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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 27/3/2015, 19:46     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Nuova piccola follia.

EAU DE CACCAREL


– Maestà, vorrei davvero esservi utile – disse Zuril – Nulla mi darebbe più piacere di questo…
– E allora perché non lo fai? – chiese Re Vega, che era un tipo spiccio.
– Ricapitoliamo. Voi volete che vi prepari un…
– Un profumo antifemmine! – tagliò corto Sua Maestà – Non ne posso più di Himika… sempre lì ad abbracciare, a sbaciucchiare. Dice che mi trova irresistibile.
– Sui gusti non si discute – rispose Zuril dandogli un’occhiata con cui esprimeva chiaramente la sua opinione.
– Se solo quella dannata femmina non fosse così appiccicosa! – il sire lo guardò, speranzoso: – Non potresti farmi brutto?
– Volete dire ancora più…? Sì, beh, capisco cosa intendete, ma mostrificarvi non credo sia una soluzione.
– Per questo ho pensato al profumo antifemmine! – esclamò il sire – Non puoi crearmi un puzzo insopportabile, un tanfo disgustoso, un miasma asfissiante?
Zuril rifletté: il problema in effetti era stuzzicante. – In teoria si potrebbe pensare a qualcosa…
– Voglio un fetore che tenga lontana da me qualunque femmina! – insisté il Sire, battendo un pugno sulla scrivania di Zuril e facendo volare a terra il progetto di un nuovo mostro salamandriforme – Già che ci siamo, oltre a Himika intendo sistemare anche Raflesia. Ma, bada bene, il puzzo deve far schifo solo alle femmine, non ai maschi.
– Si può fare – rispose Zuril, sempre pensieroso – Basta basarsi sul principio dei feromoni, ed agire in maniera del tutto opposta. Devo studiarci, ovviamente…
– Quanto tempo ti ci vorrà?
– Sire, non è così semplice. L’odorato agisce sulla parte più antica del cervello, entrano in funzione i nostri istinti più primordiali. Un simile odore va accuratamente studiato, o le conseguenze potranno essere catastrofiche.
– Quanto tempo? – insisté il sire.
Zuril allargò le braccia: – Se comincio subito e lavoro a pieno regime, tra un mese forse…
– Stai scherzando? Mi serve entro tre giorni! Himika pretende che sabato la porti all’Astrocentro a fare compere e poi vuole che andiamo a cena, e poi… grumph, vuole altre cose.
– Immagino – rispose Zuril, faccia da poker – Però in tre giorni non posso preparare nulla di adatto. Come ho detto, l’odorato risveglia…
– Non m’interessa risvegliare nulla! Io voglio solo schifare quelle maledette femmine!
– Sire, vi ho già spiegato che agire sull’area istintiva può essere molto pericoloso, bisogna avere cautela…
– Macché cautela! La verità è che non vuoi aiutarmi!
– Maestà, vi prego, non è così! Io vorrei… farò quel che posso, ma…
– Beh, cerca di sbrigarti! – e Re Vega uscì a passo di carica. Non poté ovviamente sbattersi la porta automatica dietro alle spalle, ma fu come se l’avesse fatto.
Rimasto solo, Zuril sbuffò: un profumo antifemmina…! Era possibile crearlo, ovviamente, ma occorreva testarlo con cura, o le conseguenze avrebbero potuto essere terrificanti. Agire sull’area degli istinti non era così semplice, ma faglielo capire, a Sua Maestà…!
Meccanicamente, rimise a posto gli oggetti sulla sua scrivania, allineandoli l’un l’altro; si chinò per raccogliere i fogli del progetto, e subito vide sotto al suo tavolo qualcosa che non avrebbe dovuto esserci… una cimice…?
Dantus, senza dubbio. Dantus, che aveva cercato di spiarlo per carpirgli i suoi segreti… Dantus che ora sapeva come lui si fosse rifiutato di preparare il profumo antifemmina…
Zuril, che aveva allungato la mano per staccare la cimice, si fermò subito: farlo equivaleva far sapere a Dantus che aveva scoperto tutto. No, no.
Il profumo antifemmina… se niente niente conosceva il suo pocoamato collega, in quel momento era già in laboratorio a trafficare con beute e provette, in modo da creare il profumo per primo e farsi bello davanti a Sua Maestà… e il sire ne sarebbe stato deliziato, lui, che non aveva voluto ascoltarlo quando aveva cercato di metterlo in guardia.
Io ho avvertito dei pericoli, si disse Zuril, mentre un’aureola baluginante gli si allargava sulle ali da pipistrello. Se loro non hanno voluto ascoltarmi, non è colpa mia…


Mentre mescolava in una larga beuta un intruglio dall’aria sospetta, Dantus gongolava: quell’idiota di Zuril non sapeva cogliere le occasioni! Adesso ci avrebbe pensato lui, avrebbe dato a Sua Maestà il tanfo cui tanto teneva, e finalmente avrebbe silurato l’odioso collega…


Fu un Dantus trionfante quello che il mattino dopo fece il suo ingresso nella Sala Comando. Gandal e Hydargos compresero subito che ci fosse qualcosa di strano nell’aria, Re Vega lo degnò d’uno sguardo interrogativo e il viso di Zuril assunse l’espressività di una lapide.
– Ecco qua, sire! – Dantus depose una boccetta davanti al sovrano.
– Cos’è? – s’informò il sire.
– Non volevate un profumo speciale… che vi renda repellente alle signore? – e Dantus scoccò un’occhiata al rivale, i cui tratti si erano fatti vieppiù marmorei.
– Il profumo antifemmina? – giubilò il sire, mentre Gandal e Hydargos si scambiavano un’occhiata allarmata: per istinto percepivano guai, anche se non avrebbero saputo spiegare il perché di questa loro certezza.
– Proprio il profumo antifemmina – disse Dantus, un’occhiata a Zuril che era tutta un “tiè!” – So che qualcuno aveva prospettato problemi su problemi per crearlo…
– E tu invece me l’hai preparato subito! – il sire levò felice la boccetta, quasi avesse voluto brindare – Dantus, hai fatto un grande lavoro!
– Oh, grazie, Maestà – rispose il ministro, con la consueta modestia.
– Meno male che bisognava lavorarci per almeno un mese, eh, Zuril? – esclamò il sovrano, piuttosto acido.
Zuril si schiarì la voce: – Immagino che il profumo sia stato debitamente testato.
– Ma certo! – rispose Dantus, risentito – Lavoro sempre con molta cura, io!
– Naturale – il sire prese ad armeggiare per aprire la boccetta – Adesso dobbiamo provarlo subito. Se funzionerà…
– Sarà un successo, Vostra Maestà, ve lo garantisco!
– Ne sono sicuro. Sarai adeguatamente premiato, hai la mia parola.
– Hah! – altra occhiata all’impassibile Zuril, mentre Gandal e Hydargos si scambiavano sguardi preoccupati. Ma che stava succedendo al loro collega? Perché non reagiva?
Il sire si diede una generosa spruzzata di profumo; un aroma non troppo gradevole si diffuse nell’aria… un aroma evocatore di vecchi ricordi…
– Ho sentito un puzzo del genere in certe discariche – osservò Sua Maestà, dopo aver debitamente annusato – A voialtri, cosa sembra?
– Chissà perché, mi è tornato in mente di quella volta in cui si erano guastati tutti i particolatori molecolari dei gabinetti dell’intera base – disse Gandal – C’era proprio quest’odore qui… fogna e cac… ehm, escrementi.
– A me ricorda i vecchi tempi delle esercitazioni militari – osservò Hydargos, perso nelle sue memorie – Quando si passava l’intera giornata a marciare, poi si tornava in camerata e ci si toglievano gli stivali… ecco, è un puzzo molto simile.
– Quando mi sono specializzato in anatomopatologia, ho dissezionato dei cadaveri diciamo stagionati che avevano quest’odore – aggiunse Zuril.
– Proprio così! – giubilò Dantus, fregandosi le mani – Ho usato essenze varie: tanfo di putrefazione, puzzo di fogna, di piedi sporchi, di sudore rancido, e tanti altri! Nessuna donna può resistere a un simile fetore!
– Veramente, noi stiamo resistendo – gli fece osservare Hydargos – È una puzza disgustosa, ma niente più.
– Ciò conferma solo una cosa: non sei una donna – rispose serafico Dantus – Basta però che una femmina annusi questo puzzo… no, non voglio rovinarvi la sorpresa. Sire, facciamo venire qui una donna: vedrete voi stessi che cosa succederà!
– Subito! – esclamò Re Vega, impaziente come un bimbo col suo giocattolo nuovo – Gandal, fai venire qui tua moglie!
– Ma Maestà, per una volta tanto che non scoccia…
– È un ORDINE! Obbedisci!
Gandal si strinse nelle spalle; un istante dopo, lady Gandal fece la sua comparsa.
– Mi volevate, sire? – non riuscì a dire altro, mentre il suo sano colorito bianco gesso si faceva grigio verdastro; roteò gli occhi verso l’alto, e con un “oooh…!” svenne, crollando in braccio a Hydargos, che ebbe i suoi problemi a restare in piedi. Con un certo sforzo, il Vicecomandante di Vega depose la signora su una poltroncina, prima che un’ernia gli schiantasse le vertebre.
– Ma che è successo? – chiese lo stupefatto Gandal, apparendo nuovamente.
– Svenuta sul colpo! – esclamò Dantus, trionfante – Nessuna donna può annusare quell’odore e restare cosciente!
– Però…! – esclamò Hydargos, massaggiandosi la schiena.
– Voglio fare un’altra prova! – Re Vega attivò il suo comunicatore; pochi attimi dopo, le porte scivolarono di lato e la principessa Rubina fece la sua comparsa.
– Mi volevi, papino? Oh… – colorito verdastro, occhi roteati verso l’alto e svenimento in braccio a Zuril, che si era tenuto previdentemente a portata di mano. Occhiate piene d’astio da parte di Hydargos, la cui schiena mandava ancora sinistri cigolii.
– Ma è magnifico!!! – esclamò il sire, cospargendosi abbondantemente di profumo – Adesso voglio andare subito da Himika, e già che ci sono, anche da Raflesia! Vediamo se non è la volta buona che mi libero da quelle due streghe! – fece per uscire, e si volse ancora verso Dantus: – Se tutto va come deve, sarai premiato come meriti!
Dantus si sprofondò in un umilissimo inchino, mentre Gandal e Hydargos gettavano occhiate preoccupate a Zuril, sempre impassibile… che il grande Ministro delle Scienze stesse per venir soppiantato?


Venire a sapere che il suo adorato Yabby era venuto apposta a trovarla, fu per Himika la più meravigliosa delle sorprese: da sempre lui l’aveva evitata come la peste, riuscire a vederlo era una sorta di campagna di guerra… e ora LUI veniva apposta da lei! Da non credere!
Nonostante la sua algida compostezza, la regina Himika era una tenera innamorata: si slanciò incontro all’uomo che amava, braccia spalancate e occhi stellanti… donna di poche parole, svenne senza nemmeno un urlo, stroncata dal fetore.
Re Vega ghignò malignamente, e tornato alla sua navetta fece rotta verso la reggia di Raflesia, la regina mazoniana.


Raflesia era troppo fredda e signorile per precipitarsi incontro a quello che era il suo per nulla amato bene; si alzò compostamente dal trono, si degnò di muovere qualche passo verso di lui… il tanfo le intasò le aristocratiche narici e la sovrana s’abbatté al suolo, inerte ed appassita.


Fu un Re Vega giubilante quello che fece ritorno alla base Skarmoon: l’invenzione di Dantus era semplicemente perfetta! Le due megere erano sistemate! Certo che era stato divertente vederle abbattersi senza nemmeno un sospiro…
Deciso a divertirsi ancora, il sire puntò verso la zona della base in cui si trovava la più alta concentrazione di donne: il Centro Medico. Poco dopo si poté assistere a una vera e propria ecatombe d’infermiere e dottoresse, stroncate al semplice passaggio del sovrano. E il bello era che i maschi presenti storcevano appena il naso, infastiditi da quell’odore… un odore che gli aveva donato la libertà, e che quindi non era tanfo ma profumo celestiale!
Il sire prese a percorrere i vari corridoi della base, passo danzante e ghigno malefico ad ogni donna che gli riusciva di annientare. Attraversato il Centro Medico puntò verso la zona scientifica (strage di scienziate), poi circolò nella zona progettazione (moria di creative) e infine passò negli hangar, dove venivano custoditi i vari mostri in fase di costruzione (di donne ingegnere non ce n’erano molte, ma crollarono tutte).
Dantus era veramente da premiare.
Fu allora che il sovrano udì un ululato mai sentito prima: dentro la sua enorme gabbia multirinforzata a sbarre elettrificate, King Gori stava dando segni di grande agitazione.
Incuriosito, il sovrano s’avvicinò per osservare meglio: ma che gli prendeva, a quel bestione? Non era certo una femmina, anzi! Perché reagiva a quel modo?
L’avvicinarsi del sire fece agitare ancora di più l’animale, che incurante delle scariche prese a scuotere violentemente le sbarre.
– Oh, abbiamo il nasino delicato? – ghignò Re Vega, mentre il mostro ruggiva a tutto spiano.
King Gori continuò a scuotere le sbarre come un forsennato. L’odore che gli era giunto alle narici – no, l’aroma, l’effluvio, l’olezzo celestiale – era quello, inconfondibile, della fanciulla assetata d’amore, del trepido fiorellino che non attendeva altro che d’essere colto.
L’amore gli diede la forza e la resistenza al dolore: le sbarre furono schiantate, e con un ruggito appassionato King piombò sul sovrano, il cuore traboccante di sentimento.


Sedare King Gori e rinchiuderlo in una nuova gabbia multirinforzata non fu semplice; ancora più difficile fu sottrargli dalle grinfie Re Vega vivo, sano e soprattutto illeso. Fu un sire duramente provato, dai vestiti a brandelli ma dalla virtù fortunosamente intatta, quello che venne portato al Centro Medico dove gli furono presentate le prime cure.
Il sovrano era comunque un uomo di parola: aveva detto a Dantus che l’avrebbe adeguatamente premiato, e lo fece.
E fu mentre osservava il rivale, debitamente profumato, trascinato verso la nuova gabbia del King, che Zuril ebbe modo di fare un’osservazione circa l’accuratezza di certi test di prova, che possono evitare sorprese poco gradite; ma, come nel caso del mostro, possono anche fornire nuove, eccitanti esperienze.

Link per dirmi che il cervello mi è andato appunto in caccarel: #entry571029309
 
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view post Posted on 2/7/2015, 21:56     +1   -1
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Da un'idea di K8 un racconto in 4 puntate con protagonista l'unico ed inimitabile Yabby. A voi la prima.

TUTTI AL MARE


– Esaurimento nervoso – sentenziò il medico.
– Ghi! – disse Re Vega.
– Oooh – fu il commento dei vari Gandal, Zuril e Hydargos.
– Che cosa consiglia, dottore? – chiese invece la principessa Rubina, la più grettamente pratica del gruppo.
– Riposo, intanto – fu la risposta – Soprattutto, un cambio radicale d’ambiente. Il paziente ha assoluta necessità di aria fresca, possibilmente marina, luce, sole, cibo sano.
– Aria fresca, sole, cibo sano? – esclamò la principessa – E dove li troviamo, qui su Skarmoon?
– L’aria fresca non la troviamo nemmeno nei vari pianeti dell’Impero – intervenne Zuril, che da anni lamentava col suo sire il fatto che l’inquinamento fosse un problema diffusissimo su ogni mondo tra quelli soggetti a Vega. “Lo so che sono inquinati!”, aveva risposto il sovrano, “Ecco perché dobbiamo conquistare la Terra!”.
“Per inquinare anche quella?”
“Ci hanno già pensato i terrestri.”
“Non ai nostri livelli, sire!”
“Sono dilettanti… impareranno”.
A quel punto Zuril s’era imposto di non dare una craniata nel muro – e soprattutto di non sfasciare il suo scanner portatile sulla regale capoccia del sovrano, e la faccenda era finita lì.
– Ghi! – ripeté Re Vega, debitamente impacchettato nel suo letto e imbottito di calmanti vari.
– Dovreste portare vostro padre sulla Terra – stava intanto dicendo il medico – Il clima sarebbe ideale per lui. Vi consiglio un periodo di riposo, pasti regolari, moderata attività fisica e soprattutto relax. Non vi nascondo che il paziente è davvero teso e prossimo al collasso nervoso.
Rubina si fece scettica: – Dottore, ne siete certo? I terrestri sono parecchio arretrati, mio padre dovrebbe adattarsi a un modo di vivere cui non è abituato…
– Appunto! – esclamò il dottore – Proprio quello di cui ha bisogno! Un cambio totale di ambiente! Dovete capire che è proprio il vivere racchiuso in una base metallica, respirare aria condizionata, mangiare cibi preconfezionati che ha logorato il fisico del nostro beneamato sovrano. Aggiungiamo la frustrazione di non essere ancora riuscito a conquistare la Terra: ormai, lui vede i terrestri come dei mostri che insidiano il suo benessere psicofisico. Senza contare, naturalmente, le terribili pressioni psicologiche cui è esposto un uomo nella sua posizione.
I tre accoliti annuirono, convinti: ne sapevano qualcosa, dello stress del comandante… soprattutto, se ha sopra di sé un capo tirannico, insopportabile, capriccioso, lunatico e con la tortura facile. Ma questo almeno al sovrano era risparmiato, ovviamente.
– Va bene – stava dicendo intanto Rubina – Lo porterò a trascorrere un periodo sulla Terra. Cercherò un posto tranquillo, isolato, lontano dai terrestri…
– No, no! – esclamò il medico – Proprio il contrario! Vostro padre deve stare in mezzo ai terrestri!
– Scusate, mi era parso di capire che lui veda i terrestri come minacce al suo benessere.
– Infatti. Proprio per questo deve vivere in mezzo a loro: per vedere con i suoi occhi che si tratta di esseri normalissimi…
– Normalissimi? – fece eco Zuril, piuttosto scettico.
– …e impari a vincere i suoi timori.
– Il nostro amato sovrano è un uomo di grande coraggio, e non teme nessuno! – esclamò Gandal, profondamente offeso – Non sopporto queste insinuazioni!
– Io non sto insinuando nulla – rispose il dottore, piccato – Io dico che il nostro sire è esaurito, e che di conseguenza si trova in uno stato d’animo alterato che lo porta ad ingigantire i problemi. Per lui, i terrestri sono diventati un vero e proprio incubo, un’ossessione. È nostro dovere aiutarlo a superare il trauma…
– Ma quale trauma! – esplose Gandal – Il nostro sire è solo un po’ stanco, tutto lì! Voi siete un disfattista che si permette di insinuare…
– Terra! – esclamò bruscamente il dottore nell’orecchio del sire.
Un ululato, e nonostante indossasse una tuta contenitiva con cinghie rinforzate al tri-titanio il sovrano balzò sul materasso eseguendo un perfetto salto mortale.
Senza scomporsi il dottore gli infilò una nuova pillola di Tranquillin nelle regali fauci, e subito l’infelice s’accasciò, spossato.
– Siete convinto? – chiese il dottore.
– Certo che sì! – intervenne Hydargos, mentre Gandal, impressionatissimo, non riusciva a spiccicar verbo.
– La Terra. È deciso – asserì Rubina – Che zona mi consigliate, dottore? Il Giappone?
– Per quanto il mare sia eccellente, non porterei vostro padre proprio in Giappone – rispose il medico – La popolazione locale si distingue per efficienza, laboriosità, capacità, rendimento: tutte qualità che potrebbero intimorire ulteriormente il vostro augusto genitore. Io sceglierei una meta diversa, con spiagge, cibo nutriente e popolazione più… come dire… innocua.
– Perfetto – Rubina si girò verso Zuril: – Potete trovarmi un luogo sulla Terra che presenti mare, buon clima, ottimo cibo e gente disorganizzata? Insomma, un popolo che sia l’esatto contrario dei giapponesi?
Il computer oculare non ebbe il minimo dubbio: – Italia.
– Italia. Va bene – assentì la principessa.


Da quella ragazza pratica che era, Rubina prese subito in mano la situazione.
Innanzitutto, avvertì Himika dello stato di salute di papà. S’era aspettata che la regina avrebbe voluto piombare subito al capezzale del povero malato, ma fortunatamente impegni inderogabili trattenevano la signora: non era una scusa, Himika era un’innamorata troppo tenera per non seguire la voce del cuore. Anche se si sentiva straziare, le era davvero impossibile allontanarsi dal suo regno, in quel momento. Rubina assicurò che avrebbe pensato lei a papà, che avrebbe seguito personalmente la cura, che l’avrebbe tenuta costantemente informata su ogni progresso. Alla fine chiuse la comunicazione con un certo sollievo: sapeva quanto la fidanzata agitasse papino, trovare una buona scusa per tenerla lontana senza offenderla sarebbe stato difficilissimo… quegli impegni erano una vera benedizione.
Il cuore pieno di gratitudine per l’Eterno e le grazie celesti, la principessa prese a scegliere il posto più adatto in cui portare il genitore.
Scartò subito le spiagge più affollate, quelle con maggior confusione. Papà aveva bisogno di calma, tranquillità… un ambiente pacifico… un posto con non troppi terrestri, e che fossero calmi, niente ragazzi rumorosi, feste, musica, chiasso.
Dopo molte ricerche trovò infine quel che stava cercando: un paesino poco frequentato sulla riviera adriatica, spiaggia con sabbia fine, jodio, mare pulito e niente confusione. Pensione Pacifica: ottima per famiglie e persone anziane.
Papà si sarebbe trovato benissimo.


Fino ad allora tutto era andato ottimamente: papà era calmo e rilassato (miracoli del Tranquillin) e lei aveva trovato la spiaggia giusta, aveva verificato la disponibilità della pensione, aveva persino scelto un’identità terrestre fittizia con cui presentare sé e papà.
Lei e papà, appunto.
Il problema era proprio lì: non se la sentiva di andare via da sola con papino, anche se debitamente imbottito di calmanti. Doveva trovare un aiuto.
Escluse subito Himika: sarebbe stata la scelta più ovvia e sensata, ma purtroppo la regina era impegnatissima, e non è che la sua presenza avrebbe contribuito a rasserenare papà. No.
La sua seconda scelta sarebbe stata Actarus: corretto com’era avrebbe accudito amorevolmente il suo peggior nemico, e per lei ci sarebbe stato il non indifferente vantaggio di poter impiegare costruttivamente con lui il tempo libero… ma dubitava che la salute mentale di papino avrebbe tratto giovamento dal trovarsi a strettissimo contatto col suo avversario. Peccato… sarebbe stato bellissimo ritrovarsi con il suo ex fidanzato per rinverdire certi ricordi non poi così vecchi…
No, si disse coscienziosamente. No. Papà dev’essere il mio primo pensiero.
Col cuore stretto dalla pena scartò Actarus.
A questo punto, c’era una e una sola persona cui rivolgersi.


Il Ministro delle Scienze Zuril era considerato da tutti un uomo cerebrale, freddo, razionale, per nulla impulsivo. Apparentemente inattaccabile, aveva però un punto sensibilissimo: la principessa Rubina, che su di lui aveva un effetto a dir poco devastante – e sventura sua voleva che la principessa conoscesse molto bene questa sua debolezza, e ne facesse spudoratamente uso all’occorrenza.
Quella fu appunto una di quelle volte: lui era nel suo studio, del tutto indifeso ed ignaro del Fato che stava per piombargli addosso quando lei gli si materializzò davanti indossando un vestito che sicuramente papà non avrebbe mai e poi mai approvato (ma Zuril sì, almeno a giudicare dalle dimensioni che aveva raggiunto il suo unico occhio). Oltretutto la sciagurata aveva messo un paio di gocce d’un certo profumo che in passato non aveva mancato di fare il suo effetto, e che anche allora funzionò perfettamente, almeno a giudicare dal sonoro glop! proveniente dalla glottide dello scienziato. Approfittando della momentanea defaillance della sua vittima, Rubina passò all’attacco: Zuril avrebbe acconsentito ad accompagnarla sulla Terra? Ci sarebbe stato papà cui badare, ma questo non significava che sarebbero stati impegnati tutto il tempo… avrebbero avuto chissà quante occasioni per…
– Sìììììì! – rispose lui, o forse fu solo un getto di vapore che gli uscì dalle orecchie.
– Allora non mi resta che prenotare le camere – mormorò dolcemente lei, scivolando via prima che la situazione si facesse incandescente.
– Ma… – protestò Zuril, che non avrebbe certo detto di no ad un piccolo anticipo.
– Non vorrai che rischiamo di non trovare le nostre stanze, vero? – Rubina gli soffiò un bacio, e subito le porte si chiusero dietro di lei.
Un vecchio detto terrestre afferma che al cuor non si comanda; nemmeno al testosterone, avrebbe potuto dire Zuril, che senza minimamente riflettere aveva accettato la proposta di Rubina. Non aveva valutato, soppesato, non si era posto alcun interrogativo: come avrebbe potuto farlo, del resto, se alla sola idea di andare in vacanza con lei la sua mente era tutta un unico e sonoro ARF? Per tacere di quel che stava avvenendo ai piani inferiori, naturalmente.
Con un ululato di giubilo, il compostissimo Ministro delle Scienze si fiondò nella propria camera a preparare il suo bagaglio.
Nel segreto del suo appartamento, Rubina contattò la Pensione Pacifica e prenotò tre stanze.


- continua -


Per improperi & C.: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2265#newpost
 
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Seconda puntata.

La notizia che il sire dovesse sottoporsi a un periodo di cura fu accolta con grande compunzione dall’intero personale di Skarmoon: tutti ovviamente espressero i loro più ferventi auguri perché il sire trovasse al più presto sollievo alle proprie pene. Il giorno della partenza per la Terra, l’intera base era presente per salutare l’indisposto sovrano.
In realtà, mancò poco che vedendo partire l’astronave non ci si lanciasse in un’oscena manifestazione di giubilo: il re fuori combattimento significava un periodo di pace, basta guerra, finalmente un po’ di riposo! L’umore del personale era decisamente alto, quasi ciascuno dei presenti avesse fatto una sbronza a suon di Euforin.
Persino Gandal e Hydargos si diedero una gomitata complice: Dantus e Barendos lontani, Re Vega via assieme a quell’impiastra di Rubina e a quel cervellone di Zuril… fantastico! Sarebbe stata una vera pacchia.


La Pensione Pacifica era un alberghetto a conduzione familiare situato nel più tranquillo angolo del tranquillo paesino nella parte più tranquilla della costa adriatica, ed era posta esattamente di fronte al mare. Tutt’attorno non c’erano parchi divertimenti, rumorosi luoghi di ritrovo, piscine: praticamente era il posto ideale per chi volesse stare in pace e riposare i nervi, per cui Re Vega, contrariamente alle sue abitudini, non ebbe nulla da criticare – anche perché quella mattina sua figlia gli aveva fornito una dose supplementare di Tranquillin. Gli strapazzi del viaggio, si capisce.
Anche Zuril non ebbe alcuna critica da fare: a dire il vero, avendo davanti a sé la prospettiva di giorni interi, e soprattutto notti, con la principessa dei suoi sogni, avrebbe trovato confortevole persino un igloo. Da criticare lo ebbe però subito dopo che Rubina, sbrigate le formalità al bureau, gli mise in mano la chiave della sua camera.
– La mia…? – a dire il vero, si era aspettato di poter dire “la nostra”.
– La tua. – rispose serafica la principessa – Questa è la chiave di papino, questa la mia. Siamo in tre, tre camere.
– TRE camere? – sussultò Zuril.
– Tre camere – confermò Rubina; e tanto per spiegarsi meglio, gli pose sotto al naso il foglio della prenotazione dell’albergo perché lui lo leggesse.
Fu allora che Zuril inorridì, comprendendo finalmente l’esatta situazione in cui si trovava.
Rubina aveva creato delle identità terrestri fittizie, e fin qui tutto bene. Era giusto farlo.
Ma secondo quanto poteva vedere, loro tre erano una famiglia… lei era la figlia, Re Vega suo padre e lui… il fratello minore del suo sovrano…
Agghiacciato, guardò la principessa che gli sorrise, mielosa: – Ciao, zietto.


Le camere si rivelarono essere quel che ci si poteva aspettare: piccoline, pulitissime, mobili vecchiotti e un po’ spartani. Il sire osservò tutto con una certa perplessità: i terrestri vivevano così? Erano dunque ancora a simili livelli? Li sapeva primitivi, ma… davvero in quei giorni loro avrebbero vissuto in maniera così arretrata?
– È una vacanza, papino – esclamò Rubina, ragazza pratica, cominciando a sistemargli i vestiti nell’armadio.
– Ci sono i robodomestici, per questo – osservò il sire.
– Siamo sulla Terra, i robodomestici qui non si sa nemmeno cosa siano.
– No?! – il sire si guardò attorno: – Eppure sembra tutto pulito… come fanno?
– Immagino che usino ancora stracci e scope – rispose la principessa.
– Così arretrati…! – commentò il sire, impressionatissimo.
Osservò con diffidenza il letto (“È corto!” “Sciocchezze, papino, ti ci accomoderai benissimo”), andò poi nel bagno e guardò agghiacciato prima il lavandino e il bidet (“Ancora usano queste anticaglie?”), poi la doccia (“Niente ultrasuoni?” “Sono certa che ti laverai ugualmente benissimo”) e infine, orrore degli orrori, il water (“E il particolatore molecolare?” “Qui non sanno nemmeno cosa sia” “Ma vuoi dire che quando fai…” “Tiri l’acqua, papino. Basta premere quel bottone”).
Alla fine, il sire considerò le tende alle finestre (niente vetri autoscuranti!), i mobili in legno, privi di aperture automatiche, le luci da accendere e spegnere a mano, l’antiquato schermo (“Televisione, papà” “Vuoi dire che non è interattiva?” “No” “Oh, porc…!”). Si sentiva all’incirca come si sarebbe sentito un terrestre del XXI secolo costretto a prendersi l’acqua dal pozzo, ad usare il letamaio in fondo all’orto per espletare alle proprie naturali necessità e a lavarsi la mattina nell’abbeveratoio delle bestie. Con l’acqua gelida, naturalmente.
In preda a un comprensibile sconforto, il sire piombò a sedere sul letto, che cigolò (“Reti metalliche! Pure questa!”). Un istante dopo, lo sconforto si trasformò in qualcosa di peggio: quel popolo era davvero arretrato, molto di più di quanto si fosse aspettato… e da anni, lui non riusciva ad aver ragione di simili primitivi!
Rubina, che sembrava avere una sorta di potere ESP per quanto riguardava le crisi di papino, agì con la rapidità datale dall’esperienza: lo raggiunse con un balzo e gli cacciò un Tranquillin nella strozza.
Subito il sire assunse un’aria pacifica, e un po’ stupidotta, pure.
La principessa sospirò. Meno male che il dottore le aveva fornito uno scatolone intero di Tranquillin… col tempo avrebbe dovuto calare le dosi, ma per ora era meglio non guardar tanto per il sottile. Fortuna che papino era bravo e non faceva tante storie.


Il punto di forza della pensione Pacifica era costituito dalla vicinanza al mare e dall’ottima vista che si poteva godere dalla terrazza davanti all’albergo; i prezzi erano anche ragionevoli, ma questo bisogna dire che a Re Vega interessava pochino. C’erano anche molta calma e tranquillità, si era lontani da qualunque rumore molesto, il che non avrebbe fatto che giovare agli esasperati nervi del malato sire. Il personale poi era davvero gentile, gli ambienti ariosi e puliti, anche se decisamente vecchio stile – non che il sovrano avrebbe apprezzato dei mobili all’avanguardia, per lui i terrestri erano e restavano incredibilmente arretrati.
Quanto a cucina, lo chef della Pensione Pacifica avrebbe tranquillamente vinto qualunque gara culinaria i cui concorrenti fossero stati i cuochi di qualsivoglia ospedale. I suoi cavalli di battaglia erano la sogliola bollita e spappata, le uova molto cotte, la bietola lessa scondita e il purè senza latte e senza burro. Il venerdì poi l’artista superava sé stesso, ammannendo ai commensali un piatto di stoccafisso (ancora salato e piuttosto sodo) con polenta senza sale. Un terrestre avrebbe trovato il tutto piuttosto deprimente e a volte laborioso da masticare; i tre veghiani, abituati alla cucina di Skarmoon, ne furono entusiasti, per loro si trattava nientemeno che di luculliani banchetti. Se il lato alloggio si era rivelato carente, la Pensione Pacifica si era ampiamente riscattata con il vitto.
Quel mezzogiorno a pranzo, seduti a tavola usando antiquate forchette, i tre spazzarono letteralmente ogni cosa: era tutto così squisito! In fondo in fondo, quella vacanza avrebbe rivelato qualche lato gradevole.


La Pensione Pacifica era, appunto, un posto molto, molto tranquillo: questo faceva sì che l’abituale clientela fosse costituita principalmente da qualche madre con bambini (il marito li raggiungeva nel fine settimana), qualche solitaria zitella e soprattutto un gran numero di vecchiette.
L’arrivo dei nuovi ospiti fu dunque accolto con immenso interesse: veder arrivare non uno ma ben due uomini fu causa di grande eccitazione, e quel mezzogiorno a pranzo tutti gli occhiali erano puntati su un certo tavolo.
Ovviamente, i tre non apparivano certo col loro vero aspetto: per mescolarsi tra i terrestri avevano assunto fattezze e colori che li facessero somigliare alla popolazione locale, anche se naturalmente le stature e i lineamenti restavano i loro.
Rubina, che appariva come una spettacolosa ragazza dai capelli rossi, venne subito guardata, valutata e considerata utile solo per pettegolezzi futuri: si sa bene cosa possano combinare le giovani, specie se molto belline… Le varie signore presenti capirono subito che la signorina avrebbe offerto molti punti di conversazione.
Per il momento però risultava poco interessante, per cui l’attenzione generale s’appuntò sui suoi due accompagnatori: due maschi.
Zuril, che appariva come un terrestre di mezz’età, alto, bruno e dall’aria un po’ grifagna attirò su di sé soprattutto gli sguardi di una specie di giocatore di pallacanestro che a giudicare dai vestiti doveva essere una ragazza; ma l’attenzione generale fu tutta per Re Vega, che altissimo, pallido, la barbaccia nera e l’aria sofferente aveva subito eccitato cuori e fantasie di praticamente tutte le signore presenti.
Ignaro d’aver causato un simile scompiglio, il sovrano mangiava di gusto la sua platessa bollita con verdurine: il malcapitato non poteva sapere che un oscuro disegno veniva tramato ai suoi danni… se ne accorse quella sera subito dopo cena. Aveva appena deposto il cucchiaino con cui aveva mangiato la sua pera cotta quando si era trovato davanti una delegazione composta da un’ampia matrona (donna Nora), una specie di sergente con fisico da lottatore (la signora Pasqua) e una vecchina magra magra dall’aria sempiterna (la Desolina). Presa la parola, donna Nora presentò rapidamente sé stessa e le sue amiche all’allibito sire; e mentre lui sobbalzava, effetto comune in chi sentiva per la prima volta il vocione di purissimo contralto della signora, lei l’informò che loro damigelle avevano assoluto bisogno d’un cavaliere che facesse da quarto a canasta.
Normalmente, il sire avrebbe ordinato l’immediato scempio delle tre incaute; ma era imbottito di Tranquillin, per cui non appena tentò una vaga difesa venne subito a contatto con la dura realtà: era difficilissimo dire di no a donna Nora, e praticamente impossibile sfuggire alla signora Pasqua. Poco dopo sedeva a un tavolo con le tre gentildonne, sforzandosi di non far cadere le fin troppe carte che aveva in mano e tentando di districarsi tra picche e cuori, jolly e pinelle. Come non bastasse accanto a lui s’era seduta la signora Celestina, una fragile vecchina d’altri tempi, tutta capelli azzurrini, scialletti rosa e lavoro a maglia: lei non giocava, certo che no, di carte non capiva nulla, ma le piaceva assistere, e intanto sferruzzava a velocità impressionante; però conosceva il gioco, per cui vedendo il sire impacciato si premurava di suggerirgli, ovviamente a voce altissima, quali carte giocare e quali serbare per dopo.
– Bravo, papino, sono felice che tu abbia trovato compagnia – e Rubina, perfida, gli diede un bacetto sulla barbaccia e s’allontanò rapidamente, lasciandolo in balìa delle signore.
Il sire allora volse uno sguardo implorante verso Zuril, ma questi l’ignorò vilmente seguendo subito Rubina, che aveva trovato rifugio sulla terrazza sul davanti della pensione. Che Re Vega fosse sistemato almeno per un’oretta era evidente; Zuril a questo punto azzardò che si sarebbe anche potuto impiegare proficuamente quel tempo in gradevoli attività a due, ma la principessa gli disse che non aveva ancora sistemato del tutto il suo bagaglio, che voleva farsi la doccia e mettersi in ordine i capelli e sparì verso l’ascensore, dopo ovviamente averlo salutato (“Buona notte, zietto”).
Ci volle qualche secondo perché Zuril, normalmente di riflessi molto più rapidi, si riprendesse: avrebbe dovuto immaginarselo, che Rubina si sarebbe comportata così! Cretino lui a cascarci! Ora, a quanto pareva lei gli aveva pure ammollato il dover riportare in camera il sire e metterlo a letto.
Non era uomo dedito al turpiloquio, ma in quel momento avrebbe volentieri lanciato un paio di esclamazioni tali da far arrossire un veterano dell’esercito; s’accorse solo allora che in un angolo della terrazza sedeva il giocatore di pallacanestro, quello che a giudicare dai vestiti doveva essere una donna, e si trattenne.
– Uh… pella serata, ja? – chiese lei, con un inconfondibile accento teutonico.
– Magnifica – ringhiò lui.
Lei si sforzò di sorridere, mentre cincischiava con il bordo del vestito, un orrendo camicione d’uno stinto giallino maionese: stava imparando l’italiano, ma timida com’era non trovava molti interlocutori con cui fare esercizio. Essere riuscita a rompere il ghiaccio con Zuril le diede il fiato di cominciare a parlare: si chiamava Gudrun, proveniva dalle montagne della Baviera ma amava molto il mare e il sole, per cui… eccetera eccetera. Andarono avanti a conversare per un poco, lei che chiacchierava più o meno stentatamente e lui che rispondeva a monosillabi.
Sarebbe stata una lunga vacanza.


- continua -


per giustificate accuse di lesa maestà: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2280#lastpost
 
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Terza puntata.

Quella notte non fu semplice.
Inscatolato in un letto previsto per una statura sul metro e ottanta, Re Vega aveva non pochi problemi a farvi stare i quaranta centimetri che gli avanzavano. Per quanto si fosse messo di traverso, i piedi e un bel pezzo di gambe gli sporgevano fuori dal letto… finì sistemandosi lo sgabello del bagno contro al materasso in modo da potervi appoggiare gli arti che gli eccedevano. Comodissimo.
Nella sua camera, anche Zuril aveva i suoi problemi: alto solo un metro e novanta, era riuscito ad accomodarsi molto meglio del suo sire. Quel che lo teneva sveglio erano altri pensieri… pensieri decisamente non da gentiluomo, e che avevano tutti per soggetto la principessa Rubina.
Mi ha fregato, fu quanto di più riferibile.
Nella stanza accanto, la principessa aveva sistemato perfettamente il suo metro e sessantacinque nel mezzo del lettone e dormiva come può dormire una ragazza che ha illuso e successivamente deluso il proprio detestato corteggiatore.
Cioè, benissimo.


Il mattino dopo si scese al mare.
Percorsa una stradina lastricata ci si trovò in un’ampia spiaggia di sabbia finissima e dorata, che ebbe il potere di strappare un mugugno d’assenso al sire.
Quasi subito si presentò un giovanotto rasato, palestratissimo, qualche tatuaggio assortito e occhio celeste assassino: adocchiata Rubina, subito gonfiò il torace mettendo in mostra una perfetta tartaruga addominale (poco più in là il sire lo guardava incuriosito, quasi fosse stato un animale dello zoo, mentre Zuril, pur nel complesso in forma, lo stramalediceva).
Il bagnino, Gaetano, prese subito il biglietto di Rubina, scelse le sdraio migliori tra quelle di cui disponeva e sempre chiacchierando animatamente e ostentando i torniti muscoli condusse la principessa a un ombrellone in prima fila. Sistemò le sedie, aprì l’ombrellone, controllò che tutto fosse a posto, e se avesse ancora potuto fare qualcosa…
– Sparire! – sbottò il sire, che non ne poteva più di chiacchiere.
Per un attimo era tornato il vecchio Re Vega, il sovrano dallo sterminio facile; Gaetano si dileguò, mentre Rubina si voltava stizzita verso il genitore: – Ma papà! È un ragazzo così gentile, voleva solo farci piacere!
– Appunto, andandosene mi ha fatto il piacere più grande – rispose il sire.
Anche a me, si disse Zuril, che avrebbe baciato in fronte il suo sovrano.
– Sei il solito villano… e cosa fai, adesso? – esclamò Rubina, vedendolo accomodarsi sulla sdraio – Il dottore ha detto che devi fare esercizio. Subito a camminare lungo la riva del mare!
– Non si può fare più tardi? – pigolò il sire.
– Dopo ci sarà troppo caldo. Subito. Marsch!
Fu così che il rassegnato sire andò a fare la sua passeggiata sul lungomare, ovviamente scortato da figlia e ministro; dopo un’ora tra bambini armati di secchiello e madri urlanti, finalmente ebbe il permesso di sedersi all’ombra. Piazzato il padre, e rifilatogli un nuovo Tranquillin, la principessa spedì Zuril a procurare a papino una bevanda fresca; quanto a lei andò a farsi un bagno, là dove avrebbe potuto mettere le proprie perfette forme sotto agli occhi estasiati di Gaetano, che seduto sul suo moscone stava compiendo la quotidiana attività di sorveglianza del bagno infantile – e bisogna dire che quel giorno i piccini avrebbero potuto affogare a frotte intere, ché il bagnino difficilmente se ne sarebbe accorto.


L’ombrellone a lato di quello sotto cui sedeva il sire era occupato dalla signora Ada, una madre grassissima con annesso rampollo a nome Eustachio; fortunatamente la matrona stava ciarlando con una vicina, per cui da quella parte il sovrano poteva ragionevolmente sperare di star tranquillo. Ma dall’altra…
Dall’altra parte sedeva la signora Celestina, con i suoi occhialoni, la dentiera tutta sorrisi e il roseo lavoro a maglia che procedeva a velocità impressionante. Da altri ombrelloni giunsero le occhiate feroci e colme d’invidia di donna Nora, della signora Pasqua e della Desolina, che avrebbero a loro volta ambito ad avere per vicino quello che, per comune opinione, era il maschio più appetibile della pensione. Ma si sa, al mondo non c’è giustizia.
La signora Celestina comunque non perse tempo: nonostante il suo vicino tenesse ostentatamente una rivista aperta davanti a sé cominciò a ciarlare animatamente dei suoi figli e soprattutto dei suoi nipotini (“Questo golfino è per la piccola Samantha, poi comincerò un gilet per il mio Kevin”).
Solo il Tranquilllin permise alla signora Celestina di restare viva e di non venire infilzata dai suoi stessi ferri da calza… quando ormai il sire si era detto che nulla e nessuno avrebbe interrotto quel fiume di ciarle, un paio di punti sfuggirono dal ferro, un altro cominciò a smagliare e la signora Celestina finalmente tacque.
Con un sospiro di sollievo, il sire si volse alla sua rivista illustrata… e allora lo spietato Destino si accanì ancora una volta contro di lui, nelle vesti del piccolo Eustachio.


Quattro anni, tozzo, capello rosso, lentiggini, faccia da avanzo di galera e paletta e secchiello in mano, il piccolo Eustachio andò a piantarsi davanti a Re Vega, strappandolo alla sua rivista.
– Vieni a giocare? – chiese.
– Sparisci, moccioso! – fu la garbata risposta.
Senza scomporsi il piccolo gli sferrò una palettata nella rotula, e solo a fatica il sire si trattenne dall’esplodere in tante parole colorite sì ma invero poco regali.
– Vieni a giocare! – ordinò Eustachio.
– Mai! – rispose il sire, carezzandosi amorosamente il ginocchio offeso.
Eustachio era un uomo deciso che non si perdeva certo in ciance. Visto che la paletta aveva fallito usò il secchiello, ovviamente pieno di sabbia bagnata e quindi pesantissimo: assestò al sire una botta in pieno malleolo, beccando giusto il punto più doloroso. Stavolta la parolaccia colorita vi fu, eccome.
– Ma insomma! – esclamò risentita la signora Celestina, tra una maglia e l’altra – Lei non può dire certe cose davanti a un bambino!
Eustachio ghignò: la vecchia non sapeva che cosa si diceva all’asilo, evidentemente.
– Ma questo piccolo bast… ehm, questo piccino vuole che giochi con lui! – protestò il sire.
– E allora lo accontenti! – rispose la signora Celestina.
– Ma…
– Suvvia! È solo un bambino!
Poco dopo, mentre agli ordini di Eustachio costruiva un castello di sabbia dall’aria alquanto precaria, Re Vega si trovò a pensare che fosse una fortuna che nessuno su Skarmoon potesse vederlo in tal guisa occupato… incrociò lo sguardo di Zuril, arrivato giusto allora con una bottiglietta di aranciata, e gli lanciò un’occhiata ustoria.
Se solo apri bocca…
Neanche una parola
, garantì lo sguardo serafico dello scienziato.
Vero, non avrebbe parlato.
Anche perché il suo computer oculare aveva eseguito alcune riprese che magari gli sarebbero tornare utili, prima o poi.
Che bisogno avrebbe avuto di parlare, quindi?


Dopo aver pranzato (minestrina, pollo lesso troppo cotto, cavolfiore bollito) e fatto il regolare sonnellino pomeridiano (“Non si può andare adesso al mare, papino, c’è troppo caldo”), il sire venne trascinato nuovamente in spiaggia. Rubina gli ordinò subito di andare a farsi una passeggiata sul lungomare, e “già che ci sei, cammina nell’acqua che ti fa bene alla circolazione”. Zuril ricevette l’ordine perentorio di accompagnarlo: papino non doveva restare solo, che diamine.
Non c’era altro da fare che obbedire. Poco abituato a fare esercizio, il sire tornò estenuato dalla passeggiata: oltretutto aveva persino immerso gli alluci nell’acqua marina, il che l’aveva lasciato stremato. Crollò sulla sua sdraio e rantolò a Zuril di portargli qualcosa da mangiare… voleva provare uno di quei cosi freschi, come li chiamavano, i terrestri? Un gelato.
Zuril obbedì, naturalmente: in realtà era furioso, Rubina era scomparsa e lui era costretto a fare da dama di compagnia a papà. Grrr.
Giurando a sé stesso che mai più ci sarebbe ricascato (e sapendo benissimo che invece ci sarebbe ricaduto, eccome se ci sarebbe ricaduto), Zuril andò a comperare al chiosco un paio di gelati. Era di pessimo umore, ma si risollevò quasi subito godendosi lo spettacolo del sire che si affannava a leccare il malefico gelato che gli sgocciolava da tutte le parti, andandogli giù per i gomiti.
– Uh… puon ciorno.
Zuril si voltò: Gudrun, naturalmente, raggomitolata in una sdraio. Il suo ombrellone era proprio dietro al loro. Ci mancava anche questa… lei l’aveva preso in simpatia e continuava ad attaccargli discorso ad ogni minuto. Pure la zitellona terrestre, gli ci voleva… rispose al saluto, gettandole uno sguardo distratto. Non sarebbe stata poi brutta, se piace il genere gentile walkiria; era l’abito ad essere spaventoso, una specie di informe saio di tela verdolina a righine beige.
Proprio allora gli parve di scorgere Rubina, lontana lontana, intenta a nuotare sotto gli occhi amorevoli del bagnino Gaetano, indifferente a due marmocchi che stavano tentando d’uccidersi a suon di spruzzi. Salutò in fretta Gudrun e si fiondò verso il mare.
La poverina sospirò.
A trent’anni, non aveva ancora avuto una storia decente con uno straccio d’uomo: non è facilissimo per una ragazza alta un metro e ottantanove, lunga lunga, trovare un partner adatto… in genere, i maschi provavano un certo timore vedendola torreggiare su di loro, e tendevano a dileguarsi. Questo aveva fatto sì che l’infelice avesse radicato la convinzione di essere proprio brutta, e ciò l’aveva portata a crearsi un guardaroba e un atteggiamento decisamente zitelleschi. Ingoffita in improbabili vestiti dalle nuances tra il rosa bigetto e il celestino stinto, la tapinella era la classica amica racchietta da scaricare al rognato di turno, quella con cui nessuno vuole uscire e figuriamoci appartarsi. Le amiche, che ormai la consideravano un caso patologico, le avevano allora consigliato una vacanza in Italia, terra felice dai maschi notoriamente focosi.
Era stato un fiasco.
Non era successo proprio niente.
O i maschi italiani non erano così focosi, o lei era davvero un caso disperato; Gudrun ovviamente optava per la seconda ipotesi, e questo faceva sì che ogni sera lei versasse qualche mezzo litro di lacrime, con conseguente uso di un intero pacchetto di fazzolettini. Ora i giorni passavano, le sue vacanze non erano certo infinite, e nulla succedeva… con che faccia si sarebbe presentata alle sue amiche?


Assordato dalle interminabili chiacchiere della sferruzzante signora Celestina, Re Vega accolse l’arrivo di Eustachio come una sorta di manna: tutto era preferibile alle ciarle della vecchia… ci pensò il bambino a fargli cambiare idea, dapprima trascinandolo sul lungomare in cerca di conchiglie, poi coinvolgendolo in un’estenuante partita a racchettoni (e ogni volta che la palla finiva addosso a qualcuno era contro Re Vega che si inveiva, che in quanto nonno del piccolo avrebbe dovuto stare attento).
La madre di Eustachio, fasciata in un costumone a righe bianche e nere che la faceva apparire simile a una zebra obesa, non faceva una piega. Il suo passatempo preferito era chiacchierare con altre madri, per cui non badava minimamente a ciò che faceva Eustachio; esattamente come le altre mamme non guardavano i loro Antonello, Mariassunta eccetera, che scorrazzavano indisturbati per la spiaggia, per la gioia dei bagnanti presenti.
Alla sera si risalì in camera, doccia, cena (brodino di verdure, uovo in camicia, patata lessa, prugne cotte). Re Vega venne ancora una volta acchiappato per la canasta, Rubina scomparve (si era trovata un paio d’amiche ed era andata via per un gelato), Zuril si ritrovò a scambiare qualche stentata frase con Gudrun.
La vacanza continuava.


- continua -

Link per prendere le difese del piccolo Eustachio: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2295#lastpost
 
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view post Posted on 5/7/2015, 19:17     +1   -1
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Ultima puntata.

I giorni successivi furono praticamente uguali ai precedenti: alzarsi-colazione-passeggiata-spiaggia-pranzo-sonnellino-passeggiata-spiaggia-cena-canasta. Le uniche varianti furono date dal menù, sempre leggero e salutare, e da Eustachio, che trovava ogni volta qualche gioco nuovo in cui coinvolgere il suo grande amico. Quando lo convinse a giocare a bocce, ad esempio (una bocciata sul piede è un ottimo mezzo di persuasione). O quando obbligò il sire a fare il bagno con lui, il che si risolse con un semiannegamento del sovrano e salvataggio da parte di Gaetano, che poté mettersi in mostra agli occhi dell’ammiratissima Rubina. O quando, al successivo diniego del sire (“Col cavolo che faccio ancora il bagno con te!”) Eustachio si vendicò, scavandogli a tradimento un’enorme buca dietro alla sdraio. Franamento, scroscio del sire, contusioni varie, parolacce assortite, “Vergogna!”, della signora Celestina.
La cura però funzionava: il cambio d’ambiente faceva molto bene a Re Vega, l’aria e il sole gli avevano donato un colorito migliore, la dieta sana gli aveva permesso di acquistare qualche chiletto. Come consigliato dal dottore, Rubina cominciò a calargli le dosi del Tranquillin: il sire appariva comunque di buon umore.
Stava davvero migliorando.


Se Re Vega migliorava, Zuril soffriva.
Praticamente, una volta in spiaggia Rubina gli ammollava l’incombenza di portare il sovrano a fare la sua passeggiata igienica (“Andate, andate, lo so che avete bisogno di stare un poco tra voialtri uomini”); lei spariva, raggiungendo le sue amiche della spiaggia accanto. Per il resto lui trascorreva il tempo sorvegliando il sire, sostenendo un minimo di conversazione con Gudrun (benedetta donna, possibile che dovesse sempre infagottarsi in quegli orrendi sacconi?) e soprattutto chiedendosi nervosamente dove fosse sparita la principessa. Gaetano era costretto dal suo lavoro a restare di vedetta, sotto agli occhi di tutti; ma naturalmente non era il solo maschio presente, e Zuril era praticamente sicuro che ce ne fossero diversi intenti a ronzare attorno a Rubina.
Da parte sua, anche la principessa aveva i suoi problemi: sorvegliava personalmente la cura di papino, certo, ma anche lei aveva diritto a divertirsi! La sera dopo cena, sistemato papà con la sua canasta e le sue vecchiette, lei aveva preso l’abitudine di uscire con le sue nuove amiche: era giusto vedere come si divertivano i terrestri, no? Fece così conoscenza con il cinema, il luna park, le gelaterie e persino con la discoteca. Zuril naturalmente si era messo in testa che avesse dei corteggiatori: in effetti ci sarebbero stati se lei avesse voluto, in realtà era solo interessata a divertirsi senza troppi problemi, per cui li aveva tenuti tutti a debita distanza. E poi c’era Gaetano… era carino, un paio di volte le aveva offerto una bibita, ma lei non era certo disposta ad avere avventure e l’aveva messo in chiaro.
Quanto a Zuril, non l’aveva certo presa benissimo: ormai erano alla vigilia del rientro, e lui sentiva il malumore crescere sempre più… fu allora, proprio dopo cena, sulla terrazza dell’albergo sotto alle stelle, che scoppiò un litigio con Rubina, cui ovviamente rinfacciò d’averlo fatto venire in vacanza solo e unicamente per rifilargli papino.
– Mi pareva d’aver messo le cose bene in chiaro, zietto – rispose velenosamente lei.
– Ma se… se mi avevi detto… che non avremmo dovuto passare tutto il tempo a seguire papino, voglio dire tuo padre…
– È così – rispose serafica lei – Ma io non ho mai detto che avremmo trascorso il tempo assieme.
Seguì un vero putiferio, che si concluse con Rubina che gli sbottò sul muso che ci avrebbe pensato lei a fargli capire come stessero le cose; e visto arrivare proprio in quel momento il bagnino dalla spiaggia, lei svicolò abilmente da Zuril e lo raggiunse di corsa: – Gaetano?
– Sì?
– Ricordi che t’avevo detto che non volevo avere una storia con te?
– Sì, ma…
– Ho cambiato idea.
Seguì un bacio staccalabbra.


Zuril rimase stecchito come uno degli stoccafissi serviti con polenta ogni venerdì.
Dalla terrazza poteva vedere perfettamente le due figure allontanarsi abbracciate: nonostante l’oscurità si riconoscevano la silhouette palestratissima del bagnino e i capelli rossi di Rubina. Una risata maschile gli giunse alle orecchie, seguita dal riso melodioso della principessa.
Mi ha fregato ancora.
– Ehm… sighnore?
Gudrun. Zuril non si mosse, non si voltò nemmeno: in quel momento, per rimuoverlo ci sarebbero voluti un paio di scalpellini.
– Io foghlio salutare. Mia facanza… finita, ja? Kaputt.
Io, sono kaputt, si disse lui fissando con sguardo laser il bagnino e Rubina salire su un’automobile e allontanarsi, presumibilmente verso una nottata di sesso selvaggio.
– Tomani io… treno. Ghermania – continuò Gudrun. – Pello afere conosc… conosciato.
Conosciuto, Gudrun. Peccato che voi terrestri non abbiate i traduttori simultanei, imparare le lingue non è facile.
– Allora… puonanotte, sì?
Zuril non si mosse nemmeno, non rispose, semplicemente restò lì.
Gudrun sospirò lievemente; quando fu proprio sicura che non vi sarebbe stata alcuna reazione da parte di lui sospirò ancora e s’allontanò in silenzio. Nemmeno si era voltato… a quanto pareva, non la trovava neanche guardabile. Sapeva di essere racchia, ma… ma… In camera, presto, dove aveva un enorme pacco di fazzolettini di carta pronto all’uso.
Sentendo allontanarsi i passi di lei, Zuril parve riscuotersi; si voltò, la intravide infilare il corridoio che portava all’ascensore. Indossava ancora uno di quei suoi abominevoli vestiti, una specie di saccone d’un pallido nocciolino a fiori che l’ingoffiva. Possibile che quella donna dovesse mostrificarsi con quegli stupidi abiti? In genere lui non badava troppo all’involucro: uomo logico, preferiva il contenuto. Nel caso di Gudrun, poi, il ripieno era scarsino, ma quel che c’era non era troppo male, da quel che gli era sembrato… sarebbe stato interessante verificare, comunque… e lei si conciava a quel modo…
Zuril era un uomo razionale, abituato a valutare rigorosamente il pro e il contro di ogni suo atto: mai avrebbe intrapreso una qualsivoglia azione senza aver soppesato, valutato, previsto.
Quella volta agì d’impulso. Partì a passo di carica, salì le scale a quattro a quattro, arrivò giusto mentre Gudrun stava entrando, piombò nella camera di lei come un fulmine e chiuse con un calcio la porta dietro di sé.
Un istante dopo, in quella stanza regnò un tafferuglio che le rispettabilissime mura della Pensione Pacifica non avevano mai visto nella loro ormai cinquantennale esistenza.


Ligio all’idea che un vero gentiluomo non faccia parola delle sue avventure amorose, Zuril non aprì bocca sulla sua scorribanda notturna. Dal suo punto di vista si era trattato di un interludio davvero gradevole, e aveva idea che anche Gudrun non avesse avuto di che lamentarsi.
Era dunque di ottimo umore quando scese in sala da pranzo per fare colazione; trovare Rubina immusonita (nonostante i muscoli scolpiti e la perfetta tartaruga addominale la performance del palestrato non era stata all’altezza delle premesse, e lui si era rivelato un cretino) lo rese addirittura euforico. Tra tanti validi corteggiatori s’era scelta proprio quello faloppo.
Persino Re Vega s’accorse del malumore della principessa: – Qualcosa non va, figliola?
– Sono questi terrestri – brontolò lei, rimestando quella brodaglia brunastra che i camerieri dell’albergo si ostinavano a chiamare caffè – Sono… come dire…
– Tutto fumo e niente arrosto? – l’aiutò soavemente Zuril, guadagnandosi un’occhiata ustoria.
– Uh? C’è arrosto a pranzo? – chiese il sire.
– Non lo so, papà – sbottò Rubina continuando a guardar male Zuril, e soprattutto l’aureola che andava allargandosi sopra le sue orecchie – In ogni caso, oggi ce ne andiamo. Torniamo su Skarmoon e la facciamo finita con questi odiosi terrestri.
Re Vega gettò un’occhiataccia verso il tavolo di Eustachio, e il frugoletto gli mostrò mezzo metro di lingua. Il sire si voltò da un’altra parte e incrociò gli occhiali amorevoli della signora Celestina, che gli dedicò un largo sorriso a tutta dentiera.
– Non vedo l’ora di essere a casa – disse in fretta – Questa vacanza è durata fin troppo. Ancora un poco, e senza neanche accorgermene mi trovo fidanzato a una di queste vecchiette. Comunque avevo bisogno di andare via da Skarmoon, mi sento decisamente meglio. E tu, Zuril? Come ti sono andate le cose?
Zuril riemerse dai suoi pensieri, bevve un sorso di caffè che quella mattina gli parve un vero e proprio nettare, e sorrise: – Ho trovato le mie piccole soddisfazioni, Maestà.


Mentre sedeva in treno, direzione le Prealpi Bavaresi, Gudrun si allungò pigramente contro lo schienale; recuperò uno dei suoi fazzolettini di carta dal pacco gigante (intatto) e si pulì coscienziosamente le lenti da sole. Poi tornò a guardare il panorama e sorrise tra sé, pensando a quando le amiche le avrebbero chiesto della sua vacanza, sicure di sentirsi rispondere che era stata un fiasco… Quel che avrebbe potuto raccontare…
Invece, no. Non avrebbe detto una sola parola. Che crepassero di curiosità.
Ah, questi italiani… così focosi…
Ridacchiò mettendo via i fazzoletti, e riprese ad osservare il paesaggio dal finestrino. Mare, sole, il resto… era stata un’eccellente vacanza.
I prezzi poi erano stati davvero buoni, e aveva anche speso meno di quel che si era aspettata… ottimo.
Aveva giusto voglia di rivoluzionarsi il guardaroba.


Proprio allora giunse trafelata la grassa signora Ada, scarmigliata e urlante: il suo piccolo Eustachio era scomparso, lei non aveva la più pallida idea di dove avesse potuto finire… bisognava cercarlo, e magari chiamare la polizia, forse era stato rapito da un bruto… povero piccolo…
– A me fa più pena il bruto – mormorò a mezza voce Zuril, mentre la signora Ada quasi sveniva con tutti i suoi centoventisette chili in braccio all’imbarazzatissimo direttore dell’albergo.
Trambusto generale, la signora venne deposta al suolo – meglio dire che fu lasciata cadere. Subito fu diramato l’allarme, tutti gli uomini validi, vecchiette comprese, furono mandati alla ricerca del povero piccino.
Lo trovarono un’ora dopo: non si sa come, era accidentalmente caduto nell’enorme cassonetto dei rifiuti organici, nel cortile dietro all’albergo; come non bastasse, qualcuno aveva posato un’enorme, pesantissima scatola piena di bottiglie di vetro proprio sul coperchio, rendendo impossibile l’apertura dall’interno. La spazzatura di cui il cassonetto era colmo aveva fatto il resto soffocando le urla del piccolo, che una volta messo in salvo fu quasi nuovamente strangolato dalla sua mammina, che acchiappatolo se lo stritolò al seno in un abbraccio pieno d’affetto.
Seguirono i lai di rito: quante volte mammina gli aveva detto di non intrufolarsi dappertutto? Aveva visto cosa succede, ad infilarsi nei cassonetti?
– Ma io non sono caduto – puntualizzò il pargolo, districandosi tra le vastità materne; e a questo punto, fece un racconto orrendo. A suo dire, era stato scaraventato nel cassonetto da un tizio che l’aveva pure selvaggiamente sculacciato. Chi era il tizio? Non l’aveva potuto vedere in faccia. Ma sicuramente era un mostro, un supercattivissimo, un…
– Uno sconosciuto supercattivissimo che getta bambini nei cassonetti? – sbottò mammina, guardandolo storto – Non dire bugie, Eustachio. La verità è che ti sei voluto infilare là dentro facendomi morire di paura…
– Ma sei viva – osservò il piccolo, non senza un certo rimpianto nella voce.
– Certo che sono viva! Disgraziato! Prima mi fai dannare a cercarti e poi mi manchi di rispetto! – ceffone.
– M-ma io ho d-detto la v-verità…
– Storie! Stai solo raccontando un mucchio di bugie per cavartela e per evitare di lavarti! – e lo trascinò via, puzzolente e urlante, verso la doccia e il sapone.
Re Vega, che si era molto, molto affannato a cercarlo, pur avendo un’aureola che gli baluginava tra le orecchie si permise un ghigno malefico: tra il bagno e la mammina accorata, non sapeva per Eustachio quale fosse il castigo peggiore.
– Ne sapete niente, sire? – chiese Zuril.
Re Vega si permise un ghigno malefico: – Anch’io ho trovato le mie piccole soddisfazioni.


EPILOGO – RIENTRO

– Andate bene le vacanze? – chiese Gandal.
– Meravigliose – rispose beato Zuril, mentre Rubina esprimeva la propria opinione con un versaccio molto poco aristocratico. La faccenda del bagnino bruciava, evidentemente.
– Mi fa piacere che abbiate avuto delle buone ferie – disse in fretta Gandal, diplomatico.
– Anche le nostre sono state ottime! – esclamò con un certo entusiasmo Hydargos.
– Le vostre…? – Zuril passò con lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi colleghi: facce angeliche, sguardi innocenti. Hm. Meglio non indagare.


Era anche bello tornare a casa… ai propri appartamenti, le proprie cose amate, alla calma domestica…
Calma?
Re Vega trasalì: proprio nel bel mezzo del suo soggiorno, seduto sulla regale poltrona, c’era un qualcosa che mai e poi mai avrebbe dovuto esserci…
– Yabby! – esclamò Himika, balzando in piedi e tendendogli amorosamente le braccia – Ho saputo che sei stato ammalato, sono stata così in pena! Purtroppo ero piena d’impegni… ma mi sono liberata e sono corsa da te per farti una sorpresa! Adesso resterò qui e mi prenderò personalmente cura di te, sei contento?
Dalla regale strozza provenne un urlo che più nulla aveva d’umano.


Il medico smise il suo esame e scosse la testa: – Esaurimento nervoso.


FINE


Link per esprimere solidarietà al povero, piccolo Eustachio: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2310#lastpost
 
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Prima puntata sulle avventure di Tetsuya e Jun in vacanza. Chi è stato in campeggio riconoscerà molte situazioni... aggiungo che ho ricamato molto poco, e che quel che descrivo è quasi tutto rigorosamente autentico e vissuto sulla pelle mia e dei miei genitori.
Buona lettura!


VITA DA CAMPING


– Dove vorresti andare in vacanza, quest’anno? In montagna? – chiese Tetsuya.
Jun ebbe un mezzo mancamento. Montagna per Tetsuya significava più che altro sveglia in ore antelucane, massacranti scarpinate su sentieri possibilmente impervi, ghiaiosi e dimenticati da Dio e dal Soccorso Alpino, pasti frugalissimi a base di panini spappolati e pernottamenti in oscuri, sinistri tuguri pomposamente definiti “rifugi”.
– Vorrei andare al mare – s’affrettò a dire, preparandosi alla battaglia che inevitabilmente ne sarebbe seguita. Sapeva che il suo compagno stava contemplando l’idea di trascinarla a fare una cordata… “Ma su, Jun, è solo un sesto grado, nemmeno superiore, che vuoi che sia?”
– Mare, benissimo – disse invece Tetsuya, stranamente arrendevole.
Jun, che s’era legittimamente aspettata una resistenza feroce, lo guardò stranita: – Davvero? Verresti volentieri al mare?
– Perché no? – concesse lui, magnanimo – M’immaginavo la tua scelta e avevo anche trovato un bel posticino. Guarda qui – andò al computer e aprì una schermata. Mare limpidissimo, sole, spiaggia di sabbia dorata, qualche scoglio… appariva tutto meraviglioso.
Troppo meraviglioso.
Jun guardò sospettosamente Tetsuya, che subito assunse l’aria serafica del santo pronto ad elargire grazie su grazie.
Ahia, si disse Jun tornando ad osservare lo schermo. Il posto era bellissimo… un’isola, non era nemmeno troppo distante, viaggio in traghetto… comodo… pinete fresche, aria pulita, ottimo pesce, eccellente campeggio nella natura…
Campeggio?
– Campeggio – confermò Tetsuya – Sai che ho sempre sognato la libertà della tenda.
– Ma noi non abbiamo una tenda! – gli fece notare subito lei, che presa alla sprovvista non aveva saputo obiettare altro.
– Nessun problema, al campeggio le noleggiano – rispose lui, pacifico.
– Ma… ma andare in tenda significherà vivere scomodi, e come al solito toccherà a me cucinare, e… e…
Seguì una lunga discussione: per Jun, “mare” significava un appartamentino, o meglio un piccolo albergo in modo da potersi riposare un poco dai lavori domestici; al limite, sarebbe andato bene anche un villaggio turistico, purché sprovvisto di giochi ed animatori. Ma un campeggio…!
Tetsuya s’impegnò subito a convincere la recalcitrante compagna: anche in campeggio sarebbero stati benissimo, e non ci sarebbero certo stati lavori domestici da fare, a parte ripiegare il sacco a pelo… mangiare? Ma avrebbero potuto arrangiarsi con i panini, e comunque c’era il ristorantino del campeggio, vista sul mare e ottimo pesce. E sarebbero stati liberi, vita sana all’aria aperta, svegliarsi col sole, addormentarsi guardando le stelle… Jun resistette come poté, ma ovviamente finì come doveva finire e Tetsuya, giubilante, inviò la prenotazione al campeggio.
Animata da funerei presagi, Jun preparò i bagagli: conosceva fin troppo bene l’amore sviscerato del suo compagno per i viaggi dissennati. In lei bruciava ancora il ricordo della vacanza, loro due soli, nella capanna persa tra la neve: il timore di finire in un campeggio dalle comodità stile lager era più che legittimo.
La prima difficoltà in cui incorsero, e che ci sarebbe stata qualunque fosse la meta prescelta, fu sbarazzarsi di Shiro: una mattina Tetsuya caricò bagagli, cartella con libri per i compiti e marmocchio frignante in macchina e partì, deciso ad appioppare ad Alcor quel che tutto sommato era proprio di Alcor. Lui e Jun meritavano qualche settimana di vacanza dal piccolo rognoso, che diamine.
Tetsuya tornò qualche ora dopo, l’aria fiera del guerriero vincitore. Scrollarsi di dosso l’appiccicoso fanciullo era poca cosa in confronto al convincere Alcor a fare il proprio fraterno dovere: comunque ce l’aveva fatta, aveva inchiodato il fratello alle proprie responsabilità e gli aveva ammollato Shiro con relativi compiti da fare e ricostituenti da prendere. Aveva poi specificato la meta della loro vacanza – e naturalmente aveva assicurato che sarebbero stati a Hokkaido, in montagna a fare trekking, quando in realtà sarebbero partiti per l’isola di Oshima, in tutt’altra direzione. Unica concessione per il lacrimevole Shiro, gli aveva lasciato un cellulare con ricarica (scarsa) onde chiamare in caso di estrema ed assoluta emergenza. Quindi era saltato in macchina, sordo ai frigni del fratellino più piccolo e agli occhi da cane preso a calci del fratello intermedio.
Mentre guidava sulla strada di casa, Tetsuya respirò a pieni polmoni: era pesantissimo avere Shiro sul gobbo per quarantasette settimane all’anno, ma almeno, quando era il momento di liberarsene, la soddisfazione, e il sollievo, erano notevoli.


Il viaggio bisogna dire che andò bene: il traghetto fu puntuale, il mare era d’un intenso azzurro, il tempo bellissimo, l’isola apparve subito come un posto incantevole.
Bisognava vedere se lo sarebbe stato anche il campeggio… le fotografie promettevano bene, ma…
Qualche tempo dopo, Jun dovette ammettere che sì, le fotografie corrispondevano a verità. Il campeggio era un vasto spazio sotto a una pineta, e la spiaggia privata era deliziosa, una sorta di mezzaluna di sabbia dorata e finissima circondata da roccioni; peccato che tra spiaggia e campeggio esistesse un notevole dislivello, il che significava che per risalire dal mare bisognava inerpicarsi su per una scala di pietra piuttosto ripida ed esposta al sole.
– Ah, non te l’avevo detto? – chiese svagatamente Tetsuya.
– No!
– Mi sarà passato di mente – e subito lui le fece ammirare i meravigliosi pini, che profumavano l’aria di resina e fornivano ombra ai campeggiatori. Sarebbe stato delizioso, non è vero? Come vivere in un bosco. Non era romantico?
Jun mugugnò che sì, era romanticissimo; un istante dopo ebbe quello che, quando mesi più tardi avrebbe raccontato le avventure di quell’estate, ebbe a definire come “il primo trauma”.
Con aria compiaciuta, Tetsuya le mostrò un qualcosa di arancione che sembrava essere…
– È un canile? – chiese Jun, stupita.
– È la nostra tenda – rispose lo sciagurato, con un filo di rimprovero nella voce.
Jun sbarrò gli occhi: si trattava di una canadese a due posti, il che significava un affarino nel quale sarebbero entrati sì e no loro due e i relativi sacchi a pelo – e non era detto che Tetsuya, alto com’era, non avrebbe dovuto dormire con i piedi all’esterno.
– Ma… ma...!
– Ci staremo benissimo – assicurò l’incosciente.
– Ma è minuscola! Dove metteremo le nostre cose?
– Quali cose? – domandò lui, un tantino imbecillotto.
– I vestiti! La roba da toilette!
– T’avevo detto di non portarti via molti bagagli – osservò lui, forte del fatto d’aver nel suo zaino un costume da bagno, l’altra maglietta, un ricambio di slip, un paio di ciabatte da spiaggia, un toccaccio di sapone da bucato che sarebbe servito sia per igiene che per lavarsi i vestiti e, mollezza delle mollezze, spazzolino e dentifricio. Per tutto il resto, aveva sempre il suo coltello svizzero multiuso. Che poteva servire di più?
Jun, che in previsione di venti giorni di vacanza aveva portato con sé una quantità davvero ragionevole di effetti personali, cominciò a sobbollire: quella tenda era minuscola, loro due ci sarebbero stati a malapena…
– Possiamo lasciare i bagagli in macchina, naturalmente – osservò lui, spirito pratico.
– Magnifico! Così se in piena notte mi servirà un fazzoletto, dovrò uscire dalla tenda e andare alla macchina! Mi pare molto comodo! – sbottò lei.
– Ma siamo in campeggio, abbiamo la nostra libertà…
– Macché libertà! In quella tenda saremo pigiati come sardine!
– Staremo stretti, ma anche questo è molto romantico, non trovi? – provò a rabbonirla lui, cercando di buttarla sul sentimental-sessuale; ma lei non si lasciò incantare.
– Te lo scordi, bello! – sbottò, con un tono tale da far capire che quella notte non ci sarebbe stata, per così dire, trippa per gatti.
Stavolta desolato (per lui si trattava di un tasto davvero sensibile), Tetsuya venne a più miti consigli: ormai era tardi, per quella notte avrebbero provato a dormire in quella tenda, e se proprio Jun avesse voluto cambiare, l’indomani…
– Oh, sì! – esclamò lei, convinta: aveva visto che in campeggio affittavano anche dei deliziosi bungalow, per cui era decisissima alla permuta. Per tutta la sera Tetsuya fu molto carino e gentile, ma lei non si lasciò incantare: “buonanotte, caro!”, e si girò dall’altra parte. E che diamine.
Lui sospirò: se l’era aspettato, del resto… si sdraiò a sua volta, godendo comunque della fiera scomodità di riposare su un materassino sottilissimo posato sulla nuda terra e le dure radici dei pini. Quella era una vita da uomini, altro che! Ma anche le donne hanno le loro motivazioni, per cui bisogna capirle.

- continua -

Link in cui scambiarci le nostre esperienze di campeggio: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2355#newpost
 
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Seconda parte.

La prima cosa che Jun sentì il mattino dopo appena sveglia, fu un gran mal di schiena; la seconda, fu la percezione di qualcosa… contro il piede… qualcosa di freddo e un po’ pungente… mosse la gamba, la “cosa” parve animarsi e le si arrampicò a tutta velocità su per lo stinco. Jun lanciò un ululato selvaggio, il che le causò il malumore dei vicini di tenda, seccatissimi per quella sveglia in orario antelucano. Del resto erano le cinque e un quarto, non avevano tutti i torti; d’altra parte, vivendo a contatto con la natura era naturale venire svegliati all’alba.
Soprattutto, se ci si ritrova con una lucertola infilata nel sacco a pelo.
A quel punto, Jun non volle sentire ragioni: non avrebbe trascorso un’altra notte in quell’infernale tenda, e soprattutto mai e poi mai avrebbe accettato di pernottare a livello del terreno. Tetsuya sapeva riconoscere una battaglia persa, non osò nemmeno opporre una pur legittima obiezione (ma la canadese è più economica!): non appena la direzione del campeggio ebbe aperto i battenti andò a chiedere una sostituzione di alloggio.
Tornò trionfante (“pensa, Jun, la differenza di costo è minima!”) e indicò all’attonita compagna il loro nuovo nido d’amore: una tenda.
Stavolta molto più grande.
– Una tenda…! – scattò lei.
– Guarda, ha la zona notte e un soggiorno con tavolo e sedie – la rabbonì lui – C’è pure un fornello…
– Non voglio cucinare!
– Certo che no, però possiamo farci il tè…
– Ma è sempre una tenda! Mi ritroverò ancora con delle bestiacce nel sacco a pelo!
– Ma no, guarda, abbiamo un letto vero e proprio!
Poco convinta, Jun osservò meglio: in effetti, il letto c’era. Costituito da due brandine legate assieme, ma c’era. Se non altro, il pericolo che una qualche altra bestiaccia s’infilasse nel sacco a pelo era decisamente più remoto.
Jun sospirò, ma s’accinse al trasloco: stavolta almeno nella tenda c’era spazio per tenere i vestiti e il resto. Meno male.


La vita in tenda fu meno peggio di quel che Jun si fosse aspettata: c’era però il fatto che bagni e ristorante non erano vicinissimi, e c’era sempre la faticata della scala scavata nella roccia: quando risalivano dalla spiaggia a mezzogiorno, sotto un sole rovente, Jun si sentiva col fiato corto e morta di caldo.
– Questa scala è magnifica, quando si è risaliti si è perfettamente asciutti anche se si è appena usciti dall’acqua! – esclamò entusiasta Tetsuya, quando lei gli ebbe accennato al problema.
Bene, la scala era perfetta… c’era da dire che il mare era bellissimo, la spiaggia meravigliosa e che il ristorantino serviva pesce davvero squisito, per cui Jun s’impose di fissare il pensiero solo sui lati positivi della vacanza, cercando di non dar troppo peso a quelli negativi.
E i lati negativi c’erano, eccome… bastò che Jun appendesse al filo il bucato (lavato a mano, come una volta!) per ritrovarselo sgocciolato di balsamicissima resina.
– I pini sono resinosi – le fece notare Tetsuya – Ecco perché profumano!
– Adesso profuma pure la mia biancheria! – sbottò lei, guardando corrucciata il suo reggiseno di pizzo, nuovissimo, macchiato in più punti.
– Deve usare l’olio! – esclamò la signora della tenda di fianco, che aveva assistito alla scena – Bisogna strofinare bene, e poi…
– Macché olio, ci vuole la benzina! – intervenne una seconda. Altre signore s’avanzarono, decise a dire la propria; seguì un lungo dibattito che ebbe come tema il reggiseno dell’imbarazzatissima Jun, che si sentì fornire almeno otto sistemi sicurissimi per smacchiarlo (“e lo provi, lo provi, funziona!”).
Quando finalmente le signore s’allontanarono, s’avvicinò una vecchietta, guardò le macchie e scosse il capo: – Non tornerà mai pulito. Le conviene buttarlo – fu la sentenza.
Fu così che Jun prese coscienza di quella che è l’inevitabile conseguenza della vita in campeggio: la scarsissima possibilità di godere d’un minimo di privacy.
Tetsuya, che da dentro la tenda aveva assistito alla scena, mise subito sul fornelletto un pentolino d’acqua: una tazza di tè avrebbe consolato la sua compagna… fu così che scoprì che il fornelletto non era troppo stabile, il pentolino nemmeno, per cui il tutto si risolse con acqua bollente rovesciata e un principio d’incendio (uno strofinaccio, per fortuna non la tenda). Altra invasione di volonterosi vicini, accorsi a spegnere le fiamme e a dimostrare tutta la loro solidarietà, perché “in campeggio ci s’aiuta sempre”.
Ci volle un bel po’ perché finalmente i due rimanessero soli: allontanato l’ultimo gentilissimo signore (“Se vi serve qualcosa chiamatemi senz’altro, sono solo cinque tende più in là”), i due realizzarono che era ora di cena, per cui andarono al ristorantino. Il pesce era squisito, come sempre… la visuale sul mare era meravigliosa, fu emozionante veder sorgere la luna sulle onde… stelle in cielo, aria profumata… mano nella mano, i due sentirono l’immediata esigenza di rientrare in tenda e chiudercisi dentro per un romantico interludio.
Bastò sedersi sulle brandine per rendersi conto però d’una cosa: cigolavano.
Cigolavano maledettamente, era sufficiente il minimo movimento per… e tutt’attorno c’erano tende su tende! Avrebbero sentito tutto, i vicini!
Uomo pieno di risorse, Tetsuya andò a prendere l’olio, e usando un pezzo di carta da cucina cercò di ungere le reti in modo da attenuare il rumore: niente, come non aver fatto nulla.
Provarono ad individuare i punti più rumorosi in modo da soffocare il suono con giornali, con asciugamani, stracci, coperte, con qualsiasi cosa avrebbe potuto zittire, o quantomeno attutire il cigolio: nulla, le malefiche brandine non volevano saperne di tacere. Anzi, bastava il minimo movimento per scatenare un concerto.
Imbarazzatissimi, e ormai con l’atmosfera romantica irrimediabilmente compromessa, i due si sdraiarono con cautela (cigolii), cercando una posizione comoda per dormire (cigolii forti): rimasero immobili, e finalmente le dannate brandine tacquero. Meno male… chissà cosa avevano pensato i vicini – o meglio, i due sapevano benissimo che cosa avevano pensato. Non ci voleva molto ad immaginarselo.
– Domani cambiamo – sibilò Jun – Basta con questa tenda!
– Prenderemo una roulotte – convenne Tetsuya, convinto.
– Un bungalow? Sono così graziosi, sembrano casette…
– Appunto! Non sembrerebbe nemmeno d’essere in campeggio! Vedrai che in una roulotte staremo benissimo.
Jun masticò un’imprecazione: a mezza voce, però, o la brandina avrebbe cigolato ancora.
Il resto della notte trascorse tra bassi e bassi: immobili, paralizzati dall’imbarazzo, i due faticarono a chiudere occhio, tantopiù che dall’esterno proveniva una specie di barrito asmatico che risultò poi essere il sonoro russare dell’ingegnere della tenda accanto. Poi accadde l’inevitabile: quando era molto emozionata e tesa, Jun soffriva di singhiozzo. Quella volta era tesissima ed emozionatissima, per cui i singhiozzi furono particolarmente violenti – e altrettanto forti furono i cigolii della brandina.
Subito Tetsuya prese a prodigarsi per aiutarla a far passare il singhiozzo: le portò dell’acqua, le batté sulla schiena, tentò di spaventarla, le suggerì di trattenere il respiro. Fu anche peggio, perché lei s’innervosì ancora di più con tragiche conseguenze.
Il resto della notte trascorse tra un singhiozzo e un cigolio: come minimo, i vicini avrebbero pensato che stessero quantomeno ripassando l’intero kamasutra…
Ma forse no, si dissero entrambi. Magari nessuno vi farà caso.
Arrivarono a mattina autoconvincendosi che nessuno avesse sentito nulla e nessuno avesse pensato nulla. Bastò che si affacciassero alla tenda, pallidi e stravolti dal sonno, per accorgersi che i vicini li stavano guardando con un misto di curiosità, malizia e considerazione: una notte intera di cigolii, caspita. I vari uomini presero a guardare Tetsuya con rispetto, le signore con bramosia.
– Che figura…! – mormorò Jun, imbarazzatissima.
– Ma no, saranno solo invidiosi – osservò Tetsuya, ringalluzzito dalle occhiate reverenti degli altri maschi.
– Ma io mi vergogno!
– Cerca di sentirti la bomba sexy che sei e fai finta di niente – l’incoraggiò lui.
Jun tentò d’obbedire; andò piena di timori al bagno, ma fortunatamente vi trovò solo una vecchietta dall’aria venerabile, sicuramente candida quanto i suoi immacolati capelli. Rincuorata, andò al lavandino, aprì la sua busta da toilette per prendere lo spazzolino da denti, gettò un’occhiata allo specchio… si guardò meglio: che disastro, era pallidissima, gli occhi scavati e circondati da aloni nerastri…
– Buongiorno, cara – cinguettò la vecchina – Abbiamo festeggiato, vedo.
Jun fece un balzo: – Oh, ma no, veramente io… noi…
– Oh, è tanto bello quando i giovani si amano con passione! – insisté la nonnina – Ai miei tempi, quando il mio Kenshiro era giovane e gagliardo… – e qui si lanciò su un panegirico sulle amorose imprese del suo pimpantissimo consorte. Jun si fece scarlatta, lavò i denti in fretta e furia e scappò via, mentre la vecchina le raccontava come da giovane fosse regolarmente costretta a riempirsi il viso di fondotinta per cancellare le tracce delle sue scorribande notturne.
Jun tornò sconvolta alla tenda, decisissima ad andarsene da quel covo di vicini pettegoli, e Tetsuya faticò non poco a convincerla a desistere. Nemmeno l’argomento principe (“Abbiamo versato già i soldi per un’intera settimana!”) sembrò avere molto peso. Alla fine i due arrivarono a un accordo: sarebbero rimasti, ma avrebbero proceduto al cambio immediato della tenda, scegliendo una roulotte dalla parte opposta del campeggio.

- continua -

Link per parlare di cigolii vari: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2370#lastpost
 
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Terza parte.

E roulotte fu: bianca, corredata di una veranda nei toni dell’azzurro e del blu, fornita di tutte le comodità che si potessero desiderare, dal minifrigo alla Tv, dal fornello (stabile) alle tendine alle finestre.
– Com’è graziosa! – non poté trattenersi dall’esclamare Jun – Sembra una casetta!
– Appunto – borbottò Tetsuya, mandando un pensiero nostalgico al canile, pardon, alla tendina canadese. Non era quella la sua idea di campeggio selvaggio, ma con le donne bisogna portare pazienza…
I giorni successivi furono decisamente migliori dei precedenti: la roulotte era effettivamente comoda, non v’erano più lucertole ad intrufolarsi nei sacchi a pelo e non v’erano neanche imbarazzantissime reti cigolanti, il che permise di poter compiere del tutto indisturbati certe gradevoli attività a due – e questo contribuì a rasserenare parecchio Tetsuya, bisogna dire, che almeno la piantò finalmente di rimpiangere il can… la canadese.
Certo, qualche piccolo inconveniente ci fu: come quando Jun ad esempio tornò dai bagni accorgendosi di uno strano ragnetto che sembrava volerlesi arrampicare su per una gamba. Cuore tenero, Jun mai e poi mai avrebbe ucciso un’innocente creatura… certo che la bestiola era ostinata, lei l’aveva fatta cadere al suolo e subito aveva ripreso a scalarle il polpaccio… ma che ragnetto zuccone…
– Non è un ragnetto – disse Tetsuya, con il tono più naturale di questo mondo – È una piattola.
Strillo ed eliminazione immediata dell’immondo animale. Seguì una crisi: evidentemente, in bagno andava una qualche sporcacciona piattolosa… ma che schifo! Lei non voleva restare un istante di più… Tetsuya le fece notare che i bagni venivano puliti e disinfestati tutti i giorni varie volte al giorno, la simpatica bestiola era quindi stata un caso del tutto fortuito che mai più si sarebbe ripresentato. Jun alla fine si convinse, ma acquistò un disinfettante spray di cui prese a fare larghissimo uso ogni volta che si recava nei bagni. Prese anche a scrutarsi sistematicamente in cerca di elementi estranei, in quello che Tetsuya definì scherzosamente (occhiata ustoria di lei) “Caccia alla piattola”.


Vivere in un campeggio, chiunque l’abbia fatto può testimoniarlo, è un eccezionale modo per osservare le abitudini umane. Non stiamo parlando di infilare il naso nelle vite altrui: il campeggio porta automaticamente ad essere in vista agli altri, per cui anche persone tutt’altro che ficcanaso come Tetsuya e Jun ebbero modo di scoprire tante cose che mai avrebbero immaginato.
Ad esempio, il fatto che la famiglia Nagazumi (padre, madre, nonna, tre pargoli), che alloggiava nell’enorme camper a sinistra, facesse colazione a suon di minestra di verdure: tutti i santi giorni, infallibilmente, la mamma serviva ai suoi cari ampie ciotole di minestrone, i cui avanzi, freddi da frigorifero, venivano consumati al mezzogiorno e alla sera, mentre sul fornello bolliva il minestrone del mattino dopo.
Poi, c’erano gli Okada, una famigliola che alloggiava nella più enorme roulotte che Tetsuya e Jun avessero mai visto: padre, madre e due ragazzoni alti e nerboruti sui diciotto/venti.
E che fossero così muscolosi non poteva stupire: ogni mattina, i due giovani si ponevano ai lati del portello della roulotte per aiutare il padre a scendere. Questo, che aveva il fisico di un lottatore di sumo alquanto obeso, doveva reggersi ai pargoli che con mille cautele lo facevano scendere (e qui quella linguaccia di Tetsuya ebbe ad osservare che la roulotte a quel punto tirava un sospiro di sollievo). Poi lo accompagnavano passo passo fino a uno dei pini, cui il paparino restava aggrappato mentre i suoi figlioli gli montavano un divanetto a tre posti, che lui ovviamente occupava per intero, e sul quale avrebbe trascorso gran parte della giornata. Erano sempre i figlioloni ad accompagnare papino in bagno e a farlo rientrare per la notte, smontando poi il divanetto che avrebbero poi rimontato il giorno dopo. La madre, un donnino dall’aria un po’ asfittica, era troppo occupata a cucinare manicaretti per i suoi cari per potersi occupare del consorte – e del resto, magrolina com’era non era proprio il caso. Comunque, tra marito e figlioloni era ben chiaro che a comandare fosse lei.
Altro particolare curioso scoperto da Jun: in campeggio erano presenti parecchie giovani mogli, tutte piuttosto carine e curate, madri di bimbi piccolissimi. Un venerdì, mentre al lavatoio sciacquava il suo bikini, Jun sentì la signora della roulotte a destra sbuffare a un’altra: – Domani è venerdì, torna il rompi.
Jun tornò scandalizzata alla roulotte: romantica com’era, trovava orribile che una moglie tutto sommato fresca di matrimonio parlasse in maniera così irrispettosa del suo sposo. Manifestò il suo disagio a Tetsuya, che al contrario non si scandalizzò affatto.
– Prima di giudicare, vediamo com’è il marito – commentò, con insospettabile buon senso.
E lo videro: la sera dopo una specie di cinghiale peloso sedeva in canottiera e mutande al desco della roulotte a destra. Più che mangiare sembrava struogolare nel piatto, accompagnando il pasto con grugniti d’apprezzamento; alla fine, il raffinato gentiluomo afferrò una bottiglietta di birra e la vuotò a garganella, spandendo schizzi di schiuma che gli si perdevano nel pelame del petto, mentre la moglie s’affannava a dare la pappa al bambino in modo da non essere costretta ad assistere a quello spettacolo che per lei doveva essere consueto. Poi, sbattuta la bottiglietta sul tavolo, da quel perfetto gentleman che era, l’uomo si diede un gran pugno nella pancia. Seguì una deflagrazione che tutto il campeggio dovette sentire.
Jun e Tetsuya si scambiarono un’occhiata eloquente: non c’era altro da dire.
Da dire invece ne avrebbero avuto circa le abitudini igieniche della famiglia Kitamura (madre grassissima, padre esilino esilino, un numero imprecisato di marmocchi sporchi e vocianti) che alloggiava esattamente davanti a loro.
Intanto, c’era il fatto che uno dei piccoli evidentemente non era ancora a tenuta stagna: ogni mattina il materasso, debitamente inzuppato, veniva esposto al sole (e agli occhi e ai nasi dei vicini) perché asciugasse. Le lenzuola venivano invece sciorinate tutt’attorno alla roulotte: venendo, diciamo così, usate con regolarità, mamma Kitamura non vedeva il motivo di doverle continuamente lavare. A che pro? La notte dopo, l’angioletto avrebbe ancora avuto una perdita idraulica. Per la famiglia nella roulotte alla loro sinistra, che si trovava sottovento, la vita era dura.
Mamma Kitamura comunque non si curava dei commenti altrui, e continuava con le sue personalissime idee in fatto d’igiene. Un giorno Jun la vide posare sul tavolo da pranzo un enorme cartoccio di acciughe: la signora pulì il pesce, togliendo teste e interiora. Poi, usando una delle luride carte dell’involto nettò il tavolo da scaglie, mosche e liquame; a quel punto, Jun s’era aspettata che la signora usasse uno sgrassatore per lavare per bene, e soprattutto deodorare, la superficie del tavolo. No: la tovaglia venne stesa direttamente sul tavolo così com’era, e il pasto della famigliola fu allietato da un gran via-vai di mosche e mosconi.
– Beh, fortuna che hanno la tovaglia – commentò Tetsuya.
– Eh già, potevano mangiare direttamente sul tavolo… – sbottò Jun, sarcastica.
– Avrebbero potuto usare una delle lenzuola del bambino – le fece notare lui.
Jun ebbe un conato di vomito, ma si disse che sì, Tetsuya aveva ragione.

- continua -

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Quarta parte. Il finale domani.

La vita in campeggio presentava quasi ogni giorno eccitanti sorprese.
Una sera, Tetsuya e Jun stavano tornando dal ristorantino quando notarono una certa folla che stava radunandosi al fianco di una roulotte: un’emergenza, forse? Si avvicinarono anche loro: c’era bisogno d’aiuto, qualcuno stava male, potevano rendersi utili?
S’accorsero subito che qualcosa non tornava: la folla appariva silenziosissima, nemmeno si fosse stati a teatro. Qualcuno addirittura si era portato una sedia, un gruppetto stava arrivando con una panca… alcuni bevevano una bibita o leccavano un gelato, e tutti fissavano il finestrone posteriore della roulotte. Jun e Tetsuya si scambiarono un’occhiata, stupiti; poi si fecero avanti, guardarono anche loro.
Dentro alla roulotte, esattamente dietro al finestrone, c’era una coppia molto, molto impegnata… e avevano dimenticato di tirare le tende.
La visuale era perfetta.
Tetsuya e Jun rientrarono nella loro roulotte, agghiacciati, mentre altro pubblico s’aggiungeva a quello già presente; e da quella sera, Jun prese l’abitudine di chiudere accuratamente le tende usando delle mollette da bucato.


Per quanto mangiassero sempre al ristorantino, oltretutto economico, qualche stoviglia sporca la accumularono anche loro: le tazze della colazione, qualche bicchiere. Un giorno Jun raccolse tutto in un catino e andò ai lavatoi comuni. Anche quella sarebbe stata una nuova esperienza.
Si trattava di una struttura costituita da un muretto alto poco più di un metro in cui erano incassati, faccia a faccia, vari acquai per i piatti e alcuni lavatoi per il bucato: si andava portando roba sporca e detersivo e si faceva quel che si aveva da fare, avendo anche la possibilità di scambiare qualche parola con le compagne di lavoro.
Già, compagne… perché, per quanti uomini fossero presenti nel campeggio, erano solo donne quelle che dovevano occuparsi di rigovernare i piatti e fare il bucato.
Jun tornò indignata dal lavatoio: non era giusto… anche le donne avevano diritto alle vacanze… certi compiti andavano divisi… la volta prossima a lavare ci vai tu.
Tetsuya incassò senza batter ciglio: aveva affrontato mostri spaventosi, aveva rischiato infinite volte la pelle… poteva ben lavare delle tazze da tè! E poi Jun aveva ragione, erano anche le sue vacanze.
Si ritrovò unico maschio in mezzo a un notevole gruppo di massaie, tutte sovraccariche di piatti, bicchieri, posate, pentole o con catini colmi di magliette, mutande e calzoncini (ovviamente la signora Kitamura, con annesse lenzuola e pigiamini sporchi, brillava per la sua assenza). Tutte lo guardarono con attonito stupore: un uomo che lavava i piatti? Smisero tutte quel che stavano facendo e rimasero a fissarlo quasi stessero osservando un marziano. Ostentando una calma che non provava (niente l’agitava come essere al centro dell’attenzione), Tetsuya insaponò la prima tazza, poi la seconda… se solo avessero smesso di fissarlo… una terza…
– Che bravo, lei lava i piatti! – esclamò la più disinvolta delle signore, una piccoletta pepata – Non capita spesso di vedere un uomo, qui…
Aveva usato una strana inflessione per la parola “uomo”… forse lavare i piatti era considerato poco dignitoso per un maschio, o l’avevano preso per un effemminato? In ogni caso, Tetsuya pensò bene di mettere in chiaro le cose: – Sono anche le vacanze di Jun. Non è giusto che anche ora lavi i piatti.
Un coro di “bravo!” e “così si fa!” seguì la sua eroica affermazione. Le signore lo considerarono subito con maggior simpatia, si può dire che con quella frase le azioni di Tetsuya ebbero un vertiginoso rialzo.
Un secondo dopo, una sorta di gelo piombò sul gruppo femminile: l’idea comune, questo Tetsuya lo percepì benissimo, era che anche per loro era vacanza… il pensiero corse subito ai vari mariti sprofondati in poltrona.
La piccoletta era una donna d’azione: mollò tutto e partì a razzo verso la propria tenda. Poco dopo arrivò un marito scocciatissimo che prese a lavare, molto maldestramente, i piatti.
– Ma non è giusto! – prese a brontolare, mentre tentava di scrostare una pentola – Un pover’uomo non può nemmeno riposarsi un poco, che la moglie s’inventa che deve lavare i piatti… ma vi pare poss…
Non poté finire, sommerso come fu dalle veementi proteste delle gentildonne, che l’accusarono di essere un fannullone e un egoista. L’uomo tacque subito e si chinò laboriosamente sulla sua pentola, mentre Tetsuya finiva in fretta di risciacquare le sue tazze e sgattaiolava via.
Mentre s’allontanava, sentì altre signore brontolare che i prossimi piatti sarebbero toccati al consorte.
Il giorno dopo, quando tornò a lavare le tazze, trovò una serie di mariti ingrugniti e riottosi con le mani in acqua e sapone… Tetsuya non era certo un codardo, ma quella volta non aprì nemmeno bocca.
Aveva idea che se si fosse saputo che era stato lui il primo maschio a lavare i piatti, non gliel’avrebbero fatta passar liscia.


Una di quelle sere, mentre dopo cena passeggiavano romanticamente tra i vialetti alberati del campeggio, i due scorsero delle simpatiche bestioline scorrazzare sui rami dei pini.
– Avevo sentito dire che ci sono scoiattoli, qui – osservò Tetsuya.
– Sì, ma… – Jun aggrottò la fronte: – Gli scoiattoli sono animali diurni, no?
– Già, è vero. Allora, saranno ghiri.
– I ghiri sono deliziosi! – Jun alzò la testa, sforzandosi di distinguere le simpatiche bestiole… ecco lì un corpicino peloso, e più in là un altro… un altro…
– Ce ne sono tanti! – esclamò Tetsuya, intenerito – Guarda lassù, ci sono dei cuccioli…!
– Oh, che amori! Ma… – colta da un dubbio Jun guardò il compagno, e capì subito che il medesimo interrogativo si era posto pure a lui: – Tetsuya, ma… i ghiri hanno la coda pelosa, vero?
– Già – rabbrividì lui.
– Questi ce l’hanno nuda – gemette Jun, la voce che minacciava di schizzare in alto di qualche ottava.
– Rientriamo in roulotte – e Tetsuya la prese per un braccio allontanandosi velocemente dalle simpatiche bestiole.
– Tetsuya, ma… ma… sono topi! – Jun stava esalando, ma lui sapeva che presto avrebbe ritrovato il fiato e avrebbe strillato. La fece risalire in fretta in roulotte e chiuse la porta dietro di loro.
– Non è esatto, Jun. Non sono topi. Sono pantegane.
– …?!?!
– Già. Beh, in fondo sono molto simili ai ghiri, no? Se avessero la coda pelosa…
– Tetsuya! Mi rifiuto di restare in questo campeggio infestato dalle… ugh… dalle pantegane!
– Capisco – rispose lui, che non l’avrebbe ammesso mai e poi mai, ma che provava un disgusto indicibile all’idea di quei simpatici animali – Senti, stanotte ormai siamo qui. Dormiamoci su, poi domattina decideremo il da farsi. Va bene?
Andò bene, naturalmente; rimase però il fatto che prendere sonno quella notte fu difficilissimo per entrambi, ogni minimo rumore era divenuto uno zampettio di pantegane che volevano entrare nella roulotte. Oltretutto avevano chiuso ermeticamente ogni finestrino, per cui all’interno la temperatura era un po’ più fresca di quella che si può trovare in un altoforno. Riuscirono ad addormentarsi solo a notte molto inoltrata, venendo svegliati da un boato mostruoso: Tetsuya balzò a sedere sul letto, i capelli ritti, e controllò l’orologio: le cinque e dieci.
Un altro boato: un temporale, e molto violento.
– Beh, qui dentro siamo al sicuro – osservò Jun – Pensa se fossimo stati in tenda…
– Jun, la veranda della roulotte è una tenda! – esclamò Tetsuya, scattando in piedi e correndo fuori.
La scena era spaventosa: una specie di uragano si stava abbattendo sul campeggio, spazzando via tutto quel che poteva spazzare… videro volar via uno dei canili, cioè le canadesi, mentre i legittimi proprietari, in pigiama, l’inseguivano disperati… Jun s’aggrappò a uno dei montanti della tenda per impedire che volasse via, mentre Tetsuya affrontava il nubifragio per andare a chiudere e mettere in salvo le poltroncine pieghevoli rimaste all’esterno.
– Ma sei impazzito? – urlò Jun quando Tetsuya, fradicio ed infreddolito, rientrò andando ad aggrapparsi all’altro montante – Potevi lasciar perdere…
– Jun, quelle poltroncine sono del campeggio! – rispose lui – Se le perdiamo o si danneggiano, dobbiamo pagarle!
– Ma hai rischiato moltissimo… avrebbe potuto cascarti in testa un ramo di pino! Con questo ventaccio…
– Macché, sono alberi vecchi e forti…
Uno schianto e uno scroscio: un ramo era piombato sulla macchina dei Kitamura. Urli e strilli della famigliola, e ghignate malefiche dei vicini: vista la faccenda di materasso e lenzuola en plen air, giustizia era stata fatta.
Un istante dopo Tetsuya e Jun ebbero a pentirsi d’aver riso delle altrui disgrazie: qualcuno aprì la cerniera dell’apertura della loro tenda, il piccolo Kitamura venne spinto all’interno, la cerniera fu richiusa. Si erano sbarazzati dell’angioletto senza tenuta stagna, evidentemente.
Tetsuya e Jun si guardarono in faccia: non riuscirono a dir nulla, anche perché in quel momento il vento aumentò d’intensità e sembrò strappar via la tenda. S’aggrapparono entrambi ai montanti sperando nel contempo che il piccolo non decidesse d’andare a dare un’occhiata all’interno della roulotte, lasciando magari qualche ricordino personale in giro.
Fortunatamente l’angioletto trovava troppo interessante osservare i due adulti aggrappati ai montanti, per cui si accovacciò in un angolo e rimase ad osservarli, succhiandosi pensosamente un dito.


- continua -

Link per discutere su graziosi animaletti: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2385#lastpost
 
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Finale.



Fuori il vento spazzava impietosamente il campeggio, costringendo i villeggianti a restare aggrappati alle loro tende per evitare di vedersele strappar via: unici a non avere affatto quel problema furono gli Okada, la cui roulotte sfidò senza tremare la furia degli elementi. Insomma, furono gli unici nel campeggio a dormire saporitamente fino a mattino inoltrato e uragano concluso.
Prima d’allora, Tetsuya e Jun mai s’erano trovati sotto a una tenda in pieno uragano: l’esperienza insegnò loro varie cose.
Ad esempio, che una tenda anche se fradicia è perfettamente impermeabile alla pioggia finché non la si tocca: nel momento in cui questo accade, il tessuto lascia filtrare l’acqua. Se ne accorse Jun quando uno scrollone del vento la scaraventò contro la parete fradicia: un attimo dopo un rivolo d’acqua prese ad entrare nella tenda, costringendola a mettervi sotto un catino, che ovviamente si riempì in fretta e prese a tracimare… e siccome il vento era aumentato, lei non poteva certo mollare il montante, col rischio che crollasse tutto. E Niagara fu.
Altro particolare, stare in una tenda mentre fuori c’è un nubifragio è un po’ come fare una sauna: l’aria diventa caldissima e soffocante, l’umidità sale a picchi incredibili, ogni movimento diventa fatica e, letteralmente, sudore. La tentazione di aprire un poco la porta in modo che entri un po’ d’aria è davvero forte…
Fu allora che attraverso il finestrone in plastica trasparente un’orrida visione si presentò ai loro occhi: i Nagazumi, quelli del minestrone per capirci, avevano negligentemente lasciato un’apertura nella porta della loro tenda “tanto è riparata dalla tettoia e l’acqua non entra”.
Il vento era entrato, aveva gonfiato la tenda, che era stata ben picchettata al suolo e che quindi era risultata inamovibile, e non trovando altri sfoghi aveva fatto scoppiare il punto più debole, cioè la finestra. Urli e strilli di mamma Nagazumi: forse la pioggia aveva rovinato il minestrone? La sentirono sbraitare di volersene andare, e subito.
Qualcuno dovette spiegarle che non era possibile partire proprio all’istante, dato che l’uragano imperversava; comunque, gli strilli isterici della signora si sentirono per tutto il tempo.
Altra nuova, gradevole scoperta: quando pioveva, la terra diventava brulicante di vermi, tutti molto lunghi, grossi e vivaci, e tutti decisi a guadagnare le zone più asciutte disponibili. Jun non era mai stata una donna impressionabile, ma trovarsi dei lombrichi che si facevano strada tra i suoi alluci la scosse parecchio.
Come non bastasse, mentre erano nel pieno del putiferio, udirono un suono inconfondibile: il cellulare.
– Questo è Shiro! – esclamò Tetsuya
– Oh, no! Avrà voglia di frignare…
– Non essere cattiva, magari può essergli accaduto qualcosa!
– Ma è con Alcor! Cosa vuoi che gli sia successo? – tentò di farlo ragionare Jun.
– Poverino, magari sta poco bene… – nonostante la lontananza dal piagnucoloso fanciullo fosse un sollievo, o forse proprio per questo, Tetsuya provava sempre un certo senso di colpa per averlo abbandonato: – Jun, devo rispondere!
– Ma c’è un vento terribile, se lasci il montante rischiamo che la tenda voli via…!
– Al diavolo la tenda! – Tetsuya si precipitò nella roulotte, prese il cellulare: Shiro, appunto. – Che ti succede? Stai poco bene?
– Oh, Tetsuya – vocina lacrimevole – Alcor è cattivo! Ti pare giusto che debba alzarmi a quest’ora? Sono in vacanza!
Tetsuya guardò l’orologio: le otto.
E lui aveva mollato la tenda, col rischio che venisse schiantata, per sentir Shiro frignare?
– …Lui dice che vuole portarmi in montagna, ma io ho sonno, è prestissimo, io…
Tetsuya ruggì qualche parola, piuttosto gergale ma decisamente efficace, sul muso del fratellino, e chiuse la comunicazione. Tornò nella veranda, invelenito, e s’aggrappò al montante: fortunatamente la tenda era rimasta al suo posto.
– Avevi ragione – mugugnò, augurandosi che Alcor lo portasse a scarpinare su qualche montagna particolarmente sassosa e ripida; con un po’ di fortuna, magari sarebbe finito in un qualche crepaccio.
Improvvisamente, si udì una limpida voce infantile: – Non si dicono le parole brutte.
Tetsuya si guardò in giro: s’era dimenticato del piccolo Kitamura, che lo stava guardando con aperto rimprovero: – Le parole brutte ti fanno diventare brutto, lo dice sempre la mia mamma.
Si alzò, evidentemente sdegnato d’essere rimasto fino allora in sì disdicevole compagnia, aprì la tenda e s’allontanò dignitosamente, puntando verso la propria roulotte e relativo aroma di lenzuola usate.
Ovviamente, dietro di sé lasciò un ricordino… dove era rimasto fino allora accovacciato era improvvisamente comparsa una pozzetta di liquido.
Tetsuya e Jun erano sicuri che non fosse acqua.


Mamma Nagazumi era una signora di parola: aveva deciso di partire e partì, col risultato che non appena l’uragano fu calato d’intensità la famigliola caricò sul camper tavolino, sedie, giocattoli dei bambini e pentola di minestrone e, letteralmente, tolse le tende.
La loro partenza non passò comunque inosservata: il camper era molto alto, il vento aveva fatto cadere giù dagli alti rami degli alberi un filo volante della corrente… un istante dopo il cavo, tranciato di netto, cadeva a terra lanciando ovunque scintilloni blu e torcendosi come un serpente con la colite. Il terreno era ovviamente fradicio, e nessuno s’azzardò nemmeno a risalire in roulotte, i cui sostegni metallici non garantivano certo un buon isolamento… no, si dovette rimanere sui pavimenti di legno o di gomma delle tende, e questo fino a quando non passò il direttore del campeggio a garantire che era arrivato un tecnico, che tutto era a posto e che non c’era più pericolo. Tale autorevole voce, e soprattutto il vederlo passare indenne tra le pozzanghere, convinse i campeggiatori del cessato allarme.
A quel punto, anche Jun pretese d’andarsene; Tetsuya, cui tutto sommato il campeggio non dispiaceva, fece per azzardare una timida difesa quando scorse qualcosa affacciarsi sui rami del pino più vicino: pelo grigio, occhietti vivaci, coda nuda…
– Andiamocene – decise.


Sbrigate tutte le formalità, e cioè fatto controllare al proprietario lo stato perfetto di roulotte ed accessori, e pagato il conto, peraltro ragionevole, Tetsuya e Jun caricarono le loro cose in macchina, pronti per partire; e fu allora che un gruppo di uomini si fece avanti con aria bellicosa.
Non era forse lui lo sciagurato che aveva dato il pessimo esempio andando a lavare i piatti? Ora le signore pretendevano che anche loro facessero altrettanto. Dopo aver causato un simile danno non poteva certo pretendere d’andarsene via come niente, vero?
Mostrando una calma ammirevole Tetsuya tentò di spiegare il suo punto di vista, ma non fu lasciato parlare: un marito particolarmente focoso fece volare una sberla. Seguì una zuffa che fu sedata solo dall’uso di un buon idrante maneggiato dal direttore, uomo pratico. Gli animi furono sedati e Tetsuya, fradicio, un po’ pesto ma con la fierezza del vincitore, salì in macchina e ripartì con Jun. Dietro di sé lasciava occhi neri, qualche dente allentato, un paio di nasi gonfi e molti animi afflitti dalla consapevolezza che da quel momento in poi piatti bisunti e padelle incrostate sarebbero stati affare loro.


Mentre erano per strada, osservarono che avevano fatto solo dieci giorni di campeggio, quando di vacanza gliene spettavano altrettanti. Tornare a casa prima, da Shiro? Mai!
Finirono in un villaggio vacanze, in un graziosissimo bungalow con bagno, servizio ristorante e lavanderia e spiaggia comoda senza scale. Una meraviglia… troppo bello per essere vero… quel pomeriggio, distesa sul suo lettino a prendere il sole, Jun non poteva credere a tanta fortuna.
– Vero che lei viene a fare la gimcana?
Jun aprì gli occhi: un giovane dal grande sorriso, ma dall’aria molto decisa, stava cercando di convincere Tetsuya a scollarsi dal lettino per andare a fare i giochi con gli altri, perché “più si è più ci si diverte”, “tutti gli altri veri uomini lo fanno” e naturalmente, lui “non poteva mancare”.
Ringhio di diniego da parte di Tetsuya: l’animatore apparteneva però alla filosofia di pensiero per cui l’ospite va sempre coinvolto e un no non è mai la risposta giusta. L’incauto acchiappò Tetsuya per un braccio tentando di strapparlo all’ozio…


Mentre si recava in commissariato per andare a trovare Tetsuya (aggressione, turpiloquio eccetera), Jun si disse rassegnata che, almeno per una volta, non era costretta a visitarlo all’ospedale… beh, se non altro, rispetto al passato, almeno questa era una novità.


FINE


Link in cui parlare di Shiro - perché SO che qualcuno me lo tirerà in ballo: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2385
 
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In attesa della storia di Shiro in montagna (in lavorazione) vi posto questo racconto nato da un'ispirazione che mi è venuta ieri in seguito al thread sui cerchi del grano. Un grazie a Merlino che ha lanciato la discussione e a Delari che apprezzando le due frasi in veronese ha contribuito a darmi l'idea.
Nonostante quel che può sembrare all'inizio, questo è un racconto di Goldrake... :asd:

NOTA SULLA PRONUNCIA DEL VERONESE (saltate pure se non v'interessa!!!)
La Z praticamente non esiste. Si usa scrivere il dialetto usando la Z per tutti i casi di S sonora derivati dalla G (zente, zornal). La S è prevalentemente aspra, ma non sempre: ad esempio, sposa (O strettissima!!!) si pronuncia con la prima S aspra e la seconda sonora. E' un caos, lo so.
Prego notare l'assoluta mancanza di ciò, di xe e di ostrega, che non ci appartengono proprio.



ERAVAMO CINQUE AMICI AL BAR


Da anni, si ritrovavano tutti ogni sera all’Hellas Bar: Gosto, Guerrino, Tullio, Ciro e il Professore. I primi tre poi erano legati da particolare amicizia: coetanei, si conoscevano da sempre, erano andati assieme a scuola e a catechismo, insieme avevano trascorso indimenticabili domeniche allo stadio. Ogni sera finito il lavoro si beveva un bicchiere e si chiacchierava, in genere commentando le ultime notizie (sportive).
Quella sera, quando Gosto andò a sedersi al tavolo, trovò che la conversazione aveva preso un’insolita piega culturale: invece di parlare di fuorigioco e di appendici cornee sulla fronte dell’arbitro Guerrino e Tullio stavano commentando una notizia riportata sul giornale locale: “Misterioso cerchio nel grano apparso nella Bassa veronese – Gli UFO sono scesi tra noi?”.
– Te credito ai UFO, ti? – chiese Guerrino.
Tullio scosse il capo: – La me sposa la ghe crede, la dise che i ne parla anca ala television.
– Ma ti, te credito o no?
Tullio ci pensò a lungo.
– Mah – fu la conclusione.
Gosto, fatto segno alla barista di portargli il solito bicchiere di rosso, sedette e rimase in silenzio: poco portato al parlare preferiva ascoltare le opinioni altrui, e in genere non amava dire la sua.
La Morena, la barista dalla nera zazzera riccioluta, arrivò col bicchiere, gettò uno sguardo al giornale e assunse l’aria saputa di chi ha studiato: – Oh, i crop sircols. Gli inglesi li chiamano così – aggiunse, vedendo le occhiate incerte dei tre – Voi credete agli UFO?
– Mi, no! – disse subito Guerrino, che era un tipo deciso.
– Mah – ripeté Tullio.
Gosto tacque, e subito gli altri lo guardarono fisso. Bisognava parlare.
– Mi no so se i UFO i esiste o no – rispose infine, da quell’uomo prudente che era – Ma mi so che un serchio del zenere te manda in malora tuto el racolto. Mi no vorìa proprio che un UFO me fasesse un serchio in tel gran.
– Ti g’ha rason anca ti! – ammise Guerrino – Ma tanto, i UFO no i esiste.
– Mah – pensò bene di aggiungere Tullio.
Gosto alzò le spalle e non rispose.
Proprio allora arrivò il quarto elemento del gruppo: era il Ciro, il fratello minore del Tullio. Per quanto avesse poco più di quarant’anni Ciro non aveva in testa un capello che fosse uno; questo, e il fatto d’avere un colorito d’uno scarlatto acceso, gli aveva fatto guadagnare il soprannome di Pelati Ciro, col quale a suo dispetto era conosciuto ormai da tutti.
Oltretutto c’era anche il fatto che lui per forza di cose era, e sempre sarebbe stato, il più giovane del gruppo, il che gli valeva l’ulteriore nomignolo di Butel – che l’irritava comunque meno del Pelati.
Rapido di pensiero e parola, Ciro disse subito la sua: – I UFO? I esiste, e i è pure tra noaltri.
– Te sì ‘l solito sempio! – rise Guerrino – I UFO no i ghè.
– E mi digo che i UFO i esiste!
– Sì, i piati che i vola!
– I piati che i vola? Non te capissi gnente! I dischi volanti, se dise!
– Ma tasi, Pelati! – esclamò Guerrino, mandando, com’è ovvio, il Ciro in bestia.
– Te digo che i Ufo i gh’è, i g’ho visti in television! I parlava dell’America, l’area 51… e poi gh’è quel che capita in Giapone. No gh’è quel robò…
– Te credito a Mazinga, adesso? – rise Guerrino.
– Mi credo a quel che vedo! – scattò Pelati – Mi g’ho visto quel video che i g’ha fato in Giapone, con el robò e ‘l mostro che i se mena…
– L’è un video giaponese – gli fece notare Guerrino, che da sempre era ritenuto il più pratico del gruppo – I l’avarà fotoscioppato.
– Ma i giaponesi i g’ha visto…
Guerrino allargò le braccia coinvolgendo tutti gli avventori del bar: – I giaponesi i g’ha i oci streti; ci pol saver ‘sa i pol vedar?
Sghignazzata generale e montata di collera del povero Pelati, che non trovando comprensione tra gli amici si rivolse al sangue del suo sangue: – E ti, Tullio? ‘Sa disito?
Tullio non fece mancare la sua dotta opinione: – Mah!
Altra sghignazzata. Il colorito del Pelati ormai stava arrivando a sfumature di rosso scarlatto al limite del fluo. Finiva sempre così: lui e il Guerrino non erano mai dello stesso parere e litigavano, e continuavano a farlo finché qualcuno non giungeva a dirimere le loro questioni.
Fu allora che giunse l’Autorità appunto, nelle vesti dell’ultimo membro di quella scelta compagnia: il Professore, come lo chiamavano tutti, o “el vecio Richetti”, come ci si riferiva a lui quando non poteva sentire. Anni e anni di insegnamento alle scuole medie l’avevano temprato, dandogli la superiore conoscenza che gli era universalmente riconosciuta; l’aver cacciato nelle zucche dell’intero paese le radici quadrate e il Teorema di Pitagora aveva aggiunto un’aura autorevole di cui nessuno osava dubitare – non nell’Hellas Bar, per lo meno.
Il Professore si fece avanti, e subito i quattro, tutti suoi ex allievi naturalmente, gli fecero posto; Ciro, essendo el Butel, andò subito a prendergli una sedia.
– Gh’è qualche novità? – chiese il Professore.
Guerrino gli mise davanti il giornale.
Il Professore s’assise con la dignità conveniente al suo stato; poi guardò il piano di formica del tavolo e storse la bocca. Sporco. Amante dell’igiene com’era, corse subito ai ripari: sputò e lustrò accuratamente con un fazzoletto di carta, finché non vide brillare la superficie.
– Mejo del Mister Lindo – commentò, come faceva ancora ai tempi della scuola, quando usava quel metodo per pulire il piano della cattedra.
Guerrino gli porse ancora il giornale; il Professore inforcò gli occhiali e lesse, il viso atteggiato alla gravità del caso.
– Dischi volanti – disse Guerrino.
– UFO – precisò Ciro.
– No i esiste – quella di Guerrino suonava però come una domanda.
Il Professore tolse le lenti e le ripose nel taschino, mentre quattro paia d’occhi non perdevano un suo gesto. Poi tossicchiò: aveva la gola secca, era evidente… e poi, i pareri autorevoli hanno un costo.
Invio del Ciro dalla Morena: un minuto dopo un bicchiere colmo di rosso venne posato davanti al Professore, che ne buttò giù mezzo con evidente piacere.
– Allora? – chiese Ciro – I Ufo? I gh’è, o no i gh’è?
Il Professore lo guardò come si guarda qualcuno che fa una domanda ovvia: – Te sì el solito butin, Ciro. I dischi volanti no i gh’è.
– Ma…
– Se i amissi del bar i te dise che i dischi volanti no i gh’è, i dischi volanti no i gh’è – rispose il Professore, con ineffabile logica.
Seguì l’inevitabile tafferuglio: Guerrino prese a cantar vittoria, Pelati divenne color melanzana, Tullio espresse ancora una volta il suo parere (“Mah!”), il tutto mentre il Professore vuotava diligentemente il suo bicchiere e Gosto ascoltava in silenzio.
E fu quando la situazione stava ormai degenerando, col Guerrino e il Pelati che già s’erano afferrati per i vestiti, che un inconfondibile tanfo si diffuse nel bar; la porta si spalancò e apparve il Tanello, piccolo, vecchio, gambe storte e svariati mezzi litri in corpo, venuto a vedere se non fosse possibile scroccare un bicchiere da qualcuno.
Già il fatto che Tanello fosse perennemente sotto spirito lo rendeva poco popolare; che puzzasse anche di caprone era un ulteriore peggioramento alla sua immagine, anche se tutti sapevano che dormiva nelle stalle e che quindi non poteva, per forza di cose, odorare di violetta. Ma c’era l’aggravante che, pur di farsi offrire da bere, Tanello andava persino all’odiato Bar Sport della piazzetta, notorio covo di milanisti. Un simile tradimento verso la squadra cittadina non era tollerabile, per cui i cinque salutarono in fretta la Morena, pagarono quel che dovevano ed uscirono, lasciando gli altri avventori a vedersela col Tanello, la sua sbornia e soprattutto i suoi afrori.


Salutati gli amici, Gosto salì sul suo motorino e partì verso casa, una fattoria che si raggiungeva infilando una stradetta bianca, meglio dire fangosa, tra i filari dei peschi.
Ombra, il vecchio cane da caccia ispido e nero, venne subito a fargli le feste; Gosto andò a controllare che il pollaio fosse chiuso, diede uno sguardo alle vacche e poi andò a guardare la distesa di grano dietro casa: una meraviglia, sotto la luna pareva un mare d’argento… mancava poco, pochissimo, e poi sarebbe stato il momento di mietere. Quell’anno, sarebbe stato un grande raccolto.


Un baccano apocalittico lo fece balzare dal letto.
Gosto guardò la sveglietta sul comodino: quasi le cinque di mattina. Beh, non era così presto…
Altro fracasso… sembrava… uno scoppio?
Un altro… e Ombra che abbaiava, disperato.
– L’è la guera!? – balzò in piedi, e in mutande e maglietta com’era si mise in testa il cappello, corse al piano di sotto, tolse il catenaccio alla porta, ci ripensò, andò a prendere lo schioppo, si slanciò fuori e fece un fischio al cane, che subito gli corse vicino; il rumore veniva dal retro.
Si precipitarono dietro casa, là dove si stendeva il grano; e là, nel bel mezzo del suo campo così amorosamente coltivato stava succedendo quello che Gosto mai e poi mai si sarebbe immaginato di dover vedere.


- continua -

Per chiedermi che c'entra tutto questo con Actarus & C. : https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2415#newpost
 
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Arriva Actarus!!! :goldrake:



L’attacco era avvenuto come al solito: un mostro tutto zanne, un nutrito stormo di minidischi. Actarus e i compagni erano usciti ed erano andati ad intercettarli, e come sempre, mentre i mezzi ausiliari s’occupavano dei minidischi, stavolta tanti e davvero agguerriti, Actarus se l’era dovuta vedere col mostro, ai cui comandi c’era nientemeno che Hydargos in persona.
Da subito si era capito che sconfiggere il mostro non sarebbe stato così semplice: Zuril aveva superato sé stesso creando una macchina da guerra letale ed efficientissima, ed Hydargos pareva intenzionato a fare carne in scatola di Actarus e del suo robot. Lo scontro fu dunque tremendo, con grande uso di bombe al vegatron e lame rotanti. Poi i due avevano preso ad inseguirsi, sempre con grande spiegamento di armi. Si erano lasciati indietro il Giappone, avevano combattuto nei cieli della Thailandia, dell’India, del Medio Oriente, della Grecia… e poi erano atterrati in un grande campo che sembrava fatto apposta per la battaglia finale. Per forza di cose Actarus non era ferrato in geografia terrestre, ma aveva la netta sensazione di essere finito in un qualche punto del nord Italia. Era dispiaciuto, ma la guerra è guerra…


Sotto gli occhi attoniti di Gosto, due enormi mostri metallici stavano dandosele di santa ragione, sparandosi addosso ogni serie di diavolerie, picchiandosi con una specie di mazza l’uno e con un bastone con due falci l’altro, il tutto naturalmente pesticciando e bruciando il grano.
Sconvolto, Gosto rimase attonito a fissare il tutto, la mascella pendula, mentre Ombra gli si nascondeva dietro le ginocchia, mugolando.


Un colpo d’Alabarda seguito da un Tuono Spaziale, e il mostro di Vega crollò a terra, sconfitto.
Il finestrino s’infranse nell’urto e Hydargos venne catapultato fuori, rotolando al suolo.
Per qualche istante rimase immobile, stordito; poi si rese conto di essere incolume, a parte un paio di lividi, e si rimise in piedi. Si guardò rapidamente in giro: era finito in una specie di campo di erbe alte. Doveva trovare un nascondiglio per evitare Goldrake, che non s’era accorto del fatto che si fosse salvato, e poi mettersi al più presto in contatto con Skarmoon.
Proprio allora si udì un grido di sofferenza totale, l’ululato dell’uomo che vede distrutto in pochi minuti mesi e mesi di duro lavoro.
– EL ME GRAN!!!
Gosto rimase attonito, lo schioppo in una mano e l’altra che gli schiacciava il cappello sul cranio, gli occhi enormi nel guardare la catastrofe, il tutto mentre tirava giù dalle nuvole tutti i Santi del Paradiso… poi vide l’essere che vi si trovava in mezzo, e che per uscire da lì stava pestando anche le piante che si erano salvate dal disastro. Era blu! Un E.T., pure! Nel suo campo! A far danni! Ma perché quella gente non se ne stava a casa propria?
Gosto non ebbe esitazioni; imbracciò lo schioppo e fece un fischio al cane: – Ombra, ciàpelo!
In un istante Hydargos capì che prima di cercare il nascondiglio avrebbe dovuto affrontare umano e bestia; la mano gli corse rapida alla pistola che teneva nella fondina appesa al fianco… niente. Non c’era. Nella caduta l’aveva persa ed era finita chissà dove.
Vide il cane arrivare a tutta velocità, nero, le zanne candide e digrignanti; una schioppettata, e una rosa di pallettoni gli sfiorò il cranio.
A quel punto, fece l’unica cosa che avrebbe potuto fare: scappare.


Dall’alto, Actarus ghignò vedendo il suo nemico di sempre correre disperato inseguito da un cane inferocito e un contadino che sparacchiava, piuttosto a casaccio bisogna dire; ma fu un attimo. In lui la generosità prevalse: nemmeno Hydargos meritava un simile castigo… senza contare il fatto che a distruggere il campo aveva contribuito pure lui, e non poco.
Calò dall’alto, allungò una mano e raccolse al volo Hydargos proprio nell’istante in cui il cane riusciva ad addentargli il fondo dei pantaloni: un breve tira tira, poi il cane mollò la presa e ricadde nel grano, tenendo fieramente un pezzo di stoffa tra le fauci. Il contadino sparò un paio di schioppettate, i pallini rimbalzarono su Goldrake senza nemmeno scalfirlo. Actarus puntò verso l’alto, allontanandosi in fretta, e scomparve nell’azzurro.
– Tutto bene? – chiese a Hydargos.
– Direi di sì – rispose, dopo essersi tastato amorosamente il posteriore per controllare che ogni cosa fosse al suo posto – Quel cane era una belva.
– Faceva solo il suo lavoro.
– ‘zie – brontolò, zanne strette.
– L’ho fatto per il cane – assicurò Actarus – Povera bestia, se ti avesse morso sarebbe finito avvelenato.


Per inseguire Hydargos, Gosto e Ombra s’erano allontanati parecchio dal mostro; fu un bene, perché quando esplose rimasero illesi.
Poco dopo, un uomo e un cane erano in piedi, immobili a contemplare desolatamente quel che restava d’un meraviglioso raccolto.


Successe poi quel che doveva succedere.
Frotte di curiosi a vedere la devastazione, giornalisti, televisioni, esperti in materia UFO, autobus carichi di turisti venuti a vedere il campo in cui due mostri spaziali si erano battuti all’ultimo sangue. Persino un invasato che sosteneva si fosse trattato dello scontro di due demoni preannunciante la fine dei tempi.
Gosto, intimidito e sconvolto, fu intervistato e ri-intervistato, assalito dai fans, subissato di domande, invitato in vari salotti televisivi; persino il cane Ombra ebbe la sua notorietà e fu fotografato intento a grattarsi una pulce particolarmente molesta. Titolo della foto: “A caccia di un nuovo mostro”.
Il campo fu picchettato dai militari, i rimasugli contorti e bruciacchiati vennero portati via in gran segretezza in scatoloni con la scritta “Top Secret”, il tutto agendo in modo che nessuno sapesse; e naturalmente, in paese non si parlava d’altro.
Persino il brandello di stoffa dei pantaloni di Hydargos fu esaminato dagli esperti, che si divisero subito tra chi pretendeva fosse tessuto di origine extraterrestre e chi spergiurava che fosse di fabbricazione umana. Una notissima trasmissione televisiva invitò lo sbalordito Gosto, che occhi sbarrati e voce balbettante dovette mostrare su un plastico, allestito per l’occasione, come fosse avvenuto lo scontro e come lui e il cane vi avessero avuto parte.
Seguirono altre trasmissioni, l’allibito Gosto fu contesissimo: apparve praticamente dovunque, come ebbero a commentare gli amici vedendolo per l’ennesima volta nella TV dell’Hellas Bar, “tra ‘n po’ el se fa vedar a San Piero col Papa”.
Alla fine la faccenda sembrò rientrare, anche se turisti vari continuavano i loro pellegrinaggi sul campo. Gosto, frastornato, era diventato una sorta d’eroe cittadino: venne accolto in stazione da tutto il paese con tanto di banda, Tanello e striscioni gialloblù dell’Hellas, che non c’entravano nulla ma non guastavano mai. Il sindaco propose di aggiungere al cartello col nome del paese “Campo di guerra degli UFO” e la popolazione applaudì, entusiasta. Il Bar Sport era già diventato UFO Bar… i soliti milanisti.
Stufo di tutto, Gosto tornò finalmente a casa dalle sue galline e le sue vacche, e Ombra gli corse incontro e andò a leccargli la faccia.
Le comparsate in TV e le interviste gli avevano fruttato un discreto gruzzolo, infinitamente superiore a quel che avrebbe preso dal raccolto, ma per uno come lui, agricoltore nell’animo, quel campo di grano devastato restava una ferita bruciante.
Di tutta quella faccenda, sapeva solo una cosa: che non ne poteva più. Non voleva più sentir parlare di UFO.
O meglio, ne avrebbe voluto parlare ancora una volta. Una sola.


Quella sera, come non faceva da troppo tempo, Gosto rientrò al Hellas Bar: almeno lì era rimasto tutto come sempre, con la TV, le foto della squadra, gli striscioni gialli e blu ovunque e la Morena con la sua cavejara nera che sorrideva dietro al banco.
Rassicurato, Gosto guardò verso il loro solito tavolo: Guerrino, Tullio, Pelati e il Professore che lo aspettavano, tutti sorridenti. Si tornava alla normalità, finalmente.
Andò a sedersi, Pelati gli portò un bicchiere di rosso. Gosto lo vuotò, e finalmente disse quel che aveva in corpo da troppo tempo: – Profesor, te g’avevi torto! Eto visto che i UFO i esiste, ustinate?
Il vecio Richetti lo guardò con la superiorità dell’infallibile oracolo.
– Mi no g’avea parlà de mostri, ma de dischi volanti – rispose, serafico – E dischi volanti, mi, no ghe n’ho visti.
Gosto digrignò i denti.
Il Professore aveva sempre ragione.


FINE


Link per esprimere solidarietà con Ombra: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2430#lastpost
 
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Racconto che avevo da un pezzo da parte e che sono riuscita a rifinire solo in questi (convulsi) giorni.

Cos'era successo a Shiro in montagna?

Un grazie a tutti quelli che mi hanno chiesto questo racconto, senza di loro non credo che l'avrei scritto. :wub:


IL PICCOLO MONTANARO


Avendo avuto l’eccitante possibilità di trascorrere ben venti giorni col fratellino, Alcor s’era sentito generoso: perché godere lui solo della compagnia di Shiro, quando avrebbe potuto dividere tale gioia con altri? S’era perciò affrettato a chiedere ad Actarus e Procton se non sarebbero stati felici di fare un’escursione in montagna tutti insieme; i due, che non appena entravano in contatto con Shiro sentivano impulsi infanticidi emergere prepotentemente, avrebbero rifiutato senza pensarci due volte se non avessero incontrato lo sguardo disperato di un pover’uomo condannato al fratello coatto. Accettarono. Cosa non si fa, per un amico?
Rimasto solo col figlio, Procton ripensò a Shiro, alla montagna… un vecchio motivetto cui non ripensava da anni gli venne alle labbra. Vecchi ricordi della sua gioventù, quando mamma l’aveva costretto a studiare pianoforte, con scarso profitto bisogna dire.
In pieno raptus musicale andò ad aprire il vecchio strumento, l’antico ricordo di casa che rimaneva sempre silenzioso in un angolo. Le mani corsero alla tastiera, e il motivetto allegro e saltellante prese a risuonare… Actarus s’affacciò dalla sua stanza.
– Cos’è? – chiese, incuriosito.
– Un brano che ho studiato da bambino – rispose suo padre.
– E s’intitola?
– Il Piccolo Montanaro – chiuse il piano – A dire il vero, lo odiavo. Pensando a Shiro mi è venuto in mente. Chissà perché.


Shiro venne informato della gita e si mostrò entusiasta: amava la montagna, gli piaceva cercare fragole e more nei boschi, amava il suono del campanaccio delle mucche che pascolavano nei prati… insomma, andò tutto benissimo fino a quando, per l’appunto, non spuntò il gran giorno.
Un mattino, Alcor entrò nella camera di Shiro, aprì le finestre facendo entrare la luce e annunciò in tono gaio che era ora di alzarsi.
Un mugolio dalle profondità del letto gli fece capire subito che la faccenda non sarebbe stata tanto facile.
In effetti, far alzare Shiro dal letto era un’operazione complessa anche se Tetsuya, ferreo sostenitore del metodo “strappa-via-le-coperte” non aveva mai avuto eccessivi problemi in merito. Alcor, di natura più gentile, si scontrò subito con la dura realtà: il fratellino non aveva alcun desiderio di alzarsi. A parer suo, le vacanze erano fatte per dormire fino a tardi, e poco importa se si deve andare a una gita in montagna…
– Ehi, t’avevo detto che oggi ti saresti dovuto alzare presto! – esclamò suo fratello – Che poi non è così presto, sono quasi le otto.
– Mmmmhf – mugugnò Shiro, voltandosi dall’altra parte.
Alcor cominciò a decantare la bellezza di quanto li attendeva: paesaggi meravigliosi, boschi, fiori, picnic sull’erba… niente.
Provò allora la versione recriminatoria: erano d’accordo per andare in montagna, Shiro stesso ne era stato entusiasta, solo che il giorno prima invece di andare a letto presto aveva perso un sacco di tempo alla playstation. Colpa sua se aveva sonno, era stato avvertito.
Niente.
A questo punto Tetsuya sarebbe passato senza indugio alla fase due della sveglia: se lo strappo delle coperte non era sufficiente, lui afferrava il materasso e lo rovesciava, scodellando Shiro sullo scendiletto. Alcor, più gentile, provò il solletico, e non ottenendo niente giunse a promettere una doccia d’acqua fredda: il piccolo non cedette, sicuro che la minaccia fosse a vuoto. Quando vide arrivare Alcor armato di secchio (pieno), balzò dal letto, ma attaccò subito con una delle sue sempiterne geremiadi: era stanco… aveva sonno… e Alcor era cattivo, ovviamente.
Il fratello gli abbaiò di far colazione, vestirsi e soprattutto sbrigarsi; in piena crisi di autocommiserazione, Shiro prese il cellulare e telefonò a Tetsuya, deciso a lamentarsi dell’inumano trattamento riservatogli. Sapeva della rivalità esistente tra i suoi fratelli maggiori: sicuramente avrebbe ricevuto simpatia e comprensione…
– Sì, Shiro, che ti succede? Stai poco bene?
– Oh, Tetsuya – vocina lacrimevole – Alcor è cattivo! Ti pare giusto che debba alzarmi a quest’ora? Sono in vacanza!
Silenzio dall’altra parte: sicuramente Tetsuya era rimasto scioccato dall’orrore. Far alzare un povero bambino alle otto, che diamine!
– …Lui dice che vuole portarmi in montagna, ma io ho sonno, è prestissimo, io…
A quel punto, dall’altra parte gli giunse un ruggito potente seguito da qualche termine che Shiro, pur andando a scuola ed avendo quindi una buona conoscenza di parolacce, mai avrebbe osato ripetere. La comunicazione venne tolta con uno scatto così secco da far ammutolire il bambino che, buono buono, andò subito in cucina dove l’attendeva il suo tè coi biscotti (a parecchi chilometri di distanza Tetsuya, aggrappato assieme a Jun ai pali della tenda nel tentativo di non perderla causa uragano, stava imprecando contro i fratelli minori lagnosi e distruttori di maschili attributi).
Non troppo tempo dopo, Alcor e Shiro raggiunsero Actarus e Procton che li aspettavano, zaini in spalla e bastoni in mano. Saliti su una jeep, i quattro si avviarono verso quella che sarebbe sicuramente stata un’indimenticabile avventura.


Procton era un amante della montagna, di cui era un esperto conoscitore.
Sapendo di avere Shiro con sé, il professore aveva scelto un percorso facile e bello: un sentiero che attraversava un bosco, aprendosi poi in una radura con un grazioso laghetto con cascatella vicino al quale avrebbero potuto fare picnic. Nel pomeriggio, invece di tornare indietro avrebbero continuato il giro passando lungo dei pascoli e percorrendo una sorta di anello sarebbero quindi tornati al punto di partenza. Il paesaggio era variato e presentava delle bellissime vedute, il sentiero non era erto e Shiro avrebbe potuto ammirare dei bellissimi fiori rari e cogliere le more.
Parcheggiata la jeep in uno spiazzo di lato alla strada, i quattro misero gli zaini in spalla e presero i loro bastoni; poi, guidati dal professore s’incamminarono per un sentiero che spariva tra gli alberi.
Si trattava di un bosco davvero bello, che ebbe il potere di lasciare Shiro in ammirato silenzio per almeno qualche minuto; poi il pargolo riprese il consueto chiacchiericcio, commentando tutto quel che vedeva, strillando ogni volta che avvistava un fiore o un fungo e stupendosi del fatto che non si vedesse alcun animale.
– Con tutto il baccano che fai, non c’è da stupirsene! – gli fece notare Alcor. Shiro ammutolì, finalmente.
Ripresero la strada, Procton per primo. Il motivetto, chissà perché, gli era tornato in mente, per cui prese a canticchiarlo a mezza voce.
Erano ormai entrati in un bosco: era verde, fresco, silenzioso, dall’atmosfera quasi incantata. Meravigliosi ciclamini profumati spuntavano ovunque, formando una sorta di leggero tappeto rosa. Pareva impossibile non veder spuntare qualche fata o qualche gnomo…
– Che meraviglia!!! – strillò Shiro, mandando all’aria ogni incanto – Adesso raccolgo un mazzo di ciclamini!
– Nemmeno per sogno! – lo bloccò Alcor – Se ci beccano, è una multa salatissima!
– Sono fiori protetti – ammonì Procton – Pensa un po’ che succederebbe se tutti raccogliessero un grosso mazzo di ciclamini!
– Ne spunterebbero altri? – chiese Shiro.
– Sarebbe un danno gravissimo! – esclamò Procton, che a dispetto della sua pacatezza stava sentendosi scaldare le orecchie.
– Ma se non si sradicano le piante… – insisté Shiro, convinto.
– I ciclamini non si toccano e basta! – scattò Alcor, mentre Actarus batteva sulla spalla del padre per tranquillizzarlo. Inutile, quel ragazzino era capace di scatenare i peggiori istinti. Improvvisamente, Procton ripensò a Erode, sterminatore di infanti, e si disse che qualche scusante doveva averla pure lui.
Ripresero a camminare seguendo il sentiero; gli alberi si aprirono davanti a loro in un piccola radura assolata. Subito s’accorsero di un uomo che stava venendo loro incontro sullo stesso sentiero. Un agente della forestale… anche se non avevano fatto nulla di riprovevole, subito i tre adulti si fecero un rapidissimo esame di coscienza. No, erano in regola.
– Buongiorno! – li salutò l’agente – Andate in cerca di funghi?
– Stiamo solo passeggiando – rispose affabilmente Procton.
– E poi non abbiamo cesti per i funghi – precisò Actarus.
– Non ci sogneremmo mai di usare sportine di plastica – aggiunse Alcor.
L’agente sorrise e fece per proseguire, quando si udì un urlo trionfale e Shiro si fece avanti, ostentando un meraviglioso fiore color fiamma: – Guardate cos’ho trovato!
Un giglio di montagna, ancora più raro dei ciclamini… Actarus e Procton impietrirono, mentre Alcor rimpiccioliva a vista d’occhio sotto lo sguardo d’acciaio della guardia.
– Uh? Qualcosa non va? – chiese Shiro, incosciente.


Predicozzo sull’educare i piccini al rispetto della Natura e multa a parecchie cifre fu l’immediata conseguenza. I tre si allontanarono trascinandosi dietro il pargolo che continuava a ripetere che gli avevano detto di non cogliere i ciclamini, nessuno gli aveva parlato di gigli… Alcor, il portafogli desolatamente vuoto, gli abbaiò di chiudere la ciabatta, Actarus si trattenne a fatica dal mollargli un ceffone e Procton canticchiò ancora il suo motivetto dicendosi che Erode sicuramente le sue ragioni le aveva avute.
Rientrarono nel bosco. Qui trovarono grandi cespugli carichi di more, per cui tutti si rasserenarono e diedero il via a una vera e propria scorpacciata; c’era, è vero, il sottofondo del frignottio di Shiro che ovviamente continuava a pungersi con le spine, ma i frutti erano davvero squisiti.
Ripresero la passeggiata: Shiro cominciò a tormentare Procton con domande e domande, e il professore rispose dando prova di una pazienza davvero considerevole. Certo, in montagna possono esserci dei serpenti… sì, le vipere sono pericolose… no, non sono aggressive… fanno la tana sottoterra, se si vede un buco tondo nel terreno facilmente si tratta della tana di un serpente.
Ormai era metà mattina: trovando un grosso tronco gettato a terra, decisero di fare una breve pausa. Sedettero, il professore aprì un thermos pieno di tè freddo, Actarus e Alcor aprirono due tavolette di cioccolata. Shiro ne mangiucchiò un paio di quadretti e cominciò ad esplorare in giro, mentre i tre prendevano a chiacchierare amabilmente tra di loro.
Un urlo disumano li fece schizzare in piedi: poco più in là Shiro stava eseguendo una specie di danza selvaggia, mentre un grosso serpente gli azzannava un dito.
I tre partirono al salvataggio, ma la serpe mollò la presa e scomparve nella sua tana, non senza aver gettato loro un’occhiata scocciatissima.
– Una vipera! – singultò Shiro – Morirò!
– Fammi vedere! – Procton gli prese la mano e l’esaminò attentamente: – No, non c’è pericolo. Questo non è il morso di una vipera, ma di una semplice biscia.
– V-vuol d-dire c-che n-non c-corro p-pericoli? – gemette l’infortunato.
– No! – rispose il professore, severo – Quelle bisce sono molto tranquille. Cos’hai fatto per farla arrabbiare?
– Ma niente… io…
Occhiacci dei tre adulti; finalmente venne fuori la verità. Shiro aveva visto la buca in terra, aveva capito che doveva essere una tana e aveva voluto dare un’occhiata… anche un’esploratina, voleva vedere se c’erano uova di serpente, e quella bestiaccia…
– La bestiaccia aveva perfettamente ragione! – sbottò Alcor. Altro predicozzo, stavolta sul rispetto per gli animali, e occhiata d’intesa tra Actarus e suo padre: Erode era stato sicuramente infangato dai posteri.
Disinfettato il morso, ripresero la passeggiata: ormai erano vicini al laghetto, dove avrebbero potuto fermarsi a pranzare.
Il posto si rivelò incantevole: una polla limpidissima con una piccola cascata. Sullo sfondo, alberi e montagne. Persino Shiro si lasciò sfuggire un grido d’ammirazione… peccato che poco dopo riprese con i consueti lagni. Alcor gli aveva portato due panini al salame, a lui piaceva il prosciutto cotto… anche il formaggio, o la pancetta, ma il salame no! E con l’aglio, pure! Come, non c’era una lattina di coca? Nemmeno un’aranciata? E cosa avrebbe potuto bere, dunque? Acqua? Ma scherziamo? E non c’erano patatine fritte e maionese? Neanche il ketchup? E lui come avrebbe fatto a mangiare i panini, che oltretutto erano zeppi di salame all’aglio? Eccetera.
Altra occhiata tra Actarus e il padre: Erode era stato evidentemente calunniato, pover’uomo.
Un breve riposino, interrotto da Shiro che si stava stufando, e nessuno che giocasse con lui, o almeno gli raccontasse una storia, o…
– Peggio per te se ti annoi! – sbottò Alcor – Potevi portarti via un giornalino, o un qualche gioco!
Broncio. Nemmeno Tetsuya l’avrebbe trattato mai così… e questo era vero, naturalmente, perché il ruvido fratellone l’avrebbe sicuramente trattato peggio, strigliandolo a dovere.
Nel silenzio che seguì, s’udì distintamente Procton fischiettare il solito motivetto.

- la fine domani -

Link per difendere l'operato di Erode il Grande: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2445
 
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view post Posted on 15/10/2015, 17:09     +1   -1
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Seconda e ultima parte


Ripresero la passeggiata: erano un po’ stanchi ed avrebbero preferito riposare ancora un poco, ma tutto era preferibile al sentire i lamenti di Shiro.
Ormai ci sarebbe stato un ultimo breve tratto di bosco e poi si sarebbero trovati nei pascoli. Gli alberi infatti erano meno fitti; Procton apriva la fila, seguito da Actarus e Alcor. Shiro, di pessimo umore, camminava a diversi passi di distanza: era stufo, quella gita era faticosa, gli adulti noiosi… se solo fosse successo qualcosa di eccitante… ma che vuoi che succeda, in una stupida montagna?
Poi, era davvero arrabbiato: aveva un gran bisogno di sfogarsi, avrebbe voluto prendere qualcosa a calci o a sassate…
Vedendo un grosso oggetto giallastro e ceroso pendere da un albero, Shiro non pensò “alveare, tenersi a distanza”.
No, nella mente dello sciagurato fanciullo il pensiero fu “ottimo bersaglio da tirare giù a sassate”.
Bastò una pietra, una sola: un colpo secco all’alveare, e in un nanosecondo uno sciame nero e minacciosissimo fece la sua apparizione, pronto a far scempio dell’incauto che aveva osato disturbare.
Urlo di Shiro, che fece voltare di scatto i tre adulti.
Erano uomini rapidissimi di pensiero ed azione: trovandosi al cospetto di qualche migliaio d’api inferocite non si persero in inutili commenti e se la diedero a gambe, trascinando con loro anche il disgraziato infante. Ci fosse stata una pozza d’acqua, sarebbe stata la salvezza… le api incalzavano… gli alberi si aprirono, un laghetto apparve improvvisamente davanti a loro e i quattro vi si tuffarono, mentre le api ronzavano furiosamente sopra le loro teste.
Per un po’ di tempo i quattro dovettero rimanere il più possibile sott’acqua, riemergendo solo di quando in quando quel tanto che bastava per respirare; poi finalmente le api tolsero l’assedio, e fu un bene, perché i quattro avevano ormai scoperto a loro spese che il “laghetto” non era certo una limpida polla d’acqua di montagna, bensì la piscina privata di un’intera famiglia di porci.
Uscirono dal liquame sotto lo sguardo seccatissimo dei legittimi proprietari della pozza, che grugnirono tutta la loro disapprovazione.
Erano fradici e luridi: persino il professore, con i capelli in disordine e i baffi che tiravano ad arricciarsi, era completamente diverso dallo scienziato lindo ed impeccabile di sempre; ma di questo a Shiro importò poco, perché Alcor l’acchiappò e diede il via a una sgridata che nulla aveva da invidiare alle proverbiali prediche di Tetsuya. Shiro ammutolì, non osò profferir lagno e dovette ammettere di avere torto marcio. In effetti, prendere a sassate un alveare non è una grande idea.
Altra occhiata d’intesa tra Actarus e Procton: Erode era un pover’uomo ingiustamente accusato.
Vedendo gli adulti così infuriati nei suoi confronti, Shiro si guardò mestamente attorno, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare per rasserenare un poco gli animi; proprio allora scorse un porcellino delizioso, tutto roseo e paffuto. Pieno di buone intenzioni di fare amicizia Shiro andò a coccolare il piccolo, che spaventato fece per tirarsi indietro; il bambino allora l’afferrò e lo prese in braccio, voltandosi verso i grandi: – Guardate com’è carino!
Il cucciolo prese ad agitarsi pazzamente, spaventatissimo, e lanciò un paio di strilli; e proprio mentre Alcor stava redarguendo il fratello dicendogli di mettere subito giù il porcellino, un possente grugnito di battaglia echeggiò tra i pascoli e il terreno parve tremare sotto ai loro piedi. Dall’alto di una collinetta la mamma del piccolo stava arrivando a gran carriera, un rapidissimo siluro rosa da un quintale e mezzo e dalle attrezzature idrauliche sobbalzanti, pronta a difendere con ogni mezzo il sangue del suo sangue.
Cercar di chiarirsi con una colossale scrofa inferocita che ti sta caricando a tutta velocità non è una grande idea. Shiro mollò il porcelletto ma questo non arrestò certo mamma, che lanciò un nuovo grugnito furioso… sempre più vicina, sempre più vicina, enorme, furibonda…
I quattro agirono come un sol uomo: partirono di corsa puntando verso un muretto di pietra e lo scavalcarono; fortunatamente, mamma scrofa era veloce ma poco agile, per lei un ostacolo alto un metro restava appunto un ostacolo. Grufolò tutto il suo sdegno; poi fece dietrofront, s’allontanò con la dignità d’una duchessa offesa e andò a recuperarsi il pargolo.
Col fiato corto e i capelli ritti, Procton guardò esterrefatto il muretto: non più giovanissimo, aveva saltato un metro senza nemmeno rendersene conto! Potenza d’una scrofa imbestialita.
Procton gettò uno sguardo ben poco amichevole verso Shiro: Erode era un uomo che indubbiamente aveva avuto i suoi buoni motivi.
Sbuffò, si rimise in marcia e gli altri lo seguirono. Prese a modulare il Piccolo Montanaro, e stavolta Actarus si unì al canto.


La passeggiata riprese.
Il sentiero attraversava i pascoli, costeggiando poi un grande recinto in legno. Alcune vacche ruminavano placidamente sull’erba, lontane; una sola brucava ancora margherite, guardata amorosamente da un vecchietto.
I quattro salutarono, e il mandriano si mostrò subito felice di scambiare due chiacchiere. Chiesero notizie della strada, poi Actarus deviò il discorso sulle mucche: deformazione professionale, senza dubbio. Il vecchio amava profondamente le sue bestie, di ognuna avrebbe potuto dire nome, vita e miracoli.
– E quella? – chiese Shiro, additando la mucca solitaria.
– Oh, quella – il vecchio la guardò con affetto – È la vecchia Asami. È stata la mia migliore vacca da latte in assoluto.
– “È stata”?
– Certo, figliolo. Adesso è vecchia e di latte ne fa poco, e c’è chi dice che solo uno scemo come me non ne farebbe bistecche… ma che volete, le sono troppo affezionato.
– Vi capisco perfettamente – sorrise Actarus.
La mucca continuava a pascolare placidamente: nonostante l’età era ancora uno splendido animale, dal lucido manto marrone e dai grandi occhi dolci e sognanti. Il nome Asami, Bellezza del Mattino, le stava a perfezione.
– Shiro, cosa fai? – chiese Alcor, vedendo il fratellino arrampicarsi su per lo steccato.
– Oh, lasciatelo fare – il vecchio sorrise, indulgente – La mia Asami è la mucca più tranquilla e paziente che possiate immaginarvi.
– È Shiro, che non è tranquillo – osservò Actarus.
– Ma non sto facendo niente! – e Shiro saltò sull’erba andando verso Asami, che brucava beatamente le margherite.
– Meglio che continui a non far niente! – l’avvertì Alcor.
Shiro sbuffò: che noia i fratelli maggiori!
– Credo che dovrebbe venir fuori da quel recinto – disse Procton, nervoso. Shiro e una mucca… non si sentiva tranquillo, e con ragione.
Il vecchio sorrise ancora: quanto erano apprensivi, quei cittadini! – Ma state tranquilli, la vecchia Asami non gli farà nulla.
– Non è questo il problema – rispose Procton.
– Semmai, è quel che può fare lui a quella povera bestia! – aggiunse Actarus.
Asami considerò con olimpica indifferenza il piccolo umano che le si stava avvicinando: spirito placido e contemplativo, lei era per il vivi-e-lascia-vivere. Nonostante avesse una vocetta querula vagamente irritante, la mucca non fece una grinza vedendolo avvicinarsi: cosa avrebbe potuto farle, quel cucciolo?
Shiro gettò un’occhiata agli altri: stavano chiacchierando col vecchio. Ottimo.
Se c’era una cosa che aveva sempre desiderato, era cavalcare una mucca: quel piantagrane di suo fratello Alcor non gliel’aveva mai permesso, e quanto ad Actarus, che lavorando in una fattoria avrebbe anche potuto accontentarlo, l’aveva sempre ammonito di lasciar stare gli animali. Che pizza! Meno male che il vecchio aveva detto che la bestia era buona e tranquilla, stavolta la cavalcata sarebbe riuscito a farla.
S’avvicinò alla vacca (tanto era buona!), le si mise di fianco e cercò di afferrarsi alla sua groppa per saltarvi sopra; Asami non si scompose e gli allungò un colpetto di coda d’avvertimento. No, piccino, questo non si fa.
Purtroppo per lei, cercar di dissuadere Shiro dal far qualcosa significava solo renderlo ancora più deciso nel suo proposito. Nuovo tentativo di scalata dell’animale, altro colpo di coda, stavolta più forte. Piccolo, ho detto di no.
Shiro strinse i denti: forte del fatto che i quattro adulti si erano momentaneamente distratti (ora o mai più!) si aggrappò all’animale tirando, come ovvio, il pelo. Colpo di coda in piena faccia, ruzzolone nell’erba. T’avevo avvertito, marmocchio.
Shiro ribollì: non sarebbe certo stata una banale vacca a farlo desistere! Non era lui il fratello del grande pilota dello Z? I suoi fratellastri non guidavano il Great e Venus? Lui non poteva certo farsi sottomettere da una mucca! Sai quanto avrebbe riso Tetsuya, se l’avesse saputo… Balzò in piedi digrignando i denti, partì di corsa, saltò e si ritrovò a cavalcioni dell’animale.
Asami, come già detto, era una mucca particolarmente placida e mansueta: quel peso sul groppone cui non era abituata la sconvolse parecchio. Senza contare l’intollerabile prepotenza subita.
Prese quindi ad agitarsi, cercando di scuotersi di dosso il marmocchio: niente da fare, Shiro s’aggrappò saldamente alle corna, ben deciso a non mollare e ridendo degli sforzi inutili di Asami per liberarsi. Come non bastasse, le diede un colpo di tallone nei fianchi come aveva visto fare centinaia di volte nei film western e lanciò un vero urlo da cowboy.
A quel punto, la vacca lanciò un muggito che di buono e pacioso aveva ben poco, e prese a sgroppare selvaggiamente come un toro da rodeo. Strappati alle loro chiacchiere, i quattro adulti si voltarono giusto in tempo per vedere Shiro volare per aria, finendo con un volo preciso a capofitto in un gran mucchio di letame raccolto in un angolo della recinzione. Quattro mascelle crollarono, quella del vecchio per prima. La sua Asami, così calma ed pacifica…!
Shiro riemerse, coperto di, diciamo mota, dalla testa fino al fondoschiena.
– Che schifo! – strillò, ottenendo come risultato immediato di farsi colare in bocca un po’ di sano, naturale concime.
– Che schifo, sì! – gemette Alcor, sul punto di vomitare.
– Ma su, è tutta roba naturale! – ghignò Actarus. Niente da fare, Shiro solleticava i suoi istinti peggiori.
– La mia Asami… – il vecchio era sconcertato – Mai mi sarei aspettato…
– Vieni via da lì dentro! – ordinò Procton.
Fu uno Shiro sputacchiante quello che si rimise in piedi colando letame da tutte le parti; ma ahimé, fu anche uno Shiro piagnucolante, che prese a frignare sulla sua triste sorte di bimbo privato di mucca e addizionato a sani sottoprodotti naturali.
Asami, lo ripetiamo, era una mucca assolutamente buona e pacifica, molto tollerante e d’indole placida; purtroppo, la voce di Shiro aveva sui suoi nervi un effetto deleterio… diciamo che era appena un filo meno gradevole del rumore di un guanto in maglia di ferro grattato su una lavagna.
Il sangue le ruggì nelle vene: antichi antenati selvaggi sembrarono rivivere in lei. Asami abbassò la testa, lanciò un nuovo possente muggito e caricò con una potenza degna d’un toro furioso in piena corrida.
Le urla dei grandi fecero sussultare Shiro, che si rese subito conto d’essere proprio lui, e per la precisione il fondo dei suoi pantaloncini, l’obiettivo cui puntavano le corna di Asami. In un angolo del recinto era stato costruito un abbeveratoio: Shiro vi corse intorno tallonato dalla vacca furibonda, prese a girare sempre più veloce… più veloce… corse talmente in fretta che andò a finire contro il posteriore della mucca. Un calcetto ben assestato, e Shiro finì rotoloni fuori dal recinto, proprio mentre Actarus, balzato all’interno, andava ad afferrare la bestia, trattenendola.
Fu uno Shiro senza fiato, mogio mogio e con il fondoschiena dolorante quello che si trovò al cospetto di un fratello, un professore e un anziano contadino decisamente poco amichevoli: seguì una sgridata a tre voci, mentre Actarus calmava Asami sussurrandole dolci parole nell’orecchio peloso.
Erode era stato davvero un Grande.
Calmata la mucca, che comunque appariva decisamente sconvolta (e infatti i giorni successivi la produzione di latte avrebbe sofferto non poco), fatto chiedere a Shiro scusa all’anziano contadino, i quattro decisero che non era il caso di proseguire con l’escursione: non col bambino conciato a quel modo.
Seguì una discussione: come avrebbero potuto riportarlo a casa, così lercio? Lasciarlo salire in jeep così com’era? Fuori discussione, avrebbe insudiciato tutto in maniera irreparabile.
– Tanto varrebbe buttar via la jeep! – sbottò Alcor, che ben conosceva le capacità nefaste di suo fratello: se c’era modo di peggiorare un danno, Shiro l’avrebbe senz’altro trovato… andò a finire che il vecchio, dietro congruo pagamento, vendette loro il necessario per impacchettarlo, e Shiro fece il viaggio di ritorno con il corpo infilato in un sacco chiuso attorno al collo da un pezzo di corda. A casa sarebbero seguiti doccia, shampoo e bucato (a mano, fatto da lui) dei vestiti lerci.
Oltretutto, il fatto d’avere la testa piena di letame pronto a gocciolargli in faccia, e soprattutto in bocca, costringeva il fanciullo a tener ben serrata la medesima. Nemmeno un lagno sarebbe sfuggito alle sue labbra serrate… giustizia era fatta.
Rientrarono a casa, Shiro obbligato a tenere la bocca sigillata mentre tre uomini, finalmente vendicati dalla Giustizia Divina, cantavano a squarciagola il tema del Piccolo Montanaro.


FINE


Per tessere le lodi della vacca Asami: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2445#lastpost
 
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view post Posted on 27/10/2015, 19:39     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Halloween s'avanza! Posto la prima parte del racconto con protagonista... Shiro! E chi altri, se no? Stiamo parlando di insopportabili mostri, mi sembra.

La conclusione domani.


DOLCETTO O SCHERZETTO?


Halloween ebbe inizio nel peggiore dei modi.
La mattina del 30 ottobre, molto presto, il campanello suonò perentorio strappando Alcor dallo stretto contatto con materasso e coperte; il giovane andò ciabattando ad aprire la porta, trovandosi così al cospetto di Tetsuya, sveglissimo, sprizzante energia e soprattutto perentorio.
– È giusto che il ponte di Halloween tu lo trascorra con tuo fratello – disse, venendo subito al punto come sua abitudine; e senza por tempo in mezzo sospinse in avanti Shiro, con annessi una sacca di vestiti e un grosso pacco incartato. Quindi, prima che l’insonnolito Alcor riuscisse a spiccicar parola, e soprattutto cominciasse a trovar scuse per sottrarsi ai propri doveri, Tetsuya risalì in macchina e sgommò via.
– Ciao, Alcor! – esclamò Shiro, giubilante – Hai visto che bella sorpresa? Passerò con te il fine settimana di Halloween! Sei contento?


In ore antelucane, Alcor era troppo addormentato per avere i riflessi rapidi; nel corso della mattinata però le sue funzioni cerebrali ripresero a funzionare correttamente, e all’improvviso il giovane ricordò d’avere tanti impegni di lavoro al laboratorio… tantissimi… che peccato, non avrebbe avuto tempo per stare con il fratellino… ma per fortuna, aveva già la soluzione pronta: Shiro si sarebbe trasferito alla fattoria, dove tra l’altro avrebbe trovato in Mizar un compagno di giochi.
Senza por tempo in mezzo, Alcor caricò fratello, sacca e pacchetto in macchina e scaricò il tutto a Venusia, andandosene subito via “perché all’osservatorio mi stanno già aspettando”.
Venusia era una donna forte, capace di affrontare a testa alta le peggiori disgrazie: guardò per l’appunto Shiro, sospirò lievemente e gli disse che gli avrebbe preparato un letto nella stanza di Mizar.
Quel che gli tacque furono due o tre cosette che avrebbe prima o poi ringhiato ad Alcor, una volta che l’avesse potuto acchiappare.


Nonostante avesse un pessimo ricordo della precedente permanenza di Shiro alla fattoria, Mizar accolse l’ospite con la cordialità del vero gentiluomo: era troppo educato per fare storie, e comunque un fine settimana sarebbe passato presto.
– Domani è Halloween! – esclamò Shiro, sistemando con cura sul suo letto il pacco incartato – Ci divertiremo un sacco!
– Io non ho mai festeggiato Halloween – disse Mizar – Qui non si usa.
– Ma si usa in America, e mio fratello Alcor, che è stato là, mi ha spiegato tutto! Ci si traveste da mostri e si va a chiedere dolci ai vicini di casa. È molto divertente; e poi si ricevono tante cose buone, caramelle, cioccolatini…
– Yum!!! – esclamò Mizar, convinto, rabbuiandosi subito dopo: – Shiro, noi non abbiamo un costume da mostro!
– Io ce l’ho! – e Shiro aprì il pacco: un bellissimo costume da goblin, tutto verde, con tanto di maschera orrorifica – Me l’ha portato Alcor dall’America!
– Fantastico! – esclamò Mizar, convinto. Poi, colto da un’idea improvvisa corse da Venusia: non avrebbe potuto avere un vecchio lenzuolo, di quelli talmente sdruciti da venire tagliati in pezzi per farne stracci?
Sua sorella capì subito a cosa gli servisse e riuscì a scovargliene uno in fondo ad un armadio. Due buchi per gli occhi, e Mizar si trasformò in fantasma.
La sera dopo, un goblin verde e un fantasmino bianco, sacchetti alla mano, bussarono alla porta di Venusia: – Dolcetto o scherzetto?
– Oh, che mostri terribili! – esclamò lei, fingendosi terrorizzata – Ecco, prendete, ma non fatemi del male, vi prego! – e versò qualcosa nei due sacchetti, prima di chiudersi in casa, spaventatissima all’apparenza ma in realtà soffocandosi dalle risa. Quei due erano così buffi…!
I mostri guardarono il loro bottino: cioccolatini! Era andata davvero bene, un ottimo inizio!
– Grande! – esclamò Shiro – Chi andiamo a terrorizzare, ora?
– I vicini! – decise Mizar.
Andò meglio di quel che avessero preventivato: Banta si spaventò sul serio vedendoli, e mamma Hara, intenerita, li ricompensò con delle liquerizie.
Da Rigel le cose andarono molto meno bene: i due s’avvicinarono alla torretta d’osservazione ma vennero scambiati per due extraterrestri e gratificati da un paio di schioppettate, che per fortuna li mancarono. Fuga rapida, e decisione di non farsi più vedere da quelle parti.
Actarus fu il successivo: il giovane ignorava del tutto Halloween e relativi usi e costumi, ma era stato istruito da Venusia per cui si spaventò convenientemente e regalò loro una buona quantità di mentine.
Maria fu la susseguente vittima: panico spropositato, e confetti colorati ripieni di cioccolato.
Alcor fu scovato nell’intimità del suo alloggio all’osservatorio (ma non aveva impegni improrogabili di lavoro?). Confusione, penoso balbettamento di scuse varie, manifestazione di terrore e un certo quantitativo di caramelle. “Dolcetto o scherzetto” funzionava benissimo, non c’era che dire.
La tappa successiva fu l’osservatorio stesso, e poco dopo due spaventosi mostri fecero il loro ingresso nel sancta sanctorum di Procton: i più terrorizzati furono i tre aiutanti, che ebbero salva la vita solo sborsando un adeguato numero di gelatine di frutta. Il professore, compassato come sempre, manifestò con compostezza il suo orrore e, contrario com’era ai dolciumi beneficò i due con delle gomme da masticare rigorosamente senza zucchero.
Fu allora che i due ragazzini fecero il punto della situazione: la raccolta era andata a gonfie vele. C’era qualcun altro da visitare?
– Non mi pare – disse Mizar – Siamo piuttosto isolati, a parte Banta non abbiamo altri vicini.
– Sarebbe bello andare da quei tipi simpatici – propose quello sciagurato di Shiro – Quelli della base lunare…
– I veghiani? – Mizar era trasecolato – Va bene che in questo periodo siamo in tregua, ma non credo che…
– Magari si può fare – intervenne Actarus, che aveva sentito tutto – Provo a parlare con Rubina, e vediamo se si può combinare qualcosa.
– Oh, grazie, Actarus! – esclamò Shiro – Sei molto gentile!
Come no?, si disse perfidamente il giovane, che ricordava ancora troppo bene gli incisivi che gli si erano smollati proprio a causa di quell’impiastro.
I veghiani non avevano dimenticato di sicuro il nefasto fanciullo e le sue lagne… perché non rinverdir loro il ricordo?


Come Actarus s’era aspettato, Rubina fu semplicemente entusiasta dell’idea: amava conoscere usanze d’altri popoli, e poi adorava i bambini. La base Skarmoon venne quindi avvertita dell’arrivo dei due piccoli terrestri: mostrarsi gentili, pena i più terribili castighi.
Ora, se c’era una cosa che ogni veghiano ben sapeva, era che contrariare il sovrano di Vega era decisamente nocivo per la salute; disobbedire alla principessa Rubina era anche peggio, per cui tutti s’affrettarono a mostrarsi amabili con i due pargoli.
Unico a masticare amaro fu proprio il sire, che non era stato consultato in proposito dei due mostriciattoli; ma pure lui conosceva bene sua figlia, per cui si rintanò nel suo antro meditando atroci propositi.


Goldrake planò dolcemente nell’hangar principale della base; il goblin e il fantasmino scesero, terrorizzando per l’appunto la principessa Rubina, che era venuta ad accoglierli. Dopo essersi ripresa dal terribile shock la principessa versò due abbondanti dosi di dolci misti assortiti nei sacchetti, il tutto complimentandosi con i due fanciulli per il loro orrorifico aspetto. Quindi, dopo aver salutato Actarus, che aveva dichiarato di voler restare in attesa su Goldrake, la principessa accompagnò i due bambini in giro per la base, puntando subito verso la Sala Comando.
Ora, bisogna dire che mentre Shiro e Rubina chiacchieravano amabilmente tra di loro, Mizar ebbe l’occasione di notare qualcosa di strano: al loro apparire, i soldati e i tecnici sembravano davvero sconvolti… Insomma, nonostante fosse un bambino Mizar sapeva bene che si trattava di un gioco, e che i loro costumi non spaventavano davvero gli adulti: ma con i veghiani la faccenda era diversa. Apparivano davvero terrorizzati… insomma, o erano tutti attori degni dell’Oscar per la recitazione, o c’era qualcosa che gli sfuggiva.
In effetti, il panico stava serpeggiando tra il personale di Skarmoon: era bastato che qualcuno udisse la querula vocina di Shiro, perché orrendi ricordi tornassero alla mente. Quando Hydargos aveva tentato di ricattare Procton usando Shiro come ostaggio… i pianti e i frigni del bambino avevano causato un’ecatombe di suicidi, ed erano rimasti indelebilmente impressi nella mente di chi era sopravvissuto. Risentire ancora quel tono vagamente piagnucoloso fu davvero un po’ troppo anche per le spietate forze di Vega. La voce si sparse, il panico dilagò e Rubina e i bambini si ritrovarono a percorrere corridoi del tutto deserti.
– Ma la base è disabitata? – chiese Shiro, la voce che cominciava già a virare verso il lagno.
– Per nulla… non capisco – Rubina all’epoca dei suicidi non era stata presente alla base, non aveva idea della pestilenzialità cui poteva giungere il marmocchio e quindi non sapeva spiegarsi il comportamento di tecnici e soldati. Mah.
Le porte della Sala Comando s’aprirono davanti a loro e Rubina sospinse gaiamente i due bambini davanti a sé: – Fate attenzione, arrivano i mostri di Halloween!
– Dolcetto o scherzetto? – disse subito Shiro.
L’effetto fu notevole.
Hydargos, che ben ricordava il fanciullo, e soprattutto il suo frignottare, lanciò un urlo di raccapriccio e con un unico agile balzò andò a chiudersi dentro lo stanzino dei robodomestici, giurando e spergiurando che non ne sarebbe uscito finché non gli avessero garantito che il pargolo se ne fosse andato dalla base.
Lady Gandal, dimostrando un insospettabile spirito materno, si mostrò convenientemente spaventata, mettendosi poi a fare i complimenti ai bambini per i loro costumi.
– Ma che bravi! – esclamò, giuliva – E andate in giro a fare la raccolta di dolci? Se volete, ho giusto dei biscottini, fatti con le mie mani…
– Oh, grazie, signora! – esclamò Shiro; e fu un guaio, perché al solo risentire la sua voce Gandal rovinò tutto lanciando un ululato e finendo a terra, ridotto a una sorta di gelatina tremolante. Una ricaduta della crisi depressivo-convulsiva con manifestazioni isteriche, era evidente.
Chi invece non fece una piega fu Barendos: non era stato presente alla base all’epoca della cattura di Shiro, di cui ignorava totalmente le nefaste potenzialità, non aveva molto rispetto per Rubina e soprattutto odiava i bambini. Trovarsi davanti il goblin che gli tendeva speranzosamente il sacchetto fu per lui semplicemente disgustoso.
– Fila via, marmocchio! – sibilò.
– Barendos…! – sbottò Rubina, seccata.
– Dolcetto o scherzetto? – riprovò Shiro, mentre Mizar, che aveva capito l’antifona, si faceva indietro.
– Io detesto i mocciosi! – sbottò – Sparite subito, altrimenti…
– Meglio che ce ne andiamo – suggerì Mizar; ma Shiro non era di quell’idea. Quel veghiano cattivo… niente dolci… non era giusto!
Le lacrime scorsero, inarrestabili. I singhiozzi seguirono, il pargolo si produsse in un interminabile lagno.
Ci volle un secondo perché Barendos capisse che quella vocetta infantile era totalmente incompatibile col suo sistema nervoso. Fece per prendere la sua fida pistola e fulminare il fanciullo, ma s’accorse con orrore d’averla lasciata nel proprio alloggio… e proprio in ossequio all’ordine di quella sconsiderata di Rubina, che mal sopportava che si girasse armati per la base! Dannazione! Che lagna insopportabile… avrebbe potuto torcere quel collo striminzito… Adesso era passato al pianto con i ragli! I timpani, maledizione! Doveva uscire subito da lì…
Un istante dopo anche Barendos era crollato a terra, in preda pure lui a una crisi depressivo-isterica con manifestazioni convulsive.
– Andiamo via, bambini – e Rubina li condusse fuori, mentre Barendos, la bava alla bocca, cominciava a cercar di sfondare il pavimento a colpi di cranio.


- continua -

Link per esternare la propria solidarietà al povero Barendos: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2460#lastpost
 
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