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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 6/7/2009, 09:46     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Micro-sciocchezzuola estiva.


GRAVI DISSENSI

– Ascolta, noi siamo persone ragionevoli – disse Gandal.
– Certo – rispose Hydargos.
– Non ha senso che stiamo qui a litigare.
– Vero. I litigi tra di noi favoriscono solo i nostri avversari.
– Sono felice che tu la pensi così. Dobbiamo restare uniti, se vogliamo raggiungere il nostro comune obiettivo.
– Parole sante.
Tacquero entrambi, guardandosi con aria interrogativa.
– Allora… è tutto a posto? Pace? – chiese Gandal.
– Ma naturale! – assicurò Hydargos – Io non ho mai voluto litigare con te!
– Mi fa piacere sentirtelo dire – rispose Gandal, con un gran sorriso; poi di colpo si rabbuiò ed esplose: – Per cui adesso restituiscimi immediatamente il mio giornalino!
– Mai!!! – gridò Hydargos, celando il fumetto dietro la propria schiena.


Zuril li guardò e scosse il capo.
Patetici. Due uomini fatti, due esseri presumibilmente adulti, ridotti a bisticciare per… per cosa, poi? Un po’ di carta stampata… due Comandanti di Vega intenti a disputare come due bambini…
Zuril sospirò. Era ben triste per uno scienziato della sua levatura essere costretto a vivere gomito a gomito con quei due immaturi… che dico? subnormali.
Lanciò loro uno sguardo sprezzante, ma i due, troppo occupati ad insultarsi reciprocamente, non vi fecero caso. Allora Zuril alzò l’occhio al cielo in cerca di comprensione dall’empireo e tornò alla sua occupazione.
Non voleva avere più a che fare con quei suoi ridicoli colleghi. Per sempre.
Questo significava una cosa sola…
Non avrebbe mai più permesso loro di giocare con il suo meccano.




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view post Posted on 2/9/2009, 11:49     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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NOVE ORE E MEZZA
(Sex and the galaxy 2)


– Non credo d’aver capito bene – disse Re Vega.
Zuril omise il “non mi meraviglia, Maestà” e rispose, disponendosi a portare molta pazienza: – Sto parlando d’una nuova arma di mia invenzione.
– Quale arma? – sbottò Re Vega – Se hai detto che non serve a sterminare!
Zuril prese fiato, imponendosi di star calmo: – Si tratta di un tipo di attacco diverso. Non intendo uccidere Duke Fleed…
– Perché? – chiese accorato Re Vega, raccapricciato all’idea di risparmiare qualcuno, men che meno l’odiato nemico.
– Perché vorrei prenderlo vivo, in modo da condizionarlo mentalmente e poterlo usare per pilotare Goldrake.
Re Vega ci pensò su. Queste novità di sconfiggere il nemico senza trucidarlo non lo convincevano: – Siamo sicuri che la cosa funzioni?
Una simile insinuazione su uno dei suoi piani, notoriamente accuratissimi e perfetti, in genere avrebbe fatto ululare Zuril come un lupo della steppa; ostentando un autocontrollo ammirevole da pokerista di professione, lo scienziato represse i ruggiti e gli improperi e passò oltre. Nemmeno rispose ad una simile subdola accusa: – Il raggio che ho inventato agisce direttamente a livello cerebrale – ricordò il livello cerebrale del suo interlocutore e decise di semplificare le spiegazioni: – Insomma, chi ne è colpito viene trasformato in un individuo pavido e vile. Una volta sotto l’effetto del raggio, Duke Fleed non sarà assolutamente in grado di affrontare le armate di Vega… a dire il vero, non riuscirà nemmeno a salire su Goldrake. Troppa fifa.
Re Vega rifletté, tiracchiandosi pensosamente la barba violacea; si girò poi verso Gandal e Hydargos, rimasti in disparte, una volta tanto silenziosi: – Voi credete che un simile piano possa funzionare?
I due si scambiarono un’occhiata prima di rispondere.
– Potremmo prendere Duke Fleed vivo – osservò infine Gandal.
– Dubito che in altri modi ci si possa riuscire altrettanto facilmente – gli fece eco Hydargos.
Re Vega esitò ancora: niente da fare, per lui non c’era nulla d’interessante in quell’attacco incruento.
– Una volta colpito dal raggio, almeno Duke Fleed soffrirà? – s’informò speranzosamente.
– Sarà molto spaventato – rispose Gandal.
Re Vega si rabbuiò: – Sto parlando di sofferenza fisica.
– No, non soffrir…ouch! – colpito da una gomitata al fegato, Gandal non poté proseguire, troppo occupato a trattenere i conati di vomito che avevano preso a squassargli le viscere.
– Certo che soffrirà! – s’interpose in fretta Zuril, spintonando da parte il suo incauto collega – Starà malissimo. Un tormento indicibile.
– È già qualcosa – ammise Re Vega, parzialmente rasserenato – Peccato solo essere costretti a risparmiarlo…
– Maestà – intervenne inaspettatamente Hydargos – Una volta che sarà in nostro potere, voi potrete farlo torturare a vostro piacimento.
Sua Maestà s’illuminò in volto, mentre Zuril guardava con rispetto quel suo collega capace, qualche volta, di autentici lampi di genio.
– Oh, certo, che idea graziosa! – esclamò gioiosamente il sovrano – Quando Duke Fleed non sarà occupato a servirci, potremo infliggergli raffinati tormenti!
– Allora possiamo procedere ad eseguire il piano, Maestà? – esclamò Zuril, deciso a cogliere la palla al balzo.
– Sì, sì… cioè, non subito – gli tarpò le ali Re Vega, che voleva far capire a quel suo ministro CHI era che prendeva le decisioni – Prima voglio visionare il progetto per intero.
Ma se non ne capirete nulla!, si trattenne dall’esclamare Zuril.
– Se proprio ci tenete, Maestà – fu ciò che invece disse.
– Voglio controllare io stesso ogni cosa, punto per punto – aggiunse altezzosamente il Sire.
Vabbè, perdiamo tempo… – Ma certo, Maestà.
– Trasferisci l’intero progetto sul mio computer personale – concluse il sovrano.
– Benissimo, Maestà – sospirò Zuril, scambiando con Hydargos un’occhiata colma di significato.
Alle loro spalle, Gandal aveva finalmente posto un freno ai conati di vomito forza sette che gli avevano testé scompigliato lo stomaco.
Ancora più indietro, immobili, silenziosi e dimenticati da tutti, Dantus e Barendos non avevano perso una sillaba di quanto era stato detto: apparivano calmi e serafici, due aureole al neon che baluginavano sui loro cocuzzoli mentre sulle loro spalle si poteva scorgere una coppia di candide alucce.
Se ci si fosse presi la briga di sottoporre i due comandanti ad un esame più approfondito, ci si sarebbe però accorti che le alucce non erano poi così candide: a dirla tutta, tiravano decisamente al fuliggine intenso.


Sua Maestà era profondamente impegnato nello studio del progetto di Zuril (leggi: pennichella davanti al monitor), quando un cicalino annunciò visite; Re Vega ebbe giusto il tempo di tirarsi su ed assumere un’aria molto concentrata prima che Barendos facesse il suo ingresso.
Il sovrano aveva molta simpatia per Barendos, e gradiva moltissimo la sua conversazione leggera mista ad una buona dose di sperticata adulazione; piantare lì il suo lavoro di controllo (Tutti quei dannati numeri! Quelle sigle infernali!), fu per lui affare d’un istante. Un paio di minuti dopo, sovrano e generale si erano trasferiti nel regale soggiorno per bersi un bicchierino e scambiare quattro chiacchiere, lasciando il computer incustodito ed in balia di Dantus, che scivolato silenziosamente nella stanza, si era messo subito al lavoro.
Se il ministro aveva sperato di trovarsi davanti un progettino facile facile, fu subito deluso: Zuril aveva lavorato con coscienza, e il suo lavoro era assai complesso, per non dire totalmente incomprensibile. Almeno per Dantus.
Spazientito, il ministro cominciò a modificare i dati che gli scorrevano davanti: aveva pensato di boicottare il progetto creando apposta qualcosa di catastrofico, ma era evidente che non sarebbe stato possibile fare un qualcosa di accurato. Una modifica a casaccio non era proprio il massimo, ma lui non aveva la competenza necessaria per fare un lavoretto di fino. In ogni caso, cambia una cifra qua, altera un componente là, qualcosa sarebbe pur successo!
Dantus terminò in fretta la sua opera, defilandosi giusto in tempo per evitare d’essere scorto da Sua Maestà e Barendos, che stavano facendo ritorno nello studio; poi il sovrano congedò il suo generale (“Sono molto occupato, ora”) e si sedette nuovamente al computer.
Una semplice occhiata a quelle righe di dati gli fece venire la nausea.
Al diavolo! Non era un dannato scienziato, lui! Controllare quella roba era quanto di più noioso… però aveva dovuto farlo, se non altro per dare una lezione a quel suo presuntuoso ministro, che presentato un progetto s’era aspettato di vederselo approvare subito.
Però, non aveva nessun desiderio di continuare a controllare quella roba. Ne aveva abbastanza.
Del resto, Zuril aveva detto che il piano era perfetto; lui, Re Vega, l’aveva potuto esaminare. L’onore era salvo, nessuno avrebbe saputo che in realtà s’era fatto un bel pisolino…
Re Vega chiuse il file, lo allegò ad una mail contenente un semplice ordine di esecuzione (“FATELO!!!”) e inviò il tutto alla Sezione Scientifica.
Si stiracchiò allungandosi contro lo schienale: era bello aver concluso un lavoro.


– Tutto bene? – chiese Barendos, affiancandosi al collega.
– Certo, però non chiedermi cosa succederà quando proveranno quel raggio – rispose Dantus.
– Vuoi farmi una sorpresa?
– A dire il vero, sarà una sorpresa anche per me, visto che non ho la più pallida idea di che succederà – spiegò Dantus – In ogni caso, di una cosa siamo sicuri: sarà un disastro.
– A proposito – aggiunse Barendos – t’informo che sei volontario per venire con me in missione su Ruby. È meglio che ci teniamo distanti da Skarmoon mentre i nostri colleghi dovranno vedersela con il raggio che non funziona, non ti pare?


– Spiegami ancora una volta perché proprio noi – brontolò Gandal, al comando di un minidisco.
– Perché siamo stati nominati entrambi volontari per questa missione – rispose a zanne strette Zuril, seduto accanto a lui al posto del secondo pilota.
– Io non mi ricordo di essermi offerto.
– Perché, io sì? – Zuril controllò per l’ennesima volta il suo monitor: il raggio era operativo, bastava solo inquadrare il bersaglio e fare fuoco – Se posso azzardare un’ipotesi, qualcuno ci ha messi nei guai.
– Mi pare evidente! – intervenne bruscamente lady Gandal.
– Ci mancavi giusto tu! – sbottò suo marito – Non avevamo abbastanza rogne?
– Non cominciate a litigare! – ringhiò Zuril – Abbiamo già fin troppi problemi senza che vi ci mettiate voi due… Gandal, puoi smetterla di far oscillare il disco a questo modo?
Gandal non rispose, troppo occupato com’era a cercar di mantenere stabile il piccolo UFO, che aveva preso a sbandare paurosamente.
– Insomma, piantala! – esplose Zuril, che non ne poteva più di vedersi ballare davanti agli occhi il monitor del suo computer.
– Ho da darti una notizia – grugnì Gandal.
– Cioè?
– Il disco è guasto.
– Guasto, in che senso? – chiese Zuril, che era un tipo preciso.
– GUASTO? – ululò lady Gandal – Vuoi dire che precipiteremo?
– Guasto, nel senso che gli stabilizzatori non funzionano – sbottò Gandal – Non so per quanto tempo potrò controllare la rotta...


– Davvero, sei riuscito a fargli prendere un disco in avaria? – giubilò Dantus.
– È bastato fare una piccola sostituzione dell’ultimo momento – spiegò Barendos, tutto modesto.
– Sei un genio!
– Con un po’ di fortuna – continuò Barendos, versando da bere a sé e al collega – quei due idioti si schianteranno da qualche parte sulla Terra e noi ce ne saremo liberati per sempre.
– Peccato che non abbiano portato con loro anche Hydargos…
Barendos fece tintinnare il calice contro quello di Dantus: – Prima o poi riusciremo a sbarazzarci anche di lui, stai tranquillo.


Zuril lavorava alacremente sul suo computer di bordo, cercando di analizzare lo stato del disco. Quanto a Gandal, stava lottando con tutte le sue forze per mantenere il più possibile la rotta che aveva impostato, mentre il disco sbandava bruscamente a destra e a sinistra; agghiacciata dal terrore, lady Gandal si guardava dal farsi vedere, del che le erano tutti molto grati. Come si suol dire, non tutto il male vien per nuocere.
– Ci avranno senz’altro segnalati con il loro radar – ringhiò Gandal, che continuava a lottare col disco che pareva intenzionato a dare il via ad una sorta di danza selvaggia – Se saremo attaccati da quel dannato robot, saremo praticamente morti.
– Preferiresti andare da Re Vega e dirgli che la missione è stata un fallimento? – chiese Zuril, sempre continuando il suo esame.
– Preferirei scomparire nello spazio, piuttosto – brontolò Gandal. Era riuscito a raggiungere una quota sufficientemente bassa da far sì che il radar del laboratorio non fosse più in grado d’intercettarli; purtroppo, a quella altezza sarebbe stato essenziale poter manovrare perfettamente il proprio mezzo, e non trovarsi a dover lottare con un disco affetto dal Ballo di S. Vito. In pratica, il pericolo di andare ad incocciare in un albero, un traliccio o qualcosa di consimile era un qualcosa di dannatamente reale.
– Sembrerebbe un problema di software, più che un guasto meccanico – commentò Zuril, assorto – Basterebbe poter atterrare da qualche parte, e io potrei…
– Atterrare qui? – Gandal lo guardò come si guarda un perfetto idiota – Siamo ad un tiro di sasso da quel dannato laboratorio, col rischio che da un momento all’altro salti fuori Goldrake con le sue lame rotanti e i suoi apriscatole elettronici, e tu vuoi atterrare?
– Ci basterebbe colpire Goldrake con il mio raggio, e Duke Fleed avrebbe da pensare a ben altro che a farci a fette – rispose imperturbabile Zuril.
Un attimo d’attonito silenzio.
– Zuril.
– Che c’è?
– Eccolo là.
– Chi? Duke Fleed? – Zuril guardò in alto, cercando la ben nota sagoma di Goldrake; il suo collega gli batté su una spalla e poi indicò un punto a terra, avanti a loro… due figure a cavallo che galoppavano nel bel mezzo d’un prato.

- Continua -

Prossimamente: Actarus come non l'avete mai visto.
 
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view post Posted on 6/9/2009, 22:37     +1   -1
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Seconda puntata.
Poi, non ditemi che non vi avevo avvertiti...



L’UFO svolazzava mantenendo una traiettoria decisamente zigzagante, un po’ come se il pilota fosse stato alticcio, per non dire decisamente sbronzo.
– Actarus! Quello è un disco di Vega! – urlò Venusia.
– Al laboratorio! – urlò Actarus – Subito!
Spronarono i cavalli, mentre il disco, oscillando pericolosamente, si avvicinava sempre più, sempre più…


– Fa’ in fretta! – urlò Gandal.
– Ci siamo, quasi – rispose Zuril, gli occhi fissi sul suo visore.
– Non so quanto potrò resistere… – gemette Gandal, che miracolosamente stava ancora riuscendo a governare il disco.
– Ora! – Zuril premette un pulsante e un fascio di luce si sprigionò dal disco investendo in pieno Actarus. Lo stallone s’impennò e il giovane piombò a terra, tramortito.
– Colpito! – urlò Gandal; un secondo dopo urlò qualcosa di leggermente differente perché il disco era diventato completamente ingovernabile. Con un brusco balzo in avanti l’UFO accelerò sfrecciando a meno di un metro delle sommità degli alberi sottostanti.
Mentre il collega ululava, Zuril rimaneva invece pensieroso. Qualcosa non gli tornava.
Aveva sparato un raggio rosso… eppure, avrebbe dovuto essere azzurro.
Mah!


– Mio Dio! – Venusia balzò da cavallo e corse verso il compagno che giaceva inanimato al suolo – Actarus! Rispondimi!
Si chinò febbrilmente su di lui: sembrava svenuto, ma quel raggio l’aveva colpito in pieno… cosa gli avevano fatto, quei maledetti?


Il disco sfrecciava come una meteora, avvitandosi su sé stesso.
Aggrappato ai comandi ormai pressoché inutili, Gandal, agghiacciato dal terrore, non poteva far altro che riflettere sulla caducità umana e borbottare un qualcosa che avrebbero potuto essere celesti invocazioni; accanto a lui, concentratissimo, Zuril continuava a lavorare sul suo computer. Se solo quel maledetto disco fosse stato un poco fermo…
– Non puoi proprio fare nulla? – sbottò Zuril.
– I comandi non funzionano! – gemette Gandal, mentre l’UFO sfiorava un abete particolarmente alto e robusto – Non posso impedire questi scossoni perché il disco non risponde!
– Giustificazione sufficiente – e Zuril si tuffò ancora sul suo monitor.
– Ma che succede? – protestò lady Gandal facendo una delle sue improvvise comparse – Con tutti questi sobbalzi mi sta venendo la nausea!
– A me lo dici? – sbottò suo marito, il cui stomaco era sul punto di dare il via alla fase eruttiva.
– I comandi non funzionano – l’informò laconicamente Zuril – Se non riesco a riparare il guasto, temo che l’atterraggio sarà piuttosto brusco.
– Vuoi dire – strillò lei, la voce che s’era alzata d’un buon paio d’ottave – che potremo morire?
– Esattamente.
– Caspita! – gridò lady Gandal, che essendo appunto una gentildonna disse proprio “caspita” e non quel che normalmente si esclama in consimili casi.
Proprio in quel momento il disco si mise su un fianco, piombando in una pineta e passando tra un tronco e l’altro, schivando miracolosamente ogni ostacolo… un minimo errore, e lo schianto sarebbe stato inevitabile – e inevitato.
Lady Gandal era una fragile donna, romantica e gentile, e si comportò come le eroine dei romanzi antichi: svenne opportunamente, permettendo al marito di riprendere il controllo della situazione. Per quel che poteva fare con i comandi guasti, si capisce.
Il disco continuò la sua folle corsa tra i tronchi, uscendo finalmente allo scoperto: davanti a loro si aprivano vasti pascoli, e più in fondo sorgeva una fattoria. Il disco vi si diresse senza alcuna esitazione.


Appollaiato sulla sua solita postazione, Rigel sussultò aggrappandosi al suo cannocchiale: un UFO! Un vero UFO stava puntando nella sua direzione! Finalmente, anche lui avrebbe avuto il suo incontro ravvicinato!
– Evviva! – urlò, sbracciandosi oltre il parapetto – Gli spaziali! Venite, amici, venite! Evviva!
– Papà! – Mizar arrivò di corsa dall’orto – Non sporgerti così! È pericoloso!
– Sciocchezze, so quel che faccio! – Rigel sventolò festosamente una bandierina – Amici spaziali, avete il permesso di atterrare!
Il disco virò bruscamente, dirigendosi proprio verso la torretta su cui Rigel continuava a gesticolare; un rapidissimo passaggio del disco portò via un pezzo di parapetto di legno, e Rigel si ritrovò a spenzolare nel vuoto, appeso con una mano a quel che restava della ringhiera.
– PAPÀ!!! – Mizar era un ragazzo pratico, e aveva una certa esperienza in fatto di voli paterni. Si guardò in giro, cercando qualcosa con cui attutire la caduta che, lo sapeva per esperienza, sarebbe stata inevitabile – Papà, non muoverti di lì!
– E che, sono matto? – gemette Rigel.
Un sinistro scricchiolio segnalò che la situazione stava per precipitare.
Mizar vide finalmente quel che cercava; proprio allora, con uno schianto secco la ringhiera cedette. Abbandonato a sé stesso, Rigel piombò giù dalla torretta, finendo dritto su qualcosa di morbido.
– Sei salvo, papà! – gridò Mizar, felice.
Nonostante il terrore gli facesse vedere tante bollicine fosforescenti, Rigel guardò su cosa era caduto: il carretto, che Mizar aveva provvidenzialmente spostato sotto di lui.
Peccato che quel giorno non contenesse solito fieno…
Era colmo di letame.


Actarus si mise faticosamente a sedere.
– Ti senti bene? – chiese premurosamente Venusia.
Actarus si voltò a guardarla: i suoi occhi si fecero dapprima simili a due fanali abbaglianti, smorzandosi subito in mezze luci.
Lei lo esaminò in fretta: pallido, occhio torbido e fisso, respiro affannoso. Per sua esperienza, Venusia sapeva che in qualsiasi altro uomo giovane e sano tutto ciò poteva voler dire unicamente una cosa; per Actarus, invece, significava solo gastrite.
– Hai il tuo solito mal di stomaco – Venusia gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi – Andiamo a casa, che ti preparo il tuo intruglio.
Se avesse potuto parlare, Actarus le avrebbe detto di star benissimo, anzi, di non essersi mai sentito meglio in vita sua; disgraziatamente, le sue facoltà mentali non gli permettevano di comunicare. Per capirci, anche il semplice concetto “io Actarus, tu Venusia” era un po’ troppo per lui.
– Arf! – fu tutto ciò che riuscì a dire.
– …Arf…? – allibita, Venusia lo guardò meglio – Actarus, ma che ti prende?
Actarus non stava nemmeno a sentirla. In quel momento, lei non era Venusia, la sua amica di sempre, la compagna di tante avventure, la sua perenne, infelice innamorata. Per lui, era solo ed unicamente una femmina.
– Actarus, ti prego, parlami! – adesso Venusia era veramente preoccupata – Dimmi qualcosa!
Dire… perdere tempo a parlare…?
In quel momento, Actarus si sentiva un uomo d’azione. Parlare non gli pareva necessario, per cui agì.
Fu un attimo: l’afferrò per il polso, tirò e finirono entrambi in mezzo alle frasche.


Il disco piombò al suolo, strisciando sul campo e facendo volare grano e terra ovunque, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione che avrebbe fatto pronunciare al proprietario tante, colorite parole; lanciato nella sua pazza corsa, il disco si rialzò di qualche metro per poi piombare definitivamente nel boschetto poco distante, finendo dritto in un’intricata massa di rovi che lo avvolse mettendo finalmente un freno a quella folle corsa.
Annichilito, Gandal continuava a stringere le cloches, incredulo di essere ancora vivo ed intero; avrebbe voluto girarsi per controllare come stava il suo collega, ma in quel momento tutto quel che riusciva a fare era fissare il vuoto davanti a sé, là dove, per capirci, vedeva tanti minuscoli puntolini rossi che si agitavano follemente su un fondo nero.
– Oh, finalmente l’hai finita di far ballare il disco! – brontolò Zuril sempre chino sul suo lavoro – Chissà che ora non riesca a sistemare il software…
– …Gh…! – fu tutto ciò che riuscì ad articolare Gandal; ma Zuril non se ne accorse nemmeno.


– Peccato che Venusia si perda questo bellissimo pomeriggio – osservò Jun, mentre con Maria e Sayaka si recava sul prato davanti al ranch, dove erano stati posti alcuni lettini prendisole.
– Ma dov'è andata? – Sayaka distese su un lettino il suo asciugamano e si tolse il vestito, rimanendo in bikini fucsia mozzafiato.
– È fuori – Maria cominciò a cospargersi il solare sulla pelle, scoccando un’occhiata all’amica-rivale. Si sentiva molto più attraente lei, col suo costume turchese – a cavallo.
– Da sola? – chiese Jun, bellissima nel suo due pezzi bianco.
– Con mio fratello – rispose Maria.
– Oh-oh – Jun e Sayaka si sorrisero.
– Ma che avete capito? – rise Maria – È uscita con mio fratello, non con George Clooney! Cosa volete che le succeda?


Sotto le frasche ferveva una frenetica attività.


A fatica, Gandal si rimise in piedi: aveva ancora lo stomaco non in perfetto ordine, miriadi di puntolini continuavano a ballargli la samba davanti agli occhi, ma almeno cominciava ad essere nuovamente in grado di reagire.
Si voltò verso Zuril: concentratissimo, stava lavorando a pieno regime.
Guardò fuori: rami, ramaglie, spine. Erano letteralmente intrappolati in mezzo ad una specie di giungla.
– Cavolo! – non essendo una vera gentildonna come sua moglie, Gandal non disse esattamente “cavolo”… optò per un termine molto simile, ma di genere strettamente gergale.
– Che ti prende? – chiese Zuril, senza alzare l’occhio dal monitor.
– Ma hai visto dove siamo atterrati?
– Perché? – finalmente Zuril alzò la testa e si guardò svagatamene attorno – Siamo atterrati?
Gandal dovette recuperare la mascella e rimetterla al proprio abituale posto, prima di poter rispondere: – Certo che siamo atterrati… ma non ti sei accorto di quello che è successo?
– Io stavo lavorando – gli fece notare lo scienziato. Figuriamoci se, occupato com’era, aveva avuto il tempo di preoccuparsi anche di minutaglie come la guida del disco…
Per un attimo, Gandal provò l’irrefrenabile impulso di afferrare un qualsiasi oggetto, purché grosso, pesante e fortemente spigoloso, e scaraventarglielo sulla testa; lo frenò il pensiero che, concentrato com’era sul suo dannato computer, Zuril non se ne sarebbe nemmeno accorto.
Masticando termini invero poco gentili, Gandal decise di darsi da fare: era un uomo d’azione, lui. Mentre il cervellone era occupato con mouse e tastiera, lui avrebbe provveduto a liberare il loro mezzo.
Dovette aprire il portello d’emergenza posto sulla sommità del disco: si issò al di fuori e si guardò attorno, in modo da avere un chiaro quadro della situazione.
Il quadro fu appunto chiarissimo: erano nei guai. Tutt’attorno a loro, piante, spine, ramaglie. Un rovaio da far impallidire la Jungla Nera. Ammesso che Zuril fosse riuscito a riparare il software, con tutta quella vegetazione prendere quota sarebbe stato a dir poco problematico. Certo, spingendo la potenza al massimo magari ce l’avrebbero fatta, ma i motori non sarebbero stati particolarmente entusiasti della cosa.
– Zuril! – gridò Gandal.
– Ma cosa vuoi, ancora? – sbottò lo scienziato.
– Siamo nella m…! – e qui, ci spiace riferirlo, Gandal usò un termine di genere decisamente escrementizio.
– Siamo sprofondati in un letamaio? – chiese Zuril, che amava essere preciso.
– Ci mancherebbe anche quello!
– Non hai detto che siamo nella…
– È un modo di dire!!!
Seccatissimo, Zuril si alzò bruscamente dalla sua postazione, si issò fuori del disco e si guardò rapidamente attorno, prima di fissare in viso il collega: – Beh?
– Co-come “beh”? – Gandal allargò le braccia, quasi avesse voluto prendere a testimone il mondo attorno a sé, boschi, rovaio e spine compresi – Non vedi che siamo avviluppati in modo tale che il disco non potrà mai…
– E mi disturbi per una simile inezia? – sbottò Zuril, e non era proprio possibile udire alcuna sfumatura amichevole nella sua voce – Mentre io sono occupato col software… perché IO sto lavorando… TU puoi liberare il disco da questa sterpaglia.
– Sterpaglia… e mi chiami “sterpaglia” questa giungla… ma dove vai?
– Torno al mio lavoro, si capisce – Zuril scomparve all’interno del disco – Visto che non hai niente da fare, a quei rovi puoi pensarci tu.
– Ma certo, signore – rispose Gandal, alzando nel contempo il dito medio in un gesto invero poco signorile.
– Non farlo più! – gridò da dentro Zuril.
Mi becca sempre, ma come fa?
Con un sospiro, Gandal si guardò attorno.
Il rovaio era molto umido, doveva aver piovuto da poco… il rischio d’incendio era irrisorio, dunque.
Regolò al minimo la pistola a raggi e sparò contro i rovi più vicino a sé, spezzandoli. Con un calcio li gettò giù dal disco e riprese a sparare, spezzando un altro groviglio.


– Che ore sono? – Sayaka si sentiva troppo pigra per guardare persino l’orologio.
– Le quattro e un quarto – rispose Jun, voltandosi per esporre al sole la schiena.
– Più di un’ora che siamo qui – Sayaka sorrise verso Maria – E Venusia non torna…
– Conosci Actarus – Maria voltò una pagina della sua rivista – Si sarà fermato allo stagno per guardare i girini.


L’attività continuava, senza dare il minimo segno di voler cessare.


Gandal prese fiato: la parte superiore del disco era quasi del tutto libera.
Bene. Cominciamo a togliere le erbacce dalle fiancate.


– Cinque e venti – rispose Jun ad una precisa domanda di Sayaka.
Maria le guardò, sorrise e scosse il capo. No-no.
– Non ho detto niente – rise Sayaka.
– Ti ripeto che non conosci mio fratello – insisté Maria.
– Ha ragione, sai – Jun scosse il capo – Actarus è sempre stato il tipo che se ti porta a vedere le stelle, ti indica qual è l’Orsa Maggiore…
Sayaka rabbrividì. Orrore. Povera Venusia…!


Giustamente scocciati per quel trambusto che pareva non dovesse aver mai fine, un paio di scoiattoli si guardarono in cerca di reciproca solidarietà. Quegli stupidi umani… e proprio nella loro bella macchia di noccioli… Non c’è nessun riguardo per chi deve lavorare per raccogliersi le scorte per l’inverno!


Gandal piombò a sedere sul disco.
Era sfinito. Non ce la faceva più.
Ed era appena a metà lavoro, o poco più…


– Ciao, ragazze! – raccapricciante nel suo costumone arancio fluo a bolli gialli con pareo a perline e occhiali da sole coordinati e tempestati di strass, Hara lasciò cadere il suo abbondante quintale sul lettino rimasto libero – Che giornata stupenda!
Maria afferrò il suo tubetto di solare per nasconderlo nella borsa, ma non fu abbastanza rapida.
– Grazie! – Hara lo afferrò e cominciò a strizzarlo in modo che uscisse fino all’ultima molecola – Avevo giusto dimenticato a casa la crema.
– Succede – rispose Sayaka.
– A te, sempre – aggiunse Jun; ma mentalmente.
Dopo essersi spalmata l’ultima manata di crema, Hara si distese voluttuosamente sul suo lettino: – E Venusia?
– Non c’è – rispose Jun, raccogliendo il contorto rimasuglio che fino a poco prima era stato un tubetto mezzo pieno – È fuori a cavallo.
– Con Actarus – specificò Sayaka.
Hara scosse il capo. Uscire con Actarus era il classico avvenimento che non aggiunge proprio nulla al bagaglio d’esperienza di vita di una giovane donna. Una canasta con la vecchia zia sarebbe stata più eccitante… Povera Venusia, chissà come si stava annoiando.


Trattenendo il respiro, Venusia riuscì a scivolare silenziosamente fuori dei cespugli, riinfilandosi alla bell’e meglio jeans e maglietta. In mezzo alle frasche tutto taceva, ma non era dato sapere quanto questo stato di calma sarebbe durato.
Un fruscio…
Oh, no!!! Non ancora!
Venusia s’allontanò di corsa, puntando verso il suo cavallo che brucava pacifico poco lontano; balzare in sella, spronare il riluttante destriero e farlo partire al galoppo fu un tutt’uno.
Proprio allora, dalla verzura emerse Actarus, guardandosi febbrilmente attorno: ma dov’era finita? Perché se ne era andata? Lui detestava lasciare le cose a metà…

- Continua -
Prossimamente: nuove prodezze di Actarus
 
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view post Posted on 8/9/2009, 08:06     +1   -1
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Actarus colpisce ancora!


Barcollando, Gandal mosse qualche passo sul terreno, appoggiandosi con le spalle ad un albero.
Guardò il disco: era praticamente libero.
Il rovaio era scomparso: da quella persona ordinata che era, Gandal aveva gettato tutte le frasche in un mucchio che poi aveva disintegrato.
Stravolto, il comandante di Vega si lasciò scivolare a terra, rimanendo seduto, la schiena appoggiata al tronco.


– Corri, Jolly! Vai! – Venusia spronava la sua giumenta, tenendo d’occhio la sagoma lontana di Actarus che pareva avvicinarsi sempre più.
Per quanto Jolly fosse veloce, purtroppo Actarus quel giorno aveva scelto Diablo, un morello dal pessimo carattere ma che tra tutti i cavalli di Rigel era il miglior corridore. Prima o poi sarebbe riuscito a raggiungerla… e lei non voleva proprio pensare a che cosa sarebbe successo ancora…
Davanti a Venusia, si apriva un vasto campo di grano maturo (giusto: che cos’era quella specie di solco che lo devastava?). Sulla sinistra, un boschetto.
Restare in campo aperto avendo alle spalle un velocista come Diablo, significava farsi raggiungere; entrare nel boschetto era probabilmente l’idea migliore.
Venusia fece voltare bruscamente la sua giumenta, spingendola verso i primi alberi.


Oh, finalmente…!
Zuril controllò per l’ennesima volta il suo lavoro, schermata per schermata: a quanto pareva, ce l’aveva fatta. Aveva eliminato il virus che infettava il computer del disco ed era riuscito a ripristinare l’intero sistema.
Un ultimo controllino, così, tanto per essere proprio sicuri…


Gandal si rialzò lentamente, raddrizzando la schiena: c’era solo da sperare che il cervellone ce l’avesse fatta a sistemare tutto, e che si potesse finalmente far rotta per Skarmoon.
Un improvviso rumor di frasche, tonfi sordi come di zoccoli…
I cespugli si aprirono, e Venusia fece improvvisamente la sua comparsa. Era in sella ad un cavallo, aveva i capelli arruffati, i vestiti strappati e in disordine ed era agitata come se fosse stata inseguita da un King Gori particolarmente nervoso.
Gandal fece per aprir bocca, ma naturalmente fu sua moglie a prendere in mano la situazione: – Venusia! Cara! Ma che ti succede?
Venusia balzò giù di sella e le corse incontro: – Ti prego, salvami!
Lady Gandal non era donna da perdersi in chiacchiere: vista l’amica nei guai, aprì il portello del disco e la fece subito salire.
Se Zuril si stupì vedendo entrare nel disco anche Venusia, che teoricamente era una sua nemica giurata, non lo diede proprio a vedere.
– Dobbiamo partire al più presto! – esclamò lady Gandal – A che punto sei con le riparazioni?
– Il disco è in perfetto stato – Zuril guardò Venusia con aria interrogativa – Mi sono perso qualcosa?
– È inseguita. Spicciati, bisogna decollare subito!
– Ma certo – Zuril impostò i comandi per la partenza – Come Sua Signoria desidera. Se le signore volessero prendere posto, il disco partirà entro... diciamo, diciassette secondi.
Venusia sedette, guardando nervosamente dal finestrino: Actarus non si vedeva ancora, ma lei sapeva che doveva essere a breve distanza da lì… lasciata a sé stessa, Jolly brucò svogliatamente un ciuffo di margherite, prima d’imboccare pigramente la direzione che l’avrebbe riportata alla scuderia.


Gli occhi fissi sulle tracce lasciate dalla giumenta, la mente concentrata su un unico pensiero ossessivo (arf!), Actarus spronò il suo morello: doveva far presto, molto presto. Lei era lontana, e lui non poteva aspettare ancora molto…
Davanti a lui, un boschetto. Le tracce puntavano là.
Actarus spinse il cavallo verso i primi alberi, incurante dei rami che gli frustavano la pelle: totalmente concentrato com’era su Venusia, non aveva certo perso tempo a rivestirsi. Aveva ben altro da fare, lui!
Uno schianto improvviso, un sibilo e un disco si alzò tra gli alberi, prendendo rapidamente quota.
Actarus emise un mugolio furibondo: lei era in quel disco, ne era più che sicuro.
A questo punto, per quanto la sua mente fosse ridotta a un livello decisamente bassino, i ragionamenti di lui possono essere così riassunti:
1.doveva raggiungerle Venusia, e subito;
2.per farlo, doveva prendere Goldrake;
3.per prendere Goldrake, doveva andare al laboratorio, piuttosto lontano da lì;
4.per guadagnare tempo, sarebbe passato dal ranch, avrebbe preso la moto e sarebbe andato al laboratorio.
Questo per spiegare perché Actarus fece voltare Diablo e lo lanciò al galoppo sulla strada del ritorno.
Dal boschetto emerse Jolly, che con signorile indifferenza prese a trotterellargli dietro.


Parecchi fazzoletti di carta più tardi, Venusia riuscì finalmente a riacquistare una parvenza di calma.
– Ti senti meglio? – s’affrettò a chiederle lady Gandal.
Venusia si asciugò gli occhi ed assentì.
– A proposito, è possibile sapere che le è successo? – chiese Zuril, sempre ai comandi del disco.
– Sì, cara… chi è che ti insegue? – chiese premurosamente lady Gandal – Forse… un bruto?
– Peggio… Actarus.
Stavolta, nonostante il suo perfetto aplomb, Zuril emise un fischio, mentre lady Gandal sobbalzava bruscamente.
– Ma come… Actarus…? – si stupì lady Gandal – Ma se tu… se voi…
– È spaventosamente cambiato! – ululò Venusia.
– Certo che è cambiato – esclamò Zuril compiaciuto.
– Da quando gli avete sparato addosso quel raggio lui… lui… – Venusia singhiozzò, mentre le tremava la voce – Lui è diventato un…
– …Un vigliacco – completò Zuril, soddisfatto.
– Un maniaco sessuale! – ecco, l’aveva detto.
Per un attimo, Zuril e lady Gandal rimasero in perfetto silenzio, fissandosi attoniti. Persino Gandal fece capolino, stupefatto, e subito la consorte lo ricacciò indietro, riprendendo lei il controllo della situazione.
– Scusa, Venusia, ti spiace ripetere? – chiese gentilmente Zuril – Che cosa sarebbe diventato, Actarus?
– Un… maniaco ses… suale – mormorò Venusia, che si sentiva prontissima a riaprire le cateratte e dare il via al pianto ristoratore numero due.
– Un maniaco…? Non è possibile! – esclamò Zuril – T’assicuro che… – una specie di ululato gli tagliò le parole di bocca; poi Venusia s’accasciò tra le braccia della sua amica, ricominciando a versare ulteriori litri di lacrime.
Zuril si voltò verso di lei, e subito lady Gandal gli fece cenno di no con la testa: niente domande, il momento era delicato.
Con un sospiro, lo scienziato tornò ai suoi comandi, puntando verso Skarmoon.


Il ranch appariva insolitamente calmo e silenzioso sotto il sole.
Balzato giù dal cavallo, Actarus puntò subito verso la rimessa, dove si trovava la sua moto; s’arrestò udendo un suono che non s’aspettava proprio di sentire…
Un dolce chiacchierio.
Femmine.
Lì vicino.
Il solo pensiero gli mandò gli ormoni in bollore… macchè bollore. Vaporizzarono immediatamente, mentre nelle orecchie gli risuonavano selvaggi tamburi africani. Mancò poco che si mettesse a lanciare ululati belluini mentre si percuoteva il petto a pugni.
Venusia era Venusia, certo… ma lui non poteva aspettare.
Seguì quelle voci: dovevano trovarsi proprio dietro la rimessa, nel giardino.
Scivolò fino all’angolo, si sporse appena per guardare.
Normalmente, Actarus avrebbe visto sua sorella, le sue due amiche e la sua vicina di casa.
Qualsiasi altro maschio avrebbe visto tre meravigliose fanciulle e un’orrenda carampana.
In quello stato, Actarus vide solo quattro femmine. Il resto non erano che trascurabili dettagli.
Questo, per spiegare perché quando uscì dal suo nascondiglio balzò semplicemente su quella che era la prima, la più vicina a lui.
Strillando a più non posso, le tre scampate fuggirono in casa, barricandovisi dentro.
Si guardarono: Jun, Maria, Sayaka…
Hara non si era salvata.


Proprio in quel momento, Hara stava rapidamente rinverdendo antichi, dimenticati ricordi di una passata, lontana gioventù.


Da dentro casa, le tre ragazze si guardavano in faccia, disperate: si sentivano ululati selvaggi, strilli disumani… per quanto fossero tre donne coraggiose, quel che stava accadendo era troppo. Non ebbero la forza di uscire, di chiamare aiuto, di fare qualsiasi cosa non fosse restare barricate in casa in attesa che quello scempio avesse finalmente un termine…
Un improvviso silenzio cadde sul ranch.
Si guardarono in faccia, allarmate… che quel mostro assatanato si fosse messo in caccia di loro?
Un rombo improvviso di motore diede loro la risposta: se ne era andato.
Dominando la paura che ancora l’invadeva Jun, la più coraggiosa, aprì la porta, seguita subito dalle sue amiche. Percorsero timidamente la strada che portava al giardino, terrorizzate per quel che avrebbero visto… povera Hara…
E cos’erano quei suoni spaventosi… parevano… gemiti strozzati… stava agonizzando…?
Che le aveva fatto, quel bruto?
Alla fine la trovarono: con addosso praticamente solo i suoi occhialoni a farfalla tempestati di strass, Hara danzava sugli schiantati rimasugli del lettino prendisole con la leggiadria di una baiadera, facendo volteggiare il suo pareo con le perline, mentre stonava orrendamente una canzone che finalmente riconobbero: – Secsbomb, secsbomb, iùre a secsbomb…


Imboccato a tutta velocità il cancello che dava al cortile del laboratorio, Actarus inchiodò e balzò giù dalla motocicletta. Salì gli scalini a tre a tre e in un attimo fu nel corridoio principale.
Una porta si aprì e Alcor fece la sua comparsa. Aveva lavorato fino ad allora assieme a Procton, e aveva bisogno di una pausa. S’avvicinò al distributore automatico, inserì una monetina ed estrasse la sua coca cola proprio mentre Actarus piombava nel corridoio a tutta velocità.
– Ehilà, come mai sei qui? – esclamò allegramente Alcor, alzando la lattina in un cenno di saluto – Non dovevi essere a cavallo con Venusia? – lo guardò meglio, e s’accorse improvvisamente che, a parte l’orologio da polso, Actarus non indossava praticamente altro: – Ma che ti è successo?
Actarus esaminò rapidamente l’umano che aveva di fronte. Maschio. Totalmente inadatto per il genere di attività che aveva in mente.
Con un “Arf!” di disappunto, Actarus spinse da parte Alcor e si fece avanti, deciso a raggiungere il lungo, deserto corridoio in fondo al quale s’apriva il portello che l’avrebbe condotto da Goldrake; Alcor però l’afferrò per un braccio, trattenendolo.
– Ma che maniere! – sbottò, seccato – Che cosa ti prende?
Con un ringhio, Actarus si strappò di dosso la mano di Alcor. Avrebbe proseguito nel suo avanzare, ma aveva fatto i conti senza la proverbiale testardaggine del suo amico.
– Actarus! Si può sapere…? – che cos’avesse voluto dire Alcor, Actarus non lo seppe mai perché gli troncò la frase sferrandogli un diretto al fegato. Un istante dopo, Alcor e coca cola finirono sul pavimento. Ovviamente, il primo finì sulla seconda, che esplose in perfetto geyser-style.
Richiamato dalle grida e dal rumore, Procton s’affacciò sulla porta, seguito dai suoi tre assistenti.
– Actarus! – esclamò il dottore – Ma che sta succedendo?
Actarus era sempre stato un bravissimo ragazzo, un figlio devoto e rispettoso. Mai aveva alzato la voce con quello scienziato che per lui era come un padre. Mai.
Non alzò la voce nemmeno quella volta: gli sparò un uppercut alla mascella, e basta.
Mentre Procton crollava a terra con i molari non più in perfetta efficienza, i suoi assistenti si fecero avanti decisi a farsi valere. Senza scomporsi, Actarus sferrò un calcio negli stinchi ad Hayashi, pestò un piede a Yamada e cacciò le dita negli occhi di Saeki. Quindi imboccò il corridoio che dava al famoso portello di cui sopra.
Meno d’un minuto più tardi, Actarus gridò “Goldrake!!!” compiendo la sua stupefacente trasformazione in Duke Fleed – a dire il vero, gridò “Goldr-arf-ke!”, ma fortunatamente le cose funzionarono ugualmente.
Un po’ peggio fu quando finalmente si trovò a dover dare i comandi vocali: ormai in crisi d’astinenza, non riusciva più a parlare correttamente. Comunque, il robot accettò ugualmente l’ordine “Goldr-arf-ke, arfanti!”.
Poco dopo, il robot sfrecciava nell’immensità del cielo azzurro, direzione Skarmoon.
 
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view post Posted on 14/9/2009, 17:23     +1   -1
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Soldati andavano e venivano, e tutti sembravano avere una fretta dannata. Per quanto Venusia non fosse certo un’aficionada della base Skarmoon, e quindi non avesse idea dell’atmosfera che vi regnasse abitualmente, le fu ben chiara una cosa: era giunta la notizia del prossimo arrivo di Actarus, ed era evidente che i veghiani non lo considerassero un ospite piacevole cui dare un caloroso benvenuto.
Smontato rapidamente dal disco il proiettore del raggio e usciti dall’hangar, Gandal, Zuril e Venusia presero un ascensore che li portò al piano terreno; salirono quindi su una monorotaia che li condusse nella zona centrale della base. Non appena gli sportelli della cabina si aprirono si trovarono davanti un Hydargos particolarmente teso e nervoso.
– Venusia? – esclamò, stupito – Che ci fai, qui?
A questo punto, dire che Venusia era confusa è usare un eufemismo. Già era piena di vergogna per quanto era appena successo con Actarus; ritrovarsi davanti Hydargos, con cui in passato aveva avuto una relazione brevissima ma decisamente intensa, fu decisamente troppo. Aprì la bocca per articolare qualcosa, ma le parole le morirono in gola; per sua fortuna, le venne in soccorso Zuril: – È una storia lunga, non è il momento di parlarne. Siamo in emergenza. Hai ricevuto il messaggio che ti ho inviato?
– Goldrake sta arrivando, certo – disse Hydargos, mentre imboccavano il corridoio che li avrebbe portati alla sala comando – Per venire qui da solo, dev’essere impazzito.
– Infatti – rispose Zuril, passo lungo e proiettore sotto il braccio – e più impazzito di quanto tu possa immaginarti.
– Lo abbatteremo – dichiarò Gandal – non appena sarà a tiro…
– Nemmeno per sogno! – esclamò Zuril – Non spareremo un solo colpo contro di lui, e non opporremo la minima resistenza… o meglio, faremo un finto attacco, tanto per non insospettirlo.
– Ma così attaccherà lui e distruggerà la nostra base! – s’allarmò Hydargos.
– Non lo farà – rispose calmissimo Zuril varcando la porta della sala comando, mentre Venusia s’affannava per tener loro dietro – Sa che qui c’è la sua amica. Non farà nulla, non vuole assolutamente rischiare di farle del male.
– Insomma – sbottò Gandal – si può sapere cos’hai in mente?
– Prenderlo vivo, com’era il nostro piano originario – Zuril depose il proiettore accanto alla propria postazione – Lasciarlo scendere su Skarmoon, non opporre la minima resistenza e lasciarlo venire qui dov’è Venusia.
– Ma così rischiamo che ci faccia a pezzi! – protestò Hydargos.
– Non ha interesse a farlo – replicò Zuril – In questo momento, a lui importa una cosa, e una cosa sola… e non è combattere con noi. Basta non opporgli il minimo ostacolo.
– E… quando sarà qui…? – esalò Venusia, agghiacciata all’idea di venire diciamo gettata in pasto al suo spasimante.
– Naturalmente, ti difenderemo! – intervenne prontamente lady Gandal, passando la sua micidiale occhiata-laser sui colleghi – Non è così?
– Ma certo – disse un po’ troppo in fretta Hydargos.
– Naturale – s’accodò Gandal.
– Personalmente, non sono interessato ad assistere a scene violente – tagliò corto Zuril – Ho detto che voglio semplicemente fermarlo.
– Vuoi ucciderlo! – esclamò Venusia, angosciata.
– Intendo studiarlo, e per far questo mi serve che sia vivo.
– Cosa gli farai? – chiese ansiosamente Venusia.
– Voglio capire cos’è accaduto – rispose Zuril sedendosi al suo computer – DEVO sapere cos’è che non ha funzionato, anche se ho un’idea di che cosa sia successo…
– Cioè? – chiese Hydargos, che era un tipo spiccio.
– Dove sono Dantus e Barendos? – chiese invece Zuril, in tono casuale.
– Sono partiti – disse Hydargos.
– Ah, sì? Ma guarda! – e Zuril scambiò con Gandal un’occhiata d’intesa.
– È successo subito dopo che voi siete andati in missione… a proposito, come mai avete preso quel disco guasto?
– Perché ci piace il brivido dell’imprevisto – rispose Gandal, che sapeva essere molto sarcastico.
– Non ditemi che quei due c’entrano in tutto questo! – esclamò Hydargos.
– Va bene, se non vuoi non te lo diciamo – Zuril aprì il file con la formula del raggio e cominciò a scorrere righe e righe di dati.
– Lo sapevo…! – Hydargos si lasciò cadere su una sedia – Quando ci sono guai, quei due c’entrano sempre… Re Vega lo sa?
– Glielo dici tu? – chiese Gandal.
– Non sono così stanco di vivere! – protestò Hydargos.
– Nemmeno noi. Lasciamo che abbia la sua sorpresa.
– Scusate se mi permetto – s’intromise educatamente Venusia – ma se poi Sua Maestà scopre che voi non l’avevate avvertito… non è peggio?
– Sì – Zuril non alzò nemmeno l’occhio dal suo monitor – Il segreto è dargli subito qualcosa con cui distrarsi.
– Il problema è solo trovare questo “qualcosa” – sbuffò Gandal.
Zuril sembrava un leone che sta per azzannare un cosciotto d’esploratore: – Tu non hai fantasia, Gandal.


Velocissimo, Goldrake sfrecciò fuori dell’atmosfera terrestre, puntando verso la Luna.
Venusia… sto arrivando!


– Duke Fleed un… maniaco sessuale??? – esclamò Hydargos, strabiliato – Ma stiamo proprio parlando del Duke Fleed che tutti conosciamo?
– Non è più lui – gemette Venusia, che stava cominciando a raccontargli la propria orrenda storia – È stato spaventoso… un vero incubo!
– Su, su, cara – intervenne prontamente lady Gandal, tentando di buttarla sullo scherzoso – Con tutte le volte che l’hai rimproverato di essere più moscio d’una lumaca bollita… Non hai sempre detto che la tua vita era una piatta, monotona giornata afosa, in cui non c’era nulla di vivo?
– Sì, e infatti desideravo un mite venticello… non l’uragano Katrina! Se permetti, c’è un pochino di differenza!


Goldrake orbitò attorno alla Luna, dirigendosi verso il lato nascosto.
Venusia… arrivo!!!


– Insomma, è tutta colpa del raggio di Zuril – asserì Hydargos, che voleva essere sicuro d’aver capito bene.
– Il mio raggio doveva solo trasformarlo in un vigliacco, un mollusco senza spina dorsale – spiegò Zuril.
– Ma per piacere! – scattò Venusia – T’assicuro che Actarus del mollusco non ha praticamente niente!
– Ma non è possibile…
– Ah, sì? E allora sturati quelle orecchie a punta, caro il mio scienziato, che ti spiego io cos’è successo…

Goldrake oltrepassò il confine del lato visibile della Luna.
Venusia... sono da te!!!


– V-ventisette…? – balbettò Gandal, che non era sicuro d’aver capito bene.
– Ventisette?! – ruggì Hydargos, stravolto.
– Ventisette…! – mormorò lady Gandal, sognante.
– Ventisette! – confermò Venusia, esasperata.
– Ventisette volte – esclamò Zuril, interessatissimo.
– In sole tre ore! – aggiunse Venusia, trattenendo a fatica qualche altra pinta di lacrime.
Un attonito silenzio fece eco a quest’ultima affermazione, e tra i maschi presenti fu tutto uno scambiarsi occhiate: ventisette volte in tre ore. Un record.
Zuril fu il primo a riscuotersi: in lui lo scienziato era prepotentemente emerso.
– Una media di una volta ogni sei minuti virgola sessantasei – esclamò – Veramente notevole. Senti, Venusia…
– Non ce la faccio più – lei si sentiva piegare le ginocchia.
– Hai ragione, scusa – Zuril la prese per un gomito facendola sedere su una poltroncina e Hydargos le mise in mano un calice di liquore, mentre Gandal e signora contemplavano con una sorta di attonito stupore quella fragile donna che era uscita tutto sommato indenne da una simile esperienza. Misteri della resistenza femminile.
Venusia tossì: non era abituata agli alcolici e il liquore le era andato di traverso, comunque ora si sentiva un poco meglio.
Zuril sedette di fronte a lei; il suo computer stava registrando la conversazione, ma lui aveva il classico atteggiamento di chi ha in mano un blocco per prendere appunti: – Te la senti di parlarne?
Venusia depose il bicchiere. Improvvisamente fu conscia di tutti quegli sguardi su di sé e si fece scarlatta: – Nemmeno per sogno!!!
– Cerca di capire – insisté Zuril, suadente – si tratta di un avvenimento veramente unico. Ho bisogno di avere tutti i particolari…
– Te lo scordi!
Fremito di delusione nell’auditorio.
Zuril scoccò un’occhiataccia sui presenti: – Le mie domande sono dettate da interesse squisitamente scientifico – omise all’ultimo istante lo “sporcaccioni!”, che fu comunque perfettamente intuibile.
– Non ne voglio parlare, e basta! – ribadì Venusia, decisa.
Zuril la guardò con rammarico: – Duke Fleed deve avere una resistenza cardiaca decisamente fuori del comune. Mi chiedo se i suoi valori pressori…
– Scusa tanto se non gli ho misurato pressione e pulsazioni – sibilò Venusia, che sapeva essere molto sarcastica – In quel momento avevo decisamente altro cui pensare.
– Non ne dubito, tuttavia…
– Tuttavia, è meglio se vi preparate – tagliò corto lei – Actarus sta venendo qui; e credetemi, sarebbe meglio per tutti se aveste un buon piano di difesa. Adesso, in quelle condizioni non penso che sia un avversario gentile e leale: tutt’altro.
Il cambiamento di atmosfera fu decisamente percepibile: l’interesse morboso si era trasformato in concreta fifa.
– È vero, sta venendo qui…! – esalò Hydargos.
– Sì, ed è molto più pericoloso del solito – confermò Venusia – In quello stato, non ha paura né rispetto di niente e di nessuno.
La fifa cominciò tramutarsi in autentico terrore.
– In più – rincarò Venusia – è già da qualche ora che non… come dire… esercita. Sarà molto nervoso. Non vorrei proprio essere nei panni del primo malcapitato che lo incontrerà di persona.
Un attimo d’agghiacciato silenzio.
– NO! – sibilò Gandal alla gentile consorte.
– Ma se non ho detto niente – si lamentò lei, tutta virtuosa.
– Non pensarlo nemmeno!
– Uffa…
– Voi avete fatto il danno – continuò Venusia, dardeggiando intorno occhiate di fuoco – e voi rimedierete.
Zuril scosse il capo: – Eppure, non capisco. Il mio raggio doveva solo renderlo pavido ed inoffensivo, non potenziargli la libido…
– Ti assicuro che la sua libido è decisamente superattiva! – sbottò seccamente Venusia.
Zuril tornò alla consolle del computer che aveva lasciato per ascoltare il racconto di Venusia: – Dev’esserci un errore.
– Capita anche ai migliori, evidentemente! – esclamò lei.
Lo scienziato la guardò con aria oltraggiata: – Vuoi insinuare che io ho sbagliato?
– Il raggio l’hai inventato tu, mi sembra!
– Non vuol dire niente! – offeso a morte, lui cominciò a ripassare freneticamente, punto per punto, la sua complicatissima formula. NON POTEVA avere sbagliato.


Fu mentre sedeva nell’infermeria in attesa di essere visitato che Alcor, ancora inzuppato di coca cola, sentì squillargli il cellulare. Maria.
– Aspetta che ti dica cos’è successo… – cominciò Alcor, che aveva assoluto bisogno di raccontare la sua disavventura a qualcuno; ma Maria non lo lasciò continuare. In lacrime, fu lei a narrare cos’era avvenuto al ranch: l’assalto del bruto ignudo ed ululante, la fuga, la povera Hara, Sexbomb sexbomb…
Alcor non riuscì a spiccicar parola. Richiuse il cellulare senza nemmeno rispondere a Maria che gli aveva chiesto che fosse accaduto a lui; quindi s’alzò e s’avvicinò a Procton, che stava tenendosi amorosamente la mascella slogata.
– Non capifco che gli è prefo – farfugliò il dottore, la cui perfetta dizione non era più così perfetta.
Alcor prese fiato: – Volete sapere anche il resto, o preferite che ve lo dica un’altra volta?
Procton scosse il capo: avrebbe bevuto il calice fino alla feccia. Voleva sapere subito.
– Bene – rispose Alcor – Tenetevi saldo…
Mezzo minuto dopo la mascella di Procton, abbandonata a sé stessa, crollava miseramente fuori dei suoi abituali alloggiamenti.
Troppo sbalordito, il professore non se ne accorse nemmeno.



Nel bel mezzo del Mare di Mosca, la base lunare Skarmoon appariva come una sorta di minacciosa fortezza; Actarus la vide solo come il dannato posto che racchiudeva la sua Venusia, sottraendogliela.
Minidischi si levarono in volo, un mostro fece vedere il suo brutto muso; purtroppo per loro, Actarus non poteva permettersi di perdere tempo. Affettò i dischi e bruciacchiò i bulloni al mostro senza pensarci due volte: nello stato in cui era, combatteva ancora più ferocemente del solito, e i veghiani non tardarono ad accorgersene. Fu per questo che dopo pochi attimi di lotta i minidischi eseguirono una rapida inversione strategica (leggi: fuga ignominiosa), mentre il mostro, pesto e bruciacchiato, con la coda tra le zampe si ritirava nel sicuro del suo hangar.
Il campo era libero.
Actarus fece planare Goldrake su Skarmoon: nessuno osò disturbarlo.
Normalmente, Actarus si sarebbe mosso con cautela, e trovandosi nel covo del nemico avrebbe agito con circospezione; quella volta, procedette spedito, senza il minimo pensiero di quel che avrebbe potuto trovare sulla sua strada – casomai, sarebbe stato il malcapitato di turno a doversi preoccupare.
Seguendo il suo infallibile istinto, percorse corridoi, usò ascensori, passò da una stanza all’altra: nello stato di alterazione in cui era aveva una sorta di potere ESP per percepire la presenza di Venusia. Presto l’avrebbe ritrovata, e finalmente avrebbe potuto concludere quel che era stato frettolosamente interrotto ormai troppe ore prima.
Ovviamente, i veghiani sapevano benissimo dove si trovasse Actarus: continuavano infatti a tracciare la sua posizione, per essere ben sicuri di non incocciare accidentalmente in lui. L’unico gruppo di soldati che malauguratamente osò opporsi, venne immediatamente dissuaso vedendo Actarus colpire uno di loro con un calcio alle gengive. Mentre il malcapitato soldato cominciava a sputare qualche manciata di denti, i suoi colleghi si volsero subito verso una parete, controllando accuratamente la vernice che, era evidente, era ormai scrostata. Continuarono a discutere dell’improrogabile necessità d’una buona mano di pittura mentre Actarus, viste cessate le ostilità, afferrava il fucile del soldato abbattuto e proseguiva speditamente la sua marcia; solo allora i soldati respirarono, sollevati.
Prima di allontanarsi a loro volta.
Dalla parte diametralmente opposta.

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Nuove prodezze del nostro eroe.


– Vigliacchi! – esplose Hydargos, che con i colleghi aveva seguito sullo schermo quanto era testé accaduto – Erano in tanti contro uno solo! Perché non l’hanno fermato?
– Un calcio nei denti è un buon deterrente, suppongo – rispose Zuril, sempre assorto nel suo lavoro.
– Tu pensa a sistemare quel raggio! – sbottò Gandal – Sarà meglio che tu abbia finito, per quando Duke Fleed sarà qui, altrimenti non oso pensare a cosa potrebbe succedere…
– Io invece me l’immagino benissimo – ringhiò Hydargos.
– Oh, no! Non ancora! – singhiozzò Venusia – Vi prego, non lasciate che lui… lui mi…
Gandal e Hydargos si scambiarono un’occhiata: “meglio lei che noi” fu il loro per nulla galante, ma sincerissimo, pensiero. Un attimo dopo, entrambi si ricordarono che lei, fragile fanciulla, aveva implorato la loro protezione… e nonostante tutto, un minimo di senso cavalleresco l’avevano pure loro.
Senza contare il fatto che loro erano due, e Duke Fleed era solo.
– Lo fermeremo noi – asserì Hydargos.
– Non avere paura – aggiunse Gandal.
– Per raggiungerti, dovrà passare sui nostri corpi! – intervenne un po’ troppo animosamente lady Gandal.
– No, un momento… – cominciò Gandal; ma in quella, uno schianto terribile gli tagliò la parola di bocca.
Un’altra esplosione… stavano sparando contro la porta. Lui era là fuori!
Un nuovo colpo: l’unica difesa rimasta tra loro e l’invasato nemico stava per crollare.
Un boato più forte, e la porta venne letteralmente schiantata; nell’apertura, un fucile energetico tra le mani, c’era appunto l’invasato nemico di cui sopra.
– …Actarus…! – gemette Venusia, e non c’era la minima traccia di buonumore, nella sua voce.
Vedere Venusia, gettare il mitra e tenderle le braccia fu un tutt’uno per Actarus.
– Venusiarf! – gridò – Finarflmente ti ho trovarfta! Vieni quarf!
Gandal e Hydargos si scambiarono un’occhiata che fu tutto un dialogo: “Vai prima tu?” “No, amico mio, l’onore a te” “Ma figurati, non vorrei passarti davanti…” “Ma no, tu hai il grado maggiore, vai pure”, eccetera.
Actarus non li guardò nemmeno: vista Venusia, i suoi occhi ebbero un pericoloso scintillio che si smorzò in un ancora più pericoloso sguardo torbido. Sempre fissandola si fece avanti, aprendo e chiudendo le mani, evidentemente pronto a dare il via ad una nuova, massacrante performance.
– Aiuto! – in preda al panico, Venusia scappò disperatamente per la sala, tallonata da Actarus che allungava le grinfie nel tentativo di abbrancarla; lei si rifugiò dietro le spalle di Gandal e Hydargos, lui la inseguì prontamente e per un po’ fu tutto un girotondo attorno ai due attoniti comandanti di Vega. Infine, ormai sfinita, Venusia prese l’unica decisione possibile: inseguita dal bellissimo principe dagli occhi blu, lei d’un balzo fu in braccio ad Hydargos, che di blu non aveva gli occhi ma tutto il resto.
– Ti prego! – urlò lei – Salvami da quel bruto!
Per quanto nessuno l’avesse mai sospettato, sotto la sua ruvida scorza il comandante di Vega celava l’animo romantico d’un prode Lancillotto; trovarsi tra le braccia una donzella in pericolo che lo supplicava di proteggerla, ed ergersi pettoruto in sua difesa, per lui fu un tutt’uno.
Disgraziatamente, in quel momento Actarus del nobile cavaliere aveva ben poco, per non dire quasi nulla. Vedere che il suo nemico aveva le mani momentaneamente impegnate e sparargli una pedata atomica là dove in genere un combattente leale non dovrebbe mai colpire neanche con un fiore, fu affare di un attimo. Con un urlo strozzato, Hydargos si abbatté a terra, lo stomaco scosso da penosi conati; abbandonata a sé stessa, anche Venusia precipitò al suolo atterrando fortunatamente sulle sue parti più adipose.
Vista la sua preda ormai a portata delle sue adunche mani, Actarus balzò in avanti pronto a dare il seguito a quanto lasciato in sospeso alcune ore prima, quando il Destino lo arrestò materializzandosi sotto forma dell’ignaro Re Vega, apparso proprio in quel momento sulla soglia.
– Ma che sta succedendo, qui? – sbottò il sire, sdegnato da tanta confusione.
Forse fu il morbido mantello viola svolazzante, forse fu il fatto che Re Vega fosse l’essere vivente in quel momento più vicino a lui, chissà, forse fu il fatto di essere esasperato da varie ore d’inattività… sta di fatto che Actarus si voltò a guardarlo con occhio concupiscente: – Vieni qui, bellezza!
– Bellezza? – Re Vega guardò istintivamente dietro di sé: nessuno. Ma allora…?
– Fuggite, Maestà! – urlò Gandal, aiutando Hydargos a rialzarsi.
Improvvisamente, il sovrano si rese conto di molte cose: Hydargos il cui colorito verdastro indicava un precario stato di salute, Gandal e Venusia chiaramente terrorizzati, il maledetto Duke Fleed… no, a dire il vero stentò persino a riconoscere il suo nemico di sempre in quell’invasato che si stava avvicinando a lui, lento e minaccioso, una strana luce negli occhi… diamine, se non l’avesse conosciuto bene avrebbe giurato che quegli occhi blu lo stessero guardando con un’espressione che non avrebbe esitato a definire libertina.
– Duke Fleed… Ti senti bene? – chiese istintivamente.
– Mai stato meglio, cocco! – più passavano i secondi, più la voce di Actarus diveniva sempre meno umana e più simile a un preoccupantissimo “Arf! Arf!”
– …Cocco…? – agghiacciato, Re Vega si guardò attorno: – Non starà dicendo a me…!
– Certo che sì! – urlò Venusia – Mettetevi in salvo!


– Aiuto! – completamente addossato alla parete, Re Vega puntava una sedia contro Actarus, che artigliava l’aria nel vano tentativo d’afferrarlo – Fate qualcosa!
Spalle al muro, Gandal e Hydargos si guardarono in faccia.
– Vai tu? – disse Gandal.
– E che, sono scemo? – brontolò il collega – Vacci tu, se proprio ci tieni!
– Ma sì, non possiamo lasciare nei guai Sua Maestà – intervenne lady Gandal – Dobbiamo andare, e subito!
– MAI!!! – rispose il marito.
– Ma Sua Maestà è in pericolo… – insisté lei.
– Anche noi saremo in pericolo, se ci stacchiamo da questa parete! – ringhiò Gandal.
– Ma su, non vuoi sacrificarti per il tuo re? – ghignò Hydargos.
– Hai sempre detto che daresti la vita per Sua Maestà – aggiunse lady Gandal.
– La vita, appunto! – puntualizzò Gandal – Qui stiamo parlando di qualcos’altro!
– Per il mio re, io mi sacrificherei senza pensarci due volte – ribatté lei, convinta.
– Anch’io per il mio re ti sacrificherei senza pensarci due volte – rispose seccamente il marito – Disgraziatamente, non posso farlo senza essere coinvolto anch’io. Perciò… SCORDATELO!
– Volete piantarla di far tanto rumore? – sbottò Zuril, seccatissimo – Qui, si sta cercando di lavorare!
– E lui sta cercando di baciarmi! – ululò Re Vega, completamente spalmato contro la parete e con la sedia che fungeva da estremo baluardo alla sua virtù – SBRIGATEVI!!!


– Ah, ecco cos’era! – esclamò Zuril, il tono giulivo di chi grida “Eureka”! – Ma guarda!
– Che… che cosa…? – articolò Re Vega, che ormai si sentiva spacciato.
– Hai trovato l’errore? – gridò Venusia.
– Nessun errore! – puntualizzò seccamente lui – A parte il fatto che IO in genere NON COMMETTO ERRORI…
– Va bene, sappiamo che sei un genio – lo rabbonì Gandal – Si può sapere cos’è successo?
– Si tratta di uno sbaglio talmente macroscopico che non è possibile parlare di svista – spiegò Zuril – Questo è chiaramente un sabotaggio.
– Un sabotaggio! – sbottò Hydargos – Ma allora…
– Facciamo due nomi a caso? – ringhiò Gandal.
– …Aiuto…! – rantolò Re Vega, atterrito nel vedere che la sedia, l’unica sua difesa contro l’importuno corteggiatore, stava ormai per cadere a pezzi sotto gli assalti – Fate presto…!
Solo allora, tutti si ricordarono della tragedia che di lì a poco sarebbe avvenuta sotto ai loro occhi, e improvvisamente sentirono una gran fretta.
– Oh… certo. Un attimo solo – Zuril digitò in fretta la correzione della formula, impostò nuovamente il suo marchingegno; un raggio di luce stavolta bianca investì da capo a piedi Actarus, che crollò a terra come fulminato.
Normalmente, Venusia sarebbe accorsa subito in suo aiuto; anche quella volta non fece eccezione, ma subito Gandal e Hydargos l’afferrarono per le braccia tirandola indietro. Prudenza.
Re Vega abbassò un pochino quel che restava della sedia per poter guardare.
– Adesso è tutto a posto, vedrete. – assicurò Zuril, allungandosi con aria soddisfatta contro lo schienale della poltroncina. Era troppo ben educato per incrociare i piedi sul tavolo, ma il concetto era quello.
Actarus scosse il capo, si mise faticosamente in ginocchio. Impiegò qualche secondo per recuperare le nozioni di nord-sud-est-ovest. Poi si guardò attorno.
Da una parte, Gandal e Hydargos, con in mezzo a loro Venusia; più in là, Zuril seduto al suo computer. Proprio di fronte a lui, Re Vega con in mano… una sedia? Possibile?
E perché tutti continuavano a fissarlo senza dire nulla?
– È successo qualcosa? – chiese, rimettendosi faticosamente in piedi.
Moto di terrore di Re Vega, che parve appiattirsi a sogliola con le spalle contro il muro.
– Actarus… stai bene? – chiese Venusia, senza però muoversi da dov’era.
– Certo che sto bene – scosse la testa, si guardò ancora attorno – Sono solo un po’ stanco.
Gandal e Hydargos si guardarono in faccia: si capiva che doveva essere stanco!
Actarus mosse un passo, e venne colto da un forte capogiro; subito, Gandal spinse premurosamente una sedia verso di lui, mentre Hydargos gli cacciava in mano una coppa. Actarus bevve un sorso e tossì: per un astemio come lui, quel liquore era spaventosamente forte.
Re Vega emise una sorta di sibilo strozzato; subito i suoi due comandanti lo fecero sedere e servirono anche a lui un bicchierotto. Se l’era vista brutta, niente da dire. Poi, come un sol uomo tornarono a fissare Actarus, i visi atteggiati ad un’espressione di timore reverenziale.
Actarus si guardò rapidamente attorno.
– Venusia, che ci facciamo, qui? – chiese infine – E perché state tutti lì a guardarmi a quel modo?
– Vuoi dire… che non ti ricordi niente? – domandò lei, osando finalmente avvicinarsi di qualche passo.
– Non eravamo andati a fare una passeggiata a cavallo? Poi, non so altro. Che è successo?
– Sei… stato colpito da un raggio – cominciò lei, titubante.
– Oh – Actarus si passò una mano tra i capelli nell’evidente tentativo di schiarirsi le confuse idee – Non me ne ricordo. Devo essere rimasto svenuto.
Venusia si morse un labbro: – Non esattamente.
– Quanto tempo sono rimasto incosciente?
Lei controllò il suo orologio: – Circa nove ore.
– Nove ore e mezza, per la precisione – Zuril si fece avanti, zelante: – Ti dispiacerebbe rispondere ad un paio di domande?
– Veramente, sono io che avrei bisogno di risposte – gli fece notare Actarus.
– Hai ragione – Zuril gli mostrò l’analizzatore portatile che aveva in mano: – Posso esaminarti? Sai, i valori pressori, la frequenza cardiaca…
– Lascialo stare! – intervenne Venusia – Non ti pare che abbia avuto una giornata pesante?
– Certo – rispose Zuril, conciliante – Ma ho bisogno di quei dati. Come scienziato, devo studiare…
– Assolutamente no! – esclamò Venusia – E non provarti a tormentarlo di domande!
– Ma io volevo solo esaminarlo col mio scanner…
– Devo proprio dirti cosa puoi farci, con quel tuo scanner? – chiese Venusia, in tono pericolosamente caramelloso.
Zuril spense l’apparecchio: – Ho capito da me. Grazie.
Actarus si guardò ancora attorno. Tutti sembravano incapaci di staccare gli occhi da lui… Zuril lo fissava con scientifico interesse, Re Vega con raccapriccio e Gandal ed Hydargos… con ammirazione, invidia… possibile?
– Posso sapere cos’è successo? – chiese ancora.
– Te lo spiego dopo, mentre torniamo a casa – rispose in fretta Venusia – Ora sarà meglio che ce ne andiamo. Abbiamo disturbato fin troppo.


Ora tutto era tornato alla normalità… seduta al posto del passeggero, Venusia poteva finalmente rilassarsi, mentre Goldrake la riportava a casa.
Che giornata! Ma, grazie al Cielo, era finita…
– Ehm… Venusia? – la richiamò Actarus.
– Sì?
– Esattamente… cos’è successo mentre ero sotto l’effetto di quel raggio? Insomma, cos’ho fatto?
Un crampo spaventoso alla bocca dello stomaco… la giornataccia non era neancora conclusa.


– Un sabotaggio! – esclamò Re Vega – Vuoi dire che qualcuno ha modificato APPOSTA il tuo raggio per ottenere… quell’effetto?
– Non credo che volessero ottenere appunto quell’effetto, come dite voi – rispose Zuril – Penso che questo sia stato un caso. Piuttosto, ritengo che chi ha sabotato il mio lavoro l’abbia fatto a casaccio, con il solo intento di rovinare il nostro piano.
– A casaccio? – ululò Re Vega – Ma io ho rischiato… hm… per quel “a casaccio”!
– Pare proprio di sì, Maestà.
Re Vega digrignò le zanne: – Voglio il colpevole! E lo voglio subito!
Gandal e Hydargos si scambiarono una gomitata. La faccenda prometteva bene.


Goldrake volava rapido nello spazio, puntando diretto verso l’atmosfera terrestre.
– VENTISETTE VOLTE??? – barrì Actarus – Io… ventisette?
– Ventisette – confermò Venusia, con un sospiro.
– …!!!
– Esatto. …Vuoi che continui a raccontarti il resto?


– Allora, Maestà – disse Zuril – Io ho progettato questo raggio, e sono più che sicuro che nessuno abbia avuto la possibilità di manometterlo.
– Ma qualcuno deve averlo fatto! – esclamò Re Vega.
– Sì; ma non finché la formula è rimasta nel mio computer. L’ho custodito attentamente, e so quel che dico.
– E allora, quando?
Zuril scambiò un’occhiata con Gandal e Hydargos. Tenetevi forte. Ci siamo.
– Quando vi ho consegnato il file con il progetto – riprese, molto calmo – non avete voluto esaminare voi stesso la formula? – Non capendoci una stramaledetta, naturalmente.
– Certo che ho voluto farlo! – esclamò Re Vega, che appunto non aveva capito nulla e si era fatto venire un mal di testa solo a leggere tutte quelle sigle – Sono il sovrano, è mia responsabilità esaminare personalmente… un momento. Stai dicendomi che qualcuno ha cambiato la formula dal mio computer?
Zuril assunse un’aria molto innocente e molto fasulla: – Maestà, l’avete detto voi stesso. Non io.
– Comunque, no, nessuno ha potuto avvicinarsi al mio… oh. – scosse il capo come per scartare un’idea: – No, naturalmente non è possibile…
– Cosa, Maestà? – intervenne Gandal.
– Proprio mentre stavo… esaminando la formula – “pisolando sulla formula” sarebbe stato più corretto, ma Re Vega preferì dare questa sua interpretazione della realtà – proprio allora, dicevo, è entrato nel mio studio il generale Barendos…
– Ah…! – Gandal e Hydargos si scambiarono un’occhiata eloquente.
– Ma non può essere stato lui! – scattò Re Vega – Non si è nemmeno avvicinato al computer! Siamo andati invece assieme a controllare dei piani che mi aveva portato per un nuovo mostro…
– E avete lasciato il computer incustodito – esclamò Zuril.
– Ma non era affatto incustodito! – scattò Re Vega – Nel mio studio è entrato il ministro Dantus… oh… – Re Vega li guardò in faccia uno per uno: – Volete dire che Dantus…
– …e Barendos – completò Zuril.
– Erano d’accordo per far fallire il piano – aggiunse Gandal.
– Ovviamente, a loro interessava screditare Zuril – e Hydargos batté sulla spalla del collega che assunse un’artistica espressione da vittima innocente.
Re Vega si fece d’un intenso paonazzo con sfumature violetto: – Portatemi SUBITO qui quei due…!
– Non fate così – Zuril lo fece sedere, mentre Gandal s’affrettava a portargli un bicchiere d’acqua – Sapete che poi vi sale la pressione.
– È già salita! – ruggì Re Vega.
– Appunto, non è il caso che vi alteriate ancora di più. Fate il bravo, e prendete le vostre pillole.


– Scusa, scusa… io avrei fatto a Re Vega… CHE COSA?
– Non l’hai fatto, Actarus.
– Ma volevo farlo? E così… davanti a tutti?
– L’impressione era proprio quella.
– Che schifo!
– Se devo essere onesta, in quel momento la cosa non sembrava disgustarti…


– Vi sentite meglio, Maestà? – chiese premurosamente Gandal.
Il sovrano, che inghiottite le sue medicine stava tornando al suo consueto, aranciato colorito, emise un grugnito d’assenso.
– Promettete di non agitarvi più? – insisté il Comandante Supremo.
– Parli come mia figlia…! – ringhiò il sovrano, imbronciato. Era furibondo, e nulla come l’assistere ad efferate torture avrebbe potuto risollevargli il morale… disgraziatamente, quelle pittime dei suoi ufficiali s’erano messi in testa di fargli da balia.
– Maestà – cominciò Zuril, suadente – vi ho mai deluso?
– Molto spesso.
– Voglio dire – corresse lo scienziato – vi ho mai consigliato male?
Occhiataccia eloquente.
– Datemi ugualmente retta, Maestà: non punite quei due.
Moto di protesta di Gandal e Hydargos. Re Vega si voltò a guardare bene in viso il suo ministro: – Se stai per dirmi idiozie come “la miglior vendetta è il perdono”…
– Vi sto dicendo di non punirli. Per ora.
– Andiamo meglio – concesse Re Vega – E perché dovrei aspettare a castigarli, se è lecito?
– Perché dovreste farlo oggi – rispose Zuril, e ogni singola sillaba da lui pronunciata pareva grondasse melassa – quando dandomi un poco di tempo per un paio di operazioni, potreste punirli atrocemente domani?
Atrocemente… affascinante parola.
– Dimmi un po’ cosa stai macchinando – rispose Re Vega, interessatissimo.


In silenzio, Actarus continuava a guidare puntando deciso verso la Terra; Venusia non sembrava avesse più molta voglia di parlare, anzi, al contrario, pareva decisamente stanca. Tanto meglio, in quel momento lui non si sentiva di sostenere una conversazione: anzi, non desiderava altro che restare solo con i propri pensieri.
Per nove ore e mezza era rimasto sotto effetto di quel raggio.
Era semplicemente inorridito. Disgustato di sé stesso. Come aveva potuto fare quel che aveva fatto?
Vabbè, Venusia gli aveva assicurato che lui non era da considerarsi responsabile delle sue azioni: per effetto di quell’infernale raggio, lui s’era trasformato in un essere totalmente diverso, un mostro, un ossesso. Però la vergogna bruciava, e molto.
Povera Venusia… come aveva potuto farle una cosa simile?
Ripensò a Re Vega, e subito sentì lo stomaco rovesciarglisi… ma più che la nausea, avvertiva sempre più forte l’imbarazzo: che sconcezza, che turpitudine! Che avrebbero pensato di lui suo padre, Maria, Alcor… tutti, insomma… se avessero saputo che per qualche ora lui s’era comportato come un mostro, un bruto assatanato ed infaticabile…
Soprattutto infaticabile.
Senza accorgersene, rialzò la testa, drizzò la schiena. Una luce nuova parve scintillare nei suoi occhi.
– Ventisette volte… però! – e si mise a fischiettare.

- Continua - La conclusione la prossima puntata
 
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view post Posted on 22/9/2009, 21:00     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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– Un momento – colto improvvisamente da un orrendo pensiero, Re Vega si girò verso i suoi comandanti: – Avevamo qui Duke Fleed, completamente inerme…
Gandal e Hydargos si scambiarono un’occhiata preoccupata: ahi ahi. Si metteva male.
– Potevamo catturarlo senza il minimo sforzo! – esplose Sua Maestà – Avremmo potuto mettere fine a questa guerra!
Gandal e Hydargos parvero farsi piccini piccini. In effetti, troppo emozionati da quel che era accaduto, non avevano proprio pensato a sfruttare l’occasione…
– Idioti! – ululò Re Vega, il cui viso stava riprendendo preoccupanti sfumature violette – Perché non l’avete fatto prigioniero? Perché non avete approfittato dell’occasione? Perché???
– Semplice – intervenne prontamente Zuril, voce serafica e faccia tostissima – Perché VOI non ce l’avete ordinato.


– Sua Maestà ha avuto forse un dispiacere? – chiese la dottoressa, tastando il regale polso e controllando sul display del suo analizzatore i valori pressori e le pulsazioni.
Gandal, Hydargos e Zuril si scambiarono un’occhiata e scossero la testa in perfetta sincronia. No-o.
– Gh! – fu tutto ciò che riuscì a profferire il Sire. Occhio fisso ed espressione ebete, stava riprendendosi faticosamente dallo shock che l’aveva testé schiantato.
– È solo un po’ di stanchezza – disse Gandal.
– Stanchezza? – sbottò la dottoressa – Ma se ha la pressione alle stelle!
– Si dev’essere un po’ emozionato – concesse Gandal.
– Sapete com’è… si agita per niente – aggiunse Hydargos.
– È un uomo scrupoloso e tanto, tanto apprensivo – aggiunse Zuril con voce flautata – Come sta?
– Meglio, presto sarà di nuovo in sé.
– Ah – scambio di occhiate allarmate tra i tre comandanti. Si sarebbe ripreso… avrebbe ricordato cos’era successo… ahiahiahi!
– Non sarebbe meglio dargli un sedativo? – chiese Zuril.
– È sicuramente molto stanco, avrà bisogno di riposo – aggiunse Gandal.
– Tanto riposo – puntualizzò Hydargos.
– Ma veramente… cominciò la dottoressa; Zuril non la lasciò finire. Acchiappata una siringa, prese a riempirla con una dose di calmante che avrebbe addormentato King Gori in persona – Ma che state facendo…?
– Faccio quello che sarebbe il vostro lavoro! – rispose Zuril, accusatorio; quindi, conficcò l’ago nel regale retrosud di Sua Maestà e procedette con l’iniezione.
– Ma siete impazzito? – ululò la dottoressa.
– Siete impazzita voi, piuttosto! – ribatté Zuril con inossidabile faccia tosta – Dovreste vergognarvi! Avete un paziente che soffre, e gli negate un po’ di pace!
– Ma se… quella dose…
– Sua Maestà è stanco, esaurito. È ovvio per chiunque, tranne che per un’incapace come voi, che abbia bisogno di riposo! Ah, se non ci fossimo noialtri ad occuparci di lui! – occhiata autocommiserante verso i colleghi; Gandal annuì, convinto. Ci volle una gomitata perché Hydargos facesse altrettanto.
– Quanto a voi, siete un’irresponsabile – Zuril rimise la siringa nella borsa e cacciò il tutto nelle mani della dottoressa: – Ritenetevi fortunata se per stavolta lasceremo correre la vostra inefficienza. E adesso, andatevene.
– Inefficienza? Ma io…
– Voi siete una vergogna per la categoria dei medici! Fuori di qui, prima che cambi idea e vi faccia perdere il posto!
Completamente disorientata, la poverina arretrò fino alla porta, inciampò all’indietro, tentò una spiegazione… ma se loro… se lei… l’iniezione non… insomma…
Si ritrovò fuori dalle regali stanze senza nemmeno capire come ne fosse uscita. Si riscosse, acchiappò la sua borsa e se la diede rapidamente a gambe dirigendosi verso il centro medico, sperando vivamente di trovare qualcosa di familiare da curare… pance da aprire, frattaglie da tagliuzzare, emorroidi da eliminare, qualsiasi cosa, insomma, che non fosse comunque Sua Maestà e i suoi malori.
Dentro la stanza, Zuril, Gandal e Hydargos respirarono di sollievo. Il loro sovrano dormiva come un angioletto, e con il calmante che aveva in corpo avrebbe continuato a dormire per le successive trentasei ore… e quando si fosse svegliato, gli avrebbero preparato un ghiotto bocconcino che gli avrebbe fatto dimenticare qualsiasi pensiero di vendetta nei loro confronti.


Quella sera, mentre controllava nella scuderia che i cavalli fossero a posto per la notte, Actarus venne colto da un pensiero improvviso: il racconto di Venusia presentava una lacuna temporale. Sapeva di essere stato per nove ore e mezza sotto l’effetto di quel raggio, ma i conti non gli tornavano. Era forse successo qualcosa, nel periodo di tempo da quando Venusia l’aveva lasciato sotto le frasche a quando lui era piombato nella base Skarmoon? Aveva picchiato Alcor e gli altri, certo… ma non aveva fatto altro, vero?
Non ricordava. Quel che è peggio, nessuno, né alla fattoria né al laboratorio, sembrava aver voglia di parlarne.
Comunque, non posso aver fatto nulla di male, tentò di rassicurarsi lui, che si sentiva sempre più inquieto. Da quel che ho potuto ricostruire, non è passata più di una mezz’ora, tre quarti d’ora al massimo… in quel tempo, NON POSSO aver combinato altri guai!
Quando uscì dalla scuderia e richiuse la porta, vide appoggiato contro il muro quel che restava di un lettino prendisole totalmente schiantato.
E questo…?


Primo epilogo semiserio

– Ta-ra-raaaa-ra-raaaa-ra-ta-ra-ran! – una rosa scarlatta dietro l’orecchio, un mezzo chilo di rossetto sui labbroni, Hara stonacchiava mentre si spalmava sensualmente contro lo steccato con aria invitante.
Actarus, che stava togliendo palate di letame da una carriola per concimare le carote, ebbe un soprassalto per l’emozione. Non capiva bene il perché lei continuasse a seguirlo ovunque, non capiva quel suo colare contro stipiti, recinti e quant’altro, soprattutto non capiva perché invece delle consuete tutone con stivali di gomma lei avesse adottato delle mise decisamente poco adatte alla vita in campagna (quel giorno, zerogonna nera con calze modello rete da tennis e giarrettiera fucsia in vista). Se si era conciata così per attirare l’attenzione, benissimo: c’era riuscita in pieno.
Una visione che difficilmente avrebbe potuto essere dimenticata.


Nascosti dietro l’angolo della scuderia, Alcor e Maria osservarono lo spettacolo costituito da Actarus che cercava di spalare il suo letame mentre Hara gli girava attorno eseguendo danze lascive.
Che Actarus fosse sul punto di vomitare, era ovvio; che la causa del suo malore NON fosse il puzzo di letame, era ancora più scontato.
– Ugh…! – esclamò Maria, animo sensibile, distogliendo lo sguardo.
– Bene – Alcor frugò in tasca e ne cavò una moneta: – Facciamo testa o croce. Chi vince, va a dire ad Hara che è inutile che lei continui a canticchiare il tema di Nove settimane e mezzo, perché tanto lui non capisce a cosa lei stia alludendo…
– E chi perde? – chiese Maria.
– Chi perde, racconta il film ad Actarus.
– …Ohi!
– E soprattutto, glielo fa capire.
– Mission impossible – sospirò Maria.


– T’insegno io a mancare di rispetto a mamma! – Banta si fece avanti minaccioso, i grossi pugni pronti ad entrare in azione.
– Ma io non ho fatto niente – si meravigliò Actarus.
– No, proprio niente! – aggiunse Hara, acida, smettendola finalmente con il suo ancheggiare – Banta, sei il solito guastafeste!
– Vergognati! – esclamò il figlio – Ma guarda come ti sei conciata…
– Sentilo, l’elegantone! – rispose prontissima mamma, scoccando un’occhiataccia alla maglia dai colori chiassosi del figlio e al sombrero che gli pendeva sulla schiena.
– Ah, adesso sarei IO ad essere ridicolo? – ululò Banta.
– In effetti… – azzardò Actarus; un secondo dopo, uno spintone di Banta lo spediva per terra tra le carote che stava testé concimando.
Tra urla e schiamazzi, Banta afferrò la madre per un braccio e la condusse verso casa; lei puntò nella terra i tacchi a spillo ma dovette seguirlo, riluttante, e intanto continuava ad inviare bacetti ad Actarus, che si rialzò a sedere sputacchiando terra e letame.
– Ehm… Actarus? – lo richiamò una voce.
Lui alzò la testa, incontrando così lo sguardo azzurro di sua sorella Maria: – Non chiedermi cos’è successo, perché io per primo non lo so.
– Ma certo, caro – lei l’aiutò a rialzarsi – Ehm… hai mai sentito parlare di Nove settimane e mezzo?
– E che è? Un nuovo tipo di dieta che hai deciso di seguire, nove chili in nove giorni?
Maria gemette: sarebbe stata ancora peggio di quanto si fosse immaginata.


Secondo epilogo serio

Attonito, Harlock rimase a fissare a lungo lo schermo spento.
Andò a sedersi sulla sua poltrona favorita, sempre cercando di comprendere il perché di quanto era appena accaduto… eppure, continuava a non capire.
Come tante altre volte, aveva appena contattato Venusia per proporle un romantico weekend, una scappatella del genere lussurioso-sentimentale, insomma.
L’urlo di raccapriccio di lei l’aveva letteralmente assordato. Ancora adesso, sentiva d’avere le orecchie traumatizzate.
Poi, Venusia non l’aveva nemmeno lasciato parlare: dopo aver gridato una frase come “non ancora!”, o “non mettertici anche tu!” o qualcosa di simile, aveva chiuso il contatto.
Ma quel che era stato più strano di tutto, prima di interrompere la comunicazione aveva detto qualcosa a proposito di ritirarsi in un eremo…
…Mah…!


Terzo, drammatico epilogo


Nel segreto della sua cameretta, Alcor stava affrontando il più feroce attacco che gli avesse mai sferrato la Sindrome dell’Amico Sfigato che da anni gli avvelenava le giornate.
Non era facile essere amici di Actarus. Proprio per niente.
Così alto e bello, così nobile d’indole… e nobile lo era davvero, un principe, che diamine!
Oltretutto, era pure profondamente buono e generoso, per cui odiarlo era impossibile.
Da sempre, accanto a lui Alcor si era sentito una nullità, una schiappetta da pochi soldi, uno zero…
In tutti quegli anni, l’aveva però confortato un unico pensiero: per quanto bellissimo e fascinosissimo, Actarus con le donne non ci sapeva fare. Un imbranato totale per il quale i rapporti tra i sessi erano aramaico puro.
Almeno in quel campo, Alcor sapeva di essergli nettamente superiore: per quanto più giovane d’età, lui aveva una conoscenza dell’altra metà del cielo che al suo perfettissimo amico decisamente mancava. Per lo meno, in fatto di fanciulle indubbiamente lui, Alcor, sapeva di essere il migliore…
Fino ad ora.
Si guardò allo specchio.
Avanti, dillo! Di’ quel che ti tormenta, non tenerti tutto dentro… dillo!
– V-ventisette volte!!! – esplose; e scoppiò in singulti ne lamentosi lai.


Ultimo, tragico epilogo

– Per di qua, signore – il soldato aprì la porta e si fece da parte; un po’ sorpreso da quell’insolita convocazione da parte di Sua Maestà, Dantus entrò nella stanza. Non capiva perché fosse stato urgentemente richiamato dal pianeta Ruby, ma…
Barendos, che attendeva a sua volta camminando in su e in giù, arrestò il suo continuo peregrinare: – Tu…?
– Io, sì. Non c’è Sua Maestà? – rispose Dantus, guardandosi attorno. Nessuno, a parte loro due. Anche il soldato era uscito… piuttosto di fretta, bisogna dire – Sono stato convocato.
– Anch’io, ma non capisco…
La porta si richiuse ermeticamente alle loro spalle.
Nel proprio studio privato, seduto comodamente nella sua poltrona, Re Vega guardò con approvazione attraverso il monitor i suoi due ufficiali intrappolati: – Procedi, Zuril.
– Maestà, ma ne siete sicuro? – chiese Gandal, che dietro l’aspetto che aveva celava un animo sensibile – Una punizione così efferata…
– La colpa di tutto è loro! – sbottò Re Vega, implacabile – Se la sono meritata! Vai, Zuril!
Hydargos ghignò mentre Zuril digitava un codice sulla tastiera. Soddisfatto, lo scienziato controllò il suo monitor. Finalmente, avrebbe avuto tutti i suoi dati; e in tempo reale.
Nella sala dove si trovavano i due ufficiali, un pannello nella parete si ritrasse, lasciando sporgere il proiettore. Un raggio piovve su Barendos, inondandolo di luce purpurea; il comandante piombò a terra e vi rimase come stecchito.
Dantus si precipitò subito in suo soccorso: – Stai bene?
Barendos scosse il capo, aprì un occhio, mise a fuoco l’immagine del collega.
– …Arf…! – fu tutto ciò che riuscì ad articolare.
Dantus si tirò immediatamente indietro.
Arf…?
Oh-oh…


E il resto, per dirla con il bardo, è bene che sia silenzio.

FINE






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Prima parte... la conclusione tra qualche giorno.

DA UOMO A UOMO

La navetta planò dolcemente, atterrando in mezzo alla pineta.
Il portello sulla fiancata si aprì e Harlock scese, avviandosi con passo sicuro tra gli alberi. La fattoria era a breve distanza, pochi minuti di cammino e finalmente avrebbe potuto incontrare l’uomo che stava cercando.
Adesso, basta. Avrebbe messo tutto in chiaro, avrebbe finalmente conosciuto quel tal Actarus e gli avrebbe parlato.
Perché questo era il suo stile: diretto e senza fraintendimenti.
Da uomo a uomo.


Erano finalmente uno di fronte all’altro: il pirata dello spazio e il principe extraterrestre. Un po’ più alto e magro il primo, meno imponente ma meglio proporzionato il secondo, diversissimi l’uno dall’altro. Entrambi avrebbero potuto risvegliare in qualsiasi donna quella voce atavica che spinge una femmina ad acchiappare per la gola il maschietto. E a tenerselo ben stretto.
– Tu saresti… Harlock…? – sorpreso, Actarus piantò in terra il badile con cui stava versando il letame.
– È arrivato il momento che noi due parliamo – disse Harlock – Non trovi anche tu?
– Sì... sì, certo – il tono di Actarus era tutto un “se lo dici tu”.
– Non voglio girare attorno al problema, per cui andrò subito al punto – annunciò Harlock.
Actarus annuì, gli occhi fissi sui broccoletti che non aveva ancora potuto finire di concimare.
– Sai anche tu a cosa mi riferisco – proseguì il pirata.
Actarus batté le palpebre e lo fissò: – Ah, sì?
– Venusia – insisté Harlock.
– Ah... oh. Certo, certo – Actarus tornò a fissare il letame, e improvvisamente ricordò di non aver ancora munto le vacche.
– Ti dico subito che lei per me è importante – asserì Harlock – Molto importante.
E allora che problema c’è?, fu sul punto di chiedere Actarus, cui non sarebbe parso vero di cavarsela in fretta visto tutto il daffare che aveva; poi vide l’aria seria e un po’ tesa dell’altro, e pensò che fosse meglio tacere e lasciar parlare. Certo che se si fosse sbrigato...
– ...non vuole più vedermi – stava continuando Harlock – È da un po’ di tempo che mi trova una serie di scuse assurde; penso che le sia successo qualcosa.
Ventisette qualcosa, per la precisione, si disse Actarus; ma naturalmente, si guardò bene dall’aprire bocca.
– In più, non ha mai voluto che io venissi qui, alla fattoria – aggiunse Harlock – Io avrei voluto presentarmi alla sua famiglia e farmi conoscere; ma lei me l’ha sempre impedito, e senza dirmi il perché.
– Ah.
– Adesso devo sapere come stanno le cose – concluse Harlock, fissando in viso il suo silenzioso interlocutore – Non sono uomo da piantare grane, ma voglio un chiaro quadro della situazione.
– Si capisce.
Harlock tacque, rimanendo in attesa.
Silenzio.
– Allora? – chiese infine.
Actarus lo guardò in faccia, un “allora cosa?” che gli lampeggiava nello sguardo.
– Venusia si è messa con te? – chiese Harlock, che era un tipo spiccio.
– Co-cosa…? – farfugliò Actarus – Venusia e io…?
– Non ti farò certo storie, voglio solo sapere la verità – aggiunse Harlock.
Actarus tacque, incerto sulla risposta da dare. Era stato sul punto di dire “figurati, amico, fai come se fosse Venusia tua”, ma qualcosa gliel’aveva impedito.
La verità era che, sì, ora che si trovava davanti Harlock, provava un certo disagio: il fatto che Venusia, la sua amica Venusia, la sua eterna innamorata, dedicasse le sue attenzioni a quel tizio, gli dava francamente un certo fastidio. Si sentiva un po’ come se avesse avuto nello stomaco un gatto vivo e molto, molto arrabbiato.
Aprì la bocca, incerto però su quanto avrebbe potuto dire, quando da dietro la rimessa spuntò Alcor che puntò direttamente verso di loro.
Il giovane era a dir poco di pessimo umore: andato a fare un giro in jeep, aveva sentito strani rumori provenire dal cofano, mentre nere nubi fuligginose gli avevano comunicato problemi al carburatore. Era rientrato subito verso casa, ma naturalmente l’auto l’aveva piantato in asso a metà strada.
Nessun uomo è di lieta disposizione d’animo, dopo aver spinto da solo la propria pesantissima vettura per un paio di chilometri di strada fangosa; se poi si aggiungono il pensiero di ore di lavoro di riparazione e la prospettiva dell’acquisto di costosi pezzi di ricambio, l’umore va decisamente sul brutto stabile, tendenza tempesta.
Vedere Actarus che parlava tranquillamente con quello sconosciuto alto e magro rese Alcor ancora meno gioviale e socievole.
– Ciao, Alcor – lo salutò Actarus, gentile come sempre – Lascia che ti presenti Harlock, il capitano dell’Astronave Alkadia…
– Non è l’amico di Venusia? – sbottò Alcor, guardando il nuovo venuto come avrebbe guardato una lumaca particolarmente viscida e bavosa; vide comunque la mano che gli veniva tesa e la strinse nella propria, sporca di fango e bisunta di grasso – Che sei venuto a fare, qui?
Harlock rimase con la mano insudiciata a mezz’aria, troppo ben educato per protestare: – Sono venuto a parlare con Actarus circa Venusia…
– Hai una bella faccia tosta! – sbottò Alcor, cui non pareva vero di sfogare i nervi con una bella, sana litigata – Vieni qui per parlare di Venusia? E proprio con Actarus!
– In effetti non capisco perché ne parli proprio con me – cominciò Actarus, frugandosi in tasca e cavandone un pacchetto di fazzoletti di carta che tese ad Harlock – Comunque, visto che ci tiene…
– Actarus, sei davvero impagabile! – continuò Alcor, che mai avrebbe messo Harlock in cima alla lista “Simpaticone dell’Anno” – Questo tizio ti porta via la ragazza, e come non bastasse…
– Venusia è la ragazza di Actarus? – chiese Harlock.
– Taci, tu non c’entri! – Alcor si piantò davanti ad Actarus: – Vuoi smetterla di renderti ridicolo? Questo qui ti sta prendendo in giro! Si è soffiato Venusia, e come non bastasse…
– Ma Alcor – obiettò gentilmente Actarus – Venusia non è la mia…
– Certo che non lo è! – gridò Alcor, ormai lanciatissimo – Perché tu te la sei lasciata scappare! Però sai bene che lei è sempre stata innamorata di te!
– Davvero? – domandò Harlock, interessatissimo.
– Sta’ zitto! – Alcor afferrò Actarus per il gilet e lo scosse: – Venusia è una bella ragazza, dolce, coraggiosa e leale… ed è pazza di te! Come puoi permettere che un tizio qualsiasi te la porti via?
– Beh, se lei è contenta… – cominciò Actarus, ma Alcor non lo lasciò finire. Aveva finalmente l’occasione buona per cantarle al suo perfettissimo amico, e non voleva certo lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione. Sordo a qualsiasi interruzione cominciò un vero panegirico di Venusia, descrivendola come una bellezza a dir poco ultraterrena; si dilungò poi sul comportamento di Actarus, che verso le grazie di tanta meraviglia aveva mostrato la sensibilità di un celenterato, e passò infine alla descrizione di Harlock, sordido e vile, che approfittando biecamente della situazione si era pappato un sì prelibato bocconcino. Il tutto mentre continuava a scuotere Actarus per il gilet, e mentre Harlock tentava vanamente di chiedere un minimo d’attenzione.
Erano arrivati ormai al punto in cui Alcor stava urlando a squarciapolmoni contro Actarus mentre Harlock, totalmente ignorato, sedeva mestamente sullo steccato, quando un rumor di zoccoli annunciò l’arrivo di Maria in sella alla sua giumenta preferita.
– Buon giorno – Harlock si alzò educatamente sperando finalmente di ricevere un minimo di considerazione; Maria non lo guardò nemmeno, saltò giù dalla cavalla e s’interpose tra i due contendenti urlando ancora più forte per farli smettere... o meglio, per far smettere Alcor, reo d’aver aggredito l’amato fratello.
Ci sono persone che, per quanto alzino la voce, non si faranno mai sentire; non Maria, che la Natura generosa aveva dotato di un tono squillante che era impossibile non udire. Più volte Alcor aveva giurato che uno strillo di Maria avrebbe sovrastato i famosi mille decibel di Mazinga Z; quel giorno, tutti compresero che il giovane non aveva affatto esagerato.
Ottenuto silenzio, Maria chiese di avere un chiaro quadro della situazione; come fu e come non fu, non appena l’ebbe ottenuto il putiferio scoppiò peggiore di prima, con Alcor che sbraitava contro Actarus, Actarus che tentava di difendersi e Maria che ululava ora pigliandosela con il primo, inetto e bietolone, ora con il secondo, reo di strapazzarle l’adorato fratello.
Ovviamente, Harlock non poté far altro che sedersi al suo posto, sospirando.
Aveva voluto fare la conoscenza dei parenti di Venusia? Eccolo accontentato.
Nessuno di loro aveva la minima considerazione per lui; comunque, quei tre non erano l’intera famiglia di Venusia. A giudicare da quanto lei gli aveva narrato, ne mancava ancora qualcuno...
Harlock stava giusto considerando quest’ultimo punto quando da dietro l’angolo della scuderia spuntarono Banta e relativa madre – e qui, bisogna dire che solo il suo perfetto autocontrollo permise ad Harlock di mantenersi impassibile. In effetti, la visione di Hara in tubino ultracorto rosa shocking con paillettes d’oro e fusciacca blu elettrico in vita era una visione tale da segnare per sempre la mente di un uomo.
– Buongiorno – educato come sempre, Harlock s’alzò in presenza di quella che era nonostante tutto una signora; Banta non gli badò nemmeno, lo spinse da parte e si tuffò subito nella mischia. Mai gettar via la possibilità d’una buona scazzottata, questa era una delle sue scarsissime ma ben radicate idee.
Harlock considerò con una certa tristezza il fatto di essere stato ancora una volta messo da parte; niente da fare, evidentemente lui meritava la stessa considerazione di un mucchio di concime. Nessuno gli dedicava un minimo d’attenzione...
Non proprio “nessuno”.
Davanti a lui, posa ultrasexy e sguardo che era tutto un peccaminoso invito, Hara lo sogguardava canticchiando un qualcosa che suonava “vulevù cuscè avec muà?”.
Avevo voluto attenzione? Bene, l’ho avuta, si disse Harlock, che nonostante fosse un uomo di coraggio a tutta prova stava cominciando a sentire gelidi sudorini che gl’imperlavano la fronte.
Si guardò rapidamente in giro: gli altri erano occupatissimi a sbraitarsi addosso, nessuno si era accorto delle ancheggianti manovre d’avvicinamento cui era sottoposto... e fu allora che, inaspettato, giunse l’aiuto del Cielo.
Alcor colpì Banta al mento mandandolo a ruzzolare nella polvere. In Hara, la mamma ebbe il sopravvento sulla fatal lady: con uno strillo d’amor materno, la donna si precipitò a verificare lo stato di salute del suo cucciolo, che robusto com’era non s’era fatto ovviamente nulla.
Un secondo dopo, l’inferno si scatenò nuovamente, peggiorato stavolta anche dai barriti di Hara, che urlava contro Alcor che aveva colpito il suo pargolo, contro Maria che lo sosteneva e contro Actarus, che cercava di mettere pace e che ovviamente si meritava gli ululati più forti.
Harlock tornò filosoficamente a sedersi sul suo steccato. Pazienza…
Il tempo passava senza che nessuno dei contendenti desse il minimo segno di cedimento.
Il capitano stava cominciando a riflettere sull’incredibile resistenza che possono avere delle corde vocali, quando dalle scuderie giunse Rigel, cappello da cowboy e giubbetto di pelle, seguito da Mizar.
Ancora una volta, Harlock si alzò educatamente, preparandosi spiritualmente a venire nuovamente ignorato; con sua grande sorpresa, Rigel snobbò la rissa e gli dedicò immediatamente tutta la sua attenzione.
– Il capitano Harlock? – esclamò, deliziato – E magari comandate un’astronave?
– Sì, l’Alkadia, che…
– Ah, uno spaziale! – Rigel sfoderò il sorriso tutto denti delle grandi occasioni – Io sono amico degli extraterrestri, sapete? A dire il vero, io sono il Presidente del Club degli Amici degli Extraterrestri, e sono anche il fondatore del club...
– E sei anche l’unico membro – puntualizzò in fretta Mizar.
– Sì, infatti sono anche... Mizar! Ma come ti permetti di mancar di rispetto a tuo padre! ...Ah, questi figli! – esclamò, rivolgendosi di nuovo ad Harlock, cui non pareva vero d’aver finalmente trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo – Dunque, voi siete uno spaziale. Sicuramente, avete atterrato qui perché avete captato i miei segnali intergalattici... – ripensò al decrepito, scassissimo microfono di cui si serviva per i suoi messaggi e glissò rapidamente circa l’efficacia delle sue comunicazioni con gli E.T. – Insomma, avete atterrato qui con il vostro disco perché volevate conoscere un vero amico degli Extraterrestri...
– No, perché volevo conoscere il padre di Venusia – disse Harlock.
Un silenzio terribile cadde sulla fattoria. Alcor smise di strapazzare Banta, Banta cessò di tentar di fare a pugni con Alcor, Hara finì di urlare addosso all’incolpevole Actarus, Maria s’interruppe nel bel mezzo d’un sovracuto, Mizar si tirò il cappello sugli occhi per non assistere alla deflagrazione che sarebbe inevitabilmente seguita; tutti guardarono l’incauto capitano che aveva osato l’inosabile.
– Venusia? – chiese Rigel, calmo in modo alquanto sospetto – Che c’entra mia figlia?
Actarus gli fece rapidamente segno di star zitto, ma naturalmente il pirata non se ne accorse.
– Sono un suo amico – rispose Harlock, con l’innocente tranquillità di chi non sa di star passeggiando in un campo minato.
– Frittata...! – gemette Alcor.


- Continua -

 
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Seconda ed ultima parte.


Per un attimo, Rigel si fece verde spinacio, per poi virare rapidamente al paonazzo con sfumature violette; inspirò con foga, mentre fremeva in tutto il corpo. Tutti compresero che l’eruzione era imminente.
– COSA??? – l’ululato che emise avrebbe sovrastato persino gli strilli di Maria – Un amico di mia figlia? E me lo vieni a dire così? Ma io t’ammazzo!
Balzò in avanti, pronto a mettere in atto i propri micidiali propositi, e vi sarebbe sicuramente riuscito se Actarus non fosse stato rapidissimo ad acchiapparlo, cinturandolo con una tecnica degna d’un giocatore di rugby: – Rigel, ti prego, rifletti…
– Prima lo macello e poi rifletto!
– Ma lui non sapeva che…
– Ha osato avvicinare mia figlia! Deve morire!
Come d’incanto, anche tra i rimanenti individui scoppiò nuovamente l’inferno. Alcor e Banta ripresero ad urlarsi addosso, mentre Maria e Hara, prendendo ciascuna le parti del proprio beniamino, dimenticata ogni forma di diplomazia cominciavano a strapparsi i capelli. Nel frattempo, Actarus continuava a tentar di trattenere l’iratissimo e scalciante Rigel, aiutato in questo anche da Mizar, purtroppo con risultati pressoché nulli.
Attonito, Harlock rimase immobile e silenzioso, contemplando lo spettacolo un po’ come farebbe uno scienziato che studia le relazioni in un branco di bufali.
Il pandemonio era ormai arrivato all’acme – per quanto, dati gli individui, Harlock fosse intimamente convinto che avrebbero saputo combinare di peggio – quando la porta della casa si aprì e Venusia fece la sua comparsa.
Il rumore della doccia prima e il phon dopo le avevano impedito di sentire quanto stava accadendo in cortile, anche se, a dire il vero, date le abitudini domestiche difficilmente si sarebbe allarmata sentendo qualcuno strillare; casomai, avrebbe trovato il silenzio strano e sospetto.
Vedere i suoi amati congiunti dare il peggio di sé stessi proprio davanti ad Harlock l’imbarazzò terribilmente.
Non provò a zittire i suoi cari: anni d’esperienza le avevano insegnato che in quei casi è meglio lasciar perdere, a meno, si capisce, di disporre di un buon idrante e di acqua fredda a volontà.
Guardò di sfuggita Harlock, e subito abbassò gli occhi. Se mai lui si era chiesto perché lei non avesse voluto presentargli papà e il resto della famiglia, benissimo: sicuramente ormai l’aveva capito da sé.
Si voltò ancora verso i familiari (proprio in quel momento, Rigel aveva tentato di mordere Actarus e aveva invece azzannato Banta, rendendo ancora più furibonda la zuffa tra questi ed Alcor); poi distolse gli occhi, mentre sentiva il viso farlesi di fuoco.
Drizzò la testa: lì era nata, quelli erano i suoi familiari. Punto. Negare, tentare di nascondersi non serviva a nulla. Meglio che Harlock sapesse bene chi era lei… e se si fosse seccato, peggio per lui.
Bene, Harlock, ecco la mia famiglia. Spero proprio che tu non sia deluso, perché la realtà è questa e nessun’altra…
Incrociò lo sguardo di lui: s’era aspettata fastidio, disprezzo, delusione.
Trovò invece comprensione, solidarietà, persino un pizzico d’umorismo.
Harlock gettò un’occhiata alla marmaglia urlante, e tornò a rivolgersi a Venusia; come sempre, si capirono al volo.
“Ti porto via da tutto questo?” “Sì, per favore!”
Fu proprio allora che Rigel, che aveva continuato a divincolarsi come un ossesso mentre Actarus lo bloccava tenendolo sollevato da terra, deciso a liberarsi sferrò un calcio. Aveva mirato allo stinco, colpì invece parecchi centimetri più in alto ma il risultato fu uguale: si ritrovò improvvisamente libero, mentre Actarus, centrato in pieno nel suo orgoglio maschile, crollava a terra mugolante e piegato in due.
– Senti un po’ Venusia! – esplose l’irato genitore – Si può sapere chi è questo tizio?
Lei alzò il mento, battagliera: – È Harlock, papà. Ti avrei già parlato di lui, ma…
– Quest’individuo sostiene di essere il tuo amico! – ululò Rigel, col tono con cui i suoi antenati avevano urlato “Banzai!” – È vero? Confessa, figlia degenere!
Harlock si fece avanti: non era certo sua abitudine restare in disparte lasciando una fragile donna in pericolo, per cui s’accinse cavallerescamente ad affrontare le ire paterne di Rigel: – Scusate, signore, se proprio dovete arrabbiarvi prendetevela con me. Io…
– Tu non c’entri! – sbraitò Rigel, voltandogli subito le spalle per fronteggiare la figlia: – Insomma, Venusia, si può sapere chi è questo tizio?
– Ve lo stavo appunto dicendo! – esclamò Harlock, venendo subito zittito da un nuovo urlaccio.
– Non voglio nemmeno sentirti! – Rigel si piantò davanti alla figlia: – Allora, scostumata! Chi è quest’individuo?
Ora, nonostante fosse un pirata eccezionalmente educato e di buon carattere, Harlock stava cominciando a sentirsi scaldare le orecchie; fu allora che intervenne Venusia, che gli mise una mano sul braccio trattenendolo: – Ti prego, Harlock. Lascia che ci pensi io.
Se fino ad un attimo prima la collera di Rigel era sembrata al suo acme, tutti dovettero ricredersi. Vedere la figlia mostrare una simile familiarità con Harlock fece esasperare maggiormente il genitore: – E osi comportarti così davanti a tuo padre?
Venusia, come già detto in altri momenti, era una fragile donna, molto dolce e femminile; ma quel che è troppo, è troppo.
– Papà! BASTA!
Rigel ammutolì: aveva riconosciuto il ruggito della leonessa inferocita. Parve rattrappirsi su sé stesso mentre la figlia, senza tanti giri di parole, gli diceva in faccia cosa pensava di lui, delle sue manie e soprattutto di quel suo assurdo atteggiamento anti-boyfriend.
– Sono stufa! Me ne vado! – gridò Venusia, a mo’ di conclusione.
– Ma Venusia, non puoi andartene con questo tipo! – esclamò Rigel, che stava riprendendo il suo spirito indomito.
– Invece è proprio quello che farò! – Venusia scomparve in casa e ne schizzò fuori quasi subito con una valigia stretta in mano. Mizar guardò l’orologio: sua sorella aveva preparato il bagaglio in meno di trenta secondi. Un record.
– Sei una svergognata! – ululò suo padre – Non tornare più in casa mia, se non ti sarai liberata di quel… quel…
– Sta’ tranquillo: non tornerò! – sibilò sua figlia – Non metterò più piede in questo posto, finché anche Harlock non sarà il benvenuto!
– Non dire così… – cercò di rabbonirla l’interessato, a disagio per la tempesta di cui era l’involontaria causa; ma ancora una volta, nessuno gli diede bado.
– Quel tizio non sarà mai il benvenuto, qui! – ululò Rigel – È la mia ultima parola!
– Allora, addio! – concluse Venusia, incamminandosi a passo svelto verso il cancello.
Per un istante, Rigel ammutolì: non si era certo aspettato che sua figlia osasse tanto… ma va bene, che se ne andasse! Che provasse a fare di testa sua, che si scontrasse con la dura realtà!
– Va’ pure! – gridò, enfatico – Abbandona tuo padre, tuo fratello, la tua casa, i tuoi doveri! Tanto, so già che tornerai strisciando!
– Non credo proprio – Venusia si fermò sul cancello ed aggiunse: – Dovrai scusarti, papà.
Rigel si fece porpora acceso: – Scusarmi? IO?!
Lei si permise un sogghigno perfido: – Fidati: lo farai. So che lo farai. …Andiamo, Harlock? – girò sui tacchi e s’allontanò, eretta e sicura. Lui rivolse un cenno di saluto ai presenti, ma ovviamente nessuno se ne accorse, occupati com’erano ad assistere Rigel, i cui valori pressori stavano raggiungendo vette da Guinness dei Primati.
Guardò Actarus, che nel frattempo era riuscito a recuperare il dominio sulle proprie interiora e a rimettersi in piedi.
Aveva voluto incontrarsi con lui, da uomo a uomo; in conclusione, lo scontro era stato tra padre e figlia. Imprevisti della vita.
Proprio allora, Actarus guardò verso di lui: in un attimo, parvero capirsi. Probabilmente, se mai avessero potuto conoscersi meglio si sarebbero trovati simpatici.
Harlock rivolse un cenno di saluto a quello che aveva considerato un suo rivale, prima di raggiungere Venusia per guidarla verso la pineta dove aveva nascosto la sua navetta.
Ancora un po’ traballante sulle gambe, Actarus vide Venusia allontanarsi in fretta al fianco di Harlock… e improvvisamente, nettissimo, sentì risvegliarsi nello stomaco il gatto: vivo e decisamente molto, molto nervoso, quasi avesse avuto una legione di pulci all’assalto del suo portacoda.
Fu allora che, lento ma inequivocabile, dalle nebbie della sua mente emerse un interrogativo: era forse geloso?
…Possibile…?

Epilogo primo
L’Alkadia sfrecciava silenziosamente tra le stelle; dal ponte di comando la vista era a dir poco stupefacente, ma in quel momento Venusia aveva altro da pensare.
– Harlock… adesso mi capisci, vero?
Nonostante il suo perfetto aplomb, Harlock sbarrò l’occhio; poi si guardò rapidamente in giro.
In un angolo, Yattaran il nostromo stava giocando con uno dei suoi modellini d’astronave accompagnando il tutto con effetti sonori (leggi: faceva “brbrbrbrbrbrbrbr”)
In un altro angolo, Meeme l’extraterrestre suonava l’arpa facendosi di tanto in tanto un cicchetto dalla bottiglia di liquore che teneva a portata di mano.
Appollaiato sullo schienale della poltrona del comandante, l’enorme uccellaccio nero che da anni era il fedele compagno di Harlock stava sbafandosi un buon metro di salsicce che si era rubato in dispensa.
Accucciata sulla consolle principale del computer, la gattina del Dottor Zero stava facendo sparire un cosciotto arrosto che a sua volta aveva sottratto dalla mensa.
Il Dottore stesso stava litigando a gran voce con la cuoca, che armata di mannaia ululava di volersi fare un collo di pelliccia con la gattina e un piumino da polvere con l’uccellaccio.
Dopo un’eloquente occhiata circolare del ponte di comando della nave, Harlock tornò a guardare Venusia: – Davvero pensavi che avrei trovato i tuoi parenti un po’ strani?
Lei seguì il suo sguardo, vide quel che lui aveva visto e ammutolì.
– …Ti faccio un tè, caro? – chiese infine.


Epilogo secondo
L’intera famiglia (molto allargata) Makiba sedeva a tavola per la cena; il clima era lugubre.
Qualche cerotto faceva bella mostra di sé, alcuni graffi spuntavano su visi e braccia, qualche livido era improvvisamente fiorito su alcune zucche; ma non era questo il problema. Una scazzottata tra amici era sempre stata considerata qualcosa di assolutamente normale, e nessuno si era mai risentito per essere stato fatto segno di uno sgrugnone.
Il problema, ben più grave, era un altro.
Mancava lei: Venusia, la grande assente.
Tutti sentivano quanto fosse vuota la casa senza di lei, senza la sua presenza discreta, senza la sua voce gentile, senza...
– È pronto! – Maria arrivò dalla cucina, portando una grande pentola fumante.
Ecco, era proprio nel momento del pasto che la mancanza di Venusia si faceva ancora più viva... come non accorgersi del suo posto a tavola, desolatamente vuoto?
Actarus sospirò leggermente: il fatto era che Venusia gli mancava, e molto.
Pensare poi che lei era con Harlock lo disturbava ancora di più: lui era simpatico, certo, ma… ma… (e qui, il gatto diede un’altra artigliata).
Con l’allegra incoscienza che le era propria, Maria afferrò uno ad uno i piatti che le venivano porti e li riempì generosamente, con ampi gesti che avrebbero voluto essere sicuri – e che causavano una vera pioggia di schizzi di sugo ovunque.
In silenzio, tutti contemplarono quel che avevano davanti: era uno stufato il cui aspetto alquanto improbabile denotava l’inconfondibile tocco culinario di Maria.
– Su, mangiate, o si raffredda! – esclamò l’autrice di tanto capolavoro.
Sospiri accompagnarono il primo approccio allo stufato; smorfie e rantoli schifati fecero seguito al secondo.
– Non mi direte che non vi piace! – sbottò Maria, servendosi la propria porzione – Ho passato tutto il pomeriggio a faticare per voi!
Alcor si schiarì la voce: – Io avevo proposto di andare a prendere la pizza al taglio…
– Non fare il bambino, Alcor! – lo redarguì lei – Badassimo a te, vivremmo solo di schifezze, invece di cibi genuini e sani, cucinati in casa!
Peccato che i cibi cucinati in casa non è detto che siano sempre sani, avrebbe voluto dire Alcor, mentre osservava con diffidenza la montagnola grigiastra che si liquefaceva lentamente davanti a lui.
Tutti mandarono un pensiero colmo di rammarico all’assente Venusia (oh, i suoi spezzatini! I suoi minestroni!) e si accinsero ad affrontare la poltiglia appiccicosa che ristagnava nei loro piatti.
Dopo un primo, cauto assaggio Actarus ebbe un rapido scambio di sguardi con Alcor: “Bicarbonato, ce n’è?” “Una scatola intera” “Meno male...”
Bastarono pochi bocconi perchè tutti si sentissero improvvisamente sazi.
Il malumore di Actarus verso Harlock aumentò: pensare che in quel momento lui era assieme a Venusia! Pensare che lei gli dedicava tutta la sua attenzione, che lo guardava come sapeva guardare lei, occhi stellanti e boccuccia tutta un cuore… pensare (e a questo punto, il gatto sfoderò tutti i suoi artigli) che magari lei gli stava servendo uno dei suoi favolosi arrosti con patatine…!
Occhi colmi di rancore si posarono su Rigel, la cui inopportuna scenata aveva causato l’allontanamento della cuoca di casa; e quanto sarebbe durato questo allontanamento, purtroppo non era dato sapere. I tempi si annunciavano foschi, forieri di lente, sofferte digestioni.
Con l’incoscienza che le era propria, Maria si mise in bocca un pezzo di stufato; impallidì facendosi verdastra, masticò molto a lungo e infine inghiottì, accompagnando il tutto con un’abbondante sorsata d’acqua. Nemmeno lei ebbe il coraggio di rimproverare i compagni per lo scarsissimo entusiasmo con cui avevano accolto il suo manicaretto.
Affrontò coraggiosamente il secondo boccone, ma la Natura fece il suo corso: una fuga rapidissima in bagno, e il corpo estraneo venne immediatamente espulso.
Oppresso dalla pubblica riprovazione, schiacciato dagli sguardi accusatori dei compagni di mensa, Rigel ultimò senza fiatare l’immonda poltiglia che aveva davanti. Adesso cominciava a capire cosa avesse inteso Venusia, sul punto di andarsene: non per nulla, era sicura che lui avrebbe dovuto capitolare.
Implacabile, Alcor gli versò una seconda, generosa porzione.
Mentre tentava di districarsi dai denti qualche colloso rimasuglio di stufato, Rigel si voltò verso Actarus: – Quello là, quel tizio che era venuto oggi... allora era lui l’amico di Venusia?
– Proprio lui. Harlock. – rispose gentilmente Actarus, che era appena riuscito a scollarsi un boccone dal palato.
Rigel considerò la fanghiglia grigiastra che ristagnava nel suo piatto, ripensò ai manicaretti della figlia assente ed aggiunse: – Sembra simpatico. Dici che potremmo invitarlo a cena alla fattoria?
Alcor colse la palla al balzo: – Se cucinerà Venusia, magari…
– Certo, certo – s’affrettò ad assicurare Rigel – Maria è tanto volonterosa, ma… – un interiore sussulto pericoloso lo avvertì dell’instabilità del suo stomaco. Tempesta in vista – Insomma, forse la cucina non è il suo forte…
– Forse no – Actarus raccolse gli avanzi di stufato e li rimise nella zuppiera, pronti per essere gettati nel letamaio.
– Domani chiamiamo Venusia e le diciamo che lei e Harlock sono i benvenuti – affermò Alcor, deciso.
– Dovrai scusarti con Venusia – aggiunse Actarus, giubilante: Venusia sarebbe tornata! Quasi quasi, si sentiva felice anche all’idea di rivedere Harlock. In fondo, sembrava simpatico (e a questo punto, il gatto s’acciambellò cominciando a ronfare).
– Dovrai essere molto convincente – insisté Alcor – Altrimenti… ecco cosa ci aspetterà per il futuro – ed accennò con un gesto drammatico alla zuppiera ricolma di poltiglia.
Rigel trattenne il fiato: il suo orgoglio gl’impediva di scendere a compromessi, certo. Per quanto fosse affezionato alla figlia, mai avrebbe ceduto, mai si sarebbe piegato, anche a costo di restare settimane intere senza Venusia – e di nutrirsi con le prelibatezze ammannite da Maria.
Ripensandoci, e provando una vaga nausea alla sola idea, prese seriamente in considerazione la possibilità di uno sciopero della fame.
Ma si sa, lo stomaco conosce ragioni che la ragione non conosce.
– Va bene, mi scuserò – Rigel si deterse la fronte, imperlata di gelidi sudorini – Ehm… qualcuno ha un po’ di bicarbonato?


E fu così che, per dirla con il poeta, più che l’amor (paterno), poté il digiuno.





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view post Posted on 28/12/2009, 22:48     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Ecco la prima parte del mio regalo per le feste... la seconda parte la posterò a breve, assieme alla versione scaricabile.

Con i miei più affettuosi auguri per un felice anno nuovo.



…AND HAPPY NEW YEAR


Prologo – Nave Alkadia – 15 Dicembre

– Mi capisci, vero, Harlock? – disse Venusia – Natale, la festa di Capodanno... papà ci tiene tantissimo che le trascorriamo tutti insieme... adesso poi che c’è anche stato quell’invito della principessa Rubina...
Harlock rimase un attimo in silenzio prima di guardarla, un lieve sorriso che gl’increspava il volto serio: – Capisco. Passa pure le feste con la tua famiglia; però, dopo Capodanno vedi di trovare un po’ di tempo per noi due.
– Ma certo! – piena di gratitudine, Venusia gli saltò al collo stampandogli un paio di baci, per nulla passionali ma molto spontanei – Mi prenderò un’intera settimana, così per la mia festa saremo insieme!
– La tua...? – si stupì Harlock – Vuoi dire il tuo compleanno? Ma io credevo...
– Parlo della Befana – rispose lei, con un pizzico di civetteria – Mizar mi dice tutti gli anni che è la mia festa.
– Cosa t’aspetti da un fratello? – Harlock si permise una delle sue rare, silenziose risate; poi le tese un minuscolo congegno: – Prendilo: è un teletrasportatore istantaneo. Quando vorrai raggiungermi sull’Alkadia, dovrai solo premere il pulsante rosso.
Venusia mise in tasca il piccolo apparecchio: – Se non funziona, posso sempre arrivare a cavallo della mia scopa.
– E brava la mia Befanina – Harlock si chinò in fretta, evitando il cuscino che lei gli aveva scagliato addosso.
A questo punto seguì una battaglia a cuscinate destinata poi a sfociare in un epilogo di genere del tutto diverso sul quale non è il caso di soffermarsi.


Skarmoon – 28 Dicembre

– Non capisco perchè tu abbia voluto invitarli…! – sbottò Re Vega, e dire che era di pessimo umore e è usare un eufemismo.
– Te l’ho già spiegato, papà! – sospirò Rubina, appoggiandosi addosso un vestito bianco e guardandosi allo specchio – Almeno durante le feste, che sia pace tra i popoli.
Re Vega rabbrividì: niente da fare, la parola “pace” alle sue orecchie suonava melodiosa come lo stridio delle unghie sulla lavagna: – Continuo a pensare che sia tutta una sciocchezza!
Rubina gettò su una poltrona l’abito: no, così candido faceva troppo sposa. Eccessivamente allusivo, Duke sarebbe scappato a gambe levate solo a vederla: – Papà, come possiamo arrivare alla pace con la Terra se non tentiamo di parlarci, di capirci? – scelse un vestito blu notte e tornò davanti allo specchio.
– “Pace con la Terra”…? – boccheggiò Re Vega, inorridito – Rubina, ma sei impazzita? Sono i nostri nemici!
– Lo sono solo perché siamo in guerra con loro – rispose sua figlia con ineffabile logica – Nel momento in cui tratteremo la pace, non avremo più nessun motivo per non andare d’accordo.
Pace, andare d’accordo… Re Vega provò un senso di nausea.
– Ma noi non tratteremo la pace! – cominciò Sua Maestà; incrociò lo sguardo ustorio di sua figlia e pensò bene di correggere: – Voglio dire, non so se i terrestri sono interessati…
– Ottimo motivo per invitarli qui, non ti pare? Così parleremo con loro e vedremo di conoscerci meglio – fece una smorfia: quell’abito blu così scuro le dava un’aria molto seria e matura… la invecchiava, insomma. Via, via.
Re Vega intrecciò tra loro le dita, occhieggiando la figlia che esaminava un vestito rosa pallido, molto elegante, che s’armonizzava perfettamente con la sua pelle bianca e i capelli rossi. Rubina si guardò a lungo, girandosi e rigirandosi per controllare meglio l’effetto: le stava benissimo, e lo sapeva. Ma…
– Insomma, cos’ha la guerra che non ti piace? – esclamò infine suo padre, accorato.
Lei lo guardò come si guarda un perfetto imbecille: – Papà, ma che dici! È ovvio che tutti, tutti, ripeto, vogliano la pace!
– Veramente…
– Qualsiasi persona dotata d’un minimo d’intelligenza capisce che la violenza e la guerra sono l’origine di tutti i mali!
Re Vega ammutolì: – Che dici? Qualsiasi persona…?
– Dotata d’un minimo d’intelligenza, sì – Rubina aggrottò le sopracciglia, sempre contemplandosi nello specchio – Solo un perfetto idiota può preferire la guerra!
Porc…!
– Hai detto qualcosa, papà? – chiese distrattamente Rubina.
– Ho detto “ma certo” – rispose suo padre, vile.
Spazientita, la principessa mise da parte anche quel vestito. Sapeva che una volta che l’avesse indossato sarebbe stata bellissima; però, non era ancora soddisfatta.
Non voleva essere bellissima.
Voleva essere irresistibile.
Voleva essere sicura di trascinare Duke sotto al vischio, di baciarlo e di strappargli finalmente la tanto agognata promessa di matrimonio: quelle nozze avrebbero portato alla fine della guerra e la pace tra i popoli – c’era anche il non indifferente fatto che lei avrebbe finalmente avuto Duke per marito, ma la pace, si capisce, era la scusa ufficiale.
Provò infine l’ultimo vestito, il suo preferito, di una tonalità azzurro turchese che s’intonava perfettamente al colore dei suoi occhi… e non ebbe dubbi.
Quello.
– Insomma, vuoi la pace – brontolò suo padre, imbronciato come un bimbo che vede sfumare il suo gioco prediletto – È per questo che dovremo sopportare quei terrestri odiosi e trascorrere con loro la notte di capodanno?
– Per questo – confermò la figlia, voce dolcissima e volontà granitica.
– Se pensi che io accetti di sedere a tavola con quel… quel Duke Fleed…
– Sì? – Rubina gli scoccò un’occhiata che avrebbe arrostito un pinguino in tre secondi – Cosa stavi dicendo, a proposito dei nostri ospiti?
Re Vega si sentì mancare il fiato.
– Non sono affatto contento d’averli tra i piedi! – si passò un dito nel colletto e aggiunse: – Non penserai che io intenda mettermi elegante e far finta di niente, mentre quella gente siede a tavola con noi…
– Vuoi dire che non parteciperai alla cena? – Rubina era troppo signora per mettersi le mani sui fianchi e cominciare a dire il fatto suo a papà, ma il concetto era quello, e suo padre se ne accorse subito.
– No, no – s’affrettò ad assicurare; poi, deciso a non cedere proprio su tutta la linea, optò per l’aperta ribellione: – Verrò alla tua dannatissima cena, certo! Ma se credi che mi metta in ghingheri per quei… quei… beh, ti sbagli di grosso! I vestiti d’ogni giorno sono più che sufficienti, per gente simile!
Rubina inarcò pericolosamente le sopracciglia, e per un istante suo padre s’attese la deflagrazione; inaspettatamente, la principessa sorrise, dolcissima.
– Molto bene, se desideri così, fai pure. Vieni anche in pigiama e pantofole, se proprio ci tieni. – gli voltò le spalle e prese a riporre nell’armadio i vestiti, piegandoli ordinatamente; poi si lasciò sfuggire un sospiro molto lungo e molto artistico: – Che peccato…!
Era una trappola, naturalmente; altrettanto naturalmente, suo padre vi cadde a capofitto: – In che senso, “che peccato”?
– Ovviamente, alla cena parteciperanno anche le signore – la voce di Rubina stillava miele – Devo anche dirti che alcune di loro sono davvero carine… no, belle. Molto belle.
Re Vega drizzò le ampie orecchie: – …Belle…?
– Bellissime. Sono sicura che saranno anche molto eleganti… beh, naturalmente tu sei il padrone di casa e sei pure un re, per cui nessuno troverà da criticare il tuo aspetto, non trovi?
Suo padre non l’ascoltava nemmeno. Belle donne… molto eleganti… ci voleva il mantello porpora, quello con i ricami d’oro! Poi, naturalmente, avrebbe dovuto indossare le sue vesti più sontuose, quelle blu che s’intonavano perfettamente con la tinta del mantello … niente gioielli, solo la corona, altrimenti sarebbe stato troppo cafone… se mai, solo un qualcosina… un anello, magari. Ecco, uno solo.
Rubina sorrise tra sé e s’avviò verso la porta, lasciando suo padre intento a scrutare con occhio critico la propria immagine nello specchio.
Proprio mentre la principessa usciva Sua Maestà osservò pensosamente la propria barba, chiedendosi se non fosse il caso di accorciarla un pochino e magari dare pure un’arricciata alla punta.


Terra – 28 Dicembre

– Non ditemi che su Vega c’è l’usanza di baciarsi sotto al vischio! – esclamò Alcor, che già stava architettando uno stratagemma che gli avrebbe permesso di baciare sia Maria che Sayaka.
– No, naturalmente loro non hanno il vischio! – esclamò Sayaka.
– Infatti, lo porteremo noi – aggiunse Maria.
– Non mi meraviglia! – rise Alcor – Non mi vedo i veghiani avere tradizioni romantiche…
– Invece, ti sbagli! – lo riprese dolcemente Sayaka.
– Persino loro hanno le loro tradizioni per la festa di Capodanno – asserì Maria.
Chissà perché, Alcor provò una leggera inquietudine… non c’era motivo di preoccuparsi, ma il suo istinto gli stava facendo tintinnare nel cervello un campanellino d’allarme: – Ah, sì? E che tradizioni hanno?
– Ne hanno una – rispose Sayaka, il viso che irradiava innocenza.
– Una sola, ma molto, molto romantica – totale candore, ecco cosa esprimeva il viso di Maria.
– Oh – Alcor sentì che il campanellino si stava trasformando in campana a martello – E che tradizione sarebbe?
– Anche loro si baciano, solo che lo fanno una volta sola – spiegò Sayaka, mentre sulle sue spalle parevano protendersi candide alucce.
– Baciano solo la persona che per loro è più importante di tutte – le nivee ali di Maria frullarono, mentre Alcor vacillava. La campana a martello era diventata una sirena d’allarme antiaereo.
– Praticamente, portare qualcuno sotto al vischio per loro è una dichiarazione, un impegno – disse Sayaka, mentre un’aureola dorata scintillava sulla sua testa.
– Naturalmente, faremo così anche noi – aggiunse Maria, e la sua aureola prese a brillare.
– Capisci che cosa vuol dire, Alcor? – le parole di Sayaka raggiunsero toni angelici.
– Vuol dire che potrai baciare una sola di noi – completò Maria, e la sua voce era un coro di serafini.
Alcor ebbe come un mancamento. Le due ragazze si scambiarono un’occhiata d’intesa e poi diedero all’unisono il colpo di grazia: – E allora, vedremo a chi di noi due tieni veramente


Skarmoon – 29 Dicembre

Per quanto i veghiani fossero naturalmente poco inclini al pettegolezzo, la faccenda della cena propiziatrice di pace tra i popoli fece immediatamente il giro della base lunare.
Curiosamente, nessuno ebbe da ridire circa la stranezza di una serata tra nemici; anzi, la notizia che al cenone dell’ultimo dell’anno sarebbero intervenuti quali ospiti Duke Fleed e relativa compagnia passò in second’ordine rispetto alla seconda notizia, assai più interessante: in quel “e compagnia” erano comprese varie signore di rara bellezza.
Ovviamente, i più interessati alla cosa furono i comandanti di Vega, che in virtù del loro altissimo rango avrebbero partecipato alla serata; tutti cominciarono quindi a pensare freneticamente a come mostrarsi nel proprio aspetto migliore, in modo da colpire le deliziose ospiti con il proprio maschio fascino.
L’unico che non meditò per nulla su questo fu Gandal: a dire il vero un pensierino l’avrebbe fatto anche lui, ma la costante presenza della moglie gli legava le mani. Quando si è nati iellati, si è nati iellati…
Se poi il Supremo Comandante di Vega avesse avuto da ridire sulla questione della cena con gli odiati nemici, non è dato sapere: sua moglie gli aveva da subito fatto capire che da parte sua sarebbe stato mooolto carino evitare qualsivoglia esternazione negativa, e lui, da quell’uomo tutto d’un pezzo che era, s’era prontamente adeguato.
I preparativi fervevano, frenetici: dopo una serie di discussioni, le signore avevano deciso che Rubina e lady Gandal si sarebbero occupate della preparazione della tavola, degli addobbi per la sala, insomma, dell’organizzazione della serata, mentre Venusia e Jun, entrambe eccellenti cuoche, si sarebbero incaricate della cena vera e propria.
A dire il vero lady Gandal aveva più volte insistito per preparare a sua volta un piatto o due, e ne era stata dissuasa con dolce fermezza: aveva già i suoi compiti, non poteva certo accollarsi tutto, era sempre lei che si disturbava, per una volta avrebbe riposato… alla fine lady Gandal era riuscita a strappare il permesso di preparare un manicaretto. Uno solo, beninteso – e qui, Zuril aveva drizzato le aguzze orecchie. Conosceva bene le specialità della signora… qualcosa d’interessante, stava profilandosi all’orizzonte.
Ma se Zuril si fregava le mani all’idea delle nuove, letali creazioni culinarie dell’ineffabile signora, gli altri ufficiali di Vega per un motivo o per l’altro stavano attendendo la serata con ansia crescente.
Il più agitato era Hydargos: l’idea di rivedere Venusia, e magari di farci scappare un’altra avventuretta, lo stuzzicava parecchio. Nonostante fosse passato un certo tempo dal loro ultimo – e unico – romantico rendez-vous, nonostante l’orribile guerra li avesse inesorabilmente separati, lui non l’aveva mai dimenticata: rivederla ora in un contesto di pace e fratellanza gli pareva un segno del Destino.
Praticamente sicuro di riallacciare antichi legami, Hydargos non faceva che sospirare e sognare ad occhi aperti, mentre il suo allungato viso bluastro assumeva una dolce espressione da triglia al cartoccio.
Normalmente le sue fantasticherie non sarebbero passate inosservate (e come avrebbero potuto?). In quel caso, però, fu fortunato perché nessuno s’accorse di nulla, e di conseguenza nessuno lo prese debitamente per il sudovest; e il perché di tanta indifferenza nei suoi confronti va cercato nel fatto che i suoi colleghi avevano ben altro cui pensare.
Gandal, come già detto, taceva e sopportava, il che non giovava certamente al suo buonumore e tantomeno al suo spirito d’osservazione.
Quanto a Zuril, il ritrovarsi nella stessa base con la principessa Rubina aveva offuscato la sua lucidissima mente di scienziato (leggi: testosterone alle stelle). Per quanto non gli fosse sfuggito il bizzarro comportamento del collega, in quel momento non aveva certo tanta voglia di fare sarcasmi, visto che si sentiva d’avere la coda di paglia.
Ovviamente c’erano anche Dantus e Barendos, cui normalmente non sarebbe parso vero scoprire colpevoli segreti in uno dei loro detestabili colleghi: ma anche loro avevano ben altro, e di assai meglio, cui pensare. Sapevano infatti che oltre a Rubina l’unica signora di Vega che avrebbe partecipato alla festa sarebbe stata lady Gandal, ma sapevano anche altrettanto bene quanto fossero graziose, per non dire veramente belle, le fanciulle componenti la squadra avversaria. Perfettamente consci del fatto che la principessa fosse al di fuori della loro portata, ebbero però il pensiero, molto poco velato, che con tante leggiadre creature attorno ci sarebbe certo stata qualche occasione… insomma, niente di impossibile che non potesse scapparci qualcosa. Questo fu il pensiero di entrambi.
Guardarsi allo specchio e rendersi conto delle proprie effettive possibilità, invece, non lo pensò nessuno dei due.


Skarmoon – 30 Dicembre

– Non fatevi illusioni, Zuril – esclamò Rubina, altezzosa – Naturalmente, io bacerò un uomo, a mezzanotte di Capodanno; però quell’uomo non sarete voi.
– Il fortunato mortale sarà Duke Fleed, suppongo – lo scienziato appariva tranquillissimo, addirittura sembrava stesse ridendo tra sé e sé – Forse però dovrei dire “dovrebbe essere”.
– Cosa volete dire?
– Che non credo proprio che lui accetterà di farlo, Altezza. Tutto qui.
– Oh – Rubina alzò orgogliosamente il mento: – Volete dire che mi troverà troppo racchia e si rifiuterà di darmi un bacio?
– Voglio dire che per lui sarebbe un esporsi un po’ troppo, data la situazione.
Infatti, è proprio quello che voglio, si disse Rubina. Ma si guardò bene dal parlare.
– E se anche fosse? – fu invece quello che chiese – Non dimenticatevi che anni fa avremmo dovuto sposarci. In pratica, siamo ancora fidanzati, e queste nozze gioverebbero molto alla pace tra i nostri popoli.
Sì, ma non gioverebbero certo alla pace di Duke Fleed, si disse Zuril, che conosceva bene il suo pollastro.
– Molto bene, Altezza, può darsi che io mi sbagli – ma ne dubito proprio – Comunque, se mai lui vi lasciasse senza il vostro bacio di buon anno…
– Non succederà!
– Forse no; comunque, io sono sempre pronto a sostituirlo.
– Come siete gentile – rispose Rubina, e il suo più che un sorriso fu un’esposizione di denti, candidi e perfetti – Comunque, ammesso che sia come dite voi, sono perfettamente in grado di trovarmi da me un degno sostituto, grazie.
Zuril passò in rassegna gli uomini che sarebbero stati presenti alla serata: Gandal, con moglie appiccicata addosso… Hydargos, che da giorni non parlava e non pensava ad altri che non fosse Venusia… e poi, naturalmente, i due sex symbol di Skarmoon, Dantus e Barendos.
Ora, pur avendo un’opinione decisamente spassionata del proprio aspetto fisico, di una cosa Zuril era sicuro: quei due erano molto, molto peggio.
– Va bene, vedremo cosa succederà – rispose, con la calma tranquillità di chi sa aspettare il proprio momento.


Skarmoon – 31 Dicembre – pomeriggio

Nel segreto della propria camera, Hydargos controllò per la centoventitreesima volta il proprio aspetto: si era fatto la doccia insistendo molto su collo e orecchie, aveva strofinato all’inverosimile le zanne che ora luccicavano, bianchissime, si era profumato (discretamente, vivaddio!), aveva indossato il proprio abito migliore e si era lustrato il cocuzzolo fino a farlo scintillare. Praticamente, era al massimo del suo splendore.
Si diede un paio di colpetti di deodorante orale spray e poi intascò la boccetta: non si sa mai…!
Prima d’uscire, si diede un’ultima occhiata: era perfetto.
Venusia sarebbe rimasta senza fiato, ne era sicuro.


Una tragedia stava consumandosi nell’alloggio di Sua Maestà.
Per un intero pomeriggio, il sire aveva tenuto in piega la sua barba, contando di trasformare i suoi irsuti ciuffi ribelli in morbidi riccioli che avrebbero conferito al suo volto un’aura di grave regalità.
La delusione era purtroppo in agguato. Dopo aver trascorso ore di messa in piega della barba, il risultato era stato orrendo: ne era venuto un enorme boccolone, un cannellotto che conferiva al suo volto, invece della regale dignità che lui si era aspettato, un’aria decisamente poco seria, per non dire ridicola. Non c’era purtroppo altro modo di definirla.
Senza contare che l’insieme non lo ringiovaniva affatto, anzi.
Scompiglio inorridito della barba e successivo studio d’un nuovo look; e infine, dopo un drammatico esame davanti allo specchio, il risultato era stato una barba sapientemente scomposta, una sorta di negligente, giovanile arruffatura accuratamente studiata per sembrare casual.
Sì, forse così sarebbe potuto andare…

Rubina si contemplò allo specchio: per quanto non fosse un tipo vanitoso, dovette ammettere di essere sensazionale.
Lui avrebbe capitolato… doveva farlo.
L’avrebbe conquistato, gli avrebbe finalmente carpito l’agognata domanda di matrimonio e avrebbe lasciato l’odioso Zuril con un palmo di naso.


Skarmoon – 31 Dicembre – sera

Quella sera avvenne ciò che mai e poi mai ci si sarebbe immaginati: la base Skarmoon diede a Goldrake il permesso di planare.
Una speciale capsula per i passeggeri era stata collegata al robot; alcuni soldati si fecero avanti, e dato il benvenuto (e qui s’intuiva che lady Gandal aveva dato ferree istruzioni) fecero cortesemente strada agli ospiti, scortandoli verso gli appartamenti regali, dove si sarebbe tenuto il ricevimento.


Per giorni Sua Maestà aveva atteso l’arrivo delle splendide ospiti; ora che tutto era pronto, che lui era al massimo del suo fulgore, ora che finalmente il tanto agognato momento era giunto, il sire cominciò ad essere ossessionato dai dubbi: che avrebbero detto di lui delle signore tanto affascinanti? L’avrebbero trovato di loro gusto, l’avrebbero snobbato…? Il pensiero l’agghiacciava, a dir poco.
Alla fine, mentre attendeva di porgere il benvenuto agli invitati, Re Vega cominciò a dirsi che sicuramente sua figlia aveva esagerato, e gli aveva dipinto come bellissime delle donne che sì e no sarebbero state appena guardabili… si capisce che Rubina aveva mentito perché lui partecipasse a quella dannata cena! E lui c’era cascato! Adesso si sarebbe ritrovato ad avere a che fare con delle sciacquette, peggio, delle autentiche racchie…
Quasi non si voltò quando udì aprirsi le porte scorrevoli; sua figlia gli allungò una gomitata nella milza, e finalmente Sua Maestà si volse, muso duro e bocca storta…
Fu un lampo, una celestiale visione, un’incredibile squarcio di luce in una grigia esistenza.
Gli bastò una semplice occhiata per capire che Rubina non aveva esagerato affatto, anzi, era stata persino troppo contenuta nel parlargli della bellezza delle ospiti… una seconda occhiata alle forme curvilinee di una di loro gli fece suonare nelle orecchie un festoso scampanio, mentre sentiva tutto uno scorrere di roventi bollicine su per la colonna vertebrale.
Si drizzò nella persona, petto-in-fuori-pancia-in-dentro, mentre la meravigliosa creatura si faceva avanti per essergli presentata; diretto com’era, lui espresse tutta la sua ammirazione con uno sguardo ardente e conquistatore che – ne era certissimo – non avrebbe mancato di fare il suo effetto.
Jun sorrise amabilmente al sire, chiedendosi nel frattempo perché lui la guardasse con quell’aria da sogliola bollita… forse era un po’ imbarazzato di stomaco, chissà.
Per quanto non fosse cerro un esperto osservatore dei comportamenti altrui, persino Tetsuya impiegò pochi secondi per capire di quale natura fosse lo sguardo imbambolato che Sua Maestà stava dedicando a Jun; rabbuiatosi, il giovane masticò tra i denti un qualcosa che suonava curiosamente come una v seguita da qualche f, sicuramente una qualche insolita forma di saluto, e strattonò via la compagna. Sua Maestà rimase a seguirla con lo sguardo, attonito, senza badare minimamente a Procton, Rigel e Mizar che attendevano di porgergli i loro saluti. Ci volle un calcetto di Rubina perché il sire si riscuotesse; scollare gli occhi dalla prorompente bellezza di Jun e spostarli sull’ancora più debordante fisicità di Hara fu uno shock non da poco, ma bisogna dire che il sovrano resse bene la prova.
Proprio allora, dietro all’infelice Alcor che procedeva pallido e scortato dalle sue carceriere, pardon, accompagnatrici, giunse Actarus, alto, bello e scapolo come non mai.
La principessa sentì il cuore gonfiarlesi di gioia, e gli rivolse il più radioso ed affascinante dei suoi sorrisi; lui, che normalmente davanti alle grazie femminili mostrava la sensibilità e il brio d’un bradipo, quella volta ebbe una reazione normale, sbarrando gli occhi e assumendo quella pietosa espressione da mite agnello tipica del maschio beatamente innamorato. Qualsivoglia scintilla d’intelligenza sparì dai suoi cerulei sguardi, ma che importava? Lui era felice.
Rubina scoccò un’occhiata di trionfo a Zuril, che rimase impassibile: lei aveva vinto solo la prima battaglia… la guerra era ancora tutta da combattere.


Mentre sorseggiavano in piedi il loro aperitivo, Dantus e Barendos controllarono attentamente le giovani invitate, decisi a scegliere l’obiettivo delle loro manovre.
Scartarono subito la principessa Rubina, elegantissima nel suo vestito turchese: con ogni probabilità era la più bella tra le signore intervenute, ma era anche la figlia di Re Vega, ed entrambi dubitavano che sua Maestà sarebbe stato felice di vederla segno delle loro attenzioni. In più, letteralmente appiccicato a lei c’era il maledettissimo Duke Fleed che continuava a fissarla, un’espressione totalmente imbambolata negli occhi altrimenti svegli.
Niente da fare, meglio considerare la principessa off limits.
Comunque, da quel che potevano vedere, in fatto di affascinanti signore non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Tra le giovani invitate, la prima su cui i due comandanti posero i loro avidi sguardi fu Jun, semplicemente sensazionale in un vestito il cui colore arancio vivo s’armonizzava perfettamente con i capelli corvini e la pelle scura; un istante dopo averla notata, entrambi s’accorsero che pervicacemente attaccato al braccio di lei c’era Tetsuya. Bastò un semplice sguardo al viso deciso del giovane, ai suoi occhi baluginanti sotto i sopracciglioni, e soprattutto ai suoi nodosi bicipiti, perchè i due comandanti capissero che sarebbe stato poco igienico ronzare attorno a quella meravigliosa ragazza.
Con un sospiro, entrambi decisero di soprassedere: che diamine, c’erano pur sempre altre invitate! Bastava sceglierne una che non fosse in coppia: non volevano certo creare un incidente diplomatico.
E nemmeno pigliarsi uno sgrugnone.
La seconda bellezza su cui posarono i loro occhi bramosi fu Sayaka, bellissima nel suo abito giallo oro che ne sottolineava morbidamente le forme; la fanciulla era sola, forse non aveva un cavaliere che...
Un istante dopo Alcor, che era rimasto un po’ indietro, la raggiunse e la prese per mano.
Impegnata anche quella... dannazione!
Fu allora che i due videro arrivare, come un angelo consolatore, Maria, che appariva graziosissima nel suo vaporoso vestito rosa; i due si lisciarono prontamente gli abiti, drizzarono le spalle ergendosi in tutta la loro maschia possanza, fecero per partire all’attacco...
Fermi tutti!
Allibiti, osservarono Maria accostarsi all’altro fianco di Alcor e prenderlo a sua volta per mano, proprio sotto gli occhi di Sayaka.
Dantus e Barendos si scambiarono un’occhiata d’intesa: adesso quelle due s’ammazzano.
Con loro immenso stupore, i due comandanti videro il terzetto allontanarsi in perfetta armonia, Alcor con le due meravigliose fanciulle ai suoi lati.
Ma come? Quel tizio lì aveva non una, ma ben due dame?
E soprattutto, le due gentili signore non si sbranavano l’una con l’altra, ma si comportavano come se fossero state amiche per la pelle? Mah...
A quel punto, l’unica donna disponibile era una e una sola, e infatti stava venendo in avanti senza essere accompagnata da nessuno... non che ci fosse da meravigliarsene...
Agghiacciati, i due uomini fissarono Hara senza profferir motto; con un ampio gesto del suo braccione a prosciutto, la donna chiamò a sé il figlio perchè le facesse da cavaliere – in attesa di trovarne un altro più adatto, si capisce. Appesa al braccio di Banta, la signora avanzò, impettita e sicura del suo fascino, fasciatissima nel suo vestito di seta verde acido decorato a paillettes dorate, una rosa cremisi tra i capelli e una farfalla di strass rosa shocking puntato sul collinoso decolleté. Una visione che lasciò attoniti tutti i maschi presenti.
I due si guardarono in faccia: sì, è vero, avevano deciso di corteggiare una qualsiasi delle signore presenti, però... però...
E finalmente, eccola.
La donna che avevano tanto aspettato. Bella, elegantissima nel suo abito d’una raffinata sfumatura scura di rosso scarlatto... e soprattutto sola, senza alcun pericoloso ed inopportuno accompagnatore.
Caccia libera.
Venusia si guardò nervosamente attorno. Naturalmente, su Actarus non c’era mai da contare, e in quell’occasione era completamente preso da quella smorfiosa di Rubina; certo che essere su Skarmoon, in mezzo ai veghiani, e non aver uno straccio d’accompagnatore... Tetsuya aveva Jun, Alcor era occupato con il suo harem, persino Banta stava accompagnando la sua procace mammà. Quanto al professor Procton, a suo padre Rigel o anche Mizar (un fratellino è meglio di niente!), erano troppo occupati a guardarsi in giro e chiacchierare con Zuril, che stava facendo loro da cicerone illustrando le meraviglie la base.
Dannazione! E sì che avevo detto che non mi lasciassero sola, visto che c’è anche Hydargos... non vorrei mai che lui si facesse avanti per rinverdire la nostra conoscenza...
Proprio allora lui parve materializzarsi al suo fianco, porgendole un bicchiere d’aperitivo e mostrandosi in tutto il suo splendore; Venusia balbettò un ringraziamento, abbassando subito lo sguardo dimodochè Hydargos comprese, con assoluta certezza, che lei era rimasta profondamente turbata. Come non avrebbe potuto, del resto?
Dantus e Barendos, che non avevano equivocato sull’imbarazzo di Venusia, si scambiarono un’occhiata: obiettivo stabilito.
Prepararsi alla manovra d’avvicinamento.


Skarmoon – 31 Dicembre – notte

La tavola era rettangolare, apparecchiata con grande eleganza: tovaglia blu, cristalli e porcellane finissimi, posateria preziosa, un bellissimo centrotavola decorato con rami di sempreverde, candele e nastri dorati. Altri rami di sempreverdi, nastri e candele erano stati disposti con gusto nella stanza, rivelando lo stile di lady Gandal, infallibile in tutto ciò che non fosse cucina. In un angolo, sogguardato e temuto, pendeva il ramo di vischio portato da Maria e decorato con augurali fiocchi rossi. Debitamente istruiti dalla principessa, alcuni soldati erano pronti a servire in tavola.
I posti erano stati decisi da Rubina, che sedeva ad un capo della tavola mentre suo padre presiedeva all’altro. Alla propria destra la principessa aveva naturalmente voluto Actarus, mentre alla sua sinistra aveva assegnato il posto a Zuril, che avrebbe così assistito in prima fila alla propria inevitabile sconfitta; vedere la principessa cinguettare a tutto spiano con l’odioso Duke Fleed mise a dura prova i nervi saldi dello scienziato, che tuttavia s’impose di restare calmo. Pazienza…
Dall’altra parte la situazione era completamente diversa.
Incredibile a dirsi, Sua Maestà in persona stava rivelandosi come l’anima della festa.
Seduto a capotavola, con da una parte Jun e dall’altra Maria, Re Vega era lanciatissimo: chiacchierava amabilmente con le sue ospiti raccontando aneddoti divertenti, si mostrava gentile e spiritoso calamitando tutto l’interesse delle due ragazze, che effettivamente si stavano divertendo moltissimo… un po’ meno si divertivano Tetsuya e Alcor, seduti accanto le rispettive compagne. Ma se il primo era giustamente scocciato per il fatto che Jun non gli stesse dedicando un minimo d’attenzione, il secondo stava avvelenandosi la cena con il pensiero di che sarebbe accaduto dopo, al momento del bacio sotto al vischio… chi scegliere? Maria o Sayaka? Maria o Sayaka? Maria o…?
Da parte sua, Re Vega non era mai stato così tanto felice in vita sua.
Entrambe le fanciulle destavano in pieno la sua ammirazione: Maria con i suoi colori chiari, il fisico sottile e il suo vestito rosa appariva molto fresca e giovane, un vero fiore primaverile; Jun, dai caldi toni solari, più rotonda e fasciata dal suo abito arancio sembrava un estivo frutto maturo… indubbiamente, era lei la più bella tra le signore sedute al tavolo.
Tanto per dare un’idea di quanto fosse seria la faccenda, in quel momento Re Vega stava prendendo seriamente in considerazione la possibilità di offrirle di poter visionare la sua collezione privata di testate nucleari, onore che nessuna mai aveva meritato prima di lei.
Distribuiti nel resto della tavola, gli altri invitati cercavano di cavarsela come meglio potevano con i loro vicini.
Sayaka, seduta tra Alcor che taceva terrorizzato e Banta che mangiava rumorosamente, aveva preso chiacchierare con lady Gandal che le sedeva di fronte; Gandal avrebbe voluto infilare qualche parola e attaccare discorso con quella graziosa ospite, ma la signora lo teneva strettamente sorvegliato.
Procton sedeva accanto a Zuril con cui era riuscito ad instaurare un po’ di conversazione; il veghiano si mostrava amabile e ben disposto, anche se continuava a tenere d’occhio l’espressione beota con cui Actarus fissava la bellissima Rubina.
Più sfortunato era Mizar: da un lato aveva Hydargos, che non aveva occhi che per Venusia, e dall’altro aveva suo padre, che distruggeva con insaziabile voracità qualsiasi vivanda gli fosse capitata vicino. Poco più in là Hara, civettuola, spiluzzicava dal suo piatto occhieggiando voluttuosamente i maschi presenti.
C’era però chi stava ben peggio… una tragedia stava per consumarsi.

- Continua -
 
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view post Posted on 29/12/2009, 21:59     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Ogni promessa è debito: seconda - e ultima - parte del cenone di Capodanno.


A disagio, Venusia osservò i suoi vicini di tavola.
Da una parte sedeva Dantus, che la considerava con evidente apprezzamento; dall’altra, Barendos, che mentre la fissava pareva sul punto di esclamare “Yum! Yum!”
Di fronte a lei sedeva Hydargos, e Venusia aveva un chiarissimo ricordo della breve, bruciante avventura che aveva avuto con lui; a giudicare dal modo in cui il comandante di Vega la stava guardando era evidente che il medesimo ricordo era ben chiaro anche nella sua memoria. Evviva.
Improvvisamente, Venusia si sentì soffocare: aveva l’impressione che l’aria si fosse fatta di colpo pesante, mentre la temperatura sembrava essere salita d’una buona decina di gradi. Che si fosse guastato l’impianto di condizionamento?
Un nuovo sguardo ad Hydargos e ai due pessimi soggetti ai suoi lati la convinse che il condizionatore non c’entrasse affatto, e che il problema fosse tutto di genere emotivo. Fu allora che Venusia comprese l’esatto significato dell’espressione “essere seduti sulle braci ardenti”.
Osservò ancora di sottecchi i tre tipacci che la circondavano: sembrava che aspettassero solo il via.
Si agitò sulla sedia, guardandosi attorno in cerca d’aiuto, o almeno di una scusa plausibile per alzarsi ed allontanarsi da quei tre individui, quando s’accorse di qualcosa d’orrendo.
Proveniente dalla parte di Barendos, una zampaccia taglia quarantasette stava facendole piedino.
Venusia si spostò di lato e subito il piedone di lui l’incalzò, inevitabile, pestandole oltretutto l’orlo del vestito.
Venusia riuscì ad armeggiare per liberarsi, guardandosi angosciosamente attorno: nessuno era parso accorgersi del suo disagio, erano tutti occupati a mangiare e chiacchierare. Actarus non aveva occhi che per quella dannata Rubina, il tutto sotto lo sguardo ustorio di Zuril, Tetsuya appariva seccatissimo perché la sua dama era stata monopolizzata da Sua Maestà, Alcor appariva rilassato come può esserlo un uomo seduto in una cesta di cobra, Rigel mangiava e cianciava a ruota libera mentre dall’altra parte del tavolo Procton tentava, abbastanza inutilmente bisogna dire, di tenerlo calmo, Hara non aveva attenzione che per i maschi presenti e Banta sbafava qualsiasi cosa commestibile fosse capitata a portata delle sue ganasce. Nessuno badava a lei… nessuno si rendeva conto degli imbarazzanti approcci che stavano avvenendo sotto la tavola. Era proprio baciata dalla buona sorte, non c’è che dire.
Incalzata da Barendos, Venusia si tirò ancora più in parte, andando ad incocciare proprio contro la gamba di Dantus, che parve piacevolmente sorpreso.
Un attimo dopo, a farle piedino erano in due: oltretutto, non c’era nemmeno la possibilità di sottrarsi ad uno senza incappare nell’altro. Quando si dice fortuna…
I due comandanti ostentavano visi innocenti e soavi espressioni, ma quel che avveniva sotto al tavolo di angelico aveva ben poco. Venusia tentò di sottrarsi al pressing cui era sottoposta, scartò, finse, riuscì persino a rialzare entrambi i piedi in modo che le zampacce dei suoi corteggiatori entrassero in contatto tra di loro – e fu allora che il Destino Crudele s’accanì contro di lei, sotto forma di una mano che le si posò su un ginocchio.
Afferrare la mano e rispedirla al mittente fu un tutt’uno; un istante dopo, dall’altra parte giunse una seconda mano che prese posizione sull’altro ginocchio. Altro respingimento inorridito, e successivo attacco su due fronti: due mani e due piedi avevano ricominciato la loro inesorabile marcia di conquista. Disperata, Venusia tentò ancora di liberarsi, ma era un po’ come fronteggiare quei mostri mitologici dalle molte teste: ne eliminavi una, e ti ritrovavi a doverne affrontare un’altra. Strapparsi di dosso un tentacolo significava trovarsene un altro, più pervicace e più sfacciato del primo.
Venusia continuò bravamente a difendersi, ma era chiaro che i due attaccanti erano ben decisi a compiere un assalto in piena regola. Per lei avere un po’ di pace sarebbe stato impossibile, a meno di spaccare un piatto in testa ad uno dei suoi corteggiatori; ora, quando si è invitati ad una cena di gala, disgraziatamente non è educazione intrattenere gli ospiti sfasciando loro suppellettili sul cranio.
Che altro poteva fare? Chiamare aiuto, strillare, prenderli a ceffoni…? Peggio che mai…
Se almeno qualcuno si fosse accorto del suo imbarazzo e fosse corso in suo aiuto…!
Occhieggiò Actarus: stava ascoltando beato ogni parola che usciva dalle labbra coralline di Rubina. Alcor? Occupatissimo a districarsi tra Maria e Sayaka. Tetsuya? Aria truce e occhi cupi fissi su Sua Maestà, stava affondando rabbiosamente il coltello nella tartina al salmone che aveva nel piatto.
A chi avrebbe potuto rivolgersi, allora…?
Disperata, incrociò lo sguardo di Hydargos, che sedeva esattamente di fronte a lei e che la fissava con occhio da pio bove.
Venusia non capì mai come fosse accaduto. Sicuramente, lei non aveva detto una sola parola; pure, la forchetta di lui cadde accidentalmente a terra. Il comandante di Vega si chinò a raccoglierla, sparì un istante sotto al tavolo e un secondo dopo, Dantus prima e Barendos poi, balzarono sulle rispettive sedie. Mani e piedi tornarono ai loro posti, dove finalmente rimasero.
Attonita, Venusia s’accorse che Dantus stava mugolando termini poco parlamentari, mentre sotto il tavolo si carezzava amorosamente il polpaccio; dall’altra parte, Barendos faceva altrettanto.
Venusia guardò con aria interrogativa Hydargos, che era prontamente riemerso; lui le strizzò l’occhio e si rigirò tra le dita la forchetta, i cui denti apparivano stranamente storti.
“Mio salvatore!”, espressero gli occhi di Venusia; un istante dopo, lei s’accorse che lo sguardo di lui aveva raggiunto l’espressività di una cernia al vapore.
Di male in peggio…


Nel frattempo, le portate si erano alternate sulla tavola. Dopo un antipasto variato e stuzzicante era stata la volta dei primi, semplici ma molto gustosi. Come sempre, Jun e Venusia avevano dato un’ottima prova del loro talento culinario.
L’eccellenza del pasto contribuì a riscaldare l’atmosfera: le chiacchiere si fecero più vivaci, certi atteggiamenti un po’ rigidi guadagnarono in scioltezza, una notevole animazione cominciò a serpeggiare tra i convitati. Dal lato di Re Vega provenivano continui scoppi di risa: Sua Maestà era brillante ed inarrestabile, e Jun e Maria stavano divertendosi come non mai. Persino Sayaka si protendeva oltre Alcor per partecipare anche lei all’ilarità generale, mentre Tetsuya sembrava incupirsi sempre più ad ogni minuto che passava ed Alcor occhieggiava angosciato l’orologio alla parete spiando quanto tempo mancasse alla fatidica mezzanotte. Dall’altra parte del tavolo, Rubina conversava amabilmente con Procton, mentre Zuril aveva assunto un’aria molto indifferente e molto falsa, e Actarus, totalmente imbambolato, non perdeva una sola parola che fosse uscita dalla bellissima bocca di lei.
La zona centrale della tavola era un po’ più calma, con Venusia intenta a districarsi tra i suoi corteggiatori, che pesti ma non domi sembravano attendere il momento propizio per tentare un nuovo assalto; e in quella, vennero portate in tavola le carni e soprattutto i contorni.
Un enorme vassoio colmo del manicaretto di lady Gandal s’avanzava, ineluttabile.
La signora aveva annunciato d’aver preparato crocchette di patate: apparivano come polpettine allungate, e fin qui tutto bene.
Presentavano una crosticina croccante, e anche questo andava bene.
Erano di un abominevole verde menta fluo… e questo non andava bene affatto.
Rubina si vide porgere il vassoio, fece rapidamente cenno di non desiderarne e il piatto passò da Actarus, che per quanto rimbecillito ringraziò e rifiutò a sua volta, e così fece anche Hara, che generalmente avrebbe spazzato qualsiasi cosa le fosse stata presentata davanti… insomma, il piatto fece il giro della tavola e alla fine, completamente intatto, venne presentato all’ultimo della fila, cioè Zuril
Lo scienziato non attendeva altro: si servì abbondantemente e fece cenno di tenergli in disparte quel vassoio; quindi, approfittato d’un momento di distrazione dei vicini, prese una delle crocchette e l’analizzò di nascosto usando lo scanner che aveva tenuto fino ad allora celato sotto al tavolo.
Lesse i risultati sul display: avrebbe voluto lanciare un fischio, ma si trattenne. Non per nulla era un freddo scienziato dal perfetto self-control.
Altri piatti vennero fatti girare frettolosamente, in modo da occultare alla signora lo scarsissimo successo avuto dalle sue crocchette. Nuovi contorni vennero portati in tavola, vini vennero fatti girare; proprio in quel momento Sua Maestà raccontò un aneddoto particolarmente divertente calamitando l’attenzione di lady Gandal.
Pericolo scampato, ormai toccava al dolce.


Skarmoon – 31 Dicembre – mezzanotte

Mezzanotte suonò, tappi di bottiglie saltarono, auguri s’intrecciarono.
L’anno nuovo era cominciato…
Era il momento del vischio.


Occhi neri e occhi azzurri lo fissavano, impietosi.
Le due fanciulle tacevano, ma per lui era chiarissimo quel che stavano pensando…
Devi baciare una di noi, Alcor. Solo una. Dovrai scegliere, finalmente!
Il giovane si sentì soffocare. Normalmente, l’idea di essere conteso tra due meravigliose ragazze l’avrebbe inorgoglito: adesso, stava cercando qualcosa, qualsiasi cosa potesse salvarlo da quella terrificante situazione.
Doveva baciare una ragazza, una sola… una sola di loro due, UNA…
Impallidì sudando freddo, mentre gli occhi neri e quelli azzurri lo continuavano a fissare, acuminati come succhielli. Una sola, maledizione! Una sola di loro due…
Piano.
Perché “di loro due”…?
Perché non…?
Alcor era un uomo impulsivo, coraggioso fino all’incoscienza, un vero temerario; tante volte in combattimento si era salvato grazie all’istinto, più che alla riflessione.
Effettivamente, anche quella volta non fu certo la ragione a spingerlo a fare quel che fece: d’un balzo, dribblò le due fanciulle, abbrancò l’ignara creatura che stava passando alle loro spalle, la trascinò sotto al vischio e prima che lei avesse potuto anche solo fiatare la sottopose al più interminabile bacio-sturalavandini del suo vasto repertorio.
Allibite, Sayaka e Maria rimasero immobili, come impietrite; si guardarono in faccia e poi, come su comando, si allontanarono dignitosamente andandosi a sedere in un angolo remoto della stanza. Avrebbero voluto rendere la pariglia ad Alcor baciando a loro volta un paio dei signori intervenuti, ma era bastata una semplice occhiata alla fauna maschile presente in sala per dissuaderle. Va bene la vendetta, ma a tutto c’è un limite.
Comunque, ormai era Capodanno, giorno di buoni propositi. Niente ostilità.
Per trasformare Alcor in trito di carne, avrebbero atteso il due gennaio.
Un’eternità dopo, ormai in piena apnea, Alcor finalmente lasciò la sua vittima e s’allontanò frettolosamente dopo aver mormorato un augurio di buon anno; attonita, completamente senza fiato, gli ormoni in totale subbuglio e con un lieto scampanio nelle orecchie, lady Gandal si ricompose.
Era una signora, che diamine.
S’allontanò tutta dignitosa, mentre rosei pensieri d’amore s’affacciavano alla sua mente – tenuto accuratamente in disparte, Gandal sputacchiava schifato mentre protestava affermando con veemenza tutto il suo disgusto.
Fu un’orrenda visione a strappare lady Gandal dai suoi romantici sogni: seminascosto in un angolo c’era il vassoio con le crocchette di patate. Intatto.
Delusione e collera s’alternarono rapidamente nell’animo della signora, sensibilissima come ogni vero artista; in quel momento doveva sfogarsi, trovarsi una vittima su cui scaricare il suo malumore… si guardò in giro e finalmente lo vide.
– Hydargos! – esclamò, il tono delle grandi occasioni – Vieni subito!
Lui sussultò, chiedendosi rapidamente che cosa avesse fatto per irritarla tanto; pur trovandosi innocente, si fece avanti con l’aria di chi s’aspetta una pettinata di prim’ordine: – Sì, mia signora?
– Non hai assaggiato le mie crocchette, vero? – esclamò lei, piazzandogli il vassoio sotto al naso.
– Ma… ecco, non ricordo – cominciò lui, che era un pessimo bugiardo – C’erano talmente tante cose buone… mi sembra che… forse…
– No, non le hai provate. Assaggiale ora.
Lui guardò quegli orrori verdi e sentì le gengive squassate dai brividi: – Veramente ho già mangiato il dolce…
– Non trovarmi scuse – ribatté lei, inesorabile – Mangia.
Hydargos represse un conato di vomito.
Maledizione, perché lui aveva un grado inferiore a quello di lady Gandal? Adesso naturalmente lei s’aspettava che lui trangugiasse uno di quei piccoli mostri…
Prese in mano un cilindretto; occhieggiò la signora implorando pietà con lo sguardo.
Mangia!, fu ciò che le lesse nelle pupille.
Hydargos deglutì; aprì la bocca, tentò d’infilarvi la crocchetta, ma per quanti sforzi facesse, la sua stessa mano si rifiutava di obbedire… che schifo… addio, mondo crudele…
– Gandal – intervenne inaspettatamente Zuril – Ti ricordi il regalo che ti ho fatto a Natale l’anno scorso?
– Certo! – fu un attimo: Gandal tirò fuori di tasca un minuscolo congegno e, prima che sua moglie potesse dire alcunché glielo premette contro la tempia. Uno sfrigolio e la signora cadde in catalessi, mentre il marito riprendeva il completo controllo della situazione.
Paralizzata dal neutralizzatore neuronico istantaneo di Zuril, lady Gandal non avrebbe più fatto la sua ricomparsa per almeno dodici ore; quel pensiero rese euforico il marito.
L’anno cominciava sotto i migliori auspici.
Attonito, Hydargos rimase dov’era, bocca semiaperta e crocchetta a mezz’aria; Zuril gliela tolse di mano e la rimise con le altre nel vassoio.
– …grazie…! – esalò Hydargos, incredulo d’essersi salvato.
– Dovere, amico mio – Zuril si covava letteralmente con l’occhio le crocchette – Credimi, non ti sarebbero proprio piaciute.


– È mezzanotte, Duke – sussurrò Rubina, la voce ammaliante da sirena – Non vuoi darmi un bacio di buon augurio?
– Uh... certo, sì – completamente rimbecillito, l’occhio vacuo del maschio ben felice d’essere stato catturato, Actarus si protese in avanti verso di lei, e subito Rubina lo fermò dolcemente:
– Non qui, caro. Sotto al vischio. Non avete questa tradizione, sulla Terra?
Ci vollero un paio di secondi perché nell’annebbiato cervello di lui si facesse strada il concetto “alzati e cammina fin sotto al vischio”. Si mise in piedi e lei lo prese per mano, dedicandogli il più ammaliante dei suoi sorrisi. Rubina poi mosse un passo verso l’angolo in cui era stato appeso il rametto di vischio e gli sorrise ancora, invitante; subito Actarus la seguì camminando un po’ come un automa, completamente perso in quegli occhi azzurri, totalmente affascinato da quella voce melodiosa, da quei capelli rossi...
Mentre gli passavano accanto, Zuril sorrise a sua volta al principe di Fleed: – Bene, bene. Mi sa che sarò il primo a farti le congratulazioni per le nozze.
– ...Eh? – Actarus parve riscuotersi, attonito – Quali nozze?
– Sono sicuro che sarete molto felici – aggiunse carognescamente Zuril, mentre Rubina, indispettita, emetteva un sibilo tipo pentola a pressione.
– Felici? – Actarus aveva l’espressione di chi si è appena ripreso dopo aver ricevuto una potente mazzuolata sul cranio – Ma di cosa stai parlando?
– Di niente d’importante! – esclamò in fretta Rubina, che aveva una gran voglia di afferrare una zuppiera e sfasciarla sulla testa del Ministro delle Scienze – Vieni, caro. Non volevi darmi un bacio?
– Ma certo che vuole – rispose Zuril, la voce che era tutto uno sciroppo – Spero poi che stabilirete di sposarvi presto... i fidanzamenti lunghi sono così noiosi...!
Sposarvi, nozze... le due orrende parole s’impressero a fuoco vivo nell’animo di Actarus, cui parve di sentir rimbombare marce nuziali mentre effluvi di fiori d’arancio sembravano intasargli le narici... e fu un attimo.
Actarus era un uomo d’azione: in quel momento, agì.
Esistono due diverse versioni su quello che veramente accadde in quel momento: la prima, quella ufficiale diffusa dalla principessa Rubina, vuole che Actarus sia stato improvvisamente colto da un malore e si sia allontanato precipitosamente, in preda ad atroci dolori di colica.
La seconda, quella sparsa per vie traverse da Zuril, ritenuta non ufficiale e del tutto ingiuriosa, sostiene che Duke Fleed sia stato messo in fuga dalla prospettiva di nozze assolutamente non volute. Venendo però proprio da Zuril si capisce come tale versione sia considerata di parte, falsissima ed offensiva; va però detto che tutti, pur accettando a parole la teoria dell’improvvisa colica, nel loro animo furono più propensi ad accettare la seconda ipotesi... ma naturalmente, nessuno ebbe l’ardire di farlo presente alla principessa.
Comunque siano andate le cose, Rubina si ritrovò completamente sola, piantata all’improvviso dal suo cavaliere proprio sotto gli occhi dell’ultimo uomo che lei avrebbe voluto assistesse alla sua sconfitta. In preda alla collera, le guance che le bruciavano, la principessa sentì su di sé lo sguardo insistente di Zuril, che era tutto un “te-l’avevo-detto”.
Aveva avuto ragione, dannato lui…
Rubina era una fanciulla timida e posata, tutt’altro che incline ai colpi di testa; tuttavia, quella volta agì come normalmente non avrebbe mai fatto.
Decisa a non dare soddisfazione a quell’odioso di Zuril si guardò rapidamente attorno, valutando in fretta i maschi presenti; avendone visto finalmente uno papabile, d’un balzo gli fu addosso, lo acchiappò trascinandolo sotto al vischio e diede il via ad un bacio a dir poco torrido. Gliel’avrebbe fatta vedere lei, a quel signor-so-tutto!
Si staccò da lui ansimando per riprendere fiato; avrebbe voluto scoccare un’occhiata di trionfo a Zuril, ma qualcosa le impedì di staccare gli occhi da ciò che aveva davanti.
S’era aspettata di cavarsela con un banale augurio di buon anno, ma invece si ritrovò a guardare con maggior attenzione quell’uomo.
Non era affatto brutto, anzi, era attraente… Molto attraente. Dire che le era dispiaciuto baciarlo sarebbe stata una bugia colossale.
Da parte sua, Procton faticò parecchio a recuperare la sua scientifica calma e la sua equilibrata compostezza; aveva i baffi arruffati, un fischio acutissimo gli lacerava le orecchie e non era ben sicuro che fosse solo l’apnea a fargli mancare il fiato. A dire il vero, quegli occhioni azzurri gli stavano impedendo l’insorgere di un qualsiasi pensiero coerente nel cervello.
– …Signorina! Voglio dire… Altezza… – farfugliò – Io… io non… – deglutì penosamente – Mi dispiace, io in genere non mi comporto così… cioè… Scusatemi…
– Perché dovreste chiedermi scusa? – si stupì lei – L’iniziativa l’ho presa io, mi pare.
Procton ammutolì. Era un tipo all’antica: era naturale per lui pensare che fosse l’uomo a fare il primo passo, per cui gli era venuto spontaneo scusarsi, quasi fosse stato lui il seduttore.
Erano entrambi persone calme, ragionevoli, riflessive. Mai in vita loro avevano agito d’impulso, mai si erano lasciati trascinare da inopportune passioni… ma Rubina comprese che il bacio che si erano scambiati era stato decisamente qualcosa di più di un augurio di buon anno, e Procton, da scienziato qual era, ebbe una netta percezione dell’aumento della pressione, della respirazione, del battito cardiaco eccetera. Solo anni e anni di abitudine alla calma e alla compostezza gl’impedirono di lanciare un nitrito da giovane stallone.
Rimasero imbambolati a guardarsi, occhi negli occhi, per un tempo interminabile.
Vedendoli così immobili, gli altri presenti per un po’ rimasero ad osservarli, in attesa di una parola, un gesto, qualsiasi cosa; poi, visto che persistevano con l’inerzia e lo sguardo lesso, altre cose attirarono sguardi e attenzioni, e i due vennero dimenticati.
Svariato tempo dopo, quando finalmente ci si ricordò di loro, ci si accorse che i due si erano silenziosamente dileguati… e per tutto il resto della serata, e dei due giorni successivi, non fecero più la loro ricomparsa.


Re Vega era rimasto un po’ male vedendo che Maria era sembrata in attesa di un bacio da Alcor; comunque, la sua preferita era indubbiamente Jun, per cui si consolò rapidamente.
Assunse un’aria ammaliatrice e regolò lo sguardo sulle fascinose mezze luci; poi, colto da un improvviso pensiero si voltò di lato controllando rapidamente l’alito (no, poteva andare), riassunse la sua espressione da perverso seduttore, tornò a girarsi verso la regina del suo cuore, che seduta accanto a lui stava sorseggiando con grazia il vino dal calice…
Tetsuya aveva sopportato fin troppo.
Non era certo un uomo dai forti istinti romantici, per cui lui per primo si sorprese di quello che stava facendo… sta di fatto che s’alzò di scatto, afferrò Jun per un braccio, la trascinò sotto al vischio e la baciò sotto gli occhi dell’attonito Re Vega.
Jun impiegò qualche secondo per riprendere fiato: a dirla proprio tutta, più che di venir baciata aveva avuto l’impressione di essere stata marchiata a fuoco, lo spirito di Tetsuya era stato un po’ quello di chi conficca la bandierina nel terreno per segnare la sua proprietà; ma andava bene lo stesso, quel suo ruvidissimo compagno si era lasciato andare e lei ora sentiva il cuore scoppiarle di felicità.
Gli gettò le braccia al collo mentre lui assumeva quell’espressione beata – e vagamente imbecilloide – del maschio irrecuperabilmente innamorato.


Re Vega rimase immobile, incredulo: ma come? Lei… quel tizio sopracciglioso… ma allora…?
A fatica, Sua Maestà recuperò la mascella che aveva abbandonato a sé stessa; s’impose di riacquistare la sua ieratica compostezza, di non dar a vedere quanto l’accaduto gli bruciasse; ma la verità era che si sentiva ferito, deluso.
Ci aveva contato tanto… e invece… Niente bacio di mezzanotte.
Era un’ingiustizia…
Fu allora che il Cielo rispose alla sua accorata disperazione.
Qualcuno scivolò alle sue spalle; venne abbrancato e fatto piroettare su sé stesso. Due mani l’afferrarono per la testa tirandolo in basso, e subito due labbra s’incollarono alle sue in un interminabile bacio-bostick con romanticissimo schiocco finale.
Re Vega barcollò, senza fiato; davanti a lui, ciglia sfarfallanti e ampio sorriso supersexy, Hara lo sogguardava con occhio concupiscente.
Lui si sentì mancare: allo sconvolgimento da apnea prolungata s’era aggiunto un disgusto per nulla galante. Approfittando della sua momentanea defaillance, lei lo pilotò verso una poltrona e con una spintarella ve lo fece sprofondare; accomodò poi sulle sue ginocchia il proprio quintale abbondante di curve procaci, impedendogli oltretutto con il proprio dolce peso qualsiasi via di fuga.
Lui avrebbe voluto protestare fieramente, ma era soffocato dall’indignazione, dalla collera e pure dal decimo di tonnellata che gli gravava addosso.
Mezzo minuto dopo, i presenti poterono godersi lo spettacolo di Re Vega, immobilizzato e furente, mentre Hara gli arricciava la barba attorcigliandosela sulle ditone a salsiccia; il tutto, mentre gli tubava con voce da sirena carinerie tipo “il mio puffettino”, ed altri consimili epiteti.


Alla sua destra, Barendos.
Alla sua sinistra, Dantus.
Alle sue spalle, pericolosamente vicino, il vischio brillava alle luci delle candele.
Non c’era più scampo, ormai era in trappola… nessuno sarebbe venuto a salvarla, e purtroppo quei due non sembravano voler considerare un “no” come una risposta valida.
Quando l’educazione e la civiltà non possono nulla, purtroppo resta solo la violenza; così almeno la pensava Actarus.
Violenza… contro quei due colossi…?
Se anche la violenza non è possibile, c’è sempre la fuga, si disse improvvisamente lei.
Vide i suoi due persecutori torreggiare su di lei, pronti ad abbrancarla; con uno scatto disperato, Venusia s’infilò in mezzo a loro, sgusciando lontano dai loro artigli e finendo dritta dritta nelle braccia di Hydargos, che stava per l’appunto facendosi avanti per reclamare i propri diritti.
Una mente femminile avrebbe sicuramente compreso il dramma dell’infelice Venusia; disgraziatamente, ad una lucida mente maschile (e veghiana, per giunta) l’accaduto non poteva che significare una cosa e una sola: lei aveva desiderato manifestare la sua scelta, e il fortunato mortale era Hydargos.
Musi lunghi e mani dietro la schiena, Dantus e Barendos si fecero da parte mugugnando, mentre il loro trionfante rivale con gentile fermezza conduceva la sventurata Venusia verso il fatale vischio.
È un incubo, pensò lei, atterrita.
Conosceva abbastanza bene Hydargos da sapere che lui avrebbe considerato il bacio unicamente come un preludio ad un sostanzioso dopo; e non resse.
Quel che è troppo, è troppo.
Mani adunche si protesero verso di lei, pronte a ghermirla… Venusia fu improvvisamente cosciente del lieve peso che le gravava nella tasca del vestito. Il teletrasportatore istantaneo…!
Afferrarlo, schiacciare il pulsante e scomparire fu un tutt’uno… e le mani adunche artigliarono l’aria.


Epilogo primo – anno nuovo, vita nuova

Tutto scomparve per poi riapparire un istante dopo: ma attorno a lei non vi erano più i finestroni in plastivetro e le pareti metalliche della base Skarmoon, bensì le pareti altrettanto metalliche e il finestrone altrettanto in plastivetro della cabina personale del capitano dell’Alkadia.
In piedi a pochi passi da lei, Harlock l’osservava con evidente piacere. Se era sorpreso nel vedersela improvvisamente apparire accanto, non lo diede affatto a vedere: – Buon anno.
Incredula, Venusia si guardò rapidamente attorno come per assicurarsi di essere proprio dove le sembrava di essere: – Harlock… ma cosa…?
– Il teletrasportatore ha funzionato, come vedi – sorrise lui – Pronta per un viaggio tra le stelle?
– Un…? Oh – Venusia ricordò improvvisamente qualcosa d’importante: – Harlock, non ho il mio bagaglio, con me!
Lui versò del vino in due coppe: – Mi spiace, siamo troppo distanti dalla Terra perché tu possa recuperare le tue valigie.
– Ma come faccio? Non ho niente, a parte questo vestito che ho addosso!
Harlock le tese un calice: – Quel vestito è anche troppo, credimi…
Stavo pensando allo spazzolino da denti, pensò Venusia; ma ovviamente si guardò bene dal parlarne.

Epilogo secondo – brindisi

Tre uomini sedevano ingrugniti attorno al tavolo.
– La donna che volevo non mi ha voluto – disse Hydargos.
– La donna che mi voleva non mi ha avuto – disse Actarus.
– Le due donne che mi volevano non mi hanno avuto – disse Alcor.
Restarono in silenzio un altro poco; poi Hydargos s’alzò, andò a prendere una bottiglia e tre bicchieri e con mano fermissima versò il liquore ai suoi compagni di sventura.
Actarus era astemio, la bevanda più alcolica che avesse bevuto negli ultimi tempi era stato uno sciroppo medicinale; tuttavia non protestò, in quel momento sentiva un gran bisogno di bere un goccio.
Hydargos alzò il bicchiere: – Alle donne.
Alcor scambiò un’occhiata con Actarus e aggiunse: – Alle donne. E alla libertà.
Hydargos considerò la cosa, e annuì. Indubbiamente, essere scapolo aveva i suoi lati positivi, e gli bastava pensare a Gandal per essere ancora più convinto di questo.
Actarus bevette a piccoli sorsi il suo liquore: gli pareva fortissimo, sentiva la gola bruciare, ma inspiegabilmente in quel momento aveva bisogno di qualcosa ad alta gradazione alcolica… almeno una quarantina di gradi.
In vita sua, aveva affrontato impavido mostri alieni e stormi di dischi volanti, aveva rischiato la morte senza battere ciglio, aveva sempre mantenuto il più totale autocontrollo anche nel combattimento più feroce; coraggio e freddezza davanti al pericolo erano sempre state le sue principali doti di combattente.
L’essersi trovato ad un pelo dal venire invischiato in un impegno matrimoniale l’aveva a dir poco stroncato.
Con la mano che gli tremava leggermente, buttò giù il resto del liquore, tossì e ne desiderò ancora. Se mai aveva avuto bisogno di farsi una sbornia, bene: il momento era arrivato.
Accanto a lui, Alcor stava cercando disperatamente di non pensare a cosa sarebbe successo quando si sarebbe trovato di nuovo sulla Terra, in balia delle due gentildonne che aveva testé snobbato.
Hydargos, che avendo visti infranti i suoi romantici sogni si sentiva fortemente depresso, vuotò diligentemente il suo bicchiere prima di riprendere in mano la bottiglia: – Per caso qualcuno vuole un altro goccio?
S’era aspettato due rifiuti; si ritrovò invece due bicchieri prontamente tesi.
Versò il liquore, brindarono e bevvero, sentendosi improvvisamente più sereni, più leggeri, più felici… ci voleva senz’altro un altro giro.


Qualche bottiglia dopo, abbracciati come fratelli, i tre dormivano saporitamente quel sonno profondo che precede generalmente i peggiori doposbronza. Con ogni probabilità, avrebbero cominciato l’anno nuovo con un’emicrania potente…
Ma sarebbe stato l’indomani, e l’indomani sarebbe stato un altro anno.


Epilogo terzo – fuochi d’artificio

Il visetto di Mizar parve allungarsi: – Ecco cos’abbiamo dimenticato… i petardi!
– Petardi? – chiese Zuril, sorpreso.
– I petardi per il capodanno! – Mizar aveva la voce che gli tremava dalla delusione – Noi facciamo sempre scoppiare dei fuochi d’artificio, è di buon augurio! Ci vorrebbe almeno un botto, uno solo!
– Se proprio volete un botto – intervenne cupamente Re Vega, sogguardando Hara che, in piedi sul tavolo, eseguiva davanti a lui lascive danze amorose – se ci tenete, posso far esplodere una testata nucleare. Non è un problema, anzi.
Mizar aveva ormai le lacrime agli occhi: il capodanno era sciupato, irrimediabilmente sciupato… quel che era peggio, nessuno dei presenti sembrava farvi particolarmente caso. A nessuno importava…
– Vediamo che si può fare – disse Zuril, incoraggiante: aveva un figlio anche lui, capiva i bambini. Si mise a tracolla lo scanner e mostrò a Mizar una delle crocchette verde menta fluo di lady Gandal – Adesso ti faccio vedere cos’ho scoperto.
Scagliò con forza la crocchetta contro una parete: un tremendo boato, una nuvola di fumo puzzolente e miriadi di scintille multicolori piovvero a cascata nella stanza. Mizar rimase a bocca aperta: era un fuoco artificiale meraviglioso, coloratissimo!
– Crocchette pirotecniche – disse Zuril soddisfatto – L’ultima creazione culinaria della nostra chef preferita. Una variazione sul tema delle polpette esplosive.
– Ma… ma è bellissimo! – esclamò festante Mizar – Posso tirarne una anch’io?
– Non qui! – gridarono all’unisono i presenti.
Non che avessero torto: la nuvola di fumo pestilenziale si era diradata, condensandosi in una sorta di residuato grasso e nero che aveva preso a cadere sul pavimento.
Zuril afferrò il vassoio con le crocchette e prese Mizar per mano: – Che ne dici di andarne a tirare qualcuna in un posto adatto?
– Vuoi dire un posto sicuro? – chiese Gandal, facendosi avanti interessato.
Zuril sorrise, l’aria dello squalo che ha adocchiato il bagnante cicciotto: – Ho detto un posto adatto.
Gandal ghignò a sua volta: – Non dirmi che stai pensando quello che penso io.


Imbronciati, furiosi per essere andati in bianco pure la notte di Capodanno, Dantus e Barendos sedevano nell’alloggio di quest’ultimo, intenti a consolarsi con una buona bottiglia.
Trasalirono sentendo un lieve rumore, come un qualcosa che venisse segato; poi, con uno schianto improvviso, la grata della presa d’aria venne scaraventata in mezzo alla stanza.
I due balzarono in piedi, allarmati, e proprio allora videro un oggetto oblungo, d’un osceno verde, piombare giù dalla grata divelta e cadere in mezzo alla stanza.
BA-WOOOM!!!
Scintille multicolori piovvero ovunque, una nuvola nera e puzzolentissima si diffuse nella stanza, lasciandoli senza fiato. Anneriti e semiasfissiati, i due corsero alla porta e tentarono di aprirla: niente. Per un qualche ignoto disegno del destino, l’uscita era bloccata.
Un nuovo ordigno piombò nella stanza, poi un altro e un altro…
BA-WOOOM!!! BA-WOOOM!!! BA-WOOOM!!!


– Siete sicuri che buttandole qui dentro non facciamo danni? – chiese Mizar, che si stava divertendo come non mai a far esplodere le crocchette in quel condotto che, gli avevano assicurato, “era solo una vecchia conduttura che non serviva più a niente”.
– Nessun danno – asserì Zuril.
– Puoi lanciare tutte le crocchette che vuoi – aggiunse Gandal.
– Perché non fai un bel lancio multiplo? – suggerì Zuril.
– Cosa…? – Mizar parve considerare l’idea – Vuoi dire… lanciarne più di una?
– Non essere riduttivo, ragazzo – esclamò lo scienziato – Fai le cose in grande. Lanciale tutte.


Completamente ricoperti di uno strato di spessa schifezza grassa e nera, accecati e semisoffocati dal fumo che ammorbava l’aria, ustionati dalle scintille, Dantus e Barendos guardarono allarmati la presa d’aria da cui erano piovute le bombe – perché dovevano essere bombe, non c’era altra spiegazione.
Al momento sembrava che tutto fosse tornato calmo… che fosse finita…?
Forse…?
Fu proprio allora che un intero grappolo di quelle dannate pallottole verdi piombò giù per il condotto andando a finire sul pavimento.


Fu un botto fenomenale, che l’intera Skarmoon dovette sentire.
Mizar batté le mani, felice: l’anno cominciava sotto i migliori auspici.
Con grande nonchalance, Zuril si fece scivolare in tasca il telecomando appositamente modificato con cui aveva bloccato da lontano la porta dell’alloggio di Barendos.
Gandal scambiò un’occhiata con il collega: che quei due siano morti?
Ma va’… solo un po’ malconci.
Una cosa però era certa: per loro, quell’ultimo dell’anno sarebbe stato memorabile.


Sentendo quel po’ po’ di esplosione, Rigel si ricordò improvvisamente che ormai l’anno nuovo era iniziato, e subito battè i pugni sulla tavola per richiamare l’attenzione generale: – Non abbiamo nemmeno fatto un canto d’auguri!
– Ma che peccato…! – ringhiò Tetsuya, che aveva sperato d’essersela cavata almeno per una volta.
– Avanti, tutti in coro! – era un tono che non ammetteva repliche, per cui i presenti dovettero disporsi a sciogliere lieti canti; poi Rigel attaccò a stonare a tutta voce: – Uì uish iù a merri crismas…
Sayaka non resistette. Quell’inglese maccheronico era troppo, per lei che aveva trascorso anni in America, per cui attaccò a cantare ancora più forte: – We wish you a merry Christmas…
A quel punto anche gli altri si unirono al coro: – We wish you a merry Christmas…
Proprio allora rientrarono Mizar e i due comandanti di Vega; e Zuril, che aveva studiato usi e tradizioni terrestri, non resistette a sua volta alla tentazione:
– …And happy new year! – cantò a gran voce, soddisfatto.


Perchè, quando l’animo è lieto, anche un veghiano può sentirsi un canto sgorgare nel cuore… soprattutto, se ha appena avuto l’occasione di mandare i suoi nemici in ospedale.

Edited by H. Aster - 2/7/2017, 12:18

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Come ha detto K8, l'idea è sua.
Mentre mi stava parlando del suo racconto, ho avuto la folgorazione per il mio.
Ho avuto da lui il permesso di postare - non l'avrei mai fatto senza - per cui ecco qua.

I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE (DELLA NEBULOSA)


– Insomma, papà! – sbottò Rubina – Non puoi andare in giro conciato così! Sembri un barbone!
– Non è vero – brontolò il corrucciato genitore.
– Non hai un minimo d’amor proprio... – continuò sua figlia, esasperata – Da quant’è che non ti compri un vestito nuovo?
– Ho ben altro cui pensare, io – cominciò Re Vega, tentando di buttarla sui toni “lasciami lavorare, bimba, sono molto occupato”; ma Rubina era Rubina, e non si lasciava scoraggiare per così poco.
– E non parliamo poi della tua biancheria! Robaccia. Ho dovuto gettar via tutto...
– Co-come “gettar via”? – scattò suo padre, allarmato – E io che mi metto?
– Quello che adesso andrò a comperarti – flautò soavemente la principessa – Stavo giusto andando a fare acquisti.
Uno schianto in mezzo al petto, là dove si trovava la tasca in cui teneva il portafogli... Re Vega sapeva che un’uscita di shopping di sua figlia gli sarebbe costata molto cara.
In senso letterale, s’intende.
– Figliola... devi proprio...? – gemette.
– Vado a far spese – ribadì Rubina, in tono che non ammetteva repliche – Quando sarò di ritorno, avrai finalmente della biancheria decente, come si conviene all’Imperatore della Nebulosa!


Un grande scatolone, stampato a colori sobri, con un’elegante scritta a svolazzi che indicava una delle più raffinate – e costose – marche d’abbigliamento.
Re Vega guardava con autentico terrore quel preoccupantissima scatola: non osava pensare a cosa vi avrebbe trovato dentro, di “adatto all’Imperatore della Nebulosa”...


Trepidante e felice (nulla l’emozionava più che aprire finalmente i pacchi ed esaminare con cura cosa aveva effettivamente acquistato), Rubina aprì la scatola e tuffò dentro le mani: si era comperata un intero rifornimento di lingerie nuova, sexy, tutta pizzi e merletti.
Chissà che ne direbbe Duke, pensò la principessa; poi fece una smorfia.
“Rubina, quella biancheria così traforata... Prenderai freddo, ti verrà la colite!”
Già, poteva immaginarselo.
Con un’alzata di spalle, la principessa estrasse dalle veline il primo capo.
Solido cotone bianco stampato a disegnini... un paio di mutandoni decorati con piccole bombe...
Ovviamente, si era tenuta per errore il pacco destinato a papà. Che noia.


Sorreggendo lo scatolone tra mano e anca, Rubina pigiò il pulsante accanto alla porta degli appartamenti reali; quasi subito, suo padre venne ad aprire.
– Ho fatto per sbaglio uno scambio – la principessa entrò, deponendo su un tavolo lo scatolone; gettò un’occhiata al suo gemello, aperto, e sorrise: – Non dirmi che non te ne eri accorto...!
– Eh...? Oh, sì, sì, certamente sì – s’affrettò a dire suo padre; s’accorse solo allora d’avere ancora in mano un mini slippettino (rosa fucsia, tutto pizzi) e s’affrettò a cacciarlo nello scatolone della figlia, un po’ come si sarebbe sbarazzato di un insetto particolarmente peloso – Ma tu ti metti davvero quella roba...?
Lei alzò gli occhi al cielo in cerca di comprensione: – Papà! È la moda!
– Naturalmente – s’affrettò a dire suo padre, guardando con un brivido le sottovesti trasparenti, i bustier tutti merletti e le calze a rete che facevano capolino tra le veline. Rubina chiuse il coperchio, afferrò lo scatolone – giusto, stavolta – e uscì.
Re Vega chiuse la porta e vi si appoggiò contro.
S’avvicinò timorosamente allo scatolone rimasto, aprì piano il coperchio...
Cotone bianco. Qualche minuscolo, sobrio disegnino. Canottiere e slip proprio a forma di canottiere e slip, nulla di pericolosamente equivoco. Austeri, scuri calzini.
Sua Maestà emise un sonoro sospiro di sollievo: fino a pochi istanti prima era rimasto agghiacciato a chiedersi quanto fosse cambiata la moda maschile, e quale biancheria fosse veramente “come si conviene all’Imperatore della Nebulosa”...







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Anche questo racconto è nato grazie a K8: francamente, non saprei dire di chi sia stata l'idea. Ne abbiamo parlato, è venuta spontaneamente, ed è nata la FF.
So che anche lui vorrebbe svilupparlo a modo suo, e lo farà non appena avrà un poco di tempo (ah, la scuola...)
Nel frattempo, con il suo permesso posto la mia versione... che ovviamente è dedicata proprio a lui, l'impagabile K8-88, senza il quale questa FF magari non avrebbe mai visto la luce.



METTI LA TESTA A POSTO

Jun considerò con palese disgusto le fluenti chiome del suo compagno: «Con quei capelli, sembri Wolverine! Quando ti deciderai a tagliarli?»
Tetsuya depose il giornale che stava sfogliando e rivolse un’invocazione alle Sfere Celesti, prima di rispondere: «Jun, il mio barbiere è andato in pensione».
«Non è un buon motivo per girare conciato come un barbone», rispose amabilmente lei.
Tetsuya lanciò un’occhiata alla propria immagine riflessa nella vetrata di fronte alla sua poltrona: era vero, i suoi capelli erano diventati un’irsuta massa di pelo sotto il quale il suo viso sembrava scomparire. Persino i suoi famosi sopracciglioni apparivano molto meno importanti del consueto.
«È una vera foresta vergine», rincarò Jun. «Cercasi machete urgentemente».
«Hai ragione, devo trovarmi un altro barbiere», sospirò lui. «Potrei chiedere ad Alcor chi è che gli taglia i capelli…»
«Perché quel tosacani ti conci come lui?», intervenne lei, prontissima. «Vuoi girare anche tu con una criniera leonina come quello sciamannato di tuo fratello?»
«Ma…»
«Per una volta, Tetsuya… UNA, dico… non potresti farti tagliare i capelli in un modo un po’ più elegante, più moderno? Ci guadagneresti molto, sai?»
Tetsuya balzò a sedere sulla sua poltrona: «Non vorrai che mi faccia conciare come i ragazzi di adesso… magari con i capelli giallastri e pieni di gel!»
«Ma no! Dico solo che con un taglio ben scelto staresti davvero bene», lo guardò come se stesse prendendo la mira e lanciò la freccetta avvelenata: «Ti prego, Tetsuya… ci terrei tanto…»
Per sua natura, Tetsuya non era tipo da badare a frivolezze quali il suo aspetto fisico: apparire più bello non era certo una cosa importante per lui, che oltretutto considerava la bellezza come un valore un po’ ambiguo per un vero uomo.
Quello che lo fregò furono i grandi occhioni imploranti e la voce supplichevole di Jun.
«E da chi dovrei andare, secondo te?», chiese, il tono che voleva essere indifferente, mentre fingeva di sfogliare il suo giornale. Non voleva certo capitolare in fretta, che diamine.
Jun, che aveva capito d’averla spuntata, mascherò abilmente l’espressione trionfante che le sarebbe venuta spontanea e disse in fretta: «Monsieur Antoine, il mio parrucchiere, potrebbe senz’altro…»
Un urlo di raccapriccio eruppe dalla strozza di Tetsuya.
«Jun!», ululò. «Vuoi che vada da un barbiere per femmine
«Scemo! Le signore non si fanno la barba!»
«Lo dici tu!»
«Non essere ridicolo! Io ti sto dicendo che dal mio parrucchiere vengono anche molti uomini…»
«Siamo sicuri che siano proprio uomini?»
«Uomini-uomini, testone!»
«Sarà… io credevo che i parrucchieri fossero solo per donne, ma se questo è un parrucchiere bisex…»
«Se mai, unisex! Tetsuya, mi farai morire!»
«Ma che ho detto?»
«Lascia perdere!», Jun fissò il compagno con fiero cipiglio: «Allora, ti fisso un appuntamento?»
Per sofferta esperienza personale, Tetsuya sapeva che qualsiasi discussione con Jun sarebbe finita in un modo e in un modo soltanto; perciò, da quell’uomo pratico che era, decise di risparmiarsi tempo e fatica e cedere subito.
Fu così che il giorno dopo si ritrovò a varcare con passo titubante la soglia del temuto hair stylist.
Era un negozio tutto specchi, tinte pastello e marmi rosa; alcune dee – non c’era miglior modo di definirle – avvolte in morbidi camici color salmone aleggiavano attorno ai clienti. Un dolce sottofondo musicale, molto tenue, e un lieve sentore di patschouly diffuso da un bruciaprofumo davano un ulteriore tocco all’ambiente, creando un’atmosfera di calma serenità.
Dee a parte, Tetsuya provò l’immediato impulso di darsela a gambe; l’avrebbe anche fatto se una delle succitate meravigliose fanciulle non avesse svolazzato verso di lui, guidandolo con cortese fermezza verso una poltroncina e flautandogli che monsieur Antoine sarebbe stato subito da lui.
Tetsuya gettò un rapido sguardo alla capigliatura della dea: anche un profano come lui notò il taglio perfetto, l’acconciatura impeccabile. Niente da dire, un lavoro molto ben fatto e per nulla eccentrico. Tetsuya cominciò a respirare un po’ più serenamente, tantopiù che tra le signore presenti aveva notato anche alcuni uomini. Meno male, essere il solo maschio in mezzo a tante donne lo avrebbe imbarazzato non poco.
Con un gran sfarfallare di mani, monsieur Antoine si fece avanti per accogliere il suo nuovo, accigliato cliente. In un istante, Tetsuya registrò i vaporosi capelli tinti in un roseo color cipria, la voce trillante che era tutta un “oh-la-la”, il camice rosa salmone (rosa!!!); cancellarlo dalla categoria “maschi” fu un tutt’uno.
A dispetto della sua immagine poco virile, monsieur Antoine era un entusiasta estimatore di donne: le amava profondamente, amava valorizzarne la bellezza, e le acconciature che uscivano dalle sue mani erano dei capolavori di gusto ed eleganza. Non v’era donna, per quanto racchia, per cui non sapesse trovare il taglio più adatto, il colore che meglio s’armonizzava con gli occhi e la carnagione.
Insomma, monsieur Antoine era un autentico artista.
Se le teste femminili gli facevano esprimere al meglio il suo considerevole talento, erano però quelle maschili che stimolavano maggiormente la sua creatività, il suo genio inventivo; fu per questo che prese a considerare con estrema attenzione la testa di Tetsuya, girandosela e rigirandosela tra le mani un po’ come Amleto col teschio di Yorick. La tastò in lungo e in largo, la scrutò, tiracchiò pensosamente i capelli valutandone lunghezza e consistenza.
«Voi siete fortunato, monsieur» esclamò infine, entusiasta «Le vostre chiome sono sempliscemonte superbe: fitte, forti… dotate, direi, di spiccata personalità. Con capelli comme ceux-ci, possiamo sbisarirsci!»
«Io voglio solo un taglio di capelli, niente di complicato» s’affrettò a dire Tetsuya.
Monsieur Antoine sorrise, condiscendente: naturalmente, il cliente non poteva scegliere ciò che era meglio per lui… «Mais oui, un taglio semplisce», disse in tono flautato, mentre le pupille gli s’accendevano d’una luce sinistra.
Chiamò una delle dee, che subito cinguettò a Tetsuya di seguirla: gli avrebbe lavato i capelli.
«Ma io devo solo tagliarli», obiettò lui.
«Appunto, signore».
Tetsuya fece per osservare che il suo barbiere gli tagliava i capelli asciutti, ma capì da sé che una simile osservazione l’avrebbe squalificato irreparabilmente agli occhi di quella squisita creatura; rassegnato, si lasciò installare in una poltroncina, e accettò che lei gl’incastrasse il collo tra le gelide propaggini di una vaschetta. Acqua calda, shampoo (bleah, che profumo dolciastro), risciacquo, shampoo (ancora?), nuovo risciacquo. Dopo un energico frizionamento con una salvietta, venne riaccompagnato dalla dea verso una poltroncina posta davanti un ampio specchio e avvolto in un’ampia mantellina, ovviamente color salmone; fu così che Tetsuya si ritrovò in balìa d’un roseo coiffeur che parlava come l’ispettore Clouseau.
Monsieur si mise subito al lavoro, le mani che si agitavano come farfalle attorno alla testa del cliente. Fu così che, un po’ per i profumi che aleggiavano nella sala, un po’ per la musica di sottofondo, un po’ per la noia che lo stava invadendo (ma quanto ci mettevano a tagliargli quei maledetti capelli?), Tetsuya fece quel che non dovrebbe mai fare un perfetto guerriero: crollò addormentato senza nemmeno accorgersene.


«C’est tout, ho finito! Che ve ne pare?» trillò monsieur Antoine.
Tetsuya si riscosse bruscamente: come aveva potuto perdere così il controllo?
In quel momento vide la propria immagine riflessa nello specchio, ed ebbe ben altro cui pensare che non fosse la pennichella fuori programma.
«Acconsciato così, monsieur appare veramonte charmant, n'est-ce pas?» aggiunse l’artista, visibilmente soddisfatto dell’opera sua.
Tetsuya trattenne il fiato.
I capelli, che non erano stati affatto accorciati, erano divisi da una scriminatura esattamente nel centro della fronte, e scendevano ai lati del viso in due bande compatte ed uniformi, artisticamente ondulate grazie ad un sapiente uso della piastra. Un riflessante bluette aggiungeva un ulteriore tocco di orrore alla già orrenda situazione.
«Ma cosi sembro un cocker!!!»
Monsieur Antoine guardò con aria di sufficienza quel suo povero cliente, incapace di comprendere la sua opera: «Quest’acconsciatura valorizza notevolmonte il vostro profilo, così aquilino e… oserei dire, sauvage».
«Molto bene», Tetsuya parlò con una calma a dir poco ammirevole «Adesso però fate sparire il sovasg, e mi tagliate i capelli come Dio comanda...»
«Monsieur evidentemonte ama sceliare!»
«...altrimenti vi infilo due bigodini su per le narici».
Antoine incrociò lo sguardo al fulmicotone del suo cliente e comprese che no, monsieur non stava affatto scherzando. Il fatto che poi Tetsuya stesse giocherellando con un paio di bigodini presi dal carrello, e nel contempo gli guardasse il naso con aria professionale, gli fece capire che la faccenda era a dir poco seria.
Senza profferir verbo, monsieur Antoine si rimise subito all’opera, lavorando alacremente a suon di pettine e forbici; stavolta, il suo accigliatissimo cliente era deciso a restarsene ben sveglio, quindi non c’era la possibilità di sgarrare.

- continua -


Eventuali commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338

Edited by H. Aster - 29/4/2010, 22:51
 
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Seconda ed ultima parte.


Alto, magro, naso e sopracciglia alzate nell’espressione di chi si è trovato un bacherozzo nella tazza di tè, i capelli sapientemente mechati e scalati con un taglio studiato per dare un effetto di naturale arruffìo, un lungo pendente all’orecchio destro e l’immancabile camice salmone, il giovane che gli si era materializzato nel campo visivo assomigliava dannatamente al genere di persona con la puzza sotto al naso che Tetsuya non poteva sopportare.
Il nuovo venuto prese la mano di Tetsuya, la esaminò in lungo e in largo e dilatò le aristocratiche narici: «Di grazia, mi dite voi che cosa posso fare con questo
«Proprio niente» Tetsuya s’affrettò a recuperare la mano, gettando nel contempo un’occhiataccia all’esemplare umano che aveva davanti.
«Non siate assurdo» il giovane prese uno sgabello, tirò accanto a sé un carrello carico di forbicine e limette, e sedette di fronte a Tetsuya. «Mi chiamo Tabito, sono il nail stylist. Sono qui per farvi la manicure».
«Manicure? Io non ho mai fatto manicure in vita mia!»
«Si vede». Tabito fece una smorfia: «Bontà del cielo, che mani ruvide e callose! Che lavoro fate? Il minatore?»
«Pilota», rispose Tetsuya, con aria di sfida.
Tabito lo considerò con palese disapprovazione: «Ho visto dei muratori con mani in condizioni migliori di queste. Sembra che non vi siate mai messo un po’ di crema in vita vostra!»
«Crema?», ansimò Tetsuya. «Ma siamo matti? Sono un uomo, io!»
«Oooh, un ruvido maschiaccio, ma certo», Tabito scosse la testa; incrociò lo sguardo di fuoco di Tetsuya e si premurò di aggiungere: «Tranquillo, caro, non siete il mio tipo».
Tetsuya incassò senza fiatare, sollevato di non essere fatto oggetto d’insane passioni; un attimo dopo intercettò lo sguardo di lieve disgusto dedicatogli da Tabito, e non poté non sentirsi vagamente offeso.
«Le facciamo a punta, le unghie?», chiese lo stylist, armeggiando con la limetta.
«A punta?», ululò Tetsuya, facendo voltare tutti i presenti nel salone. «Ma siamo matti? A punta! Roba da donnette!»
Tabito tamburellò sul carrello con le proprie curatissime unghie acuminate.
«Molto bene, quadrate», la disapprovazione con cui guardò Tetsuya fui ancora più evidente: un cliente così banale, così terra-terra… «Per carità, non facciamo follie, non è vero?»
«Magari, secondo voi dovrei mettermi pure lo smalto!», esclamò Tetsuya, sentendosi molto sarcastico.
«Ma certo», fu la risposta che ottenne.
Tetsuya guardò Tabito dritto in faccia: era serissimo.
«Davvero voi pensate che dovrei mettermi… ugh… lo smalto…?», articolò, sperando di non aver capito bene.
«Un velo di smalto trasparente, per lucidare queste vostre, cosiddette…», sguardo colmo di riprovazione, «unghie».
«Glop», fu tutto ciò che riuscì ad articolare Tetsuya.
«Magari, tanto per osare», continuò lo sciagurato, «potreste trovare il coraggio di mettere qualche brillantino».
Tetsuya si sentì mancare il fiato: aveva affrontato mostri su mostri, aveva rischiato la morte innumerevoli volte, mai aveva sentito il suo coraggio vacillare, il suo animo cedere; i brillantini furono un po’ troppo, anche per un guerriero valoroso come lui.
«No!», esclamò, deciso. «È la mia ultima parola!»
Tabito scosse il capo. Ah, questi maschiacci retrogradi, fissati con l’idea che smalto e brillantini sminuissero la loro preziosa virilità…
«Contento voi», commentò, mettendosi subito al lavoro, sotto gli occhi da basilisco del suo cliente…
E fu così che, per la seconda volta in quella giornata, Tetsuya perse il controllo della situazione.


«Voilà! Monsieur sarà soddisfatto, ora!», esclamò la voce giuliva di monsieur Antoine.
Tetsuya sussultò colpevolmente: si era distratto un’altra volta! Nooo…
Prese fiato: era un uomo, che diamine… un uomo abituato a guardare in faccia il pericolo…
Alzò gli occhi.
I capelli, per nulla accorciati, erano stati suddivisi in ciocche puntute come asparagi ed irrigidite da un gel tipo bostick; l’effetto Goku di Dragonball era a dir poco inevitabile. Un riflessante smeraldino applicato sulle punte rendeva la visione ancora più emozionante.
Tetsuya era un uomo forte, l’aveva dimostrato infinite volte; l’acconciatura da Goku fu un po’ troppo. Annientato, cadde contro lo schienale della sua poltrona, e gli ci volle un buon paio di minuti per riavere il controllo di sé stesso e finalmente reagire.
Agguantato monsieur per il roseo camice, Tetsuya afferrò una piastra per capelli a dir poco rovente e, con una voce in cui ben difficilmente si sarebbero potuti udire lieti toni amichevoli, minacciò di farne uso; in particolare, su orecchie, naso ed altre estremità appartenenti al malcapitato figaro.
All’idea di finire con orecchie, naso eccetera arrostiti alla piastra, l’artista venne a più miti consigli. Terrorizzato, monsieur riprese ad armeggiare con pettine e forbici, mentre il suo irato cliente apriva e chiudeva la piastra facendola schioccare sinistramente.
Fu allora, mentre continuava a snaccherare con la piastra, che Tetsuya s’accorse d’un’altra, orribile cosa: approfittando malignamente del suo mancamento, Tabito gli aveva dipinto le unghie con il dannato smalto trasparente, su cui aveva lasciato cadere qualche glitter azzurro pervinca. Ovviamente, lo sciagurato ora si era messo fuori portata dei suoi lucidissimi artigli… Dannazione!
Antoine gettò un’occhiata disperata a Tabito (“Aiuto!”), e pur stando lontano questi intervenne prontamente. Chiamò una delle dee, e le sussurrò in fretta alcune istruzioni.


Quella che improvvisamente apparve davanti ai suoi attoniti occhi era qualcosa che mai si sarebbe immaginato potesse esistere… se le altre fanciulle erano dee, lei era la Divinità Suprema. Alta, bionda e talmente curvilinea da far sembrare Jun piallata come un’asse da stiro.
Generalmente, Tetsuya era un uomo capace di resistere al fascino femminile; ma, appunto, era un uomo.
Ci sono cose cui non è possibile imporsi, e il testosterone è uno di queste: fu per questo che Tetsuya rimase totalmente imbambolato a fissare la sovrabbondanza di curve che si esponeva ai suoi attoniti occhi.
«Buongiorno», flautò la Super Dea.
«…horno», esalò lui.
Lei gli sorrise, fece scivolare la mano su quella di lui: «Permettete, signore…?»
Incapace di spiccicar parola, Tetsuya assentì: non sapeva cosa lei volesse, ma in quel momento le avrebbe dato qualsiasi cosa, mano, polso, braccio e pure tutto il resto.
«Grazie», e con un radioso sorriso, lei s’impossessò della piastra fumigante. Lui, che le avrebbe regalato anche l’intero regno di Mikene, l’Imperatore delle Tenebre e anche pure il Generale Nero in sovrappiù, non parve formalizzarsi, e rimase attonito a fissarla, mentre sentiva nelle orecchie un fischio tipo pentola a pressione. Lei gli sorrise facendo frullare le ciglia e s’allontanò in un sinuoso sommovimento di curve… salvo voltarsi un istante e soffiargli un bacio. Poi scomparve, portando la piastra lontano dalle sue ora curatissime zampacce.
A quel punto, Tetsuya ebbe la netta impressione che gli si scoperchiasse il cranio mentre nuvole di vapore gli sbuffavano dalle orecchie.
Dal suo angolo, Tabito sogghignò tra sé con l’aria di chi la sa lunga: questi maschi! È così facile manovrarli…


Recuperato il controllo sulle proprie interiori tempeste, Tetsuya gettò un’occhiata ansiosa allo specchio; un urlo disumano gli eruppe dalla strozza, il grido disperato di un’anima angosciata che ormai troppo ha sopportato.
«Monsieur non è ancora soddisfatto?», si preoccupò Antoine. «Eppure, questa è una coiffure molto jovanile, à la mode…»
Tetsuya chiuse gli occhi, riprese fiato e finalmente osò affrontare di nuovo la propria immagine riflessa nell’ampio specchio di fronte a lui.
Accuratamente rasati sulla nuca e le tempie, sulla sommità i capelli avevano mantenuto la loro lunghezza, ed erano stati acconciati in un vaporoso boccolo alla babyjonsohn. Una mechatura a strisce tipo puzzola rendeva l’insieme ancora più agghiacciante.
Tetsuya acchiappò l’infausto barbitonsore per il bavero del suo camice salmone, e con voce semiumana ringhiò cosa avrebbe fatto con il suo rasoio – e soprattutto dove l’avrebbe inserito – se non fosse stato posto un immediato rimedio a quello scempio.
«Mais il est impossible» gemette l’infelice acconciatore di chiome «Che volete che fascia, a questo punto?»
«L’unica cosa possibile» Tetsuya gli cacciò in mano il rasoio. «Forza!»
«Ma no, io non…»
«Usate quel rasoio», intimò Tetsuya, la voce che era tutta un requiem aeternam «o lo userò io».
Bastò una semplice occhiata al cliente perché l’infelice Antoine comprendesse che avrebbe utilizzato il rasoio in maniera non certo tradizionale; deglutì penosamente, quindi afferrò lo strumento con mano tremante…


Fu un Tetsuya serio, dal casco accuratamente calcato in testa – e dal portafogli deserto – quello che arrestò la sua moto davanti alla Fortezza delle Scienze.
Jun, che prendeva il sole sulla terrazza, lo salutò festosamente, alzandosi per andargli incontro; le bastò una semplice occhiata per capire che ci fosse qualcosa che non andava.
«Tutto bene…? », chiese, incerta, occhieggiando il casco che lui ancora non si era tolto. E pensare che generalmente Tetsuya si sbarazzava al più presto di qualsiasi copricapo…
«Benissimo», il tono normale di Tetsuya non avrebbe ingannato nemmeno un neonato un po’ tardo.
Ahi ahi, pensò Jun.
Rimasero a guardarsi, lei incerta e lui con una vaga aria di sfida.
«Beh? Com’è andata?», chiese Jun, che ormai cominciava a sentirsi davvero inquieta. «Ti sei tagliato i capelli?»
«Ma certo. Un bel taglio moderno» si tolse finalmente il casco, rivelando una zucca totalmente pelata. Al confronto, un marine sarebbe sembrato un capellone.
Jun emise un urlo d’orrore, strozzandolo subito in un accesso di tosse.
«Non volevi che mi tagliassi i capelli?», insisté lo sciagurato.
«Santo cielo», Jun ebbe un mancamento, e si appoggiò alla balaustra del terrazzo per non cadere. «Vuoi dirmi che monsieur Antoine ti ha… ti ha rasato…? Ma perché un taglio così radicale?»
Tetsuya pensò alle acconciature di monsieur, alla manicure con tanto di smalto lucidante, al camice salmone, ai profumi, allo sgrugnone con cui aveva restituito a Tabito almeno una parte dei brillantini pervinca e soprattutto al pingue, salatissimo conto che gli era stato presentato… omise i ruggiti, l’acrimonia e le rampogne e preferì buttarla sul sarcastico: «Non volevi che cambiassi look? Sarai contenta, ora!»
«Ugh», fu tutto ciò che riuscì ad articolare Jun.
«Non capisco perché tu abbia quell’aria disgustata», Tetsuya si passò la mano sulla zucca pelata. «I capelli possono essere talmente scomodi… sai che non mi dispiace affatto averli rasati?»
Jun boccheggiò: «Co-cosa…?»
«Ma sì, penso che per un po’ di tempo potrei continuare a stare così», insisté Tetsuya, specchiandosi in una delle vetrate della base.
«…No…!»
«È piuttosto comodo, ho sempre detestato dovermi asciugare i capelli, dopo la doccia», aggiunse Tetsuya, malefico.
Jun prese fiato, mentre tentava, vanamente bisogna dire, di rimettere a posto la propria glottide; poi, da quella donna tutta d’un pezzo che era, estrasse il cellulare, cercò un numero, lo copiò su un foglietto e glielo tese: «Ecco».
«Cos’è?»
«Il numero di tuo fratello Alcor», guardò con palese disgusto la zucca rapata di Tetsuya ed aggiunse: «La prossima volta, fatti dare l’indirizzo del suo barbiere».
A questo punto, Tetsuya avrebbe potuto lanciarsi in una filippica “te-l’avevo-detto”; non lo fece. Aveva vinto, non voleva stravincere; intascò il biglietto con perfetta nonchalance, gettando uno sguardo complice alla propria immagine.
Se sopportare monsieur Antoine gli era valso il permesso di farsi ricrescere le sue chiome leonine, beh… una criniera selvaggia val bene una rasatura a zero.


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view post Posted on 12/5/2010, 21:51     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Questo è il racconto per il Daitarn, che trovate anche nel libro; comunque lo piazzo anche qui, assieme agli altri.

Dedicato all'unico, insostituibile, inimitabile (per fortuna!!! Uno solo, sufficit!) K8-88, autore dell'idea di base; io mi sono limitata a svilupparla.

TRAGICHE NECESSITÀ

– Sono davvero spiacente, signor Banjo, ma i tempi cambiano – disse Garrison, ossequioso, compostamente assiso su una delle poltrone del salotto – Purtroppo, abbiamo bisogno di fondi per poter garantire una buona manutenzione al Daitarn, e sinceramente non vedo in quale altro modo… onesto… si possa ottenere una simile somma di denaro.
– Non mi piace – brontolò Banjo.
– Si tratta di un mucchio di soldi – esclamò allegramente Toppi, sdraiato di traverso su una poltrona – Prova a pensare a questo, e non ti sembrerà poi così brutto.
Banjo scosse la testa: – Non mi piace lo stesso! È… umiliante.
– Ma per piacere! – esclamò allegramente Beauty, allungando con voluttà il suo 95-60-95 sul divano – Umiliante? La pubblicità è l’anima del commercio, non lo sai?
– Beauty, che frase originale! – esclamò Reika; la sua voce era ad alto tasso d’arsenico, ma naturalmente il gallinaceo cervellino della sua compagna non era in grado di cogliere un sarcasmo.
Con un risolino di autocompiacimento, Beauty si raggomitolò sui cuscini: – Comunque, io dico che è un’occasione d’oro, e rinunciare a tutti quei soldi è follia pura.
Banjo gemette. Era evidente che Beauty era favorevole, come Garrison e Toppi; si girò verso Reika, sperando che lei si schierasse dalla sua parte, che muovesse opposizioni a quel… quel…
– Odio dirlo – rispose Reika alla muta domanda di lui – ma per una volta tanto sono d’accordo con Beauty.
– …Anche tu…! – mormorò Banjo, sconfortato.
– Banjo, guardiamo le cose in faccia – disse lei in tono pratico – I soldi ci servono. Abbiamo la possibilità di averne tanti e, cosa non trascurabile, di averli in maniera assolutamente limpida e onesta… dire di no sarebbe veramente assurdo.
Banjo chinò il capo, passando con lo sguardo uno per uno sui suoi compagni, radunati nel salotto della loro villa. Erano tutti d’accordo, quattro contro uno… doveva cedere. Però gli bruciava…
– Non è una cosa seria! – disse, tanto per tentare un’ultima protesta.
– Perché, andare a fare sfracelli pilotando un robot gigante è serio? – chiese Beauty, con insospettabile buon senso.
– E va bene! – Banjo alzò le mani in gesto di resa – Va bene! Facciamo come volete!
– Evviva! – gridò Toppi.
– Finalmente un po’ di buon senso! – esclamò Reika.
– Signore, mi permetta di congratularmi con lei – aggiunse Garrison.
– È la cosa più intelligente che potessi decidere – ridacchiò Beauty, mentre Reika la guardava storto masticando sarcasticamente un “intelligente…!” tra i denti.
– Però… – cominciò Banjo, troncando grida di giubilo e congratulazioni.
– Cosa c’è che non va? – chiese Reika.
Banjo rifletté, scegliendo con cura le parole: – Sentite, capisco che quei soldi ci servono, e so che essere… uh… sponsorizzati è normalissimo, ma… insomma…
– Ma certo che lo è! – esclamò Toppi – Tutti gli sportivi hanno i loro sponsor.
– Resta il fatto che noi siamo dei combattenti, non degli sportivi – osservò Banjo.
– Quanto la fai lunga! I soldi sono soldi – osservò Beauty, controllando rapidamente nel vetro della portafinestra lo status delle sue chiome.
– Non potresti sparare una delle tue solite sciocchezze? – sbottò Reika.
– Ma se ti lamenti sempre per le mie stupidaggini, dici che non le sopporti…
– Sopporto ancora meno doverti dare ragione!
– Smettetela! – sbottò Banjo, seccato – Va bene, oggigiorno lo sponsor è essenziale; se poi è più di uno, tanto meglio. D’accordo… per cui, passi il fatto che d’ora in poi Daitarn dovrà girare sempre con attorno alla fronte una fascia con su scritto “Bevete Caca-Loca”.
– Mi piace tanto, la Caca-Loca! – esclamò allegramente Beauty – Quelle bollicine sembra che ti frizzino nella testa!
– Così non avrai il cranio vuoto come al solito – osservò Reika, soave.
– E poi – continuò in fretta Banjo – passi anche il dover avere sul petto la scritta “con Aiace pulito sicuro”…
– Eccellente prodotto – osservò Garrison – Impagabile per le superfici del bagno, se il signore mi consente.
– Passi anche il dover portare una cintura con la scritta “Vispident, chewing gum senza zucchero”.
– Non è male il Vispident – osservò Toppi – In effetti, da quando lo uso il dentista non mi ha trovato più carie.
– Che non sia perché invece i denti te li ha già trapanati tutti? – osservò serafica Beauty.
– Passi anche – esclamò Banjo, il tono sufficientemente alto da stroncare le proteste di Toppi – passi anche la scritta sulla schiena… – inspirò – …“Pimpi, pannolini per bimbi”…
– In effetti, è dura – mormorò Reika.
– Ne convengo – aggiunse Garrison.
– Pensate ai soldi… – canterellò Beauty.
– Lo so! – sbottò Banjo – I soldi! Continuo a pensare a quei maledetti soldi, per questo ho accettato tutto questo… ma quel che è troppo, è troppo!
– Che volete dire, signor Banjo? – chiese Garrison.
– Dico che accetto la Caca-Loca, l’Aiace, il Vispident, persino i pannolini Pimpi… ma mai, ed è la mia ultima parola, MAI a fine combattimento acconsentirò a dire “Ed ora vincerò con la forza di Sole Panni!”











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