più scampo, ormai era in trappola… nessuno sarebbe venuto a salvarla, e purtroppo quei due non sembravano voler considerare un “no” come una risposta valida.
Quando l’educazione e la civiltà non possono nulla, purtroppo resta solo la violenza; così almeno la pensava Actarus.
Violenza… contro quei due colossi…?
Se anche la violenza non è possibile, c’è sempre la fuga, si disse improvvisamente lei.
Vide i suoi due persecutori torreggiare su di lei, pronti ad abbrancarla; con uno scatto disperato, Venusia s’infilò in mezzo a loro, sgusciando lontano dai loro artigli e finendo dritta dritta nelle braccia di Hydargos, che stava per l’appunto facendosi avanti per reclamare i propri diritti.
Una mente femminile avrebbe sicuramente compreso il dramma dell’infelice Venusia; disgraziatamente, ad una lucida mente maschile (e veghiana, per giunta) l’accaduto non poteva che significare una cosa e una sola: lei aveva desiderato manifestare la sua scelta, e il fortunato mortale era Hydargos.
Musi lunghi e mani dietro la schiena, Dantus e Barendos si fecero da parte mugugnando, mentre il loro trionfante rivale con gentile fermezza conduceva la sventurata Venusia verso il fatale vischio.
È un incubo, pensò lei, atterrita.
Conosceva abbastanza bene Hydargos da sapere che lui avrebbe considerato il bacio unicamente come un preludio ad un sostanzioso dopo; e non resse.
Quel che è troppo, è troppo.
Mani adunche si protesero verso di lei, pronte a ghermirla… Venusia fu improvvisamente cosciente del lieve peso che le gravava nella tasca del vestito. Il teletrasportatore istantaneo…!
Afferrarlo, schiacciare il pulsante e scomparire fu un tutt’uno… e le mani adunche artigliarono l’aria.
Epilogo primo – anno nuovo, vita nuova
Tutto scomparve per poi riapparire un istante dopo: ma attorno a lei non vi erano più i finestroni in plastivetro e le pareti metalliche della base Skarmoon, bensì le pareti altrettanto metalliche e il finestrone altrettanto in plastivetro della cabina personale del capitano dell’Alkadia.
In piedi a pochi passi da lei, Harlock l’osservava con evidente piacere. Se era sorpreso nel vedersela improvvisamente apparire accanto, non lo diede affatto a vedere: – Buon anno.
Incredula, Venusia si guardò rapidamente attorno come per assicurarsi di essere proprio dove le sembrava di essere: – Harlock… ma cosa…?
– Il teletrasportatore ha funzionato, come vedi – sorrise lui – Pronta per un viaggio tra le stelle?
– Un…? Oh – Venusia ricordò improvvisamente qualcosa d’importante: – Harlock, non ho il mio bagaglio, con me!
Lui versò del vino in due coppe: – Mi spiace, siamo troppo distanti dalla Terra perché tu possa recuperare le tue valigie.
– Ma come faccio? Non ho niente, a parte questo vestito che ho addosso!
Harlock le tese un calice: – Quel vestito è anche troppo, credimi…
Stavo pensando allo spazzolino da denti, pensò Venusia; ma ovviamente si guardò bene dal parlarne.
Epilogo secondo – brindisi
Tre uomini sedevano ingrugniti attorno al tavolo.
– La donna che volevo non mi ha voluto – disse Hydargos.
– La donna che mi voleva non mi ha avuto – disse Actarus.
– Le due donne che mi volevano non mi hanno avuto – disse Alcor.
Restarono in silenzio un altro poco; poi Hydargos s’alzò, andò a prendere una bottiglia e tre bicchieri e con mano fermissima versò il liquore ai suoi compagni di sventura.
Actarus era astemio, la bevanda più alcolica che avesse bevuto negli ultimi tempi era stato uno sciroppo medicinale; tuttavia non protestò, in quel momento sentiva un gran bisogno di bere un goccio.
Hydargos alzò il bicchiere: – Alle donne.
Alcor scambiò un’occhiata con Actarus e aggiunse: – Alle donne. E alla libertà.
Hydargos considerò la cosa, e annuì. Indubbiamente, essere scapolo aveva i suoi lati positivi, e gli bastava pensare a Gandal per essere ancora più convinto di questo.
Actarus bevette a piccoli sorsi il suo liquore: gli pareva fortissimo, sentiva la gola bruciare, ma inspiegabilmente in quel momento aveva bisogno di qualcosa ad alta gradazione alcolica… almeno una quarantina di gradi.
In vita sua, aveva affrontato impavido mostri alieni e stormi di dischi volanti, aveva rischiato la morte senza battere ciglio, aveva sempre mantenuto il più totale autocontrollo anche nel combattimento più feroce; coraggio e freddezza davanti al pericolo erano sempre state le sue principali doti di combattente.
L’essersi trovato ad un pelo dal venire invischiato in un impegno matrimoniale l’aveva a dir poco stroncato.
Con la mano che gli tremava leggermente, buttò giù il resto del liquore, tossì e ne desiderò ancora. Se mai aveva avuto bisogno di farsi una sbornia, bene: il momento era arrivato.
Accanto a lui, Alcor stava cercando disperatamente di non pensare a cosa sarebbe successo quando si sarebbe trovato di nuovo sulla Terra, in balia delle due gentildonne che aveva testé snobbato.
Hydargos, che avendo visti infranti i suoi romantici sogni si sentiva fortemente depresso, vuotò diligentemente il suo bicchiere prima di riprendere in mano la bottiglia: – Per caso qualcuno vuole un altro goccio?
S’era aspettato due rifiuti; si ritrovò invece due bicchieri prontamente tesi.
Versò il liquore, brindarono e bevvero, sentendosi improvvisamente più sereni, più leggeri, più felici… ci voleva senz’altro un altro giro.
Qualche bottiglia dopo, abbracciati come fratelli, i tre dormivano saporitamente quel sonno profondo che precede generalmente i peggiori doposbronza. Con ogni probabilità, avrebbero cominciato l’anno nuovo con un’emicrania potente…
Ma sarebbe stato l’indomani, e l’indomani sarebbe stato un altro anno.
Epilogo terzo – fuochi d’artificio
Il visetto di Mizar parve allungarsi: – Ecco cos’abbiamo dimenticato… i petardi!
– Petardi? – chiese Zuril, sorpreso.
– I petardi per il capodanno! – Mizar aveva la voce che gli tremava dalla delusione – Noi facciamo sempre scoppiare dei fuochi d’artificio, è di buon augurio! Ci vorrebbe almeno un botto, uno solo!
– Se proprio volete un botto – intervenne cupamente Re Vega, sogguardando Hara che, in piedi sul tavolo, eseguiva davanti a lui lascive danze amorose – se ci tenete, posso far esplodere una testata nucleare. Non è un problema, anzi.
Mizar aveva ormai le lacrime agli occhi: il capodanno era sciupato, irrimediabilmente sciupato… quel che era peggio, nessuno dei presenti sembrava farvi particolarmente caso. A nessuno importava…
– Vediamo che si può fare – disse Zuril, incoraggiante: aveva un figlio anche lui, capiva i bambini. Si mise a tracolla lo scanner e mostrò a Mizar una delle crocchette verde menta fluo di lady Gandal – Adesso ti faccio vedere cos’ho scoperto.
Scagliò con forza la crocchetta contro una parete: un tremendo boato, una nuvola di fumo puzzolente e miriadi di scintille multicolori piovvero a cascata nella stanza. Mizar rimase a bocca aperta: era un fuoco artificiale meraviglioso, coloratissimo!
– Crocchette pirotecniche – disse Zuril soddisfatto – L’ultima creazione culinaria della nostra chef preferita. Una variazione sul tema delle polpette esplosive.
– Ma… ma è bellissimo! – esclamò festante Mizar – Posso tirarne una anch’io?
– Non qui! – gridarono all’unisono i presenti.
Non che avessero torto: la nuvola di fumo pestilenziale si era diradata, condensandosi in una sorta di residuato grasso e nero che aveva preso a cadere sul pavimento.
Zuril afferrò il vassoio con le crocchette e prese Mizar per mano: – Che ne dici di andarne a tirare qualcuna in un posto adatto?
– Vuoi dire un posto sicuro? – chiese Gandal, facendosi avanti interessato.
Zuril sorrise, l’aria dello squalo che ha adocchiato il bagnante cicciotto: – Ho detto un posto adatto.
Gandal ghignò a sua volta: – Non dirmi che stai pensando quello che penso io.
Imbronciati, furiosi per essere andati in bianco pure la notte di Capodanno, Dantus e Barendos sedevano nell’alloggio di quest’ultimo, intenti a consolarsi con una buona bottiglia.
Trasalirono sentendo un lieve rumore, come un qualcosa che venisse segato; poi, con uno schianto improvviso, la grata della presa d’aria venne scaraventata in mezzo alla stanza.
I due balzarono in piedi, allarmati, e proprio allora videro un oggetto oblungo, d’un osceno verde, piombare giù dalla grata divelta e cadere in mezzo alla stanza.
BA-WOOOM!!!
Scintille multicolori piovvero ovunque, una nuvola nera e puzzolentissima si diffuse nella stanza, lasciandoli senza fiato. Anneriti e semiasfissiati, i due corsero alla porta e tentarono di aprirla: niente. Per un qualche ignoto disegno del destino, l’uscita era bloccata.
Un nuovo ordigno piombò nella stanza, poi un altro e un altro…
BA-WOOOM!!! BA-WOOOM!!! BA-WOOOM!!!
– Siete sicuri che buttandole qui dentro non facciamo danni? – chiese Mizar, che si stava divertendo come non mai a far esplodere le crocchette in quel condotto che, gli avevano assicurato, “era solo una vecchia conduttura che non serviva più a niente”.
– Nessun danno – asserì Zuril.
– Puoi lanciare tutte le crocchette che vuoi – aggiunse Gandal.
– Perché non fai un bel lancio multiplo? – suggerì Zuril.
– Cosa…? – Mizar parve considerare l’idea – Vuoi dire… lanciarne più di una?
– Non essere riduttivo, ragazzo – esclamò lo scienziato – Fai le cose in grande. Lanciale tutte.
Completamente ricoperti di uno strato di spessa schifezza grassa e nera, accecati e semisoffocati dal fumo che ammorbava l’aria, ustionati dalle scintille, Dantus e Barendos guardarono allarmati la presa d’aria da cui erano piovute le bombe – perché dovevano essere bombe, non c’era altra spiegazione.
Al momento sembrava che tutto fosse tornato calmo… che fosse finita…?
Forse…?
Fu proprio allora che un intero grappolo di quelle dannate pallottole verdi piombò giù per il condotto andando a finire sul pavimento.
Fu un botto fenomenale, che l’intera Skarmoon dovette sentire.
Mizar batté le mani, felice: l’anno cominciava sotto i migliori auspici.
Con grande nonchalance, Zuril si fece scivolare in tasca il telecomando appositamente modificato con cui aveva bloccato da lontano la porta dell’alloggio di Barendos.
Gandal scambiò un’occhiata con il collega: che quei due siano morti?
Ma va’… solo un po’ malconci.
Una cosa però era certa: per loro, quell’ultimo dell’anno sarebbe stato memorabile.
Sentendo quel po’ po’ di esplosione, Rigel si ricordò improvvisamente che ormai l’anno nuovo era iniziato, e subito battè i pugni sulla tavola per richiamare l’attenzione generale: – Non abbiamo nemmeno fatto un canto d’auguri!
– Ma che peccato…! – ringhiò Tetsuya, che aveva sperato d’essersela cavata almeno per una volta.
– Avanti, tutti in coro! – era un tono che non ammetteva repliche, per cui i presenti dovettero disporsi a sciogliere lieti canti; poi Rigel attaccò a stonare a tutta voce: – Uì uish iù a merri crismas…
Sayaka non resistette. Quell’inglese maccheronico era troppo, per lei che aveva trascorso anni in America, per cui attaccò a cantare ancora più forte: – We wish you a merry Christmas…
A quel punto anche gli altri si unirono al coro: – We wish you a merry Christmas…
Proprio allora rientrarono Mizar e i due comandanti di Vega; e Zuril, che aveva studiato usi e tradizioni terrestri, non resistette a sua volta alla tentazione:
– …And happy new year! – cantò a gran voce, soddisfatto.
Perchè, quando l’animo è lieto, anche un veghiano può sentirsi un canto sgorgare nel cuore… soprattutto, se ha appena avuto l’occasione di mandare i suoi nemici in ospedale.
Edited by H. Aster - 2/7/2017, 12:18