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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 3/6/2016, 16:06     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Ultimo round. Il gioco stavolta si fa davvero duro.


– A mia figlia quella bestiaccia piace tanto, no? Che se la tenga! – ululò il sire, piombando nell'ufficio privato del Ministro delle Scienze.
Zuril scosse la testa: – Maestà, mi permetto di sconsigliarvi un'azione simile.
– E perché? Io non sopporto più quell'animale!
– È proprio questo il punto – rispose Zuril, sforzandosi di trovare le parole adatte per spiegare all'imbufalito sire la situazione – Col vostro comportamento, voi state facendo capire al gatto che non è gradito.
– Gradito? LO ODIO! Mi farei un tappeto con la sua schifosa pelliccia rossa!
– Dovete tener presente la psicologia dei gatti domestici deraniani…
– Ma per piacere, Zuril! È solo una bestia!
– Sire, vi prego! – esclamò Zuril – Fin dall'inizio vi ho ammonito di trattare quel gatto con un minimo di rispetto, e voi vi siete ostinato a considerarlo un animale…
– Ma lo è!
Zuril contò mentalmente fino a dieci, prima di proseguire: – Maestà, vi prego di credere che alla base di tutti i vostri problemi con il gatto c'è proprio il vostro atteggiamento…
– Io non sopporto quella bestia!
– Lo so. Il punto è che lo sa anche lui.
– Tanto meglio!
– Non tanto. Prima o poi il gatto si spazientirà e vi comunicherà tutta la sua contrarietà. Credetemi, sire: il disappunto di un gatto domestico deraniano è davvero difficile da sopportare.
– Con quel che ha combinato finora…
– Sire, credetemi: può fare di peggio. Molto peggio. Soprattutto se avrà la sensazione di non essere gradito. Sono animali molto, molto sensibili.
– Appunto, non è affatto gradito. Proprio per questo intendo rifilarlo a Rubina: è talmente scema da apprezzare quell'animale! – il sire non volle ascoltare altro e uscì a passo di corsa.
Zuril, rimasto con la bocca semiaperta e con la risposta nella strozza, strinse le labbra e fece spallucce. Oh beh, lui aveva provato ad avvertire il sovrano… tanto peggio per lui, a questo punto.


Re Vega era un uomo dalle rapide decisioni e dalla pronta reazione: appena tornato al suo regale alloggio chiamò i robodomestici e impartì gli ordini necessari. Pappe, ciotole, cuccia, tiragraffi e lettiera furono immediatamente trasferiti negli alloggi della principessa; fu sloggiato anche Pucci, e tanto per sottolineare la faccenda il sire gli allungò un calcio nel didietro. Offesissimo, il gatto lo guardò con nobile disdegno: ma ormai era stato intrappolato nel suo trasportino, per cui era nell'impossibilità assoluta di reagire.
Finalmente solo nel suo antro, il sovrano si abbandonò a una sorta di infernale sarabanda: era tornato padrone delle sue stanze! Basta con il gatto che gli ispezionava il cibo, basta con la condivisione di divani, letti e poltrone, basta con tutto! Era libero!
Uno schianto terrificante lo bloccò nel bel mezzo di una piroetta. Un artiglio s'era insinuato nella fessura delle porte scorrevoli, aprendole quel tanto che bastava a far passare una zampotta rossa. Un colpo secco… Aperte con violenza, le porte non avrebbero scorso mai più; e in mezzo sostava Pucci, lo sguardo bieco del gatto che fin troppo ha sopportato.
– Che ci fai, qui? – ruggì il sovrano.
Per tutta risposta il gatto andò alle tende di broccato, voltò loro le terga, guardò fisso in faccia il sire, alzò la coda… PZIK!
Un odore acre, nauseabondo, si diffuse immediatamente nella stanza.
– Ma che accidenti…! – esclamò il sire, stomacato.
L'aria dignitosa del gran signore offeso, Pucci andò nel bel mezzo del pregiato tappeto in autentica lana d'alpaca klamariana, quello tinto a delicati disegni. Alzò la coda… PZIK!
Il tanfo era insopportabile. Re Vega fece per andare alla porta, ma subito il gatto corse verso di lui, gli tagliò la strada; poi si voltò, alzò la coda. PZIK!
Re Vega guardò: sul suo regale mantello campeggiava una macchia, come se fosse stato spruzzato qualcosa… si chinò a guardare meglio, e quasi svenne per l'afrore.
Il gatto l'aveva segnato col proprio disappunto.


– Ve l'avevo detto, di non contrariarlo – ammonì Zuril, che stava sforzandosi parecchio per non sghignazzare in faccia all'afflitto sire – Voi l'avete fatto sentire respinto, e il gatto ha reagito com'era prevedibile.
– Facendomi la pipì dappertutto? – esclamò il sovrano, che avendo lasciato il mantello in lavanderia appariva ora molto meno regale.
– Il gatto non sta urinando, sta marcando il territorio – puntualizzò Zuril – Certo, la sostanza utilizzata è la stessa in entrambi i casi, ma il significato è profondamente differente.
– La puzza però è uguale!
– Non esattamente. Il gatto è incollerito, irritato, nervoso; in più, deve segnalare quello che considera il suo territorio. In casi come questi, i feromoni presenti nell'urina aumentano considerevolmente la loro percentuale…
– E cosa significa?
– Tanfo insopportabile, sire.
– Me ne sono accorto – borbottò Sua Maestà, ricadendo sconsolato contro lo schienale della sua poltrona – Che posso fare, ora?
– La domanda corretta è “cos'avrei dovuto fare prima” – gli fece notare Zuril – Vi avevo avvertito di trattarlo con rispetto, da pari a pari, e non da animale sottomesso… un gatto deraniano è tutt'altro che sottomesso, come ormai vi sarete reso conto.
– Ehm…! – Re Vega liquidò con un gesto secco il rimprovero per nulla larvato del suo Ministro delle Scienze – Comunque, il problema resta. Che si fa? Io l'avevo dato a quella scema di Rubina: a lei la bestiaccia piace, a me no, quindi contenti tutti. Niente! Quell'animale fetente è scappato ed è tornato da me. Perché, se da mia figlia è trattato infinitamente meglio? Perché?
– Perché il gatto sa benissimo di essere stato affidato a voi – rispose Zuril – e, per quanto indubbiamente apprezzi la compagnia della principessa vostra figlia, ha troppa dignità per essere… come dire… scaricato. A suo parere, è stato affidato a voi, e voi dovete adempiere al vostro compito.
– Ma è assurdo!
– Non per il gatto, Maestà. Se ci pensate, fin dall'inizio ha cercato di ricordarvi quelli che lui ritiene siano i vostri doveri: il cibo, la cuccia…
– Grumpf.
Zuril sospirò: – Temo solo che ormai il gatto vi consideri irrecuperabile, da questo punto di vista… diciamo che il suo atteggiamento dà da pensare in tal senso.
– Vuoi dire che la bestiaccia non vuole più stare con me?
Zuril prese fiato: – In un certo senso.
– Allora, vuol dire che posso rifilarlo a Rubina!
– Non è così semplice, sire – Zuril si passò un dito nel colletto, come se avesse avuto bisogno di un po' d'aria in più – Ve l'ho detto, il gatto deraniano spruzza la sua… ehm… beh, quando marca il territorio.
– E allora?
– Il suo territorio, sire. Non certo il vostro.
Ci volle qualche decina di secondi perché il sovrano comprendesse appieno l'orrore celato dietro quelle parole: – CHE COSA?!
– I gatti deraniani sono molto territoriali, Maestà. Una volta stabilito che una zona è di loro pertinenza…
– Lascia perdere i paroloni, Zuril. Vuoi dire… stai dicendo che quella bestiaccia considera il mio alloggio come suo?
– Esattamente, Maestà.
– E magari, io sarei l'intruso!
– Non “magari”. Per lui, non siete altro. In fondo, lui vi aveva offerto la sua amicizia che voi col vostro comportamento avete chiaramente rifiutato.
– Oh! E così, secondo lui io dovrei lasciargli il mio alloggio!
– Temo di sì, sire.
– Ridicolo!
– Certo. Però il gatto la pensa così. L'alternativa… ehm… è PZIK.
– PZIK…?
– Esattamente, Maestà.
– Oh.
– Credo che non ci sia altro da aggiungere, Maestà.
No, in effetti non c'era proprio altro da dire, e comunque la si guardasse la situazione era sempre quella: la bestiaccia aveva trionfato sull'umano dal superiore intelletto.


Imbestialito, Re Vega si rigirò nel letto avviluppandosi nelle lenzuola ricamate e prendendo a calci il piumino rosa a fiori. Si sentiva soffocare. Si mise bruscamente a sedere e guardò con odio tutto ciò che lo circondava, dalle tendine di pizzo al folto tappeto color cipria, dal centrino inamidato sulla toletta al cuscino a cuore posto sulla poltroncina tutta volant. La camera degli ospiti di sua figlia Rubina… pensare che era costretto a dormire là, quando a pochi metri c'era il suo alloggio, sobrio ma lussuoso, e soprattutto comodo…!


Dopo uno stressante pomeriggio trascorso a pisolare un po' sul regale sofà e un po' sulle regie poltrone, Pucci si alzò pigramente e andò a controllare quel che la principessa Rubina gli aveva posto nella ciotola: filetto di pesce uraniano con salsa bianca selenita, una delizia da veri intenditori. Molto meglio delle pappe di mamma Himika... Decisamente la cucina era parecchio migliorata, negli ultimi tempi.
Terminato l'ultimo bocconcino, Pucci passò alla cassettina: ormai la guerra era vinta, non era necessario più alcuno PZIK. Coprì diligentemente la propria opera e stiracchiandosi si trasferì in camera da letto, balzando sul regale lettone e scavandosi un nido nella regia trapunta.
Mentre sprofondava nel sonno del gatto giusto, mandò un pensiero a quell'umano povero di spirito che avrebbe potuto condividere con lui i comfort di quello sfarzoso appartamento… mah.
Gli umani, si sa, non sempre sanno essere logici.


EPILOGO

Quando Dio volle Himika tornò, trovando il fidanzato di pessimo umore e coi nervi a pezzi nonostante i calmanti.
In compenso, Pucci era addirittura splendente di salute e vigore: l'incontro fu decisamente commovente, col gatto che le era balzato in braccio e lei che lo cullava maternamente, chiamandolo con i più amorevoli nomi (poco più in là, Yabarn masticava termini che avrebbero fatto arrossire un sergente veterano).
Il commiato fu nel complesso rapido: pappe, tiragraffi, cuccia e giocattoli furono imballati e portati via, Pucci si drappeggiò sulle spalle di Himika che dopo aver salutato affettuosamente il fidanzato se ne andò via col suo tesoro che in quel periodo tanto le era mancato. Rubina, che come sempre era felice di vederla, l'accompagnò all'hangar.
Re Vega tirò un sospiro di sollievo: finalmente avrebbe ripreso possesso del suo appartamento. Basta con i pizzi, il rosa, i fiorellini e i centrini… basta con il letto, le poltrone e i pasti da dividere con quel dannato animale.
Sarebbe tornato ad essere finalmente padrone della sua vita.


Re Vega, in tutone azzurro e pantofole, era finalmente sprofondato nella regale poltrona e stava dedicandosi alla lettura d'un istruttivo romanzetto scollacciato che gli aveva prestato appunto Barendos quando Rubina fece la sua comparsa.
– Sono partiti, vero? – chiese il sire.
– Certo, papino – sospirò la principessa – Pucci era così carino… mi mancherà molto.
Ghigno del sovrano: a lui, ovviamente, la bestiaccia non sarebbe mancata affatto.
– Himika ha capito quanto mi ero affezionata – continuò la principessa – Ha detto che siccome Pucci sta per diventare padre, mi manderà un cucciolo.
– …?! – articolò il sovrano.
– Sì, un piccolo di gatto deraniano tutto per me. Non sei felice, papino?


Poco dopo la principessa ebbe modo di dover chiamare il Centro Medico, sezione Neurodeliri.
Mentre portavano via il sovrano, debitamente impacchettato e imbottito di calmanti, e mentre la principessa e Gandal scuotevano la testa con aria di disapprovazione Hydargos ebbe occasione di farsi pagare la scommessa non solo da Barendos, ma pure da quel saccentone di Zuril.
Una volta tanto, l'aveva avuta vinta lui.


FINE



Link per manifestare solidarietà a Re Vega: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2670#lastpost
 
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view post Posted on 5/6/2016, 12:10     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Si è appena parlato di poligamia su Fleed, e la cosa mi ha ispirato questa one-shot.

Poi, non ditemi che il mio principe è sempre bietola. :D


UNA ALLA VOLTA, PER CARITÀ


Una giornata di lavoro appena finita… come Re di Fleed Actarus aveva ascoltato, ordinato, stabilito, deliberato. Ambasciatori galariti… il governatore di Zuul… il presidente di Azoth… delegazione deraniana… una giornata piena, insomma.
Ma ormai, era pomeriggio inoltrato. Basta, per oggi.
Uscì dal regale studio, dirigendosi verso gli appartamenti privati. Come re, per quel giorno aveva adempiuto ad ogni suo dovere… gli bastò un'occhiata alla porta delle stanze della regina per capire che no, non aveva fatto proprio tutto.
– Giornata pesante? – chiese Venusia, bellissima in un morbido abito color pesca.
– Non troppo – rispose subito lui, che al solo vederla si era sentito subito pronto a nuove, e decisamente più eccitanti, imprese.
– Allora vieni a raccontarmi com'è andata – e lei lo prese per mano, lo tirò all'interno dell'appartamento e chiuse la porta.


Quando uscì dalle stanze della regina era ormai crepuscolo. Con l'aria piacevolmente stordita di chi ha toccato il Paradiso, Actarus mosse un passo verso le sue stanze… una porta s'aprì. La Seconda Moglie, naturalmente.
– Non dimentichi qualcosa? – chiese dolcemente Rubina, semplicemente splendida nella sua tunica color cielo.
– No, naturalmente! – rispose lui, che al solo vederla si sentì ringalluzzire.
– Ah, volevo ben dire… – lei l'acchiappò per un polso, lo tirò dentro l'appartamento e chiuse la porta.


Quando uscì dalle stanze di Rubina, era decisamente sera. Actarus mosse un passo verso la sua stanza, la doccia e il letto, quando s'aprì una porta.
La Terza Moglie, si capisce. Naida, semplicemente mozzafiato nella sua morbida veste bianca: – Stai sgattaiolando via?
Nonostante ormai fosse piuttosto stanco, Actarus ebbe un guizzo di vitalità al solo vederla: – No, certo che no!
– Ah, credevo che a quest'ora fossi tanto stanco… magari ti serve un riposino.
– Macché riposino! – esclamò lui, piccato. Acchiappò Naida, la trascinò nell'appartamento e chiuse la porta.


Notte, ormai.
Decisamente stanco, Actarus chiuse la porta della stanza di Naida e puntò verso il proprio appartamento, direzione doccia e letto – non necessariamente in quest'ordine.
Una porta s'aprì. Shira, la Quarta Moglie, spettacolare nella sua tunica color ghiaccio: – Non hai nemmeno un minutino per me?
Era una visione da far resuscitare un defunto… nonostante la stanchezza, Actarus sentì ancora risvegliarsi una vaga scintilla vitale.
– Proprio un minutino – rispose.
– Magari anche due minutini… o tre – e Shira lo spinse nell'appartamento e chiuse la porta.


Notte fonda.
Un Actarus decisamente distrutto uscì dalla stanza, chiuse la porta e puntò deciso verso il proprio letto. Al diavolo la doccia.
– Io proprio non esisto, hm?
Si voltò a fatica. Mineo, la Quinta Moglie, bellissima nella sua camicia da notte d'un pallido lilla.
Anche un defunto stagionato si sarebbe svegliato al solo vederla… già, ma Actarus in quel momento si sentiva decisamente trapassato e polverizzato: – Senti… e se facessimo domani…?
– Lo sapevo che di me non t'importa nulla! – singhiozzò lei.
– Ma no, no… t'assicuro, io…
– Oh, non raccontarmi bugie. Per le altre hai sempre tempo, ma per me…
– Non è vero!
– Certo che è vero! Lo so che preferisci Venusia, Rubina, Naida… Per me, non ci sei mai!
– No! Adesso ti dimostrerò che non è così! – colpito nel suo virile orgoglio, Actarus l'acchiappò per un braccio e se la tirò dietro nell'appartamento, chiudendo la porta.


Notte inoltrata.
Actarus si trascinò fuori della stanza di Mineo: quasi non riusciva a stare in piedi, anche il solo arrivare al proprio letto sarebbe stato uno sforzo inenarrabile… ma doveva farcela. Un passo… due…
– Povero tesoro, non dirmi che sei tanto stanco…
A fatica, Actarus voltò la testa.
Sulla porta dei suoi appartamenti la Sesta Moglie, lady Gandal, in peccaminosissimo negligé di pizzo nero, lo guardava con occhio amoroso.
– In effetti sarei stanco, sì – ansimò lui, che si sentiva girare la testa e piegare le ginocchia.
– Oh, povero caro – cinguettò lei, la boccuccia a cuoricino – Vuoi che ti faccia un massaggino rilassante?
Actarus conosceva bene i massaggini di lady Gandal… l'impressione era quella di trovarsi sotto un compattatore stradale: – Non occorre che ti disturbi… e davvero mi spiace, ma proprio non ce la faccio…
– Nessun problema! – lei l'acchiappò e lo prese in braccio come un bambolotto – Rilassati, tesoro. Penserò io a tutto.
Entrò nell'appartamento e chiuse la porta con un calcio.


Aurora.
Fu un Actarus carponi quello che strisciò sul tappeto del corridoio, direzione regali appartamenti, un unico pensiero a campeggiargli in quel vago barlume di coscienza che era la sua mente: letto… cioè, no, vivaddio! Basta! Dormire… dormire… dormire…
– Oh, povero piccolino, quelle cattivacce ti hanno proprio messo a terra! – esclamò un vocione alle sue spalle.
La Settima Moglie, naturalmente. Hara, le prorompenti curve avvolte in un pagliaccetto rosso fiamma tutto peccaminose ruches. Una visione che avrebbe schiantato anche Casanova in astinenza da sei mesi. Gambe e braccia gli cedettero, e Actarus stramazzò sul pavimento: – Ti prego… no…
– Povero amorino mio! – Hara l'acchiappò, lo tirò su e gli stampò un bacione con lo schiocco che gli lasciò in faccia un mezz'etto di rossetto; Actarus s'afflosciò al suolo, semisvenuto. Forse lei avrebbe capito l'antifona…
Hara non era donna da perdersi per simili quisquilie. Afferrò il consorte per un piede, lo trascinò all'interno dell'appartamento e chiuse la porta.


Alba.
Hara, il trucco decisamente da rifare, il capelli in perfetto disordine e vestita solo delle sue pantofoline rosse uscì dall'appartamento trascinando per una caviglia quel che restava del consorte, lo trasportò fino all'appartamento regale, lo afferrò a mezzo corpo e con il gesto che avrebbe usato per gettare sul carro un sacco di concime lo scaraventò sul materasso.
Lo coprì amorevolmente col lenzuolo, gli schioccò un bacione sulla testa e uscì in punta di piedi, lasciandolo finalmente dormire.


Mattino.
La sveglia suonò, annunciando l'inizio di una nuova, eccitante e impegnativa giornata.


Actarus balzò a sedere sul materasso.
Si guardò attorno: pareti, finestre… l'armadio… la sua stanza alla fattoria di Rigel.
Era stato tutto un sogno… Fleed, la regalità, e soprattutto le otto mogli. Un sogno.
Ripensò al tour de force e alle mogli sette e otto… altro che sogno.
Un orribile incubo, altro che!
Ma la sveglia continuava a suonare… ma lui non ricordava d'averla caricata, la sera prima. Era domenica, a quell'ora tutti stavano ancora dormendo.
Infatti, non era la sveglia, ma il campanello.
Actarus balzò giù dal letto, scese le scale e corse giù ad aprire.
Di fronte a lui c'era Hara, in stivaloni di gomma verde e pigiamone rosa a bolli rossi che la facevano sembrare una fragola taglia gigante.
Come lo vide, atteggiò i labbroni a un vezzoso sorriso.
– Ciao, Actarus, cercavo proprio te, perché vorrei… – cominciò.
Cercava proprio LUI? “Vorrei...”?
Actarus era un uomo coraggioso che aveva fronteggiato impavido schiere di mostri di Vega; i più agguerriti e sanguinari avversari mai l'avevano fatto recedere d'un solo passo, sempre lui li aveva affrontati a piè fermo e cuore saldo.
Hara in pigiamone rosa fu troppo.
Lanciò un barrito di raccapriccio, mentre certe immagini notturne gli campeggiavano nella mente, e con un unico balzo sparì nella dispensa, aprì la finestra e si slanciò fuori, perdendosi nei campi odorosi di fresco letame.
Hara rimase immobile dov'era, in mano ancora la tazza che aveva portato per farsi prestare lo zucchero per la colazione, visto che in casa non ne aveva più.
Ma che gli era preso, a quel benedetto ragazzo? Aveva l'aria così esaurita…
Sì, forse quel poverino si stava sfinendo troppo.



Link per esprimere solidarietà al principe, o alle sue mogli, a scelta: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2685#lastpost

Edited by H. Aster - 9/6/2016, 18:22
 
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view post Posted on 18/9/2016, 11:44     +1   -1
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In realtà questo racconto parla della fine dell'anno scolastico, ma pazienza... sogniamo ancora la fine della scuola e l'inizio delle vacanze.
Piccolo appunto: immagino che il pubblico giapponese si distingua per compostezza. Quello che ho descritto è un pubblico italiano, indubbiamente... ma è quel che si trova in ogni saggio scolastico. Lo so per soffertissima esperienza personale.

Prima parte, la fine domani.

SAGGIO DI FINE ANNO

Quando si è particolarmente stanchi, a parere di Rigel la cosa migliore da farsi è andare a letto presto. Se poi si è addirittura reduci da una serie di notti pressoché insonni, è bene anche prendere un sonnifero con un buon bicchiere di latte: da che era al mondo, questo rimedio non aveva fallito mai.
Fu quindi un Rigel già in camicione da notte, una berretta ben calcata sulla zucca pelata, quello che Venusia trovò in cucina intento a sorseggiare un bicchierone di latte.
– Papà!!! – orrore, rimprovero, incredulità: c'era tutto, in quella semplice parola, tant'è che Rigel si chiese istintivamente cos'avesse fatto di sbagliato. Non poteva dunque andare in camicia da notte nella sua cucina per bersi un bicchiere del latte delle sue vacche?
Un rapido esame di coscienza gli fece sapere che no, non aveva compiuto nulla di male; tuttavia, Venusia lo continuava a guardare con rimprovero… e come s'era agghindata, poi! Che Actarus si fosse deciso a portarla a cena fuori?
– Come sei elegante! – esclamò – Esci?
– Sì – rispose lei, che stava sforzandosi di restare calma – Esco. E, casomai l'avessi dimenticato, stasera esci pure tu!
– Io? Non ci penso nemmeno! – Rigel soffocò uno sbadiglio – Sono stanchissimo. Ho appena preso un sonnifero…
– Che cosa…?
– ...e ora filo subito a nanna, e saluti alla compagnia!
– Papà! Non puoi farlo! Non stasera!
– Voglio proprio vedere chi può impedirmelo…
– Ma non è possibile! – esasperata, Venusia si rivolse a Maria, apparsa anche lei sulla porta della cucina – Si è dimenticato di stasera!
– No! Zio Rigel, come hai potuto! – esclamò Maria, che essendo una volta tanto pettinata e avendo addosso un vestito invece dei jeans o della tuta era indiscutibilmente in versione “da grande occasione”.
– Vogliamo andare? – Actarus e Alcor, entrambi in ineccepibili completi con tanto di giacca e cravatta, apparvero pure loro sulla porta, rimanendo attoniti a guardare Rigel.
– Uh, ma che belli, tutti vestiti da sera! – esclamò allegramente lo sciagurato, accennando poi al proprio camicione da notte: – Beh, anch'io in un certo senso sono vestito da sera…
– Papà! – esplose Venusia – Devi correre subito a cambiarti! Spicciati!
– Ma…
– Ti sei dimenticato che stasera c'è il saggio scolastico di Mizar? – continuò lei, spazientita.
– Oocc...zz…! – sì, era una delle Parole Straproibite, ma per fortuna di Rigel Venusia era troppo lanciata per accorgersene.
– ...Devono premiare la classe di Mizar, che ha vinto il concorso fotografico regionale! – stava elencando Venusia – E poi, la squadra di baseball di Mizar ha vinto il torneo interscolastico, e lui è il capitano! Come non bastasse, sai che c'è sempre la premiazione per l'allievo migliore della scuola, e Mizar ha una pagella davvero ottima, quest'anno!
– Vuoi dire – pigolò Rigel – che non posso mancare…?
– No!
– Ma ho appena preso un sonnifero… non riuscirò a star sveglio…
– Corri a vestirti!
– Forza, zio Rigel! – gli gridò dietro Maria, mentre Venusia lo sospingeva su per le scale – Adesso ti preparo un caffè bello forte, vedrai che poi starai sveglio…
Pure il caffè di Maria… come dire che le disgrazie non vengono mai sole.


Infagottato nel vestito della festa, Rigel aveva ingollato la tazzona del caffè amorevolmente preparatogli da Maria, e stava giusto masticandone l'ultimo boccone quando fu fatto salire sulla jeep, direzione laboratorio, a prendere il professor Procton; Mizar era già a scuola, avendo passato il pomeriggio a preparare con i compagni la piccola recita che avrebbero presentato al saggio.
La sera era davvero memorabile: non solo si festeggiava la fine dell'anno scolastico, ma ricorreva pure il centesimo anniversario dalla fondazione della scuola. Per celebrare degnamente tanto avvenimento i ragazzi si erano impegnati al massimo, avevano partecipato a concorsi e vinto premi, avevano ideato balli e recite. Tocco finale, il signor Kitamura, ricchissimo industriale e padre orgoglioso del genio locale, aveva offerto graziosamente uno spettacolo pirotecnico che si preannunciava grandioso.
La scuola era fornita d'un teatro, vetusto ma più che dignitoso: i genitori vi si accalcarono cicalando, mentre i loro pargoli, dietro il vecchio sipario di velluto rosso, li spiavano nervosamente. Il clima era eccitatissimo.
Venusia e Maria presero posto tenendo tra di loro Rigel, che guadagnata la poltrona vi colò sopra, la testa pericolosamente ciondolante nonostante il caffè ingurgitato; Alcor e Procton sedettero accanto a Maria mentre Actarus, che aveva portato con sé la chitarra, si avviava verso il retro del palco con l'aria del santo che s'appresta al martirio.
Alle nove in punto le luci si spensero e il silenzio cadde finalmente nella sala.
Non appena il sipario si levò, apparve a tutti un qualcosa che assomigliava molto a un'enorme torta multistrato rosa fragola; a un esame più approfondito ci si accorse che si trattava di Katsumi, la bellezza della scuola (diceva lei), tutta sorrisi e tulle spumeggiante. In qualità di presentatrice ufficiale della serata, con una voce impostata tutta sospiri introdusse colui che avrebbe dato il benvenuto ai gentili ospiti (applauso di prammatica, sorrisone a tutto apparecchio ortodontico).
A salire sul palco per primo fu il giovane Hitto Kitamura, che per ammissione di tutti, lui per primo, era l'alunno più bravo, più studioso, più dotato e più intelligente della scuola, il fiore all'occhiello, lo studente che ogni professore vorrebbe avere e che ogni genitore addita al proprio figlio quale fulgido esempio – e che i compagni di classe odiano ferocemente. Piccolo, inappuntabilmente vestito in costosi giacca e cravattino, ovviamente occhialuto e con l'aria condiscendente del giovane genio sceso tra i mortali, Hitto rivolse un fortunatamente breve discorso di saluto che avrebbe introdotto la serata: ovviamente fu perfetto, il discorsetto fu un piccolo capolavoro di ingegno, le parole gli uscirono rotonde e pulitine dalle labbra e l'inchino finale che rivolse al pubblico fu inappuntabile. Scroscio d'applausi, più qualche pernacchia, un po' in sordina bisogna dire, da parte dei più maleducati tra i suoi compagni.
Katsumi sospirò che era il turno di una classe prima. Un gruppetto di bambocci venne diligentemente fatto allineare da una sorta di sergente maggiore, che forse era una maestra; i bimbi si guardavano in giro, sgranavano gli occhi, salutavano la mamma, frignottavano, insomma, facevano tutto fuorchè mostrare l'attenzione e la serietà richieste dal momento. Una ruggita del sergente maggiore li richiamò all'ordine e i piccoli attaccarono una poesia, diligentemente recitata e con tanto di gesti adatti. Le vocine erano sottili, la dizione confusa, la poesia lunghissima; nessuno dei pargoli però osò perdere il filo, ché un'occhiata del sergente maggiore li rimetteva subito in riga al minimo tentennare. La tortura, dei piccoli e del pubblico, durò parecchio; a un certo punto, dalla fila centrale provenne un suono strano… una sorta di deflagrazione nasale. Eh no, era proprio una russata, possente e stentorea. Qualcuno cominciò a ghignare, e l'atmosfera nella sala sembrò alleggerirsi – non dalle parti di Venusia, che imbarazzatissima cercava a suon di gomitate di tener desto il genitore. Il sonnifero aveva indubbiamente fatto effetto.
Finalmente il supplizio ebbe fine, gli applausi scrosciarono, i bimbi s'inchinarono e il severo volto del sergente maggiore sembrò un po' meno accipigliato. Guardando bene, si sarebbe potuto notare che la bocca ora piegava all'insù di un paio di millimetri… un sorriso smagliante.
Occhi stellanti, Katsumi annunciò sospirando l'intervento di un gentile artista che si era offerto (sì, disse proprio così) di accompagnare con la sua chitarra le voci dei bambini. A quel punto un Actarus imbarazzatissimo salì sul palco, accompagnato dalle urla semiisteriche del gruppo delle mamme più sfegatate. Qualche settimana prima lo sventurato giovane era stato colto dalla signora Kawakami mentre suonava la chitarra, e naturalmente “Dovete suonare al saggio dei nostri bimbi!”. Actarus aveva tentato di schermirsi, scoprendo così che “no” non era una parola contemplata dal vocabolario della signora Kawakami; e ora eccolo lì, con addosso il suo scomodissimo abito elegante, gettato sul palco in pasto a quelle femmine urlanti. A gran voce gli fu chiesto di suonare un pezzo; raccogliendo tutto il suo coraggio (eh, affrontare un mostro di Vega era ben più semplice!), riuscì ad opporsi: era il saggio dei bambini, lui era lì per accompagnarli, non per esibirsi… strilli femminili indignati, sguardi supplichevoli di Katsumi e intervento della preside, che richiamò tutti all'ordine. Una delle madri più agguerrite (la signora Kawakami?) tentò una protesta, un'occhiata del sergente maggiore gliela ricacciò in gola. Actarus sedette in un angolo con la sua chitarra, pregando che il tormento finisse in fretta.
Toccò a una seconda. I bambini erano in quell'età in cui i denti cascano come le foglie d'autunno, e la mancanza d'incisivi produce una dizione tutt'altro che perfetta, specialmente per quanto riguarda le S.
Ovviamente la loro maestra aveva avuto il buon senso di scegliere la canzoncina della Seppiolina Sissi, che essendo timidissima sempre soavemente sussurrava. Il risultato fu quantomeno sgradevole, tantopiù che v'era una forte divergenza tra le vocette infantili e le note suonate da Actarus; siccome poi la carenza di denti causava un generale sputacchiamento, che come principale bersaglio ebbe la maestra stessa intenta a dirigere il coro, il pubblico si sentì sufficientemente vendicato e gli applausi scrosciarono. Un nuovo, potente russare concluse il tutto (sghignazzate aperte, Venusia e Maria riempirono di pizzicotti Rigel mentre Alcor e Procton si guardavano in giro “siamo con lui ma non lo conosciamo”).
A quel punto tornò a presentarsi Hitto. Il giovane virgulto, ebbe a comunicare la preside in persona, aveva partecipato a un concorso di poesia per le scuole, risultando ovviamente il vincitore (applausi fortissimi) per cui ora avrebbe deliziato l'uditorio leggendo personalmente la sua composizione (applausi a valanga, urla selvagge della madre di tanto prodigio). Vigliaccamente, la preside aggiunse che Actarus avrebbe suonato una musica di sottofondo che avrebbe vieppiù valorizzato tanto capolavoro. Strilli assatanati della maggior parte delle femmine presenti, occhiate disperate del soggetto in questione che stava guardandosi attorno in cerca di una voragine in cui scomparire.
Con l'aria dell'artista navigato, Hitto andò a scambiare due parole con Actarus: il suo poema meritava tutta l'attenzione del pubblico per cui niente musica troppo forte o invasiva, grazie. Era in grado di eseguire un semplice arpeggio, o ciò era al di là delle sue possibilità?
Occhiata sbigottita di Actarus, cui Hitto rispose con un fermo “Allora un arpeggio, mi raccomando, e non troppo forte, grazie”.
Mentre Hitto andava a porsi al centro della scena, Actarus scambiò un'occhiata con Mizar, che da dietro le quinte aveva seguito la scena, e che si strinse nelle spalle. Anche se il ragazzino non era dotato di telepatia, Actarus percepì chiaramente il suo messaggio: lo so che Hitto è il genio della scuola, ma è anche un perfetto imbecille.
– A-hem – Hitto, evidentemente pronto per cominciare, guardò Actarus con rimprovero: si stava aspettando lui. Obbediente, il giovane si dispose a suonare, tutto sommato curioso di scoprire il frutto dell'ingegno di quel giovane fenomeno. Il pubblico tacque, in religioso silenzio.
Ottenuta finalmente la totale attenzione che gli spettava, Hitto prese fiato e attaccò a declamare, mentre Actarus arpeggiava diligentemente.
Si trattava nientepopodimeno che di un poema sulla morte di Gengis Khan, che essendo un uomo di grande carattere era l'idolo di Hitto. Sentendo parlar di poesia, il professor Procton deglutì: conosceva per sofferta esperienza le rime stentate dei giovani poeti… avrebbe dovuto però ricredersi, il piccolo Hitto aveva la rima sciolta e fluente – e dato quel che sarebbe seguito, non è detto che ciò fosse poi un bene.
Dopo aver rapidamente fatto un excursus delle gloriose imprese del suo eroe (e qui Actarus ebbe a pensare a Re Vega e alla sua propensione per il genocidio), il giovane sciagurato ne trattò la fine, dilungandosi in lai, commiserazioni e considerazioni filosofiche sulla fine di tanto grand'uomo in particolare e sulla morte in generale.
Ora, Hitto declamava con la disinvoltura e il compiacimento di chi si sente tanto grande attore, il tema era decisamente ponderoso e lo stile anche; se si aggiunge il fatto che si trattava appunto di un poema, e quindi lungo, abbiamo un chiaro quadro della situazione.
Un silenzio non più religioso ma attonito era piombato sul pubblico: occhi erano sbarrati, mascelle penzolavano. Unico a suo agio, Rigel dormiva saporitamente, e né Venusia né Maria ebbero cuore di destarlo – anche perché tanta poesia le aveva letteralmente agghiacciate. Alcor, che pure aveva affrontato innumerevoli volte il pericolo, si agitò sul sedile; accanto a lui Procton, uomo forte, ascoltava impavido restando aggrappato ai braccioli della sua poltroncina.
Tanto per dare l'idea del dramma che si stava svolgendo, basti dire che nemmeno i più incarogniti tra i compagni di Hitto riuscivano a ridacchiare in sottofondo e ascoltavano impietriti.
Intanto lo sciagurato leggeva, leggeva… Morte, dissoluzione, crollo nella polvere, dramma, tragedia, il tutto in versi fin troppo fluenti. In mezzo al pubblico, qualcuno cominciò a sbirciare di nascosto l'orologio. Dodicesimo minuto di poema. Uno dei bambini più piccoli, non avendo il coraggio di frignare, si fece la pipì addosso. Ancora morte e sfacelo. Quindicesimo minuto. Disfacimento e putrefazione… ma prima o poi, questo benedetto Temujin avrebbe finito di decomporsi, no? Diciassettesimo minuto. Una delle nonne presenti ebbe un leggero mancamento. Diciannovesimo. Pubblico ormai totalmente schiantato, persino Actarus non aveva quasi più la forza di arpeggiare e si limitava a qualche stentato “plong!”.
Al ventunesimo minuto e tre quarti, finalmente la declamazione ebbe fine: dopo la chiusura ad effetto sapientemente studiato, Hitto assunse l'aria modesta dell'artista che aspetta il plauso del suo pubblico.
La sala gli tributò un silenzio terrificante, rotto solo dal vigoroso russare di Rigel.
Scocciatissimo, Hitto si guardò attorno, gli occhiali che emanavano pericolosi bagliori; e fu allora che sua madre si riscosse. Una mamma è sempre una mamma, si sa; la signora levò alto un grido, “Ha vinto il primo premio!” e prese ad applaudire freneticamente. Papà si unì all'ovazione e poco per volta altri si aggiunsero in un battimani che nel complesso risultò molto sentito.
– E per forza applaudono, sono felici che sia finito! – esclamò, a voce non troppo bassa, quella linguaccia di Alcor, beccandosi una gomitata da Maria. Procton non ebbe il coraggio di chiedersi di cosa trattassero gli altri poemi in concorso, visto il capolavoro vincitore. Rigel, disturbato dal frastuono, fece un paio di russate di protesta venendo prontamente zittito da uno scrollone di Venusia.
Apparve di nuovo la preside. La lettura l'aveva duramente provata, ma da quella donna forte che era riuscì persino a sorridere e a complimentarsi col giovane poeta. Congedato Hitto, che non sembrava troppo felice di dover lasciare il palco ad altri, la preside lasciò la scena a Katsumi che annunciò il seguito del saggio.


- continua -

Per esprimere tutto il proprio entusiasmo circa i saggi scolastici: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2730#newpost
 
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Seconda parte. Mi scuso per il ritardo, ieri sono stata trattenuta da una riunione scolastica... :wahaha.gif:



Fu il turno della classe di Mizar. I fanciulli avevano preparato una recita in cui venivano presi in giro i più temuti professori della scuola. Mizar stesso ebbe occasione di esibirsi nella caricatura, riuscitissima, del temuto insegnante di matematica, ringhioso e con l'insufficienza facile.
Normalmente tanta sfrontatezza avrebbe fatto inarcare più di un sopracciglio, specie tra gli insegnanti, ma dopo il poema di Hitto tutti sentivano il bisogno di una risata liberatoria. Fu un trionfo: i genitori risero a crepapelle, i professori anche di più… specie quando la vittima di turno era uno dei colleghi. Su tutto il bailamme squillarono la sganasciata scrosciante del sergente maggiore e il sonoro russare di Rigel, che nemmeno la performance del figlio era riuscito a vedere.
Katsumi annunciò un “momento artistico”: due giovanissimi musicisti avrebbero deliziato l'inclito pubblico con la loro arte.
Si fece avanti il piccolo Nobuo, un affarino minuscolo armato di violino, che coraggiosamente cominciò ad eseguire un celeberrimo brano di Bach che nessuno dei presenti aveva mai sentito nominare. Bastarono le prime note perché in tutti i cervelli s'accendesse una luce: “Ah, quello!”. Il fatto è che per tutti quel pezzo era la sigla iniziale d'un notissimo programma televisivo di divulgazione scientifica… era pure di Bach? Ma guarda.
Nobuo intanto s'impegnava al massimo: sudava, stringeva i denti, teneva duro, e intanto maneggiava l'archetto come se avesse dovuto segare il violino: il suono somigliava allo stridore di un catenaccio, le note scorrevano stentatamente, la lotta era impari ma alla fine il piccolo Nobuo giunse alla conclusione. Stremato ma felice accolse l'applauso scrosciante del pubblico, che fino alla fine aveva sofferto con lui.
Mentre Katsumi annunciava il prossimo artista, una certa agitazione regnava dietro il palco: Hitto, provetto suonatore di tromba, avrebbe voluto esibirsi pure lui, ma gli era stato detto che già aveva fatto il discorso iniziale e aveva pure letto il poema. Proteste varie: lui era il genio della scuola, non era giusto che avessero lasciato esibire Nobuo, Nobuo!, che aveva assassinato Bach… un sibilo feroce del sergente maggiore lo zittì, un paio di calci negli stinchi allungatigli dai compagni gli diedero altro cui pensare.
Fu la volta di Masako, il maschiaccio della scuola, inveterata collezionista di note ed insufficienze ma abilissima nelle arti marziali e, strano a dirsi, nel suonare il pianoforte.
Ci volle un poco perché tutti capissero che quella specie di bambola tutta pizzi e falpalà era proprio lei, la stessa Masako che girava in magliette e jeans che nemmeno Maria avrebbe indossato perché troppo sdruciti; ora eccola là, infilata in un vestito ridicolo, i capelli insolitamente puliti e pettinati con nastrini e l'aria di chi sta seriamente meditando di commettere un omicidio.
L'oggetto di tanta antipatia era la madre, trionfalmente seduta in prima fila: dopo una lotta strenua era riuscita ad imporre alla figlia quell'assurda tenuta. Come non bastasse, invece del brano jazz che Masako avrebbe voluto eseguire le aveva imposto nientepopodimeno che l'Adagio dalla Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven – “E suona con delicatezza, è un pezzo così romantico e tanto adatto a una vera signorina!”.
Nessuno dei compagni osò fiatare: conoscevano fin troppo bene la perizia di Masako nel karate, e tutti tenevano vivamente a conservarsi la faccia così com'era. Persino Katsumi non riuscì a fare uno dei suoi sdolcinati sorrisi: una semplice occhiata di Masako sembrò paralizzarle l'apparecchio. Balbettò in fretta quel che doveva balbettare e si dileguò dietro le quinte, mentre l'inferocita Masako si sedeva con furia al pianoforte.
Intrecciate le dita, le fece scrocchiare; poi, dato che doveva eseguire un pezzo delicato, aggredì la tastiera pestando ferocemente le prime battute. Il sorriso trionfante si gelò sulle labbra di mammà: non c'era nulla di delicato, di notturno, di romantico in quel brano… no, sembrava più una danza selvaggia, che quasi subito si trasformò in qualcosa di totalmente inaspettato: Masako eseguì un rabbioso glissando e si lanciò in un'indemoniata improvvisazione jazz. Beethoven a New Orleans! Fu una sorpresa, un ritmo serratissimo che travolse l'intera sala. Tutti seguirono con entusiasmo: era un'esecuzione fantastica, da vera grande artista! La mamma era livida di rabbia, ma la preside accennava il ritmo con la testa, i ragazzi dietro le scene ballavano, persino Rigel russò a tempo; quando Masako concluse il tutto con un accordo indiavolato, la sala esplose in un applauso scrosciante che fece impallidire di rabbia Hitto. Masako balzò in piedi, accorgendosi solo allora che un lembo della gonna era rimasta sotto il tacco di una scarpa: con un “ri-i-i-ip!” che gelò la sala, la stoffa si lacerò lasciandola libera da pizzi e merletti. Mentre mamma si sentiva morire, Masako si liberò prontamente da quel che restava della sottana, se la fece roteare sulla testa e con un gesto da rockstar la gettò in mezzo alla folla in delirio. Vendetta era compiuta.
Ci volle tutta l'autorità del sergente maggiore perché tornasse un po' di calma tra il pubblico.
Fu poi la volta di un gruppo di ragazzine scatenate: acceso uno stereo misero un disco a volume terrificante, e cominciarono a ballare dimenandosi come ossesse. Actarus, rimasto fino ad allora in un angolo con la sua chitarra, fece per allontanarsi prudentemente quando una delle sciagurate lo acchiappò per un polso trascinandolo in mezzo al gruppo. Subito, una ventina di scalmanate gli si accalcò attorno, strillando a più non posso; e ancora più forte strillarono le mamme, che si erano improvvisamente risvegliate vedendo quel pezzo di figliolo. Non ci fu niente da fare, bisognava ballare: del resto, più che altro si trattava solo di dimenarsi a tempo. Non era troppo difficile. Con principesco aplomb Actarus si sforzò di adeguarsi a quel ritmo forsennato, perfettamente cosciente del fatto che sua sorella e il suo migliore amico lo stessero carognescamente riprendendo coi loro telefonini. Vigliacchi.
A un certo punto le giovani spudorate, lanciatasi un'occhiata d'intesa, si fecero bruscamente da parte lasciandolo solo a dimenarsi sul palco. Urla parossistiche delle femmine presenti. Actarus fu praticamente sicuro che almeno una o due di loro, le più scatenate, si fossero messe a gridare “Nu-do! Nu-do!”.
Il pezzo finì, ma le sciagurate intendevano ballare ancora; stavolta Actarus fu rapidissimo a dileguarsi, con grande dispiacere delle sue fan più agguerrite, la signora Kawakami per prima. Le piccole sconsiderate ripresero la loro danza scatenata e probabilmente avrebbero preteso di fare un terzo balletto se non fosse intervenuto perentoriamente il sergente maggiore a troncare tutto. Fiere proteste delle fanciulle; impassibile, il sergente maggiore staccò e requisì il cavo dello stereo. Applausi da parte del pubblico più anziano, che aveva le orecchie martoriate dal mostruoso volume. Fine dell'esibizione.
A questo punto, era la volta dei premi.
La preside, molto emozionata, assegnò dapprima le medaglie per il concorso di disegno: una bimbetta di otto anni, vincitrice assoluta, si fece avanti con aria tranquilla, ricevette la sua medaglia e gli applausi del pubblico e si ritirò in un angolo con la modestia dell'artista di vero valore.
Toccò poi a un piccolino di sette anni, secondo classificato: amorevolmente spinto sul palco, rosso e incapace di spiccicar parola, non ebbe nemmeno il coraggio di ricevere gli applausi: avuta la sua medaglia scappò via, correndo a rifugiarsi dalla sua mamma.
Fu poi la volta del concorso regionale di fotografia, vinto dalla classe di Mizar: applausi e ovazioni varie. Hitto non perse l'occasione per prendere la parola e far sapere a tutti di essere stato lui a dare i suggerimenti giusti per il soggetto, la luce e l'inquadratura. Applausi del pubblico, odio feroce dei compagni. Hitto avrebbe continuato ad inchinarsi e ringraziare ma Tatsuo, il colosso della classe, lo acchiappò per il cravattino tirandolo via.
– È sempre stato insopportabile – disse Venusia – Fin dai tempi dell'asilo, ha fatto di tutto per mettersi in mostra. Papà, ti ricordi quando voleva essere sempre il protagonista in tutte le recite? Papà…?
– R-r-r-r-ghhhh – ronfò suo padre.
Altro premio: il torneo di baseball, vinto dalla squadra composta dai migliori elementi della scuola. La direttrice spiegò come la squadra avesse trionfalmente sconfitto gli avversari nonostante i problemi… come dire… considerevoli che aveva dovuto affrontare, eccetera eccetera.
Venusia annuì, convinta: conosceva perfettamente tutta la storia, anzi, era sicura che l'intera platea ne fosse a conoscenza. Il problema era praticamente uno: Hitto, che essendo lo Studente Perfetto naturalmente era anche un campioncino di baseball.
Ora, anche l'ultimo dei detrattori del giovane genio avrebbe dovuto ammettere che il fanciullo fosse un lanciatore davvero in gamba; peccato che lui stesso ne fosse convinto e continuasse a farlo presente ai compagni, quasi lui fosse stato una superstar costretto a giocare con una squadra di schiappe. Gli altri ragazzi reagivano ignorandolo il più possibile; Hitto avrebbe quindi imperversato più o meno impunemente se a far parte della squadra non vi fossero stati il piccolo Yuki, una sorta di malefica volpiciattola, e il grosso Tatsuo. I due, che con Masako condividevano l'attività di incalliti collezionisti di note ed insufficienze, avevano dimostrato un talento non da poco per il baseball ed erano stati ammessi nella squadra di cui si erano rivelati i due elementi più talentuosi, scatenando così le gelosie di Hitto. C'erano volute tutta l'autorità del professore e tutta la pazienza del capitano per riuscire a far lavorare in maniera decente quegli elementi turbolenti. Mizar aveva trascorso interi pomeriggi sul campo per allenare la squadra, e altrettanto tempo gli ci era voluto per comporre liti e per impedire a Tatsuo di trucidare Hitto; alla fine il risultato era andato oltre ogni più rosea previsione, e la squadra, assiepata sul palco assieme alla preside, poté mostrarsi in tutta la sua gloria. Quando Mizar alzò la coppa la sala esplose in un boato di trionfo, mani applaudirono, urla si levarono, Hitto s'inchinò davanti alla folla delirante quasi il merito di tutto fosse stato solo suo e Yuki ne approfittò per allungargli un calcio nello stinco; balzo inferocito di Hitto, pedata nel sedere di pura marca Tatsuo. Rapido intervento dell'insegnante di ginnastica, la squadra fu fatta scendere dal palco dove un'orda di genitori, nonni, fratellini tripudianti era in attesa di accogliere gli eroi (sonora russata di Rigel, che ormai dormiva con la testa ciondolante all'indietro e la bocca spalancata).
La preside chiese il silenzio: era il momento clou della serata, l'assegnazione del premio allo Studente Più Meritevole. Nonni e genitori sedettero compostamente mentre tutti i ragazzi guardavano con autentico odio Hitto: sapevano che avrebbe vinto lui il premio, da anni se l'era aggiudicato grazie alle sue pagelle dai voti stratosferici. Hitto, che non aveva atteso altro, s'aggiustò i vestiti, lisciò l'impeccabile camicia candida e controllò il cravattino, mettendosi vicino alla scala che portava al palco, pronto a salire non appena la preside avesse fatto inevitabilmente il suo nome. Dalla platea la sua mamma lo guardava con occhio adorante, il papà faceva la ruota come un tacchino… più in là, Yuki e Tatsuo lo fissavano con occhio professionale. A loro parere Hitto era simpatico come una manciata di formiche rosse nelle mutande; se avesse vinto un altro premio sarebbe diventato ancora più insopportabile, a quel punto fargli uno scherzo sarebbe stata un'opera meritoria.
Intanto, la preside fece un discorsetto con cui spiegò lo spirito con cui veniva attribuito tale premio, destinato allo studente che si fosse distinto per il suo impegno.
– Naturalmente, per anni abbiamo stabilito di premiare chi avesse riportato i voti più alti in ogni materia – disse la preside, mentre Hitto gonfiava il petto come un piccione ipertrofico – Quest'anno però ci siamo resi conto che non sempre i semplici risultati in pagella siano indicativi di autentico successo, tantopiù che abbiamo notato il grande, paziente lavoro di uno studente che si è veramente impegnato, anima e corpo, non tanto per sé stesso quanto per gli altri. Abbiamo quindi deciso di assegnare il premio a chi ha permesso alla nostra squadra di baseball di essere veramente grande… il ragazzo che è riuscito a far lavorare assieme degli elementi che sembravano davvero incompatibili… chiamo quindi sul palco il nostro capitano della squadra di baseball, Mizar Makiba!
Un autentico ululato fece tremare il soffitto del teatro; Mizar, attonito e incapace persino di muoversi, fu afferrato dai compagni e issato sul palco accanto alla preside. Stupefatto, il ragazzino non riuscì nemmeno a spiccicar parola mentre gli consegnavano la medaglia, il diploma, gli stringevano la mano, si congratulavano con lui, lo fotografavano… non poteva crederci… il migliore… lui!
La platea era in delirio: Actarus, Alcor e Maria si stavano spellando le mani, Venusia piangeva e applaudiva, persino il compostissimo professor Procton era balzato in piedi festante; unico della sala a non mostrarsi sorpreso, Rigel russava beatamente.
Ma se tutti tripudiavano, qualcuno soffriva: in un angolo, ignorato da tutti, Hitto piangeva di rabbia… non era giusto… il migliore era lui!
Pieno di livore, guardò Mizar circondato dai compagni festanti, ammirato dai genitori, lodato dagli insegnanti… non resistette, e si sarebbe senz'altro slanciato sul palco se un paio di compagni non l'avessero trattenuto, sibilandogli di non fare una simile, orrenda figura.
– E ora – disse la preside – usciamo tutti in giardino dove sarà servito un piccolo rinfresco e dove potremo assistere a un meraviglioso spettacolo pirotecnico gentilmente offertoci dall'ingegner Kitamura – e applaudì all'indirizzo del padre di Hitto, cui tutta la sala rivolse un doveroso plauso; e questi, che aveva speso una considerevole somma per quei fuochi d'artificio con cui più che la scuola aveva voluto festeggiare l'inevitabile nuova vittoria del figlio, dovette far buon viso a pessimo gioco e sorridere amabilmente, anche se sentiva la bile scrosciargli a cascata nelle budella.
Trasferimento nel cortile della scuola; Rigel fu scrollato, rimesso in piedi in qualche maniera, portato fuori praticamente di peso e infine lasciato accasciare su una panchina, dove poté continuare a russare indisturbato nonostante il bailamme che regnava tutt'attorno: del resto, i ragazzi erano sovreccitati, i professori anche, i genitori pure. Il più su di giri era Hitto, che non potendone più si sarebbe scagliato contro Mizar per gettargli in faccia tutto il suo livore, e l'avrebbe senz'altro fatto se non fosse stato accidentalmente colpito alla testa da una palla da baseball lanciata da Yuki e colpita da Tatsuo. Rialzatosi da terra, sporco di polvere, la camicia non più immacolata, Hitto fece ancora per correre verso Mizar andando a sbattere contro Masako, al centro di un gruppo di compagni; la ragazzina non fece né tanto né quanto, limitandosi a tirargli una manata sul naso. Applausi dai ragazzi, Yuki e Tatsuo per primi.
Hitto andò in cerca di comprensione dal padre, trovandolo nervosissimo dato che gli bruciava parecchio aver speso tutto quel denaro per la festa di cui il figlio non era la stella. Proprio in quel momento si udirono un sibilo e un botto: una cascata bianca e azzurra annunciò l'inizio dei fuochi d'artificio. Naso all'insù, la gente guardò le esplosioni e le scintille multicolori, mentre il padre di Hitto, ad ogni scoppio, addizionava mentalmente una nuova cifra al totale.
Tutt'attorno era un gran “oh” e “ah” ad ogni fiore luminoso che sbocciava nel cielo; dopo un finale rutilante e coloratissimo (e costosissimo, si disse il padre di Hitto che sentiva gravi fitte al portafogli), tutti espressero la loro gratitudine con un gran applauso; e proprio allora, squillarono delle note gagliarde. Pesto ma non domo, Hitto aveva voluto fare ad ogni costo il suo assolo di tromba, e le note uscivano rabbiosamente dallo strumento… davvero feroci, bisogna dire… poi, all'improvviso, la tromba emise una sorta di urlo strozzato, un verso da animale offeso nella propria dignità. Il gruppo di studenti che si era raccolto attorno allo strumentista si aprì improvvisamente, e Hitto fu visto partire di corsa urlando, accompagnato da una sorta di bagliore azzurrino.
– Un'apoteosi? – si stupì la preside, che aveva la vista corta.
– Una girandola appesa al fondo dei calzoni – ringhiò il sergente maggiore, che ci vedeva benissimo e che stava cercando con lo sguardo quelli che sapeva essere i colpevoli.
In un angolo, Yuki e Tatsuo guardarono il sergente maggiore con occhioni colmi d'innocenza: non potevano essere stati loro… erano lì in un angolo, a guardare quel vecchietto buffo che dormiva a bocca aperta…
Lo so che siete stati voi due, dissero gli occhi del sergente; non potendo fare altro s'allontanò, mentre i due sciagurati, visto che l'avevano scampata, provavano a versare dell'aranciata nelle fauci spalancate di Rigel, per vedere se si sarebbe strangolato o avrebbe fatto le bolle.


Rientrarono a casa provando tutti un certo sollievo. Venusia aveva dovuto salvare Actarus, incantonato in un angolo da un gruppo d'ammiratrici, la signora Kawakami per prima; Mizar era stanchissimo ma trionfante, e stringeva al petto i premi che aveva ricevuto. Anche Alcor, Maria e Procton erano soddisfatti, sia per i risultati ottenuti da Mizar sia perché finalmente la festa era finita.
Unico infelice, Rigel appariva seccatissimo: non solo si era perso la premiazione del figlio, non solo era stato fatto segno di scherzi indegni mentre era assorto in meditazioni profonde, non solo, svegliatosi improvvisamente, armato di mazza da baseball aveva inseguito per tutto il cortile Yuki e Tatsuo, beccandoli finalmente quando si erano nascosti dietro le sottane della preside… no, il problema era un altro.
Ormai, era ora di andare a letto.
E lui era irrimediabilmente sveglio.


- fine -

Per esprimere solidarietà a Masako, figlia di madre deficiente: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2745#lastpost
 
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Mi era stato chiesto come avrei voluto che morisse Zuril nella puntata 72.
Fatto. Ecco qui.
Par condicio: almeno non mmi si rimprovererà di aver fatto fuori solo Actarus... :asd:

Scusate la lunghezza, ma non mi pareva il caso di tagliarlo in due.

SCONTRO FINALE

Un respiro, un sospiro o poco più; poi, nulla.
No, si disse Actarus.
Rubina era morta.
No!
Gliel'avevano strappata tanto tempo prima, era ritornata da lui e ora l'aveva davvero perduta, e per sempre. Non avrebbe più visto quegli occhi come il cielo, non avrebbe più sentito quella voce fresca e dolce… Rubina era morta. Morta. Morta.
Attorno a lui i fiori gialli piegarono leggermente le corolle sotto la brezza della sera. Il sole stava scendendo all'orizzonte, il cielo rosso già mostrava a est ombre cupe notturne… tutto proseguiva, il tempo continuava a scorrere, anche se Rubina era morta.
Guardò la mano che ancora stringeva tra le sue: sembrava di marmo, inerte, fredda.
Provò un dolore vivo in mezzo al petto e si rialzò in piedi quasi di scatto; il respiro gli si spezzò costringendolo a spalancare la bocca in cerca di aria. Un'altra morte! Ancora!
E lui continuava a vivere.


Poco più in là, attoniti, i suoi amici lo guardavano, incapaci di dire o fare qualsiasi cosa potesse alleviare quel dolore devastante. Maria si strinse ad Alcor mentre in disparte, non vista, Venusia piangeva silenziosamente: non occorreva avere doti telepatiche per percepire la disperazione di Actarus… per quella donna che un tempo avrebbe sposato, e che ora era morta… per tutto quello che avrebbe potuto essere, e non sarebbe mai stato… per Fleed, quel pianeta redivivo che ora era una nuova responsabilità sulle sue spalle di principe… e per sé stessa, che ancora una volta per forza di cose avrebbe avuto l'ultimo posto. Un uomo come Actarus non avrebbe mai anteposto i suoi sentimenti al suo dovere, questo Venusia l'aveva sempre saputo.


Si trascinò fuori dalle lamiere contorte, stringendo i denti per lo sforzo e per non lasciarsi sfuggire neanche un grido di dolore: era il Ministro delle Scienze Zuril, non poteva strillare! Non davanti al suo nemico più mortale!
Sentì qualcosa di caldo sgocciolargli giù da una tempia: sangue, non aveva certo bisogno di toccarlo per saperlo con certezza. La gamba sinistra non lo reggeva, il male era ai limiti del sopportabile, doveva zoppicare e trascinarsela dietro…
Frattura multipla di tibia e perone.
Non ora, computer!

Il petto era un inferno di dolore: doveva avere svariate costole rotte, e alcune erano le stesse che si era fratturato qualche tempo prima, quando era dovuto fuggire dalla base sottomarina.
Frattura severa delle costole quarta-settima sinistre. Lesione interna a...
Taci, computer!
Lesione al polmone sinistro con versamento ematico…
Basta!

Il braccio destro era contuso, ma sano. In mano stringeva una pistola energetica – e fortuna che le sue dita erano ancora in grado di trattenere qualcosa! Ora, poteva solo sperare che gli rimanesse la forza di far quel che doveva.
Sentì un sudore gelido colargli giù per la schiena: non aveva certo bisogno del suo computer oculare per sapere di essere praticamente morto. Sperava solo di avere almeno il tempo di…
Senza alcun intervento medico e in riposo assoluto, ventisei minuti e otto secondi.
Tante grazie, computer. Non ho alcuna intenzione di riposare.
In questo caso il decesso avverrà in un tempo molto inferiore a ventisei minuti e otto secondi, ma le variabili impediscono un calcolo più corretto.
Posso immaginarmelo. Adesso, computer, disattivati.
Richiesta illogica. Prego ripetere l'ordine.
Disattivati. Non mi servi più. Sparisci!
Ordine eseguito.

Un sibilo e poi silenzio, finalmente.
Zoppicò in avanti, l'unico occhio fisso sul suo obiettivo: lui era là, con lei! Improvvisamente, il dolore fisico lasciò il posto a un diverso tormento, altrettanto devastante. Rubina e Duke Fleed… il solo pensiero gli era insopportabile.
Sentì in bocca il sapore del sangue e strinse i denti. Aveva perso tutto, Rubina, suo figlio, l'altro figlio adottivo, la sua carriera, la sua posizione, i suoi sogni più folli, presto anche la sua vita… c'era un'ultima cosa che poteva fare, vendicarsi e riscattare così il suo onore. Se avesse ucciso Duke Fleed, il suo nome sarebbe stato ricordato con rispetto.
Un passo, un altro… la gamba gli irradiò un dolore pulsante fin nel cervello. Non doveva lasciarsi sopraffare… poteva riuscire… poteva… doveva!


La prima a scorgerlo fu Maria: – Alcor…!
In un istante il giovane vide il nemico alle spalle dell'ignaro Actarus, notò l'arma che aveva in pugno e afferrò a sua volta la pistola che portava alla cintura.
Arrancando, Zuril fece un altro passo avanti.
Alcor puntò la pistola.
L'uomo di Vega barcollò: era evidentemente ferito, ma…
– Aspetta – sibilò Maria, afferrandogli il polso.
– Ma…!
– Guarda! – Alcor osservò meglio: Zuril teneva l'arma lungo il fianco, non sembrava intenzionato a sparare… non subito, almeno. Non poteva colpire un nemico in quelle condizioni! Rimase con la pistola puntata: se solo quel maledetto veghiano avesse tentato un brutto scherzo…


Percepire la sua presenza fu come ricevere una frustata.
Forse aveva udito quel respiro stentato, forse l'aveva semplicemente “sentito”… Actarus si girò, trovandosi così faccia a faccia con il suo nemico.
Quasi non riconobbe in quell'uomo grigiastro, insanguinato e lacero il Ministro delle Scienze Zuril che tanto gli aveva dato da penare con i suoi mostri ipertecnologici e i suoi piani infernali; soltanto lo sguardo era quello che ben ricordava, lucidissimo e spietato… ma non solo, c'era qualcos'altro, in lui, che non riusciva a comprendere.
Vide la pistola che aveva in mano, ma vide anche che non accennava ad usarla, almeno per il momento. Zuril guardò oltre lui, e istintivamente Actarus si fece da parte; per un lungo istante l'uomo di Vega rimase in silenzio a fissare Rubina, pallida ed esanime in mezzo ai fiori.
Actarus deglutì. Immaginava il furore che agitava Zuril: la sua principessa era morta, sicuramente avrebbe dato la colpa a lui… e in effetti, se ne sentiva responsabile. Se le avesse creduto, se avesse avuto fiducia in lei, Rubina sarebbe stata ancora viva.
Rimasero entrambi immobili, il silenzio rotto solo dal rantolo del respiro di Zuril; poi, l'uomo di Vega tornò a fissare Actarus, che suo malgrado provò un senso di pena. Sembrava ferito gravemente, doveva soffrire tantissimo…
– Possiamo curarti – disse, istintivamente.
Zuril non sembrò sorpreso dalla sua offerta ma scosse la testa. No.
– Mio… figlio – ogni parola era una sofferenza estrema.
– Mi dispiace – disse Actarus, ed era sincero – Non avrei voluto battermi con lui. Gliel'ho detto, ma…
– Lo so – un colpo di tosse – C'ero… anch'io. Ricordo. – un altro accesso di tosse. Actarus fu praticamente sicuro che gli si fosse riempita la bocca di sangue e che lui si fosse costretto ad inghiottire. Ma che forza aveva, quell'uomo?
– Lascia che ti aiuti! – insisté, ma Zuril lo guardò quasi con… orrore? Possibile? Che modo di pensare aveva, quella gente, da preferire la morte al venire aiutati…?
Fu allora, forse per la prima volta in vita sua, che guardò veramente negli occhi e comprese un uomo di Vega.
Mio figlio. L'altro mio figlio, Kein… ora, anche lei. Per te.
Rubina…?

Actarus trattenne il fiato. Improvvisamente si rese conto che quello che gli stava davanti era un nemico ben diverso da quel che aveva sempre creduto fino ad allora: un rivale in amore. Lei, la bellissima principessa di Vega… e quell'uomo che avrebbe potuto essere suo padre? Ma era così, non poteva sbagliarsi, e la disperazione e l'odio che percepiva erano reali. Zuril doveva aver davvero amato Rubina; adesso poteva capire perché non avesse voluto aiuto. Non da lui, almeno.
Sono morto, Duke Fleed. Lascia che me ne vada con dignità. Mi hai portato via tutto, questo almeno me lo devi.
Cosa vuoi?
Battiti.

Lentamente, Actarus assentì. Capiva. Meglio, molto meglio morire combattendo che andarsene per delle ferite… nessun uomo di Vega avrebbe potuto accettarlo.
– Va bene. Come desideri.


– No – disse Maria – No!
Alcor la guardò senza comprendere: non aveva poteri ESP, non era in grado di capire cosa avessero deciso Actarus e Zuril.
– Actarus ha accettato di battersi con lui – sussurrò alle sue spalle Venusia.
– Cosa? Ma è impazzito?
Venusia scosse la testa: in qualche modo, tramite un legame esistente solo tra lei e Actarus, aveva percepito ogni cosa e sapeva già che qualunque protesta sarebbe stata inutile. Ora avrebbe dovuto vedere Actarus rischiare di venire ucciso da un uomo già morto. Strinse convulsamente le mani e se le premette sulle labbra.
– Actarus! – Alcor si liberò da Maria che lo stava trattenendo e si precipitò verso il suo amico – È una follia! Non posso permettertelo!
Actarus si voltò a guardarlo, gli occhi di ghiaccio: – TU non puoi permettere… a me?
Alcor s'arrestò, fece un passo indietro.
– Va bene così, Alcor – continuò, la voce più gentile – È qualcosa tra me e Zuril… un debito che devo pagare. Dammi la tua pistola e vai via, ora, non abbiamo molto tempo.
Non ne abbiamo affatto, disse lo sguardo febbrile di Zuril. Alcor consegnò l'arma ad Actarus e arretrò, spaventato: in vita sua aveva già visto molto, ma nulla di paragonabile a quel che aveva scorto nell'unico occhio di Zuril. Istintivamente pensò a Tetsuya: disperazione, odio, determinazione totale… sì, probabilmente il pilota del Grande Mazinga doveva aver avuto quello sguardo, durante la battaglia finale contro i Mikenes. Era contento di non aver dovuto vederlo.
Rimase in disparte, Maria che piangeva silenziosamente da un lato e all'altro Venusia immobile, gli occhi lustri e le mani sempre premute sulle labbra. Mise le braccia attorno alle spalle delle sue compagne, le strinse a sé e rimase a guardare. Non poteva far altro.


Il sole stava tramontando.
La brezza soffiò, i fiori piegarono ancora le corolle. Qualche petalo dorato si perse nell'aria.
Pistola in pugno, i due uomini si fissavano spiando il momento in cui cercare di uccidersi. Entrambi immobili, entrambi impassibili, continuando a fissarsi senza abbassare mai lo sguardo, dimostrandosi l'un l'altro il proprio coraggio.
Il tempo parve fermarsi.
Il duello di sguardi sarebbe potuto continuare ancora a lungo: erano avversari alla pari, non si temevano… ma Zuril ad ogni respiro sentiva avvicinarsi la morte. Non poteva aspettare più.
Due colpi, talmente ravvicinati da sembrare uno.
Actarus barcollò, rimase in piedi; Zuril continuò a guardarlo, la pistola stretta nel pugno.
È finita, Duke Fleed.
S'afflosciò senza un grido, mentre il sangue e la vita gli scivolavano via dalla ferita al petto. Si sostenne su un gomito, la testa ancora orgogliosamente eretta, guardando senza quasi vederlo il cielo rosso… i fiori gialli… l'erba, la terra… scomparve tutto in un vortice oscuro.
Actarus s'avvicinò lentamente, la pistola ancora in pugno: gli bastò un'occhiata per capire che Zuril era morto. Il Ministro delle Scienze di Vega non era più.
Prese fiato, stringendosi la ferita sul fianco: un colpo di striscio sulle costole che gli rendeva doloroso anche l'uso del braccio. A giudicare da come sparava Zuril, gli era andata davvero bene.
– Actarus! – Alcor, Venusia, Maria… eccoli, i suoi compagni, felici che lui fosse ancora vivo. Gli corsero incontro, lo circondarono.
– Ma sei ferito! – gridò Maria.
– Sei stato un pazzo! – aggiunse Alcor – Saresti potuto morire!
Venusia fu l'unica a non parlare: si tolse rapidamente la casacca della sua uniforme, l'arrotolò e la strinse sulla ferita di Actarus, legandogliela attorno al torace. Tipico da parte sua, parlare poco e agire nel modo giusto; quando lei alzò gli occhi e incontrò i suoi, Actarus percepì la forza del legame tra di loro di loro e seppe che era l'unica ad averlo veramente compreso.
Non potevo lasciarlo andarsene così. Lo capisci, vero, Venusia? Lui non voleva essere aiutato e io non potevo stare ad aspettare che morisse… e poi c'erano troppi morti tra di noi. Fritz. Kein. Adesso, Rubina.
– Rubina – quello di lei fu un sussurro che solo lui poté sentire – Adesso cambia tutto, non è vero?
Fleed… certo, ora niente è più come prima.
– Mi dispiace – mormorò.
Lei voltò la testa di lato, gli occhi che le bruciavano: adesso lui non era più Actarus il fattore, era il principe di Fleed… Fleed, che era tornato a rivivere e che avrebbe reclamato la sua presenza. Non ci sarebbe stato più posto per lei, nella sua vita.
Non nell'immediato futuro, almeno… e poi? Un principe e la figlia di un cowboy? Assurdo…
– Venusia…
– Va bene così, Actarus – lei passò con lo sguardo da Rubina, ancora in mezzo ai fiori, a Zuril, e rabbrividì: – Cosa facciamo con… loro?
– Posso preparare una tomba per… per lei – Alcor parlava sussurrando, quasi la sua voce avesse potuto ferire ancora di più il suo amico.
– Anche per Zuril – disse Actarus, il viso inespressivo.
– Lui? – lo stupore fece dimenticare ad Alcor qualsiasi timore di far del male.
– È stato un degno avversario.
– Ma è colpa sua se Rubina è morta! – Alcor gettò uno sguardo pieno d’astio ai resti di quello che era stato il grande Ministro delle Scienze – Parola mia, non ti capisco! Con un colpo del Tuono Spaziale puoi spazzar via lui e i rottami della sua astronave, senza star tanto a perdere tempo!
– Non posso fare una cosa simile – in quel momento Actarus si sentiva molto stanco, e la collera di Alcor non aveva fatto che aumentare la sua spossatezza.
– È un nemico, ha tentato di ucciderci in tutti i modi, alla fine ha causato la morte di Rubina!
– Se non ti va di aiutarmi, ti capisco. Mi arrangerò da solo.
Alcor lo guardò, esasperato: – Tu sei pazzo! – scosse la testa, impugnò la pistola e, brontolando, andò a cercare il posto adatto in cui scavare con il raggio energetico la tomba di Rubina. Parve ripensarci, tornò indietro, si tolse la casacca della propria tuta e la tese a Venusia, prima di avviarsi di nuovo tra i fiori. Maria gli andò dietro.
Actarus e Venusia rimasero soli, l'uno di fronte all'altra, lui che si stringeva la ferita e lei che sembrava sguazzare nell'uniforme azzurra e blu di Alcor; erano vicinissimi, eppure un intero mondo li separava.
– Rubina mi ha detto che Fleed sta riprendendo a vivere – mormorò Actarus.
– Sì. Ho sentito – rispose lei.
– Lo capisci, vero, che dovrò partire?
– Sei il principe di Fleed. Certo che lo capisco.
– Non avrei mai voluto questo.
Venusia si asciugò rapidamente gli occhi: – Lo so.
Actarus tentò disperatamente di dire quel che gli bruciava, ma le parole non gli vennero. Rimpianse di non poter essere telepate, di non poterle esprimere direttamente tutto il suo dolore… Non ho il diritto di chiedertelo, Venusia… lo so che ti farò del male, io, proprio io! Ma se puoi, perdonami.
Lei lo guardò, e senza una parola gli gettò le braccia al collo. Lui esitò un istante solo, poi la strinse a sé usando il braccio che non gli doleva. Era stato perdonato, e non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza.


Alcor scavò due tombe, una alta sulla collinetta fiorita, per Rubina, e una seminascosta in un valloncello ombroso. Vi deposero i corpi e ricoprirono con la terra; Actarus si fermò un istante a guardare il tumulo di Zuril, prima di voltargli le spalle per sempre. Rimase più a lungo sulla tomba di Rubina, in silenzio. I fiori la circondavano, l'indomani all'alba il sole l'avrebbe illuminata della sua luce… e presto sarebbe spuntata l'erba, poi altri fiori l'avrebbero ricoperta.
– Non vuoi che mettiamo niente? – si stupì Alcor – Una pietra col suo nome, magari?
Actarus scosse la testa: – Sono sicuro che lei preferisca così.
Tornerò qui, Rubina, e porterò per te dei semi di fiori.
– Continuo a non capire perché tu abbia combattuto con Zuril – brontolò Alcor.
– Era un uomo di Vega – mormorò Actarus, avviandosi lentamente verso Goldrake, atterrato poco distante sul prato – Con quel che era successo non poteva tornare alla sua base, poteva solo morire.
– Appunto! Sarebbe bastato un colpo di pistola…
– Avresti davvero sparato a un avversario in quelle condizioni?
Alcor fece per ribattere, incrociò gli occhi di Actarus e abbassò lo sguardo: – No. Hai ragione, no. Però potevi evitare di batterti con lui, era solo questione di tempo…!
– Avrei dovuto star lì a vederlo agonizzare? – Actarus scosse la testa – E poi, un veghiano preferisce sicuramente morire combattendo.
– Non vedo perché fare un simile favore a un uomo come Zuril…!
– Glielo dovevo – Actarus pareva davvero stanco, ora, e la ferita cominciava a dolergli seriamente – Ne parleremo più avanti. Rientriamo, ora.



Lady Gandal trattenne il fiato, prima di entrare.
Lui era là, seduto alla sua scrivania. Si dominava perfettamente, come sempre, ma stavolta la sua voce aveva un tremito leggero che non gli aveva mai sentito: – Avete avuto notizie, da Zuril?
– Sì, Maestà – rispose lei, rimanendo poi in silenzio.
Re Vega la guardò, attendendo il resto; colto da un dubbio atroce si protese in avanti sulla sua scrivania: – Mia figlia…?
Lady Gandal continuò a tacere.
Ci vollero parecchi secondi perché Re Vega accettasse di dare un senso a quel silenzio, e parecchi altri trascorsero prima che riuscisse ad articolare la domanda che non avrebbe mai voluto fare: – Rubina… morta?
Lady Gandal chiuse gli occhi e chinò il capo.
Lui emise una sorta di gemito strozzato e si spinse contro lo schienale della sua poltrona, una mano contratta sul bracciolo, l'altra premuta in mezzo al torace, un lungo tremito che lo percorreva da capo a piedi. Era Yabarn, il Re di Vega, l'Imperatore della Nebulosa: non pianse, anche se chi era morta era la sua unica figlia.
Respirò a fondo, a lungo e quasi con violenza; lo sguardo che alzò su lady Gandal era quello d'acciaio che lei ben conosceva, lo stesso che aveva avuto quando aveva ordinato lo sterminio di infiniti mondi: – Zuril me la pagherà! Mi aveva promesso che lei non avrebbe corso nessun rischio! Dov'è quel maledetto Zuril?
– È morto, sire – rispose lei, sforzandosi di non lasciar trapelare nulla dalla propria voce – Si è battuto in duello con Duke Fleed, ma non aveva alcuna speranza di salvarsi, era già gravemente ferito.
– In duello? Ma…
– Da quanto abbiamo potuto ricostruire, Zuril era riuscito a intrappolare Goldrake in una rete energetica da cui non avrebbe dovuto liberarsi…
– “Non avrebbe dovuto”, dici? – chiese il sovrano, tagliente.
Lady Gandal fremette. Quell'astio verso il suo collega caduto in un certo senso feriva anche lei.
Aspetta di sapere tutto, vedremo se avrai ancora voglia di fare il sarcastico…
– Il piano era perfetto – tagliò corto – Zuril aveva catturato Goldrake e stava per finirlo. Purtroppo, c'è stato un imprevisto che nessuno di noi avrebbe immaginato.
– E sarebbe?
– Il fatto che Rubina l'abbia liberato – ecco, l'ho finalmente detto.
Re Vega si voltò a guardarla, e lei – nessun altro ci sarebbe riuscito – sostenne il suo sguardo.
– Cosa? – fu un sibilo infinitamente più minaccioso di un ruggito – Cos'hai detto? Hai osato insinuare che mia figlia avrebbe aiutato il nostro nemico?
– Sì, Maestà – lo vide aprire la bocca per replicare e aggiunse: – Abbiamo le registrazioni che ci hanno inviato in tempo reale la nave e il computer oculare di Zuril. Potrete vedere chiaramente quel che è successo: la principessa ha distrutto gli accumulatori energetici che generavano il campo di forza in cui era imprigionato Goldrake.
– …!
– Allora Zuril ha sparato contro il robot per distruggerlo – continuò lei, ormai lanciata e decisa a dirgli tutta la verità – ma la principessa Rubina si è messa in mezzo con la sua astronave facendo da scudo a Duke Fleed…
– A Duke Fleed…?!
– ...e venendo abbattuta. Goldrake ha impedito che precipitasse a terra, e Zuril ha cercato di sfruttare quell'occasione per colpirlo…
– E…?
– La principessa Rubina ha colpito la nave di Zuril. Abbattendola.
Re Vega ricadde contro la sua poltrona, annientato. Sua figlia… sua figlia aveva osato…
– Mi dispiace, sire – ed era la verità, anche se il suo dispiacere era più che altro per Zuril. Aveva sempre lavorato bene, con lui… molto meglio che con quell'incapace di Hydargos.
Re Vega era pur sempre Re Vega: poteva cadere, certo, ma avrebbe rialzato subito la testa. Decise di ignorare Rubina (sua figlia, sua figlia una traditrice!), almeno per il momento: il tempo per pensarci sarebbe venuto più tardi, quando fosse rimasto solo. Impietrì il viso, le spalle, l'animo.
– Zuril è stato abbattuto, dunque – disse freddamente, invitandola a continuare – E poi?
– Poi, non è stato semplice ricostruire quel che è successo: la nave di Zuril è precipitata a terra ma non è esplosa, per cui ha continuato a registrare quel che stava accadendo. Sappiamo che la principessa è morta poco dopo, Duke Fleed l'ha estratta ancora viva dai rottami, ma…
– Non parlarmi di lei! – sbottò il sire, tranciando l'aria con un gesto secco – Voglio sapere di Zuril. È stato abbattuto. Poi?
– Era ferito gravemente, da quel che ci ha trasmesso il suo computer oculare: era solo questione di tempo e sarebbe morto. È riuscito comunque a trascinarsi fuori dalla nave… a quel punto il computer di Zuril è stato disattivato, abbiamo solo la registrazione dell'astronave. Zuril ha parlato con Duke Fleed, ma non sappiamo cosa si siano detti; poi si sono battuti in duello.
– E Zuril è morto – concluse Re Vega.
– Sì. È riuscito a ferire Duke Fleed, anche se non seriamente.
Re Vega chiuse gli occhi e chinò la testa, riflettendo. Quando tornò a parlare, nulla in lui tradiva la benché minima emozione: – Il ministro Zuril si è battuto valorosamente. Che la sua memoria sia onorata.
– Molto bene, Maestà. E… per quanto riguarda…?
Un'occhiata che parve trafiggerla: – Non c'è assolutamente altro da ricordare o commemorare, lady Gandal. Nient'altro. Non voglio doverlo ripetere.
– Ho capito, Maestà.
– E fammi avere quei video. Voglio vederli.
– Subito, Maestà. Posso andare?
– Sì, certo – per un attimo il sire sembrò davvero stanco e vecchio, molto vecchio… ma fu, appunto, un attimo: – Lady Gandal!
– Maestà?
– Non voglio che sia nemmeno più nominata.
Mostro disgustoso, era la tua unica figlia, e ti ha persino voluto bene… – Come volete, Maestà.
Uscì, le porte scivolarono dietro a lei.
Rimasto solo, Re Vega premette un pulsante sulla sua scrivania, chiudendo le porte e isolandosi dal resto della base. Controllò che l'interfono fosse spento.
Era finalmente solo, solo con sé stesso.
Aprì lo scollo della casacca, sfilò una catenina cui era appeso un medaglione d'oro che portava sempre con sé. Prese fiato, lo aprì: capelli rossi, grandi occhi celesti, quei lineamenti che tanto ben conosceva… solo vedere l'immagine di sua figlia lo fece spasimare.
Rubina… come hai potuto farmi questo?


Il sole nascente rendeva dorato l'intero campo di fiori, che si muovevano pigramente nella luce.
Un uomo era chino sulla tomba: sparsi dei semi, con un dito li spingeva uno per uno nella terra morbida e umida. Erano semi minuscoli, ma lui continuò con pazienza il suo lavoro. Quando anche l'ultimo fu affondato, livellò gentilmente il terreno, quasi un'ultima carezza; quindi prese una bottiglia d'acqua che aveva portato con sé e cominciò ad innaffiare. Fiori rossi per lei, che li amava tanto… un giorno, forse qualcuno si sarebbe chiesto come mai in mezzo al ravizzone vi fosse un ciuffo di papaveri scarlatti.
Si alzò, stirandosi i muscoli delle gambe aggranchiti dall'immobilità. Il sole era alto, ora. Doveva andare.
Prima di partire per Fleed tornerò ancora, ma sarà l'ultima volta.
Un fremito sembrò muovere i fiori attorno a lui, poi cominciò a scorrere lungo il mare di corolle: un ringraziamento da parte dei fiori, e da parte di… di lei, sì…
Actarus aggrottò le sopracciglia, sorpreso, e si voltò verso il valloncello ancora nell'ombra: era praticamente sicuro che anche da laggiù fosse arrivato un “grazie”. Continuò a guardare là in fondo: naturalmente non poteva vedere nulla, ma non percepiva ostilità. Solo quel “grazie”.
Fu come essersi liberato di un peso immane.
Respirò a pieni polmoni, come avrebbe fatto un uomo appena uscito di prigione; un ultimo sguardo alla tomba e poi s'allontanò, accompagnato dalla danza di infinite corolle dorate.

- FINE-

Per solidarizzare con Venusia: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2775#newpost
 
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Stavolta un racconto con protagonista Tez, che deve affrontare qualcosa di veramente spaventoso...


DENTE PER DENTE

Dopo una dura esercitazione, a parere di Tetsuya la più grande gioia possibile era farsi una doccia calda. Dato che quel giorno l'allenamento era stato più pesante del normale decise di concedersi anche una barretta del suo cioccolato preferito, gianduia con nocciole.
Accomodatosi nella sua amata poltrona, scartò la tavoletta: un delizioso profumino di cacao gli solleticò le narici.
Diede un morso: la gianduia sembrò fonderglisi in bocca… per contrasto, le nocciole erano più croccanti che mai. Che squisitezza…
S'impedì di inghiottire in fretta e masticò a lungo, rigirandosi il cioccolato tra lingua e palato. Paradisiaco.
Un altro boccone – e subito, un dolore spaventoso gli s'irradiò fin nel cervello.
Mi devo esser rotto un dente, si disse tra una fitta dolorosa e l'altra. Mi toccherà andare dal dentista… nooo…
Già perché, è doloroso dirlo, l'eroico pilota del Grande Mazinga capace di affrontare a piè fermo orde d'invasori, non reggeva alla sola idea di sedersi sulla poltroncina d'un dentista – e figuriamoci quindi ad aprire la bocca e lasciargli frugare nelle proprie fauci.
Tetsuya corse in bagno, provò a sciacquarsi la bocca: sangue!!! Allora era proprio vero, aveva un dente rotto!
Ormai aveva la sensazione che un omino gli stesse prendendo a martellate la mascella. Che incubo! E che male!
Le ore successive trascorsero nell'angoscia più completa: l'infelice ingollò antidolorifici, fece impacchi di ghiaccio, sciacquò con collutori: niente, il dolore persisteva.
Provò persino i rimedi della nonna scovati sul web: andavano dagli sciacqui con aceto o bicarbonato all'applicazione di aglio schiacciato. Niente.
Tentò rimedi più complessi, come far bollire della cipolla e usarla come collutorio o applicare sulla guancia una foglia di cavolo lessata: niente, aveva sempre la netta sensazione d'avere un omino che gli stesse lavorando la mascella. Ma col piccone.
Rivolgersi a Jun? No, lei l'avrebbe subito trascinato da un dentista, e lui non stava poi così male… no, non così tanto. No.
(L'ometto aveva ormai abbandonato il piccone ed era passato al martello pneumatico).
Sorvoliamo pietosamente la descrizione della notte, trascorsa ovviamente insonne e in preda al dolore sempre più forte: gli omini armati di martello pneumatico erano ormai tre, e a loro si era unita una trivella da perforazione petrolifera.
Fu dunque un Tetsuya decisamente non nella sua forma migliore quello che andò ad aprire la porta a suo fratello Alcor, venuto il mattino dopo a prenderlo per recarsi assieme alla fiera della moto; se ne era forse dimenticato?
Certo, Tetsuya se n'era completamente scordato (adesso le trivelle erano due, e perforavano a pieno regime). Alcor comunque aveva già notato il pallore del fratello e soprattutto il fatto che avesse la faccia gonfia come una pagnotta; la faccenda era grave, bisognava intervenire, e subito. Sordo a qualsiasi protesta, molto flebile a dire il vero, Alcor caricò Tetsuya in macchina e lo portò a farsi visitare.
La faccenda del dentista era causa di antica ruggine tra i due fratelli: Alcor, che aveva sempre avuto problemi di carie, sosteneva la corretta igiene orale mentre Tetsuya, le cui zanne non erano mai state visitate da nessuno, apparteneva alla scuola “stai bene finché non vai dal medico”. Visto il fratellone impossibilitato a rispondere Alcor ne approfittò per ammollargli un fervorino sull'utilità della prevenzione, sull'esigenza dell'uso quotidiano di spazzolino e dentifricio (e qui Tetsuya assunse un'aria da martire ingiustamente accusato) e soprattutto sulla necessità di visite regolari da uno specialista, concludendo il tutto con un rassicurante “Speriamo che ti sia rimasto ancora qualche dente sano”.
Ma comunque, “Se anche dovrà trapanarti un po' di molari, non hai da preoccuparti: con le tecniche moderne non si sente proprio niente”.
Tetsuya avrebbe voluto dargli l'unica risposta che gli fosse possibile in quel momento, ma erano ormai arrivati davanti all'ambulatorio e la vista della targa del dentista gli paralizzò il dito medio, impedendogli così d'esprimere la sua opinione in proposito.
Fu così che, non molto dopo, l'infelice Tetsuya si ritrovava sdraiato su una poltroncina reclinabile, con davanti a sé un'orrenda serie di strumenti di tortura che presto sarebbero stati usati su di lui; poco più in là il dottore, un gioviale omarino grassottello e occhialuto, stava lavandosi con cura le mani chiacchierando amabilmente con Alcor, che ovviamente aveva voluto accompagnare Tetsuya fin nell'ambulatorio. Per essergli vicino, certo.
E anche per non perdersi lo spettacolo del suo fratellone ridotto a una tremolante massa di terrorizzata gelatina.
– Dev'essersi spezzato un dente, credo – stava dicendo Alcor in un tono allegro davvero irritante – Non ha assolutamente voluto farmi vedere… credo che l'idea del dentista lo spaventi.
– Oh, succede a molti – rispose il dottore, serafico, infilando un paio di guanti di lattice.
– Beh, lui ne è terrorizzato – aggiunse vilmente Alcor, mentre il fratello gli lanciava un'occhiata ustoria – Pensi, dottore, che non va mai a curarsi i denti!
– Tanti fanno così – il dentista andò a sedersi accanto a Tetsuya e prese a frugare tra i suoi strumenti, cavandone uno specchietto: – Bene, diamo un'occhiata.
– Sarà pieno di carie – continuò Alcor, in tono quasi speranzoso – Non vuole mai farsi controllare, mai una pulizia dentale, mai una visita…
– Va bene, va bene – il dentista si rivolse a Tetsuya: – Cerchi di aprire più che può, per favore.
– Se hai paura, caro, posso tenerti la manina – aggiunse Alcor, perfido.
Tetsuya trasse un lungo respiro, chiuse gli occhi a spalancò la bocca, mentre in mente gli tornavano le immagini d'un vecchio film che mai aveva dimenticato… lo sventurato eroe legato sulla sedia del sadico dentista nazista, che lo trapana senza anestesia. Aaagh.
– Oh… ecco. Vedo, vedo – il dentista prese uno degli strumenti di tortura; Tetsuya trattenne il fiato, ma sentì solo alcuni spruzzi sulla gengiva. Il supplizio vero e proprio sarebbe arrivato dopo, lo sapeva.
– Un dente rotto? – chiese Alcor, che già si pregustava il panico del fratello all'idea dell'iniezione di anestesia e la successiva trapanata.
– Adesso vediamo – il dentista prese una pinza – Spalanchi più che può, per piacere.
Mi vuole togliere il dente? Senza anestesia?, si disse il terrorizzato Tetsuya.
– Apra la bocca! – ordinò il dottore; e Tetsuya, cresciuto alla severissima scuola del professor Kabuto, obbedì senza fiatare.
Il dentista regolò la luce, introdusse la pinza nelle fauci del malcapitato paziente…
– Ecco fatto! – esclamò, tirando fuori un qualcosa di bianco e sporco di sangue.
– Già tolto il dente? – Alcor era stupefatto, ma più stupefatto di tutti era Tetsuya: non solo non aveva provato dolore, anzi, adesso si sentiva già meglio! Non poteva crederci.
– Non è un dente – spiegò il medico, mostrando il “qualcosa” al suo strabiliato paziente – Sembra un pezzetto di... una mandorla, forse... che si era profondamente incastrata nella gengiva.
– Una nocciola – esalò Tetsuya. Le trivelle avevano smesso di martellargli la mascella, che sollievo!
– Una nocciola, certo. Sono cose che succedono, e quando capita il dolore può essere insopportabile... specie se, come nel suo caso, il pezzetto s'incastra vicino al canino. Lì c'è la terminazione del nervo trigemino, immagino che le abbia dato parecchio fastidio.
– Diciamo di sì – mormorò Tetsuya, sciacquandosi con cautela la bocca.
Alcor, brutto da dire ma ohimè vero, ci rimase male: suo fratello se l'era cavata con così poco?: – Dottore, vuol dire che tutto il problema era quel pezzetto di nocciola?
– Proprio così.
– Ma per avergli fatto così tanto male, il dente deve essere cariato!
– Non direi proprio, sembra sanissimo. A dire la verità, mi sembra che l'intera bocca sia sana: se tutti fossero come lei, caro signore – e qui il medico rivolse a Tetsuya un gran sorriso – noialtri dentisti potremmo appendere il trapano al chiodo.
– Neanche una carie…! – esclamò Alcor, contrariato.
– Meglio per lui, no? – il dentista diede un'ultima controllata alla dentatura di Tetsuya e vi nebulizzò del disinfettante – Naturalmente la gengiva è ancora gonfia, e ci vorrà un paio di giorni perché torni normale. Le prescriverò un antibiotico, da prendersi per una settimana; poi tornerà da me per un controllo, e faremo una pulizia… non che lei ne abbia un gran bisogno, a dire il vero. La sua igiene orale è eccellente.
– Grazie, dottore – rispose Tetsuya, gettando ad Alcor un'occhiata che era tutta un “Tié!”.
– Ma non è possibile… – esclamò Alcor – Scommetto che non si lava mai i denti! Ha da anni lo stesso spazzolino, sempre come nuovo…
È nuovo. Lo ricompro uguale tutti i mesi – rispose Tetsuya, mentre un bagliore dorato sembrava aureolargli il cranio.
– Non fosse così, i suoi denti non sarebbero tanto perfetti – concluse il dottore.
Alcor si sentì ribollire. Non era giusto! Da un dente rotto si era arrivati all'igiene ideale! Se non era sfortuna questa…
Incollerito, si tolse di tasca un pacchetto di chewingum (Senza zucchero! Rinfrescante! Con microsfere pulenti!), si cacciò in bocca una tavoletta, morse rabbiosamente…
Un urlo.
– Che succede? – il dottore gli andò subito accanto – Mi faccia vedere.
– Non… è… niente… – rantolò Alcor; ma non era facile sottrarsi al dentista, che con gentile fermezza gli fece spalancare la bocca.
– Si sarà morsicato la lingua – osservò Tetsuya.
– Macché, gli è saltata un'otturazione. Succede. Ma adesso rimediamo subito: una trapanatina per pulire bene e richiudiamo tutto – e il dentista, schiaffato Alcor sulla poltroncina, cominciò a preparare un'iniezione – Una fortuna che sia successo mentre lei è qui, non è vero? Così rimediamo subito.
Eh già, proprio così. Una vera fortuna…!
– Non preoccuparti, con la tecnica moderna non sentirai nulla – lo rassicurò Tetsuya, mentre il dottore si faceva avanti, una bella siringona zeppa d'anestesia: – Vuoi che ti tenga la manina, caro?



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Ho realizzato che non avevo mai postato nella gallery il racconto in cui Re Vega si fidanzava con Himika divenendo irrimediabilmente Yabby: questa storia era infatti stata scritta per uno dei nostri libri di Natale. La ripropongo, anche perchè proprio da questo episodio il sire si crea un nemico che negli anni successivi si è rivelato temibile.
Buona lettura a tutti. La seconda parte domani, massimo mercoledì.

NATALE CON I TUOI


Parte prima: 5 dicembre

«CHE COSA???», ululò Re Vega.
Elegantemente assisa sulla sua poltrona, un calice tra le lunghe dita, Himika, regina del popolo Yamatai, si permise un grande – e perfido – sorriso.
«Vedo che la mia proposta non ti ha lasciato indifferente», osservò.
«Indifferente? È la proposta più… più… più idiota che abbia mai sentito!»
«Papà, ti prego», intervenne Rubina, la terza presente a quel riservatissimo colloquio. «Non fare così, o ti salirà la pressione!»
«È già salita!», ringhiò suo padre.
«Sì? Allora, piglia una delle tue pillole», con la rapidità data dalla lunga pratica, Rubina cacciò una pastiglia in bocca al suo regale genitore.
«Non dovresti agitarti così, ti fa male», osservò mielosamente Himika. «Capisco che tu ti senta eccitato dalla mia offerta, ma…»
«Eccitato?!», sbraitò Re Vega – e subito Rubina, rapidissima, gli cacciò in bocca una seconda pillola, «Sono DISGUSTATO! Sono ORRIPILATO!! Sono SCONVOLTO!!!»
«Continua a parlarmi così, e mi farai tua», Himika sorrise a Rubina con aria complice: «Ho fatto colpo, che ne dici?»
«Senza dubbio», Rubina osservò il colorito del padre, che era ormai in perfetta sintonia con il purpureo del mantello; una terza pillola raggiunse le altre due nella regale strozza del sovrano.
«Ghf», fu tutto ciò che riuscì ad esprimere il sire.
«Su, un goccino d’acqua e vedrai che ti passa», e Rubina gli mise in mano un bicchiere colmo. «Bevi!»
Normalmente, Sua Maestà si sarebbe ribellato contro un simile, perentorio ordine; quella volta, sentendosi ben tre pillole saltellargli allegramente nel gargarozzo a mo’ di ping pong, obbedì senza fiatare. Un istante dopo, le pillole raggiunsero felicemente le regali interiora.
«Adesso ti senti meglio, caro?», tubò Himika, lieta nel vedere il colorito del suo diletto tornare ai consueti toni aranciati.
«Sto meglio, accidenti a te!», sbottò il sire.
«Papà! Non è carino!», esclamò Rubina.
«Non sarà carino, come dici tu, ma è spontaneo!», ringhiò il genitore.
«Io apprezzo molto la spontaneità», intervenne in fretta Himika. «A dire il vero, non sopporto complimenti e salamelecchi…»
«Complimenti? Da mio padre?», la principessa alzò gli occhi al cielo. «Fantascienza!»
«Ottimo, meglio dirsi le cose come stanno», e Himika guardò Rubina. Rubina guardò Himika.
Improvvisamente, il sire ebbe l’agghiacciante certezza che le due si fossero comprese perfettamente… addirittura, si fossero alleate tra di loro. Non era certo un codardo, pure un lungo brivido gli percorse la regia colonna vertebrale.
«Un momento, voi due…», cominciò, ma naturalmente gli venne dedicata l’attenzione che meritava. Cioè, zero.
«Dovete parlare, e io vi sono d’impiccio», disse subito Rubina.
«Grazie, cara», sorrise Himika.
«Non sei affatto d’impiccio!», esclamò il sovrano.
«Ciao, papà… fai il bravo, mi raccomando. Vi lascio soli», e Rubina strizzò l’occhio ad Himika.
«No, aspetta, non abbandonarmi con… con lei…», esclamò Re Vega, angosciato; ma sua figlia si era già discretamente dileguata, lasciandolo solo ed indifeso, in balìa di quella donna.
Per un attimo rimasero a fissarsi, lei sempre comodamente allungata sulla sua poltrona, lui addossato alla porta chiusa, perfetta immagine della timida verginella preda di Jack lo Stupratore.
Poi il sire si riprese: era un uomo, che diamine! E lei una fragile donna.
Un’ondata d’orgoglio mascolino investì il sovrano, che guardò meglio la sua avversaria: era decisamente più bassa di lui, bionda e d’aspetto fragile. Non c’era da preoccuparsi troppo.
Ferma, si disse il sire, reprimendo quei pensieri invero piuttosto maschilisti. La sua defunta moglie Telonna era piccola, fragile e bionda, ma aveva lo spirito d’un sergente maggiore, e cominciava a sospettare che Himika fosse un po’ della stessa pasta. In quella, colse un balenio negli occhi della sovrana, e con un certo timore si disse d’aver visto sguardi più dolci negli occhi di certi sicari.
Ma era Re Vega. L’Imperatore della Nebulosa. Mai avrebbe perso di dignità davanti ad una donna!
«Senti…»
«Cosa vuoi?», ululò il sire, facendo un balzo.
«Stavo solo cercando di parlarti. Non essere così nervoso!»
«Non sono nervoso! Sono calmo! Calmissimo! Sei tu che mi irriti con le tue sciocchezze!»
A fatica, la regina si trattenne: insomma, non è carino sghignazzare in faccia al proprio fidanzato! Prese perciò fiato e s’impose di rimanere seria – anche se dubitava che sarebbe riuscita a restarci a lungo.
«Ascolta, Yabarn…»
«Non ti permetto di parlarmi così!»
«E come dovrei chiamarti? Yabby?»
«Per te, sono Vostra Maestà», rispose lui, tutto sussiegoso.
«Ooooh, Yabby, mi fai impazzire quando fai il formale!»
«Ti ho già detto che non devi chiamarmi Yabby!», sbottò il sire, che cominciava a sentirsi scaldare le aguzze orecchie.
Himika depose il calice e si raggomitolò contro lo schienale della sua poltrona: «Su, Yabby, continua a fare il vocione indignato! Sei irresistibile, Yabby! Ascolta, Yabby: ti hanno mai detto che sei più carino, quando ti arrabbi?»
«No!»
«Non mi stupisce».
Re Vega s’impose immediatamente di calmarsi: quell’infernale donna stava facendo di tutto per provocarlo – riuscendoci benino, bisogna ammetterlo. Non poteva cadere nella sua ridicola trappola, per cui si ricompose ed assunse quell’aria di sobria, austera maestà che tanto si confaceva ai suoi aristocratici lineamenti.
«Parliamoci seriamente, Himika», cominciò.
«Perché, finora che altro abbiamo fatto?», sorrise lei.
Dall’alto dei suoi due metri e venti, Re Vega lasciò cadere sull’incauta il suo sguardo colmo di glaciale disprezzo: «Trovo nauseante tutto questo discorso, come trovo assurda la tua proposta. Non ti nascondo di sentirmi indignato ed offeso dalle tue parole e dal tuo atteggiamento…»
«Oh, povera me, che errore avrò mai commesso?», disse Himika, con un’espressione talmente contrita che non avrebbe ingannato nemmeno un neonato un po’ tardo.
«Semplicemente, mi stai mancando di rispetto!», esplose il sire, che non poteva reggere troppo a lungo il ruolo di Grande e Dignitoso Offeso. «Già ti avevo concesso di parlarmi da pari a pari, anche se francamente non c’è paragone; ma non ti basta! Mi tratti come se fossi un bambino! Io! Il sire di Vega, l’Imperatore della Nebulosa! D’ora in avanti, io esigo da te rispetto e deferenza, come si conviene al mio altissimo rango! Non tollererò da parte tua ulteriori offese! Spero d’essere stato chiaro!»
Silenzio.
Un po’ sorpreso nel non sentir repliche (“oh, finalmente quella dannata donna ha capito chi è che comanda!”), il sire abbassò lo sguardo su Himika, che rimasta in silenzio lo fissava con grandi occhi.
«Hai niente da dire?», chiese dignitosamente il sovrano.
«Yabby, lo sai che quando t’arrabbi fai una piccola ruga proprio in mezzo alle sopracciglia?», esclamò lei, in tono giulivo.
«Rinuncio!», urlò Sua Maestà, esasperato. La bipenne d’argento di Himika saettò rapida nell’aria agganciando il bavero del regale mantello; Himika tirò, e un istante dopo Re Vega, mezzo soffocato, si trovò col faccione a pochi centimetri di distanza dal viso della regina.
«Adesso basta con le sciocchezze», esclamò la signora, che non aveva certo bisogno d’alzare la voce per far capire che il capo era lei. «Io ammetto d’avere problemi con quel dannato Jeeg; sappiamo tutti che anche tu non è che te la stia passando meglio con quel Goldrake…»
«Grmphfhhh!», articolò il sire; la regina girò un poco la bipenne, il mantello venne tirato maggiormente, le proteste vennero subito tacitate.
«Un’alleanza tra i nostri due popoli è la mossa più saggia che potessimo compiere, e sono felice che tu sia d’accordo», continuò lei, imperterrita.
«Nhhhho…», rantolò il sovrano. Altra giratina di bipenne. Inizio di soffocamento.
«Naturalmente, non possiamo sposarci subito», continuò la regina «Ormai le feste sono prossime. Dovrò tornare dal mio popolo… “Natale con i tuoi”, dicono i terrestri. Ci vedremo comunque dopo Capodanno, e stabiliremo ogni cosa, dalla festa di fidanzamento alla data delle nozze. Hai obiezioni?»
Nonostante tutto il suo desiderio di parlare, il sire tacque.
«Niente da dire? Me l’immaginavo», la regina mollò parzialmente la presa, e il Sua Maestà poté finalmente rompere l’apnea.
Mentre Re Vega riprendeva a respirare normalmente, Himika continuò a contemplarselo, l’occhio amoroso.
«Hai… tentato… d’uccidermi…!», rantolò lui, semiasfissiato.
«Non facevo sul serio», rispose dolcemente lei, cincischiandogli il bavero del mantello con la punta della bipenne. «Avessi voluto eliminarti, adesso non potresti certo parlare, non pensi?»
«Sei… un’assassina!»
«E tu hai qualche genocidio sulla coscienza, per cui siamo una bella coppia», sorrise la regina. «Non vorresti suggellare il nostro patto con un bacio?»
Per quanto ancora malconcio, Re Vega non era tipo da sottovalutare il pericolo: si rese improvvisamente conto d’essere a portata di labbra di Himika, e con un barrito colmo di raccapriccio balzò all’indietro. Dalla bipenne penzolò tristemente un lembo del regale, purpureo mantello.
«Va bene, non sia mai che io ti forzi a baciarmi», disse virtuosamente lei. «Non voglio certo usarti violenza, povero Yabby!»
Digrignata di zanne.
«Bene, penso sia tutto», Himika si rialzò, si lisciò una piega del vestito; quanto a Re Vega, s’affrettò a correre alla porta per richiamare la figlia. Non voleva certo rischiare che quella donna tentasse un altro dei suoi amorosi approcci!
«Tutto bene?», chiese Rubina, entrando un po’ esitante nella stanza. Il viso tempestoso del padre non la sorprese, mentre il sorriso di Himika la lasciò sbalordita. «Allora…?»
«Tutto a meraviglia; ne dubitavi?», disse la regina. «Tuo padre si vergogna un po’ a dirlo… del resto, bisogna capirlo… comunque, è fatta. Dopo le feste organizzeremo una festa per il fidanzamento!»
«Oh, che bellezza!»; esclamò Rubina, gettando occhiate preoccupate al viso paterno, ormai sul brutto stabile.
«Adesso io dovrò andarmene…»
«Ottima idea!», esclamò il sire, ma naturalmente nessuna delle due donne gli diede la minima attenzione.
«Come!», esclamò Rubina. «Non ti fermi a trascorrere le feste con noi?»
«Mi piacerebbe molto, cara», Himika le strinse affettuosamente le mani. «Però devo tornare dal mio popolo…»
«Basta che tu non torni qui!», esclamò il sovrano.
«Ci vedremo senz’altro dopo le feste», Himika gli dedicò un sorriso radioso all’arsenico. «Sarà dura aspettare, Yabby, ma arriverà anche il nostro momento».
“Yabby”…Rubina fu colta da un improvviso (e diplomatico) attacco di tosse, mentre il padre esplodeva in una serie di esclamazioni che avrebbero fatto arricciare la pelliccia al King Gori; esclamazioni rivolte ad Himika, alla sua moralità e a quella della sua mamma, della nonna e di tutte le sue antenate per svariate generazioni, concludendo con una intemerata in cui esprimeva tutto il suo raccapriccio all’idea di fidanzarsi, e soprattutto di farlo con lei.
«Adulatore», fu il mieloso commento di Himika; Re Vega, già con poco fiato dopo la lunghissima tirata, rimase letteralmente senza parole. Ma che cosa ci voleva per far capire a quell’infernale donna che lui mai e poi mai avrebbe voluto sposarla?
Himika uscì, finalmente, e lui rimase solo con Rubina.
Re Vega guardò la figlia.
Rubina guardò il padre.
«Cosa pensi di metterti per la festa di fidanzamento? Non quel mantellaccio viola, spero! Quello blu notte con i ricami d’oro sarebbe più appropriato», osservò Rubina.
Re Vega batté una craniata contro la parete.

- continua -

Link per fare le congratulazioni ad Himika: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2835#newpost
 
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Seconda parte. La fine domani.

Parte seconda: 6 dicembre

«…e questa è la situazione. Che ne pensate?», esclamò Re Vega.
Seduti attorno al tavolo di riunione, gli alti ufficiali di Vega e Rubina rimasero in silenzio. A parte la principessa, per gli altri si era trattata di una sorpresa a dir poco sensazionale (Re Vega chiesto in marito da Himika!), per cui si presero un po’ di tempo per riflettere.
«Beh, io ho sempre sognato avere un fratellino!», esclamò gioiosamente Rubina.
«…!!!», fu tutto ciò che il soprano riuscì ad esprimere.
«Anche una sorellina, mi piacerebbe molto», aggiunse premurosamente la principessa. «Potrei cullarla, darle la pappa, giocare con lei…»
«Ma per piacere!», sbottò il sire, e le sue gote si colorirono d’un arancio acceso.
Rubina ammutolì, e subito intervenne lady Gandal, che con femminile solidarietà le diede manforte: «Che meraviglia, sire! Potrete avere un bambino!»
«Ho già un’erede!», sbottò il sovrano, ed il modo in cui sputacchiò quell’ultima parola fece capire la sua opinione in merito.
«Grazie, papà!», esclamò Rubina, e c’era ben poca amabilità nella sua voce.
«Sentiremo lo scalpiccio di piccoli piedi per i corridoi di Skarmoon…!», esclamò la signora, e mancava poco avesse i lucciconi agli occhi.
«Ma per piacere…!», la zittì Gandal.
«Parli tu!», s’inalberò lei. «Proprio tu, che non appena vedi un bambino fai la voce tutta di testa e sei tutto un ci-ci-ci!»
«Silenzio!!!», barrì il sire, il colorito che da arancio si era fatto scarlatto acceso. «Qualcun altro ha un parere meno cretino?»
«Sire», riprese Gandal, ricomponendosi ed assumendo l’aria seria del perfetto Comandante di Vega, «vi prego di tener presente i vantaggi di una simile unione».
«…Vantaggi…?», ansimò Re Vega.
«Maestà, un matrimonio con Himika comporterebbe un’alleanza col popolo Yamatai. Se noi…»
«Zitto!!!», e a questo punto, da scarlatto il sovrano si fece d’un porpora deciso, perfettamente in tono col suo mantello. «Dantus?»
L’interpellato si schiarì la voce: «La regina Himika è una potente sovrana, l’unione con lei sarebbe un onore che…»
«Taci!!!», ormai il sire era d’un viola carico. «Hydargos…?»
L’interpellato deglutì penosamente: «Maestà, io penso che noi… se voi e la regina vi sposaste, noi… avremmo…», e qui la voce gli morì penosamente.
«Non capisco!», brontolò il sovrano. «Tu pensi che questo matrimonio sia vantaggioso o svantaggioso per noi?»
Hydargos raccolse tutto il suo coraggio; non era da lui tergiversare o raccontare penose bugie. Era un uomo tutto d’un pezzo, lui: avrebbe detto la verità.
«Vantaggioso, sire!», esclamò, tutto d’un fiato. «Potremmo sconfiggere Gold…»
«CHIUDI IL BECCO!!!» ormai il sovrano stava virando al blu di Prussia; rapida, Rubina gli cacciò in bocca una manciata intera di pillole. Pressione e carnagione tornarono verso valori e colori normali.
Sua Maestà ricadde nella sua poltrona, una mano premuta là dove persino lui doveva avere un cuore, e in viso un’espressione tragica in perfetto stile soap opera.
«Siete tutti contro di me!», esclamò, affranto.
«Vedi che la pensiamo tutti allo stesso modo, papà!», esclamò Rubina.
«Voglio pareri sensati!», il regale pugno s’abbatté sul tavolo di riunione. «Non pareri favorevoli!»
Cadde il silenzio. I presenti presero a guardarsi le unghie, il piano del tavolo, la parete di fronte, il soffitto, il pavimento, insomma, tutto ciò che non era l’irato sire.
Re Vega dardeggiò tutt’attorno il suo sguardo ustorio: niente, nessuno che osasse dire qualcosa in suo favore… quei disgraziati volevano proprio la sua morte – peggio, le sue nozze! Nessuno di loro che lo sostenesse contro quella strega! Pensavano all’alleanza, ai vantaggi dell’appoggio del popolo Yamatai, pensavano persino ai marmocchi che avrebbero potuto venire – e qui il sovrano ebbe una fugace visione di fantolini dalle tentacolari chiome bionde e dalla volontà granitica… pargoli dall’urlo in cui risuonava l’eco del comando… infanti che si arrampicavano caparbiamente sul trono, cacciandone lui… No, no, mai! Mai! La morte, piuttosto!
Dei pupi, ovvio.
O magari della madre, così si sarebbe fatto prima evitando pure l’infanticidio.
Fu mentre almanaccava su quale sarebbe stato il modo migliore di sbarazzarsi della sua ingombrante fidanzata, che il sire realizzò improvvisamente che uno dei suoi sottoposti non aveva fatto udire il suo parere; subito si volse verso di lui, speranzoso. «Zuril? Non hai detto che cosa pensi di questa faccenda».
Il ministro delle scienze lo guardò, l’unico occhio che traboccava solidarietà.
«Maestà, mi rendo conto del vostro stato d’animo», cominciò, comprensivo. «La regina Himika, pur essendo indiscutibilmente una donna di grande fascino ed eleganza…», ignorò il versaccio del sovrano e proseguì: «…è anche quella che si definisce una donna di carattere. Di forte carattere. La vostra… diciamo perplessità circa queste nozze è perfettamente condivisibile».
«Ma?», chiese Re Vega, che era un tipo spiccio.
Zuril allargò le braccia: «Il problema è proprio il carattere forte della regina. Come reagirà davanti ad un vostro rifiuto?»
«Cavoli suoi!», no, il sire non disse proprio “cavoli”.
«Purtroppo, sono anche nostri», sospirò Zuril. «Pensateci, Maestà: la regina è una donna fiera ed orgogliosa. Venir respinta sarebbe per lei un insopportabile sfregio…»
«Ben le sta!»
«Sire, ci pensate che sarebbe capace di dichiararci guerra e scaraventarci addosso le armate dell’Impero Yamatai?»
«E chi se ne… oh», e il sovrano rimase come folgorato, occhi e bocca aperta, simile in tutto e per tutto ad un grosso ranocchio dalla lunga barba violetta.
«Esatto!», Zuril comprese in un’unica occhiata anche i suoi tre colleghi e Rubina: «Abbiamo già abbastanza problemi con Goldrake; ci manca giusto trovarci una dichiarazione di guerra da Himika! Ve l’immaginate? Da una parte dovremmo vedercela con il dannato Duke Fleed, e dall’altra arriverebbero le armate Yamatai! Senza contare che a quel punto Jeeg resterebbe libero, senza far nulla; ve lo vedete Hiroshi Shiba girare i pollici, mentre qui da noi si menano le mani?»
Un silenzio terribile calò sul tavolo: Zuril aveva ragione, rifiutare Himika avrebbe potuto significare trovarsi contro ben TRE nemici, uno più potente dell’altro… Vega non avrebbe avuto speranze, allora.
Disperato, il sovrano si guardò ancora in giro, ma nessuno osò ricambiare il suo sguardo… unica tra tutti, Rubina lo guardava con calma fermezza.
«Figliola…?», implorò suo padre.
«Che anello credi voglia Himika?», chiese la principessa, con il consueto senso pratico. «Un rubino, uno zaffiro o pensi di restare sul classico diamante?»
Re Vega batté una craniata sul tavolo di riunione.


Parte terza: 25 dicembre – mattina

La mattina di Natale, il momento in cui si esita davanti alla porta chiusa, in attesa di vedere i doni è una sorta di deliziosa tortura; ma Re Vega non era tipo da indugiare a lungo.
E poi, lui le torture preferiva infliggerle agli altri.
La prima cosa che vide entrando nella sala fu la montagna di carbone.
Un’enorme montagna.
Un colossale accumulo nero la cui cima sfiorava il soffitto (“dieci tonnellate, tre quintali, quarantasette chili virgola trecentosette”, avrebbe successivamente detto Zuril, che era una persona precisa).
Senza fiato, il sire contemplò dalla base alla vetta tutto quel po’ po’ di carbone, mentre accanto a lui Rubina sbuffava.
«Babbo Natale», commentò la principessa, acida. «C’era da aspettarselo. Non avresti dovuto bombardargli la casa, l’anno scorso».
«Era solo una bombetta al vegatron», minimizzò il padre, riprendendo fiato poco per volta.
«Non una bombetta. Erano tre», la principessa scosse il capo: «Avevo appena finito le pulizie nella sala…!»
Sentendo nella voce della figlia un tono polemico che ben conosceva, il sire si fece largo tra il carbone e raggiunse l’alberello, decorato secondo la tradizione di famiglia con razzetti celesti e un fungo atomico d’argento sulla cima; tolse un pacchetto viola dal gruppo di regali e lo porse alla figlia: «Buon Natale».
Rubina non sentì crescere in lei il buonumore alla vista del dono paterno: conosceva i regali di papà. Erano persino peggio di quelli di Actarus, il che era tutto dire.
Lo scartò con la rassegnazione di chi s’aspetta il peggio, e ancora una volta ebbe modo di pensare che al peggio non c’è mai fine.
Un lanciafiamme portatile in versione light per signore.
«Comodo, vero?», chiese papà, giulivo.
«Comodissimo», magari potrò usarlo per cuocere un roast-beef espresso, si disse Rubina. Guardò poi il padre chino ad osservare i doni, ne contemplò l’estremità inferiore della schiena che in quella posizione spiccava in tutta evidenza, e per un attimo provò un fortissimo desiderio d’inaugurare il dono.
Poi si riprese – papà era pur sempre papà, che diamine! – e affrontò coraggiosamente il regalo di Actarus, uno scatolone giallo piuttosto ingombrante.
L’aprì: traboccava di spray antipolvere, stracci in microfibra, spruzzatori colmi di liquidi sgrassatori, pulitori, disinfettanti, fulminasporco, schiantamicrobi. Un intero campionario assortito di articoli per la pulizia, rapida ed efficace, della casa, “così non ti affaticherai più con le faccende”. Già, le pareva persino di sentirlo.
Chiuse lo scatolone, provando un non troppo vago senso di nausea.
Nel frattempo, Re Vega aveva scartato il dono dei suoi ufficiali: un progetto per una nuova bomba al vegatron superefficiente, in versione migliorata, con apocalisse garantita. Sentì una lacrimuccia bagnargli le ciglia: nulla commuove di più di un dono veramente indovinato! Quei disgraziati coglievano sempre nel segno, non c’è che dire.
Agguantò un pacco avvolto in carta d’oro: il dono di Rubina, cioè le solite pantofole. L’unica incognita era il colore… schiantò la carta: viola fegato. Bah. Sarebbe stato meglio restare nell’ignoranza.
Scaraventò in un angolo le pantofole, e l’occhio gli cadde su un pacchetto color fiamma: un altro regalo? Ma chi avrebbe potuto mandargliene uno?
Rigirò il dono tra le mani: il nastro era trattenuto da una piccola bipenne d’argento che purtroppo ben conosceva… Himika! Ma porc…!!!
«Un regalo di Himika?», disse Rubina. «Che gentile! E tu cosa le hai mandato?»
«Niente! E me ne pento», ringhiò il genitore.
In effetti, un pacco esplosivo al vegatron rinforzato avrebbe pure potuto spedirglielo.
Strappò carta e nastro assieme. Strabuzzò gli occhi; poi si rigirò tra le mani il dono per essere certo d’aver visto bene, e concluse che sì, non c’era da sbagliarsi: era proprio un paio di boxer.
Rossi come la passione, ovviamente.
Decorati con teschietti d’argento, pure.
Con ricamata in piena danger zone un’allusivissima bomba innescata, persino.
«Papà!», esclamò Rubina, indignata nel sentir ciò che stava esplodendo dalla paterna strozza. «È Natale! Vergogna!»
Inferocito, il sire uscì a grandi passi sbattendo la porta.
Dopo aver dato una craniata contro una parete, si capisce.
Rubina raccolse i boxer che suo padre aveva scagliato a terra: erano supersexy, niente da dire. Non poté trattenere un ghigno malefico immaginandoli addosso al genitore; poi li pose su una sedia e uscì a sua volta dalla sala.
Nel corridoio, quasi andò a sbattere addosso a Dantus.
«Oh, siete voi», disse Rubina, con il tono dolce e un po’ remoto che usava per le peggiori carognate. «Fatemi un piacere, vi prego…»
«Tutto quel che volete, Altezza!», esclamò lui, che non avrebbe mai perso un’occasione di mettersi in buona luce.
«Dentro la stanza troverete un po’ di carbone. Portatelo via e riordinate per bene, volete? Potete usare per la pulizia il contenuto di quello scatolone giallo che c’è sul tavolo».
S’allontanò, sentendosi decisamente meglio.
Quando udì l’urlo strozzato di Dantus, che aveva appena visto in cosa consistesse il po’ di carbone, l’umore le schizzò alle stelle.

- continua -

Link per esprimere solidarietà con Dantus (?): https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2835#lastpost
 
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Conclusione...

Parte quarta: 5 gennaio – notte

La fine delle feste segnò un progressivo aumento del malumore del sire: sapeva che presto o tardi (più tardi che presto, si sarebbe augurato) la maledetta regina Himika sarebbe riapparsa nella sua vita, il che non contribuiva certo a renderlo festoso e gioviale. Sentir puzza di fiori d’arancio lo indisponeva non poco; fu quindi un Re Vega particolarmente accigliato quello che fece la sua comparsa nella Sala Comando.
Con sua grande sorpresa, il sire notò la presenza dei quattro comandanti di Vega: eppure, era ormai un’ora molto tarda, non avrebbero dovuto essere lì. A dire il vero lui aveva sperato di trovare pace e silenzio, in quel momento in cima alla sua lista dei desideri non c’era precisamente la compagnia di altri esseri umani. Fece quindi per girare sui tacchi ed uscire, quando alle sue spalle la porta s’aprì lasciando passare una frettolosa Rubina, che per poco non gli diede una capocciata nello stomaco.
«Papà! Anche tu qui?», esclamò la principessa, sorpresa.
«Sì, ma sto andandomene», il sovrano fece per guadagnare l’uscita, ma sua figlia l’afferrò saldamente per una falda del purpureo mantello.
«Ma no, papà! Già che ci sei anche tu, rimani con noi!», lo guidò verso i comandanti, in piedi davanti al grande schermo. «Non pensavo che saresti venuto qui con noi ad aspettarla...»
Il sire trasalì, un po’ come se il King Gori gli avesse allungato una ditata nel fegato: «Aspettarla...?»
«Come se non lo sapessi!», sorrise Rubina, col tono di chi dice “cattivello, cattivello”.
Agghiacciato, il sire si guardò ansiosamente attorno: i suoi quattro comandanti stavano fissando lo schermo, e tutti avevano in viso un’espressione sorridente molto placida... no, la parola corretta era “beota”.
Altra ditata del King Gori, ma stavolta sull’occipite: «Ma che sta succedendo?»
Con un dolce sorriso sulle labbra, Zuril gli accennò un punto sullo schermo: «Sire, c’è una donna nella nostro futuro».
«...???», e Sua Maestà guardò dove gli veniva indicato.
Sul nero velluto dello spazio spiccava un puntolino che stava facendosi sempre più grande... sempre più grande... sempre più...
«È lei...!», rantolò il sovrano.
«Sì!», Rubina congiunse le mani, felice. «Oh, papà, non è meraviglioso?»
«Presto sarà qui», aggiunse Gandal, un tremolio commosso nella voce.
«Questione di poco, ormai», disse Dantus.
«Non vedo l’ora!», esclamò Hydargos.
Chi proprio non vedeva più nulla era Re Vega. Lei stava tornando... lei, quell’insopportabile virago comandona, quell’orribile mostro di donna che l’avrebbe privato della sua libertà, che l’avrebbe trascinato davanti a un prete trasformandolo in un marito… questo, mai!
Con un unico balzo raggiunse la consolle di comando, e prima che qualcuno potesse fermarlo (non si sa mai, certa gente si fa assurdi scrupoli!), scagliò un missile al vegatron pluririnforzato contro il puntolino in avvicinamento.
Il lampo dell’esplosione riempì per un istante lo schermo.
Un silenzio terribile cadde nella sala.
Re Vega si guardò in giro con un’aria che era tutta un “Beh? Qualcosa da dire?”
Nessuno però osò aprire bocca – a dire il vero, le bocche erano tutte aperte, le mascelle pendule. Tutti guardarono alternativamente il sire e poi lo schermo, su cui ormai non si scorgeva più alcun puntolino.
Fu Zuril a riprendersi per primo. Recuperò la mascella rimettendola nell’abituale postura, prese fiato, aprì bocca per parlare, ri-prese fiato ed infine riuscì ad articolare: «Maestà…!»
«Qualcosa non va, Zuril?», e Re Vega si lucidò le unghie sul regale mantello.
Zuril ri-ri-prese fiato.
«Maestà...! Avete... avete bombardato la Befana...!»
«Eh...?» Re Vega si guardò in giro: solo allora notò che sotto al grande schermo erano state appese delle calze – quelle blu di Hydargos e Gandal, quella rosso fuoco di Dantus, una nera a rete di lady Gandal, una rosa di pizzo di Rubina e una in tessuto ipertecnologico, di un giallo acceso, di Zuril.
«Ooops...!», disse Re Vega.


Epilogo: 6 gennaio - mattino

«Ma insomma, non potevo saperlo!», esclamò Re Vega.
«Papà! Come hai potuto!», e Rubina si asciugò gli occhi con in fazzoletto. «Hai... hai abbattuto la Befana!»
«Credevo si trattasse di un’altra befana... Insomma, tutti possiamo sbagliare, no?»
Rubina gli voltò ostentatamente le spalle, riprendendo a singhiozzare.
In cerca d’umana comprensione, il sire si voltò verso i suoi accoliti: loro non erano femminucce emotive, sicuramente avrebbero compreso il suo punto di vista.
Visi lunghi. Nasi bassi. Qualche sguardo accusatorio allungato di sottecchi.
Ce l’avevano con lui.
Nella sala cadde un silenzio che avrebbe raggelato un pinguino.
«E va bene! Ho bombardato la Befana!», sbottò infine il sire. «Non avete mai sbagliato, voi? Un pover’uomo scaglia le sue bombe nucleari convinto di colpire il nemico, e invece fa saltare una vecchia con la sua scopa... una vecchia che non aveva nessun motivo per trovarsi sulla linea di tiro, tra l’altro, per cui se è saltata è solo colpa sua. Adesso vorrete dirmi che sono responsabile io?»
Silenzio eloquente.
Re Vega sbuffò, agitandosi sul trono. Mai e per nessun motivo avrebbe ammesso di sentirsi colpevole, ma gli seccava che sua figlia e i suoi ufficiali non volessero nemmeno parlargli. Che brutta giornata! Non avrebbe potuto capitargli nulla di peggio...
La porta scivolò di lato, lasciando entrare un’alta figura femminile dai lunghissimi capelli biondi.
«Eccomi qua, Yabby!», esclamò Himika. «Dove eravamo rimasti?»


FINE


Link per solidarizzare con la Befana: #entry601762495
 
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view post Posted on 16/12/2016, 13:15     +1   -1
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Racconto di qualche Natale fa, da collocarsi dopo "Natale con i tuoi". Yabby è già legato (suo malgrado!) ad Himika. Questa FF fa parte del libro di Natale 2012.
Devo rivedere con calma l'elenco delle FF e rimettere in ordine appunto i racconti natalizi, visto che quelli inseriti nei libri mi sono rimasti fuori scaletta. Datemi un po' di tempo. ^^

SORPRESA DI NATALE

1 Dicembre – Polo Nord

– Sei il solito fifone – sbottò la Befana.
Babbo Natale sospirò: – Due anni fa quel bel tipo mi ha bombardato e distrutto la casa, mandandomi all’ospedale quasi tutti i miei elfetti e facendo venire il delirium tremens alle renne. L’anno scorso ho cercato di fargli capire il mio punto di vista spedendogli qualche tonnellata di carbone; niente, come se gli avessi portato gli zuccherini. Quest’anno ha fatto la carogna come sempre, non c’è il minimo segno di ravvedimento, in lui. Se permetti, io non ci voglio più aver a che fare.
La Befana, che stava mescolandosi diligentemente la sua cioccolata calda, sbatté la tazza sul tavolo: – Senti un po’, Babbo, credi di essere il solo che le ha prese da quell’individuo? Ti faccio presente che l’anno scorso mi ha bersagliata con delle bombe vegatron, e considera il fatto che non gli avevo fatto proprio nulla per meritarmi un trattamento simile! Me la sono cavata con sessanta giorni, senza complicazioni per fortuna, e con la mia povera scopa ridotta a stuzzicadenti.
– Vedi? – Babbo Natale, si ripulì le tracce di cioccolata dalla barba normalmente candida – Con quell’uomo non ci si può ragionare.
– E chi ha parlato di ragionare? – rispose la Befana, un sinistro luccichio negli occhi – Io parlo di punire.
– Oh – rispose Babbo Natale, che era un tipo pacioso ed accomodante – Punire… severamente?
– Severamente, infallibilmente ed atrocemente.
– Ma… ma noi portiamo doni ai bimbi buoni, noi non possiamo…
– Noi portiamo anche il carbone, Babbo bello – tagliò corto la Befana, decisa – Questo non è forse punire?
– Sì, in effetti, ma…
– Allora, visto che abbiamo verificato che il carbone non serve a nulla, possiamo passare a mezzi più energici – Vide che il suo timoroso compagno stava per obiettare qualcos’altro, e aggiunse subito: – Per il suo bene.
– Certo, certo – Babbo Natale si passò sulla fronte un fazzolettone a bolli rossi e oro – E… cos’avresti in mente?
La Befana sembrava un gatto che sta per dar l’assalto alla dispensa di casa: – Un regalo.
– Un…? Ma…
– Un regalo mirato – aggiunse la Befana.
Altra passata di fazzolettone: – Veramente, non capisco…
– Lo so – la Befana raccolse golosamente le ultime tracce della sua cioccolata – Tu non hai fantasia, Babbo.


25 Dicembre – Impero Yamatai – Mattino presto

La regina Himika era una di quelle invidiabili persone capaci di alzarsi di primo mattino fresche come rose e pronte ad affrontare con grinta la dura giornata.
A dire il vero, la giornata odierna non si prospettava così dura… Natale era pur sempre Natale, non c’erano attività belliche in corso… comunque, la regina non era tipo da impigrirsi a letto quando c’era qualcosa di urgente da fare.
Balzò in piedi infilando le regali pantofoline, indossò la regia vestaglia e s’incamminò verso la sala, là dove aveva fatto preparare il suo albero di Natale. Normalmente i regali non erano mai un granchè, ma non si sa mai.
L’albero luccicava, tutto argento e blu. Sotto, erano accatastati i doni.
Il primo regalo che Himika esaminò fu una scatola viola lutto, legata con un nastro verde veleno.
Uh.
Lesse il bigliettino: un dono da parte dell’Imperatore del Drago.
Uh-uh.
Mise la scatola sulla consolle del computer ed attivò l’analizzatore: niente esplosivi che si sarebbero attivati all’apertura, niente acidi che le sarebbero schizzati in faccia, niente bestiacce velenose e presumibilmente nervosissime. A un primo esame, il contenuto sembrava corrispondere ad una boccetta di cristallo piena di profumo.
A un esame più approfondito, anche.
Himika scartò il regalo e lo aprì: effettivamente si trattava di una bottiglietta da profumo, ma…
Diresse un paio di spruzzi contro una parete: con uno sfrigolio, il metallo si sciolse colando a terra.
Himika sbuffò: profumo al vetriolo… l’Imperatore del Drago era così prevedibile…!
Gettò da parte la boccetta, dedicandosi al secondo regalo, una colossale scatola color crema con un gran nastro fucsia, proveniente da Hiroshi Shiba.
Altro esame: tutto a posto.
Aprì la scatola: cinque chili di cioccolatini formato gigante, con le creme, le nocciole, la ciliegia… una vagonata di deliziose calorie, insomma.
Analizzò un cioccolatino.
Ovviamente, erano purgativi. Un chiaro messaggio da parte di Hiroshi, che con la raffinatezza che lo contraddistingueva la invitava ad espletare le sue più basilari funzioni corporali.
Invece d’infuriarsi, Himika scoppiò a ridere: trovava divertente l’atteggiamento di Hiroshi… e soprattutto, le era venuta l’idea di riciclare lo scatolone inviandolo all’Imperatore del Drago come dono di buon anno nuovo. L’imbecille ci sarebbe cascato, e lei avrebbe passato uno stupendo Capodanno sapendo l’odiato nemico rinchiuso tutto il giorno nelle sue stanze, alle prese con i propri moti interiori.
Fu solo allora che sotto i rami dell’abete notò l’ultimo regalo: piccino com’era le era sfuggito, e ora lei sentiva un delizioso tormento invaderle l’animo: una scatolina minuscola, di velluto rosso, a forma di cuore… possibile che fosse proprio… lui?
Un’altra donna si sarebbe gettata sulla scatola e avrebbe aperto senza indugi: Himika era Himika, che diamine! Prese la scatolina e l’analizzò.
Niente bombe, acidi, bestiacce… niente di pericoloso… sembrava proprio… no, non poteva crederci…
Anche Himika era una donna, e nonostante quel che si può credere, una donna sentimentale: aprì la scatoletta con dita tremanti.
Un bagliore luminosissimo, incredibile.
Sul raso rosso scintillava un anello meraviglioso, con un solitario enorme tagliato a forma di cuore.
Emozionatissima, infilò l’anello al dito: le andava alla perfezione, sembrava che fosse stato creato apposta per lei. Aprì il bigliettino che accompagnava il dono, tentò di leggere, dovette asciugarsi gli occhi (un bruscolino, senza dubbio!), rilesse quelle poche righe…
“Che ne dici? Uniamo le nostre forze? Y.”
Non era proprio un messaggio romanticissimo, ma chi si aspettava carinerie da un uomo come Yabarn, Re di Vega? Nessuno, e Himika meno di tutti. Comunque, quel bigliettino la commosse profondamente. Che meravigliosa sorpresa di Natale!
Col cuore che le scoppiava di felicità, si fiondò nella sua astronave privata: in quel momento non era più la terribile Regina Haniwa, era una donna innamorata che non può star distante dal suo amato bene.
Yabarn, amore mio… arrivo!!!


25 Dicembre – Base Skarmoon – Pomeriggio

Poche cose lo deprimevano come la mattina di Natale.
C’era stato un tempo in cui il suo cuore fanciullo aveva sofferto nell’aspettativa; ormai, dopo anni e anni in cui aveva ricevuto sempre i soliti regali (pantofole da Rubina, armi di distruzione di massa dai suoi comandanti), gli mancavano l’emozione, il brivido dell’imprevisto.
Ecco: il brivido.
Quanto gli sarebbe piaciuto sentirsi ancora turbato, in preda a dolci speranze… ma ormai il Natale aveva perso qualunque significato, per lui.
Sbuffando, ciabattò verso la sala, laddove troneggiava un albero color ferro, ornato con minidischi violacei e con un modellino del King Gori sulla punta.
In un angolo, Rubina sedeva sconsolata, fissando con desolazione il mini bazooka da signora (regalo del suo papà) e il set da rammendo completo di aghi, fili colorati, ditali eccetera (dono di Actarus, sempre molto romantico). Brontolò un saluto alla figlia, ignorò il suo sguardo accusatorio e si dedicò ai suoi regali.
Aprì il primo, avvolto in una carta dorata: essendo di Rubina, doveva trattarsi delle solite pantofole. Che noia…
Lo scartò: aveva sottovalutato sua figlia.
Quest’anno, grandi novità al posto delle solite ciabatte.
Calzerotti da indossare a letto per tener caldi i piedi.
In vari toni di verde acido, color vinaccia e blu elettrico.
Il sogno della sua vita.
Lanciò distrattamente i calzini dietro le sue spalle, e passò al secondo dono, da parte dei suoi generali. Una scatola nera con un nastro d’oro, il che faceva molto cara salma. Dentro, una fiala contenente… non si capiva bene…
Lesse l’etichetta: una colonia di virus di una forma altamente infettiva di vaiolo pustoloso-ulcerante, con complicazioni colico-diarroico.
Sogghignò, divertito: che pensiero carino…! Magari avrebbe potuto provare a lanciare il virus su qualche pianeta ribelle per osservarne i risultati. Sarebbe stato un piacevole svago.
Guardò ancora sotto l’albero: un altro pacchettino, rosso passione.
Subito, sentì svanire quel poco di buonumore: quel pacchetto voleva dire Himika. Ma porc…!
Senza il minimo senso di colpa, visto che non le aveva regalato proprio nulla, Re Vega stracciò la carta scarlatta: una canottiera.
Rosso fiamma.
Con un enorme “TOY BOY” ricamato in oro.
– Papà…!!! – esclamò Rubina, giustamente risentita, sentendo le parole invero per nulla regali improvvisamente fiorite sulle auguste labbra del genitore.
Re Vega scaraventò la canottiera in terra e andò a sedersi in un angolo, tutto ingrugnito.
A dire il vero, anche la rabbia lo stava abbandonando in fretta… la depressione natalizia lo riprese, avvolgendolo nel suo grigio abbraccio. Che noia! Che noia! Anche sentirsi arrabbiato sarebbe stato meglio di quell’assurda malinconia… se solo avesse potuto provare una qualche emozione che lo avesse scosso fin nell’intimo, che l’avesse fatto fremere, vibrare… se solo…
– Ma che ti prende? – esclamò sua figlia.
– Il Natale fa schifo! – sbottò suo padre – Sempre le stesse cose! Sempre tutto uguale! Mai una vera emozione, mai un imprevisto, mai! Sai cosa mi avrebbe fatto davvero felice?
– Un nuovo tipo di bomba al vegatron…?
– No! Una sorpresa! Una emozionante sorpresa di Natale!
La porta si spalancò all’improvviso.
Sulla porta, occhi luccicanti, diamante al dito e boccuccia tutta un cuoricino, Himika apparve, radiosa.
– Yabby!!! – esclamò, la voce che suonava come un canto d’amore – Ho trovato il tuo anello! Ho letto il tuo biglietto!! Certo che ti sposo!!!
– …???... – fu tutto ciò che Sua Maestà riuscì ad articolare.
– Questo! – Himika agitò la mano facendo scintillare il diamante – Che meravigliosa sorpresa, Yabby! SIAMO FIDANZATI!!!
E fu mentre la regina s’avventava sulla sua vittim… sul fidanzato, che Rubina osservò, molto dolcemente: – Papà, non volevi un’emozionante sorpresa, per Natale? Direi che l’hai avuta…

25 Dicembre – Polo Nord – Sera tardi

Quella che per Babbo Natale era la giornata più impegnativa dell’anno era trascorsa: i regali erano stati tutti consegnati, le renne erano state staccate e riportate nella stalla, la slitta era stata lucidata e chiusa nella sua rimessa, la pace era scesa sul villaggio degli elfi natalizi.
Seduti nelle loro poltrone, una tazza di cioccolata in mano e un gran piatto di dolci sul tavolino davanti a loro, Babbo Natale e la Befana si godevano il calduccio del caminetto acceso.
Normalmente, a quel punto Babbo provava il conforto di chi ha lavorato duramente per portare agli altri gioia e felicità. Quell’anno, pure lui aveva avuto però la sua bella fetta di gioia e felicità… un po’ venate di perfidia, bisogna dire.
– Adesso capisci cosa intendevo con “regalo mirato”? – chiese la Befana.
Babbo, che aveva ancora davanti agli occhi lo spettacolo di Re Vega urlante mentre veniva abbrancato e sbaciucchiato da Himika, non poté trattenere un “ho-ho-ho”, anche se poco bonario e piuttosto malefico.
– Befana – disse, sinceramente ammirato – Non pensavo che te l’avrei mai detto, ma sei un genio del male.
Lei arrossì modestamente: – Oh, grazie.


FINE


Link per eccetera: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2865#lastpost
 
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view post Posted on 20/12/2016, 18:59     +1   -1
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E questo è il racconto di Natale 2016. Indovinate un po' chi ne è il protagonista indiscusso...
Prima di quattro puntate.


NATALE IN FAMIGLIA

– Purtroppo ho una brutta notizia, Yabby – disse Himika durante una delle sue chiamate al videoschermo.
– Grumpf – rispose il sire di Vega. Già aveva la sua fidanzata a tormentarlo con le sue moine e le sue pretese d'affetto; che altro avrebbe potuto esserci di peggio?
– Mi si sono accavallati diversi impegni diplomatici che non posso assolutamente rimandare – spiegò lei, occhioni tristi e vocino tremolante – Questo significa che non potrò trascorrere con te Natale e le feste…
– E sarebbe questa la cattiva notizia?! – esclamò il sovrano, e mancò poco che gridasse “Ya-hoooo!”.
– Oh, ma… ma… – indignazione, sorpresa, collera, delusione, tutto sembrava ribollire in Himika: – Sei un bruto insensibile!
– È vero! – si compiacque Re Vega.
– Un mostro! Un individuo orribile, repellente e disgustoso!
– Hai proprio ragione!
– Non so come faccio a sopportarti…!
– Non lo so nemmeno io. Continuo a pensare che non ti merito – aggiunse vilmente.
– No, sono IO che non mi merito TE! – e qui Himika diede il via a una sfuriata di quelle potenti… solo che, contrariamente a quel che s'era aspettato quel vigliacco del suo fidanzato, invece di concludere con un sacrosanto “Sparisci dalla mia esistenza, mostro!”, rovinò il tutto con un “Ce ne vorrà prima che ti perdoni!”.
Re Vega chiuse la comunicazione scuotendo la testa: non sapeva nemmeno lui che ci sarebbe voluto a liberarlo da quella pervicace femmina… in un modo o nell'altro, per quante gliene avesse combinate non era mai riuscito a farsi mollare.
In fondo in fondo, la verità era una e una sola: lei l'amava troppo. A-hem – e qui si diede un'occhiata compiaciuta nella superficie riflettente dello schermo: ah, mamma, perché m'hai fatto così bello?


– Ripugnante – sibilò la Befana.
– Non ho idea, sono un uomo, non ho i parametri per giudicare – si schermì Babbo Natale.
– A parte il fatto che anche un orbo con la congiuntivite vedrebbe che quel tizio è fisicamente una schifezza, resta il fatto che il suo comportamento sia disgustoso!
– Non è una novità – brontolò Babbo, ripensando alla sua casetta fatta esplodere anni prima dal sire a suon di vegatron – Comunque, non vorrai perdere ancora tempo con lui, vero? Se non gli è bastato quel che gli hai combinato l'anno scorso…
– Quella era una vendetta – tagliò corto la Befana – Adesso, voglio impartirgli una lezione.
– Non servirà a nulla…
– Servirà a far star meglio me, se non altro – un gesto della Befana e l'immagine del Sire di Vega scomparve in una miriade di stelline; attizzato il fuoco nel caminetto, andò a sedersi in poltrona davanti a Babbo Natale, tirando verso di sé un carrello di legno con chicchere, zuccheriera, cioccolatiera e piatto dei dolci – Vediamo un po' che possiamo combinargli…
– Puoi sempre mandargli le vecchine dell'anno scorso – suggerì Babbo, prendendo il tazzone colmo di cioccolata che lei gli porgeva.
– No, io non mi ripeto mai – la Befana prese a rimestare lo zucchero – Quell'individuo ha davvero passato ogni limite. Non so come faccia quella santa donna di Himika a sopportare un simile orso… – orso. Solitario. Solitudine… gli occhialetti ovali le s'illuminarono di una luce malefica.
– Devo avertelo già detto – disse Babbo a disagio, asciugandosi la barba candida striata di cacao – ma quando fai così mi metti davvero paura.
– È lui a doverne avere! – esclamò decisa la Befana, mettendo giù la tazzina e cominciando a muovere le mani a mezz'aria… un nugolo di stelline invisibili piovve sull'ignaro sire di Vega.
– Befana, ricordati che noi non possiamo far del male a nessuno! – esclamò Babbo, davvero preoccupato.
– E chi gli fa del male? – la Befana si rannicchiò sulla sua poltrona, la faccia della gatta che ha fiutato il cocktail di scampi – Io gli darò solo una lezioncina.
Babbo tuffò il naso nella sua tazza. Non aveva il coraggio di chiedere altro.


Il tripudio del sire di Vega per la latitanza della fidanzata ebbe breve durata: quasi subito lo sciagurato realizzò che, Himika o meno, il Natale si avanzava. Natale con le sue feste, i pranzi, la letizia, i doni, la felicità di stare assieme, le luci, i colori, la bontà, la gioia…
Niente lo deprimeva come quell'infausto periodo.
Addirittura, l'idea delle feste imminenti gli mise angoscia – e non per nulla le stelline invisibili gli erano piovute addosso…
No, non aveva alcuna intenzione di trascorrere le feste da solo, per cui andò subito in cerca di sua figlia Rubina: era cretina, certo, ma era pur sempre una compagnia, e voleva assicurarsela per tutto quell'infernale periodo.
– Mi dispiace, papino – gli disse subito lei – ma per le feste sono impegnata. Non te lo ricordi?
– Io? E come faccio a ricordarmi quello che non mi hai mai detto? – rispose il sire con ineccepibile logica.
– Ma io te l'avevo detto, papino! – si spazientì la principessa, con logica ancor più ineccepibile – Lo vedi che non mi stai mai a sentire?
– Se credi che io riesca ad ascoltare tutte le stupidaggini che dici…! – sbottò il sovrano (e stavolta, di logica non era proprio il caso di parlare).
– Insomma! Te l'ho già detto e ripetuto che queste feste io le trascorrerò via, e come non bastasse tu non solo mi fai storie, ma anche non ti ricordi nemmeno che…
– Si può sapere dove diavolo vai a Natale? – s'indignò il genitore.
– Te lo stavo dicendo! – strillò Rubina – Anzi, te lo stavo ripetendo! Solo che mi hai interrotta mentre parlavo!
– Oh.
– Come al solito, del resto! Ma già, non mi ascolti mai, non badi a quel che dico…
– Ma sì che ti ascolto… Dov'è che vai?
– Sono stata invitata dai miei amici...
– Amici? – interruppe Re Vega – E chi saranno mai? Qualche giovinastro che hai conosciuto l'anno scorso, in vacanza… conoscenze recenti, senza importanza!
– I miei amici ancora dei tempi della scuola, papino – rispose la principessa alzando gli occhi al cielo – Conoscenze davvero recenti, niente da dire…! Faremo una sorta di rimpatriata, dopo tutto questo tem…
– Trovo vergognoso che tu preferisca i tuoi pidocchiosi amici a tuo padre!
– Non puoi permetterti di definire “pidocchiosi” i miei…
– Il Natale si trascorre in famiglia, non lo sai?
– Ma tu hai sempre odiato il Nat…
– E comunque, non capisco perché tu preferisca stare con loro anziché con me!
– Beh, tanto per cominciare, loro non m'interrompono ogni volta che apro bocca! – lo zittì sacrosantamente lei – E comunque ormai ho preso l'impegno, e non intendo mancare. Del resto è colpa tua: so che detesti festeggiare il Natale mentre a me piace tanto, per cui quest'anno invece di rimanere qui a sentirti brontolare contro le feste mi sono premunita! E ora, se vuoi scusarmi, devo finire di preparare i bagagli! – e prima che papino potesse profferir verbo, lo spinse fuori dal suo alloggio e chiuse le porte.


Per qualche istante, Re Vega rimase attonito in mezzo al corridoio.
Forse la sua era stata un'impressione, ma gli era parso che sua figlia l'avesse letteralmente scodellato fuori dalle sue stanze.
Un istante dopo si disse che no, la sua non era stata un'impressione, ma quello che era effettivamente successo.
Respinto. Cacciato. Buttato fuori da sua figlia, che avrebbe trascorso il Natale con gli amici – non pidocchiosi, almeno a suo dire.
Rubina non voleva passare il Natale con lui? Bene! Benissimo! Lui non aveva certo bisogno di lei! Avrebbe trovato senz'altro chi sarebbe stato più che lieto di fargli compagnia in quelle tristi giornate!
Senza esitazione, puntò verso l'alloggio dei coniugi Gandal.


- continua -


Link per manifestare solidarietà con quella povera donna di Himika: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2865#lastpost
 
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view post Posted on 21/12/2016, 19:41     +1   -1
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Seconda parte.


– Mi spiace tantissimo, Sire, ma dobbiamo assolutamente andare da nostra zia – disse subito lady Gandal.
– Già, sembra che sia ancora in punto di morte – intervenne Gandal, acido.
– Ma come puoi parlare così! La zia è anziana e malata, quasi moribonda…
– Sì! Quasi, appunto!
Re Vega la ricordava molto bene: una di quelle vecchie ossute e dall'aria molto precaria, tutte tosse e acciacchi, ma che arrivate finalmente al momento del dunque ci ripensano e rimangono caparbiamente aggrappate alla vita. Gandal aveva ragione, speranze che la vegliarda defungesse ce n'erano ben poche.
– Mi dispiace davvero – continuò lady Gandal, mandando nel contempo un ringhio al consorte – ma le feste dovremo davvero passarle con la zia. Sarà il suo ultimo Natale…
– Doveva esserlo quello dell'anno scorso! – sbottò Gandal – E anche l'anno prima hai detto…
– Insomma, non hai un briciolo di sensibilità?
– E tu non hai un briciolo di cervello! La vecchia ha dato le ferie per le feste alle domestiche perché sa che arriviamo noi a badarla gratis!
– Gandal! Lo sai che la zia è gravissima!
– Certo! Peccato che alla fine però non muoia!
Un potente schiaffone da parte di lei… Re Vega guadagnò prudentemente l'uscita prima che Gandal lo tirasse in causa per giudicare il comportamento della consorte. No-no. Non aveva alcuna intenzione di far da arbitro al match.
Cancellò mentalmente i coniugi Gandal dalla sua lista personale e andò in cerca di Hydargos.


Trovò il Vicecomandante di Vega nel proprio alloggio, una valigia aperta sul letto e il caos totale tutt'attorno.
– Scusate il disordine, sto facendo i bagagli – disse Hydargos facendolo entrare.
Il sovrano ebbe un tuffo al cuore: – Stai per partire?
– S-sì, in effetti sì – in un lampo, Hydargos comprese la situazione: sire depresso causa Natale imminente, bisogno di compagnia, sire prontissimo a partire con lui… eh, no. Re Vega l'opprimeva già durante tutto l'anno, almeno in vacanza non lo voleva tra i piedi. Senza esitazione, passò al bugia spudorata-mode – Mi hanno contattato dei vecchi conoscenti per invitarmi, e proprio non ho potuto trovare una scusa.
– Oh – il sire non nascose la propria delusione – E chi sarebbero, questi vecchi conoscenti?
– Vecchi compagni del corso ufficiali… tipi molto quadrati e noiosi – due simpaticissime canaglie con una forte propensione per le feste, le ragazze e le bevute, altroché…
– Noiosi?
– Noiosissimi – ricordò l'imitazione che uno dei due faceva della vecchia carogna del loro istruttore, e dovette faticare parecchio per mantenere l'espressione desolata che s'era incollato in faccia – Due veri militari. Conoscete i tipi… quelli che si sfidano a chi fa più flessioni. Passeremo tutto il tempo a ricordare il corso di addestramento, lo so. Al massimo, il mattino di Natale mi proporranno di alzarci all'alba per fare qualche marcia estenuante “come ai vecchi tempi”. Una noia. – all'alba sì e no che si andrà a letto, e sicuramente in compagnia...
– Perché ci vai, allora?
– Vecchi camerati… che volete… non ho saputo dire di no.
Il sire sgattaiolò rapidamente verso l'uscita: – Divertiti, allora.
– Puoi scommetterci, vecchio tiranno! – disse Hydargos. Quando le porte furono ermeticamente chiuse.
Re Vega cancellò pure Hydargos dalla sua lista personale. Chi restava? Quell'impiastro di Zuril, che avrebbe preteso di passare un Natale intelligente e culturale? Beh, meglio che restar soli…
Puntò verso l'alloggio privato del suo Ministro delle Scienze.


La prima cosa che notò, fu l'ordine perfetto che regnava nella stanza: niente valigie in vista. Ottimo.
L'altra cosa che notò fu l'espressione costernata di Zuril alla sua proposta di trascorrere il Natale assieme: – Mi dispiace molto, Maestà, ma sono di partenza.
– Parti? Ma non stai facendo i bagagli…
– Li ho già fatti – aprì un armadio e là, scintillante e pronta all'uso, era ordinatamente collocata una robovaligia presumibilmente piena.
– Vai via anche questo Natale…! – sbottò il sire, contrariato.
– Maestà, sapete che in questi ultimi anni ho accumulato una gran quantità di ferie… se preferite liquidarmele in stipendio…
– No, no! – esclamò il sire, sentendo un'improvvisa fitta al bilancio – Hai ragione, tu hai sempre lavorato fin troppo. Goditi le tue ferie… er… cosa fai, di bello?
“Di bello”…? Zuril rizzò le antenne. Attenzione, pericolo di accollamento sovrano.
– Io? Beh, ho già un impegno, a dire la verità. – cominciò, guardingo (nella lontana Baviera Gudrun stava preparando tutto per l'arrivo del suo ospite, lavando, rassettando, decorando la casa, infornando dolci e controllando la stabilità delle molle del letto).
– E sarebbe? – chiese il sire, speranzoso – Magari una capatina al pianeta delle sirenidi medusiane?
– Un viaggio di studio sulla Terra per imparare il tedesco – vero: nei momenti in cui lui e Gudrun parlavano, lui si esprimeva effettivamente in lingua teutonica.
– Viaggio di studio? – esclamò il sire, schifato.
– Imparare una nuova lingua è un eccellente allenamento per i neuroni, sire.
– E perché proprio il tedesco… una lingua terrestre?
– Idioma affascinante, sire. Inoltre approfitto dell'occasione per osservare da vicino il comportamento dei terrestri – molto da vicino.
– Non avrei mai pensato che quegli inutili, arretrati omuncoli fossero interessanti…
Il pensiero di Zuril corse a Gudrun; con fatica riuscì a mantenere la sua espressione impassibile da baro incallito: – Non sottovalutateli troppo, Maestà. Anche dei semplici microorganismi hanno dei lati interessanti. Ad esempio, se volessimo parlare di protozoi…
– No, grazie! – tagliò corto il sovrano, il che era proprio quel che Zuril voleva – Insomma, passerai le feste studiando il tedesco.
– Sì, Maestà – tra le altre cose.
– Contento tu… – e il sire uscì dall'alloggio, disgustato.
Zuril chiuse le porte scorrevoli e tirò un sospiro di sollievo. Ripensò a Gudrun, le sue risate, il suo affetto, la sua casa che profumava di legno, e poi le luci di Natale, le coccole davanti al camino, i dolcetti appena sfornati… Altro che contento! Felice, era.
Ricordò che doveva appunto imparare il tedesco e pro forma aggiunse una grammatica e un vocabolarietto tascabili al suo bagaglio. Magari quest'anno avrebbe disattivato il traduttore istantaneo e sarebbe riuscito ad articolare qualche parola per conto suo.


Era solo.
Contrariato, Re Vega andò al proprio terminale. Possibile che non ci fosse proprio nessuno con cui lui avrebbe potuto passare le feste?
Una rapida ricerca gli permise di sapere che anche Dantus e Barendos non erano da prendere in considerazione: sventura aveva voluto che contraessero entrambi la colite purulenta lyriana, il cui decorso era notoriamente lungo e dolorosissimo. Strano che si fossero ammalati in contemporanea… (proprio allora, mentre scendeva con la sua navetta sulla Terra, Zuril ripensò a quanto potesse essere comodo avere qualche avanzo di virus di laboratorio da rifilare ai propri amati colleghi onde vivacizzare loro le feste prossime venture).
Naturalmente, c'erano i bagordi che avrebbero organizzato gli uomini della base, ma la prospettiva l'allettava ben poco. Sapeva molto bene cosa avrebbe significato un ricevimento secondo la bassa forza: fiumi di alcool dozzinale, dimenarsi a suon di musica a tutto volume, barzellette scollacciate per non dire decisamente zozze e scherzi a base di rumorosissimi (e imbarazzantissimi) cuscini messi sulla sedia della vittima di turno; il tutto sarebbe culminato con l'ingegnere capo della Sezione Quattro che avrebbe fatto le imitazioni, e poi gran finale con turbinoso spogliarello di Boba la Grassona del Reparto Sette. No.
E allora? Sarebbe dunque rimasto solo e infelice, mentre tutti gli altri avrebbero festeggiato?
Proprio in quel momento piovve su di lui una nuova pioggerella di stelline invisibili (“Ehi, vacci piano con quella roba!” “Babbino, piantala! So quel che faccio!”).
Un'insopprimibile malinconia gli attanagliò crudelmente quel muscolo che pure lui aveva in mezzo al petto, mentre la soluzione a tutti i suoi problemi gli si presentava chiaramente davanti agli occhi… ma no! Non poteva! Non quello!!!
Altra pioggerellina (“Befana!!!”).
Il magone si fece insopportabile. Re Vega non era uomo da esitare e si fiondò subito davanti allo schermo…

- continua -

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Terza parte.


Procton ricadde contro lo schienale della sua poltroncina.
Accanto a lui, Actarus scosse la testa con l'aria di chi ha appena ricevuto una mazzata sulla medesima.
Entrambi osservavano lo schermo ormai spento.
– Ripetimi un po' cos'è successo, perché non sono sicuro d'aver capito bene – mormorò Procton, la voce del tutto piatta.
– Mi è sembrato che fosse Re Vega – rispose Actarus, monocorde pure lui.
– È parso pure a me.
– E ha detto che è solo per Natale.
– Sì.
– E ci ha pregato di invitarlo per le feste.
– Non ci ha pregato, Actarus. La parola esatta è “supplicato”.
– Vero. Supplicato.
– E io ho… accettato?
– Sì.
– Mioddìo – Procton ricadde con la testa contro lo schienale – Allora l'ho fatto davvero. Ho invitato Re Vega per Natale.
– Per tutte le feste, padre.
– Già – Procton deglutì – E chi lo dice a Rigel, ora?


– CHE COSA? In casa mia quel… quel…?
– Papà! – l'urlo di Venusia coprì opportunamente l'epiteto rivolto al sire di Vega.
– Mi dispiace, Rigel, sono mortificato – mormorò Procton – Non ho proprio saputo dire di no, era così… così…
– Carogna! – l'aiutò Rigel.
– Contrito – gemette Procton – Ma non voglio infliggertelo. L'ho invitato io, me ne occuperò io.
– Ma no! – scattò Venusia – Professore, non vorrete accollarvi quel… quel…
– Ma io non voglio darvi problemi…
– Per piacere! – esclamò Venusia, zittendo con un'occhiata ustoria l'invelenito genitore – Professore, non potete restare da solo con… con quell'individuo! Passeremo le feste tutti insieme, Re Vega o non Re Vega.
– Ma…! – cominciò Rigel.
– Papà, Re Vega è un ospite – gli fece notare Venusia – e un ospite, come mi hai insegnato, è sacro.
– Ma è un veghiano!
– Veghiano o no, sempre ospite rimane.
– Vuoi dire – pigolò il genitore – che non posso prenderlo a schioppettate?
– No.
– Brumfh.
Non era giusto. A che serve poter disporre del proprio fidato schioppo, se non ci viene concessa l'impiombatura dei fondelli altrui? Questo, Rigel proprio non riusciva ad accettarlo.
Era talmente afflitto che Venusia sentì il bisogno di rincuorarlo: – Papà, anche se Re Vega è un ospite, non è detto che non si possa proprio far nulla…
– Cioè?
– Possiamo sempre ammollargli Shiro.
Piaga insopportabile contro altrettanto insopportabile carognone… la faccenda si faceva interessante: – Però…!
– Appunto – Venusia gli fece l'occhiolino, e subito Rigel si rasserenò.
Le feste cominciavano ad apparirgli molto, molto interessanti.


Com'era da aspettarsi, anche gli altri elementi della famiglia ebbero da dire la loro: Alcor brontolò, Maria recriminò. Solo Mizar si mostrò entusiasta, soprattutto quando gli fu prospettata la possibilità di rifilare Re Vega alle cure di Shiro: in genere, con la scusa che erano coetanei era sempre lui a doversi sorbire quell'impiastro. Chi mostrò una pur comprensibile riluttanza all'idea dell'ospite fu Tetsuya, che con la diplomazia che gli era propria manifestò al fratello i suoi dubbi (“Re Vega? Per le feste? Sei il solito deficiente!”).
Natale ormai era prossimo. Tetsuya e Jun, con il già frignottante Shiro al seguito, arrivarono al ranch il mattino della Vigilia, il primo pronto a dare una mano a decorare la casa, la seconda subito dietro ai fornelli, il terzo impegnatissimo a sommergere tutti di chiacchiere, infilando ovviamente qua e là qualche sospiro. Nel pomeriggio, un minidisco planò dolcemente nella pineta vicino al ranch; Actarus, Alcor e Tetsuya andarono incontro all'ospite, tornandone con uno spilungone alto un paio di metri e rotti, con barbaccia nera e faccia da pendaglio da forca. Aveva assunto un aspetto simil-terrestre ma era lui, ovviamente.
Un certo imbarazzo cadde tra i presenti: Venusia e Procton si sforzarono di accogliere degnamente l'ospite, mentre Maria lo guardava come si può guardare un verme velenoso e particolarmente viscido. Mizar e Jun impallidirono al solo vederlo, mentre Shiro ammutoliva troncando finalmente la fiumana di chiacchiere e Rigel mandava un pensiero colmo di rammarico allo schioppo, che purtroppo sua figlia aveva pensato bene di confiscargli. Quanto al sire, che mai in vita sua era stato un amabile conversatore, rimase a sua volta in un imbarazzatissimo silenzio, e la faccenda si sarebbe protratta ancora per parecchio con grande disagio per tutti se proprio allora dal ranch vicino non fossero giunti Banta e soprattutto sua madre.
Hara, dando ancora volta prova della propria squisita femminilità, avvistò immediatamente il nuovo venuto e volò subito alla conquista, tutta curve procaci e labbroni a cuoricino. Il sire, che a dire il vero aveva già adocchiato Jun prima e Maria subito dopo, fu costretto a far buon viso a pessimo gioco, e come fu come non fu, quella sera per il cenone si ritrovò seduto accanto alla gentildonna, che continuava a dispensargli occhiate ardenti. Dall'altra parte, manco a farlo apposta, c'era seduto Shiro, che superato l'iniziale timore per quell'insolito ospite aveva preso a considerarlo con un certo interesse.
Il barometro umorale di Shiro poteva segnare solo due condizioni: o brutto, ed erano frigni, recriminazioni, sospiri ed alti lai, o bello, e allora era anche peggio perché il fanciullo sommergeva lo sventurato interlocutore di chiacchiere, subissandolo di domande alternate a proposte di attività, generalmente noiose o massacranti, da svolgere insieme.
Re Vega gli era molto simpatico, per cui Shiro virò sul bellissimo stabile.
Nonostante tutto, la serata riuscì meravigliosamente: il salotto era stato decorato con gran gusto, la cena era ottima e la compagnia molto affiatata. A coronamento di tutto, verso mezzanotte, proprio quando Venusia e Jun stavano servendo la cioccolata, cominciò a nevicare, e tutti rimasero alle finestre a guardare i fiocchi bianchi scendere lentamente dal cielo. Terminato l'ultimo sorso di cioccolata e mangiato l'ultimo biscottino si andò a dormire, in attesa della grande giornata dell'indomani.
Il sire fu condotto nella sua stanza, un locale grazioso e ben arredato, anche se ai suoi occhi di severo monarca di Vega appariva piuttosto effeminato (Tendine di pizzo alle finestre? Centrino sul tavolo? Copriletto a fiori rifinito con volant? Mah!). Il letto era comunque comodo, anche se un po' troppo corto; il sovrano riuscì a piazzarsi su un fianco, le ginocchia premute contro il ventre, e finalmente prese sonno mandando un ultimo pensiero sprezzante a sua figlia Rubina, che quell'anno l'aveva snobbato (e proprio allora, Rubina stava ballando con i suoi per nulla pidocchiosi amici, divertendosi come da fin troppi Natali non le accadeva, costretta com'era stata a trascorrerli con quella scoria tossica di suo padre).


Fu una sorta di urlo disumano a svegliarlo di colpo: il sire avrebbe voluto scattare in piedi ma le giunture, bloccate da ore d'immobilità forzata, non glielo permisero. Fu così costretto a subire l'assalto di Shiro, che era balzato sul suo letto urlando che era Natale, era ora di svegliarsi, che c'erano i regali, eccetera eccetera.
Assordato e rattrappito, il sovrano raggiunse il resto della compagnia in soggiorno: sotto il grande albero addobbato rilucevano pacchetti di ogni forma e colore, e per un'ora buona fu tutto uno scartare e commentare i vari doni ricevuti. Alcuni, pochini in verità, erano regali davvero riusciti: la camicia di seta tagliata su misura che Actarus, Alcor, Venusia e Maria avevano regalato a Procton, ad esempio. O l'elegantissimo completo di lingerie color pesca che Tetsuya allungò di sottobanco a Jun. O anche il raffinato profumo maschile che Venusia aveva destinato ad Actarus.
Altri doni invece erano decisamente mal scelti, o addirittura davvero bruttini, come la sciarpona informe che Maria aveva sferruzzato per Alcor, il cui disegno a traforo presentava parecchi buchi del tutto non previsti. Altro capolavoro fu il set “per rimettere a nuovo le scarpe” composto da spazzole e lucidi vari che Actarus aveva scelto per Venusia. Poi ci furono ovviamente pantofole varie per Rigel e per Procton, un paio celesti a forma di orsacchiotto per Banta (“Mamma! Non sono più un bambino!”) e pure un paio, d'un violaceo assassino, per il sovrano di Vega. Tutti poi dovettero scartare i doni portati dal sire: ognuno ricevette un pacchetto incartato con un diverso colore, verde vegatron, giallino vomitino, grigio piombo.
Se le confezioni erano diverse, il contenuto era lo stesso: ciascuno divenne così proprietario di una piccola bomba termica portatile, un dono che il sire considerava evidentemente come essenziale per la felicità di un terrestre. Tutti ringraziarono gentilmente, mentre Venusia e Actarus passavano a requisire (con discrezione, non si doveva offendere l'ospite!) l'intera artiglieria chiudendola poi nel vecchio porcile in disuso, giù in fondo all'orto.
Oltre alle pantofole, Re Vega trovò sotto l'albero il regalo di Rubina (quell'anno, un intero assortimento di calzini), un grazioso giochino di simulazione di genocidio per PC, dono dei suoi ministri, e assolutamente nulla da parte di Himika. Era ancora furiosa con lui. Tanto meglio.
Trovò anche un sacchettino colorato inviatogli dall'ingegnere buontempone, il proprietario del famoso cuscino, quello che faceva le imitazioni: dolci denebiani, ovviamente, quelli che scatenavano un immediato svuotamento intestinale. Che simpaticone… quasi quasi gli avrebbe fatto fare un giretto in Sala Torture.
Ma il più sfortunato di tutti, naturalmente, fu Shiro: a suo parere gli erano stati portati troppi vestiti (era molto cresciuto e tra i doni aveva trovato due paia di pantaloni e quattro felpe) e troppo pochi giocattoli e dolci. In più, lui aveva chiesto a Babbo Natale l'ultimo gioco di Mostriciattoli Tascabili per la sua Playstation, e gli era arrivata l'ennesima avventura di SuperMarco l'idraulico. E poi aveva anche domandato un altro gioco di AcchiappaMostri per il suo Nonintendo e non era stato accontentato… non era giusto… vero che era stato maltrattato? E qui aveva cominciato a frignottare, causando in Re Vega un gran desiderio di elargire sculaccioni.
– Guarda, Shiro! – esclamò in quel momento Mizar.
Due grandi scatole incartate in azzurro e oro, perfettamente uguali, troneggiavano sotto i rami più bassi dell'albero: una per ciascuno dei due ragazzini. Le lacrime sparirono per incanto, le carte furono aperte: costruzioni per montare una meravigliosa astronave.
– Facciamo a chi completa per primo l'astronave! – esclamò Mizar, cominciando ad assemblare un paio di pezzi.
– Ma io da solo non ce la farò mai! – frignò subito Shiro.
– Va bene, vale farsi aiutare, ma da un solo adulto! – concesse Mizar – Actarus, mi aiuti a costruire la nave?
– Ma certo, Mizar – e Actarus si inginocchiò a terra, cominciando pure lui ad esaminare pezzi e schemi di montaggio.
– Non vorrai che quei due ci battano, vero? – e Shiro acchiappò il sire che, prima d'aver ben compreso che fosse successo, si ritrovò ad aver a che fare con i montanti M1 e M2 che andavano assemblati sulla piattaforma P4, badando poi a far combaciare esattamente i pezzi dello scafo K1,2,3 e 4, che naturalmente andavano fermati con i bulloncini B1,2,3 e 4, eccetera.
All'ora di pranzo Mizar e Actarus avevano montato perfettamente l'astronave, mentre Shiro scoppiava in lacrime disperate e il sovrano, semisommerso da pezzi, montanti, piattaforme e bulloncini fissava il collo del fanciullo sognando di ridurne considerevolmente il diametro.
Ad impedire l'infanticidio fu Hara, accorsa a chiamare a tavola tutti e soprattutto lui (“È pronto, tesorino! Scommetto che hai la famona, hm?”).
Il pranzo fu eccellente; il sire non era mai stato un mangione ma quella volta fece un'autentica scorpacciata, complici l'eccellenza dei piatti e soprattutto Hara, che vedendolo “magrolino” aveva deciso di “rimpinzarlo come un tacchino” in modo che “mettesse un po' di ciccia su quegli ossi”. Mancò poco che l'imboccasse, ma comunque insistette molto perché lui “facesse il pieno”.
Dopo pranzo, l'unico desiderio del sovrano, e pure del resto dell'allegra compagnia, sarebbe stato quello di rintanarsi da qualche parte per digerire con comodo; invece non fu possibile, perché come ebbe ad esclamare Rigel “Oggi è Natale, e a Natale si canta!”. E mentre tutti guardavano ansiosamente Venusia, una muta domanda negli occhi (“Per favore, dimmi che gli hai nascosto i foglietti coi canti di Natale!” “Ma certo che l'ho fatto!”), Rigel, trionfante, tirò fuori uno scatolone in cui aveva riposto copie dei foglietti e pure dei campanelli con cui accompagnare i lieti cori.
– Ma io sono stonato! – tentò di salvarsi anche quell'anno Tetsuya.
– Io proprio non so cantare! – si schermì il sire.
– Non importa, è Natale e si canta tutti insieme! – esclamò perentorio Rigel.
Poco dopo si levò un coro alquanto stentato formato dalle voci bianche di Mizar e Shiro, i soprani di Venusia, Maria e Jun, il potentissimo (e stonatissimo) contralto di Hara, i tenori di Alcor e Rigel, i baritoni di Procton, Banta, Actarus e Tetsuya e il basso profondo del sire: e fu un Bianco Natal così agghiacciante che sicuramente il povero Bimbo sussultò, e non certo per il freddo e il gelo.


Proprio allora Rubina stava divertendosi come non mai, Gandal e signora stavano ascoltando ancora una volta la vecchia zia lamentarsi dei propri acciacchi, Hydargos e amici vari erano all'ennesimo brindisi, Zuril e Gudrun stavano bevendosi una cioccolata rannicchiati insieme sul divano davanti al caminetto e Boba la Grassona volteggiava con leggiadria sul tavolo di riunione in Sala Comando, disponendosi a rimuovere l'ultimo velo che ancora proteggesse le sue grazie dagli sguardi bramosi dei maschi presenti.

- continua -

Link per "l'avevo detto che finiva alla fattoria!": https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2880#lastpost
 
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view post Posted on 23/12/2016, 19:54     +1   -1
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Ultima parte

I giorni successivi scorsero tra passeggiate in mezzo alla neve, pranzoni e giochi di società. Si andarono a trovare parenti che normalmente ci si dimenticava persino d'avere, si andò a fare un giro in città per vedere le vetrine illuminate, si guardò qualche film di quelli un po' sentimentaloni che si vedono appunto a Natale; Re Vega sopportò tutto, tollerò tutto, l'idea di tornarsene su Skarmoon da solo non lo sfiorò nemmeno. Per tutto il tempo si trovò Shiro regolarmente appiccicato addosso: il fanciullo aveva una simpatia incredibile per lui e la manifestava apertamente, sommergendolo di chiacchiere e pretendendo la sua totale attenzione – il che era guardato con gran sollievo da tutti, a parte Hara ovviamente; e non appena per qualsiasi motivo il fanciullo veniva distolto dal suo grande amico lei era pronta a piombargli addosso tutta occhi stellanti e labbroni frementi.


– Beh, non può certo lamentarsi – osservò la Befana – Aveva il terrore di rimanere da solo durante le feste, e adesso è decisamente in compagnia…
– Santo cielo, non sarà un po' troppa? – chiese Babbo Natale, che rideva facendo sussultare i vari sbalzi della pancia – La compagnia, intendo!
– Ma no, è esattamente quel che gli ci vuole – e la Befana inondò ancora una volta di stelline lo sventurato sire.
– Befana! Di nuovo…?
– Certo! Cosa credi? Se non l'avessi sistemato tutti i giorni, quel bel tipo avrebbe fatto fuori quel marmocchio a suon di montanti F1 e F2!
Babbo Natale sussultò sulla sua poltroncina: – Sei stata tu a fargli avere quelle costruzioni…!
– Naturale – la Befana ghignò – Vuoi che mi perdessi l'occasione di farlo impazzire? E non fare quella faccia, Babbino! In genere sono i papà a dover incastrare montanti e piattaforme, no? Perché non poteva capitare anche a lui? ...E non farmi il broncio, che ormai è quasi l'Anno Nuovo…


Capodanno significò un nuovo cenone, se possibile ancora più sostanzioso di quello di Natale: Hara stessa aveva cotto un insaccato di maiale squisito certamente, ma di digestione lentissima e difficile. Il sire avrebbe voluto sottrarsi, ma ovviamente “L'ho cotto proprio per te, tesoruccio!”. Tre enormi fette (“Tre d'amore, cocco!”) vennero deposte nel suo piatto e ovviamente bisognò mangiarle. Tutte. Fino all'ultimo bocconcino.
Naturalmente bisognava aspettare la mezzanotte, per cui Rigel annunciò una tombolata con ricchi premi in dolci e caramelle, e per un'ora almeno fu tutto un “settantasette, le gambe delle donne” e inseguimento di fagioli indisciplinati. Alla fine della partita Re Vega aveva compreso a malapena la differenza tra un terno e una cinquina ma in compenso aveva vinto un monte di dolci, complice Hara che continuava a tenergli d'occhio le cartelle segnalandogli tutte le vincite. A mezzanotte si stappò lo spumante, si fece il brindisi… e fu allora, mentre tutti si abbracciavano e i calici tintinnavano, che Hara condusse il sire in un certo angolo della sala, indicandogli un rametto che pendeva da un filo dorato.
– E questo? – chiese il sire.
– Vischio – fece vezzosamente lei – Lo sai cosa significa, cocchino?
– No.
– Te lo spiego subito – e acchiappatolo, diede il via al bacione più ventosa del suo vasto repertorio.
Poco dopo, mentre riprendeva fiato, il sire cominciò quasi a rimpiangere Himika.
Quasi.


I giorni successivi trascorsero all'incirca come i precedenti: ormai l'Epifania era alle porte, e tutto sommato il Sire vedeva con sollievo la fine delle feste.
La mattina del 6 gennaio fece trovare tante calze appese in salotto: frutta secca, arance e dolci per tutti, carbone per il sire. La Befana non si smentiva mai.
– Oooh, carbone! Devi essere stato davvero cattivo – commentò Shiro.
Il sire gettò uno sguardo su quel fanciullo che da quindici giorni lo aveva funestato e che ancora godeva di ottima salute, e scosse il capo: – Non abbastanza cattivo.
Anche il pranzo dell'Epifania fu davvero eccellente, ma il sire, ormai sazio di squisitezze e calorie, si rese improvvisamente conto di star rimpiangendo i pasti preconfezionati-liofilizzati-perfettamente bilanciati-del tutto insapori che venivano ammanniti su Skarmoon. Da non credere.
Durante il pomeriggio vi furono gli addii: il sire sarebbe ripartito per la base lunare e Tetsuya e Jun avrebbero ripreso la strada per la Fortezza delle Scienze, portandosi finalmente via Shiro. Gli addii furono nel complesso cordiali, e i sorrisi che accompagnarono la partenza del sire furono molto più calorosi di quelli che ne avevano accolto l'arrivo. Unica eccezione fu Hara, che non nascose la propria commozione: e per quanto il sovrano tentasse di schermirsi non fu possibile evitare un nuovo bacio-ventosa con tanto di schiocco finale. Liberatosi finalmente dai tentacoli che l'abbrancavano, il sire incappò in Shiro, che vedendolo pronto alla partenza aveva cominciato a dare il via ai frigni. Per un istante il sovrano fu sul punto di dargli un paio di avvitate al collo; colto poi da un'ispirazione improvvisa, decise di soprassedere in previsione di commettere qualcosa di peggio. Fu accompagnato fino al minidisco, rimasto fino ad allora nascosto nella pineta; dopo gli ultimi saluti, un istante prima di salire sulla navetta allungò a Shiro, che ormai singhiozzava senza ritegno, un pacchetto: un dono consolatorio? Le lacrime svanirono e Shiro rimase a salutare con gli altri il sovrano che partiva (poco più in là, Hara piangeva amare lacrime). Poi, tutto il gruppo riprese la strada del ritorno verso il ranch, per veder partire Tetsuya, Jun e soprattutto Shiro.
– Cosa ti ha regalato? – chiese Maria, curiosa.
Shiro aprì la scatola: grandi dolci coloratissimi. Un'occhiata di Jun gli ricordò che era giusto offrire agli altri, ma tutti, ormai sazi di dolciumi, rifiutarono educatamente. Tanto meglio, ne restavano di più per lui!
– Ehi, me ne dai uno? – chiese Banta, unico ad avere ancora fame dopo due settimane di bagordi.
– Un momento – esclamò Alcor, guardando meglio quelle delizie – Ma non sono…?
– Certo che lo sono! – urlò Actarus, riconoscendo immediatamente i dolci denebiani – Shiro! Banta! No!
Troppo tardi…


Mentre sfrecciava verso Skarmoon, Re Vega s'appuntò mentalmente di dare un aumento di stipendio all'ingegnere simpaticone.


Contrariamente a ogni previsione, la mattina dell'Epifania Himika ebbe la sorpresa di trovare appesa a una delle colonne del suo letto un qualcosa che proprio non si sarebbe mai aspettata.
Una calza rosa confetto per lei… forse Yabarn aveva capito d'essersi comportato malissimo e le aveva inviato un dono?
Naaaah… fantascienza!, si disse Himika, dando un' occhiata all'interno.
Un bigliettino. “Sei ancora arrabbiata? Y”
No. Non sono arrabbiata… sono furiosa!
Fece per scaraventare via la calza quando s'accorse che c'era ancora qualcosa dentro… un astuccio blu.
Oh.
Un astuccio che aveva tutta l'aria di provenire da un gioielliere…
Oh-oh.
Chiunque altra al suo posto avrebbe subito aperto il dono; Himika era pur sempre Himika, cioè una donna prudente che sapeva benissimo come Yabarn fosse appunto Yabarn. Mise il cofanetto nell'analizzatore.
Nessun pericolo segnalato: niente marchingegni sospetti, nessun esplosivo o veleno.
Sembrava… sembrava davvero… un gioiello.
Oh-oh-oh.
E non un gingillino, a giudicare dalle dimensioni dell'astuccio… Himika non resistette e aprì.
Un bagliore accecante.
Uuuuuh!
Completamente senza fiato, Himika dapprima riprese a respirare, poi estrasse religiosamente il dono dall'astuccio… diamanti… carati e carati di diamanti... un collier favoloso!
Oh, Yabby…!


Con il sire, rientrarono poco per volta anche i suoi uomini.
Hydargos fu il primo: aveva l'aria un tantino suonata di chi ha trascorso due settimane di bagordi e s'era divertito come non gli capitava da fin troppo tempo.
Poi arrivò Rubina, animatissima e molto chiacchierina: l'incontro con gli amici era andato splendidamente, e di comune accordo avevano deciso di incontrarsi ancora. Era stato davvero bello ritrovarsi dopo tanto tempo.
Giunsero anche i signori Gandal, lei con l'aria compunta di chi ha adempiuto al proprio dovere, lui furioso. Hydargos, che lo conosceva bene, comprese subito: la vecchia non era affatto crepata. Com'era da prevedersi.
Zuril rientrò per ultimo: appariva molto tranquillo, rilassato, in gran forma. Studiare una nuova lingua giovava davvero, evidentemente...
– Allora, Zuril, – esclamò Re Vega – hai imparato il tedesco?
– Guten Tag, mein Herr – rispose, dando così fondo a praticamente tutta la sua scienza… perché in effetti lui e Gudrun avevano fatto parecchie cose, durante quelle vacanze, ma parlare non era stata tra le principali.
Ultimi a rifare la loro apparizione furono Dantus e Barendos, riemersi dalle profondità del Centro Medico: la colite purulenta lyriana aveva fatto loro buona compagnia per le due settimane di vacanze, lasciandoli palliducci e fortemente smagriti.
– Due figurini – mormorò Hydargos a Gandal, che ghignò.
Re Vega tirò un sospiro di sollievo: per quell'anno, basta.
Le feste erano finite. Tutto era tornato alla normalità.
Pace, finalmente… era ora di riprendere con gli assalti alla Terra, che diamine.


La tranquillità quotidiana per il sire durò esattamente cinque giorni.
All'alba del sesto, il sovrano fu destato dal bip-bip del cicalino che gli segnalava un visitatore. Balzò a sedere sul regio materasso: chi osava disturbarlo a quell'ora antelucana? Chi era il morituro che aveva avuto il coraggio di destarlo?
Il bip-bip continuava, irritantissimo.
Furioso, il sovrano balzò dal letto, infilò le violacee ciabatte e andò ad aprire alla porta.
Una specie di turbine di capelli biondi e gemme scintillanti lo abbrancò tamponandolo di baci; un po' stordito, il sire riconobbe la sua fidanzata.
– Oh, Yabby! – squillò – Sei stato me-ra-vi-glio-so! Grazie! Graziegraziegrazie!
– Ma di che diavolo stai parlando? – sbottò lui tentando, inutilmente bisogna dire, di liberarsi dall'abbraccio – Io non ti ho…
– Inutile che tu faccia il broncio, lo so che non sei il ruvidone che vuoi sembrare! Yabby, che collier stupendo!
– Collier? – il sovrano la guardò meglio. Ma che si era messa al collo? – Cos'è quella roba? Hai saccheggiato il lampadario del salotto?
– Ma che sciocchino! – gli stampò un nuovo bacione appassionato – Sei così dolce! Naturalmente, ti perdono tutto…
– Che cosa? – rantolò. E lui che sperava di essersi finalmente liberato da quell'appiccicosissima femmina…!
– Ho liquidato tutti gli impegni e mi sono presa un po' di tempo per stare con te. Sei felice?
Solo allora il sire notò la fila di soldati, tutti carichi di valigie, che stava marciando verso il regale appartamento… Himika aveva la ferrea intenzione di fermarsi da lui! Dopo le orribili feste che aveva trascorso sulla Terra, che altro avrebbe potuto esserci di peggio?
Dietro i soldati, spuntò un grosso animale dalla rossa pelliccia che andò a sedersi proprio di fronte a lui, guatandolo con biechi occhi verdi.
Ecco.
Il peggio era appunto arrivato.


– Oltre a Himika, pure Pucci! – nonostante fosse un uomo molto bonario, Babbo Natale sghignazzò così forte da rischiare di rovesciarsi la cioccolata sulla barba – Stavolta l'hai davvero sistemato, niente da dire!
– Tu credi? – chiese la Befana, guardandolo da sopra i suoi occhialetti ovali – Aspetta allora di vedere quando darà un'occhiata al suo conto in banca e capirà quanto gli è costato quel collier… vuoi un altro dolcino?


FINE



Link per farmi notare che già una volta la Befana aveva mandato doni pro-Yabby a Himika: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2895#lastpost
 
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view post Posted on 31/12/2016, 18:35     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Realizzo che non avevo postato questo racconto con protagonisti Tez e Jun, che dovevo aver scritto per il libro sul Great. Scusate, ero convinta d'averla postata.


SU MISURA


– Ti prego, dimmi ancora una volta che diavolo siamo venuti a fare qui – gemette Tetsuya.
Jun ripose nella borsetta le chiavi dell’auto e spiegò pazientemente: – Dobbiamo fare acquisti. Tu hai bisogno di un vestito nuovo, molto elegante, per accompagnarmi a teatro.
– Ma a me non piace andare a teatro – brontolò Tetsuya.
– Non ci sei mai stato, come fai a dire che non ti piace? – gli fece notare Jun, avvicinandosi alle vetrine di un grande negozio di sartoria.
– Posso immaginarmelo, però – bofonchiò lui, imbronciato. Aveva temuto fortemente che Jun volesse trascinarlo a vedere una di quelle noiosissime tragedie in costume con intere frotte di personaggi; fortunatamente, lei gli aveva assicurato che non si trattava di nulla di simile. Beh, l’idea di assistere ad uno spettacolo divertente era decisamente molto meglio... – Jun, cos’hai detto che andiamo a vedere? Una commedia?
Lei non gli badava nemmeno: – Guarda che bei vestiti!
Tetsuya gettò un’occhiata agli abiti, e subito uno spasmo gli torse il duodeno: impeccabili giacche, pantaloni dal taglio perfetto, camicie su misura, cravatte all’ultima moda...
– Jun! – esclamò, inorridito – Non vorrai che mi metta quella roba!
Lei gli gettò uno sguardo spazientito: – Pensi di venire a teatro in jeans e maglietta?
Tetsuya guardò ancora gli abiti esposti e sentì la fronte cospargerglisi di gelidi sudorini: – Quando mi vedrà conciato come un becchino, Kabuto mi farà morire!
– Ma tuo fratello non ti vedrà – rispose Jun – Andiamo a teatro con Actarus e Venusia. Alcor non viene.
La prospettiva di non venir visto – e debitamente sbertucciato – dal fratello parve rendere a Tetsuya il futuro un po’ meno fosco: – Non viene...?
– Ha un altro impegno – preferì non dirgli che Alcor aveva rifiutato sdegnosamente la serata elegante a teatro (“Per carità! Poi, mi toccherebbe vestirmi come un beccamorto!”) per optare per un più rilassante film con alieni cattivi, sparatorie a raffica e gran spargimento di sangue e budella.
Tetsuya parve respirare, sollevato; subito, Jun approfittò del suo momentaneo sollievo per acchiapparlo per un polso e trascinarlo dentro al negozio, là dove gli sarebbe stato ben più difficile sfuggirle.
Essendo finalmente riuscita ad imporre al compagno un cambio di look, anche se temporaneo, Jun aveva fatto le cose in grande: il negozio in cui l’aveva trascinato era una sartoria molto elegante, un po’ vecchio stile, con impeccabili commessi in giacca e cravatta, arredamento piacevolmente rétro e un clima silenzioso ed austero che faceva pensare più a una cattedrale che non ad un frivolo negozio di confezioni maschili. Mancava solo qualche effluvio di incenso perché l’illusione fosse perfetta.
Tetsuya fece appena in tempo a guardarsi attorno con aria smarrita, che subito un individuo alto e sparuto che sembrava un maggiordomo inglese si fece avanti, chiedendo con voce sommessa in che modo avrebbe potuto essere utile ai signori.
– Vorremmo un vestito scuro, elegante – rispose Jun, radiosa, mentre serrava con forza il polso di Tetsuya per evitare inopportune fughe.
– Ma certamente, signora – rispose il maggiordomo con la sua voce dolente – Se i signori volessero accomodarsi da questa parte...
Di quel che successe dopo, Tetsuya ebbe solo una vaga idea: il vestito era per lui, ma era evidente che circa la scelta del modello e del colore il maggiordomo si sarebbe rivolto solo a lei; un paio di volte Tetsuya tentò d’intervenire, venendo regolarmente ignorato. Tentò infine la ribellione (“Non lo voglio grigio!!!”); mentre il maggiordomo lo guardava con palese disapprovazione, Jun gli spiegò in tono secco che un abito da sera doveva essere per forza nero.
Momentaneamente zittito, Tetsuya tacque mentre i due definivano gli ultimi particolari; e finalmente, venne il momento di passare alla prova.
Il maggiordomo fece scorrere rapidamente lo sguardo su Tetsuya, percorrendolo da capo a piedi in silenzio, un po’ come si fa quando si osserva qualcosa di particolarmente viscido e ripugnante; dilatò lievemente le narici e si rivolse a Jun sempre parlando con quel suo tono di voce basso e dolente che faceva molto impresario di pompe funebri: – Penso che sarà opportuno prendere le misure del signore.
– Ma io non voglio un abito su misura! – scattò subito Tetsuya – Con quel che costa! Non avete qualcosa di già pronto?
Jun si sentì morire; quanto al maggiordomo, le sue narici si dilatarono ulteriormente, mentre lo guardava con disgusto ancor più palese.
– Ma certamente, signore – più che “signore”, sembrò che avesse detto “pidocchio” – Prendere le misure è però necessario per aver la certezza di scegliere la taglia più adatta.
Tetsuya sospirò, rassegnato; il maggiordomo schioccò le dita, e subito si fece avanti un azzimato giovanottello in impeccabile completo grigio. Non uno dei suoi aurei capelli era fuori di posto, la camicia appariva immacolata e il papillon richiamava il ceruleo intenso dei suoi occhi.
Tetsuya lo odiò selvaggiamente da subito.
Mentre Jun restava in disparte a parlare col maggiordomo, il sorridente giovanotto, totalmente ignaro dell’astio del suo cliente, fece apparire un lungo metro a nastro con cui si accinse a compiere il suo lavoro.
Jun stava appunto chiedendo lumi al maggiordomo circa il tipo di scarpe adatto a un sì meraviglioso completo, quando un certo trambusto li richiamò immediatamente. Tetsuya aveva afferrato per il bavero il giovanotto, scuotendolo con tal forza da fargli sbattere i perfettissimi denti: – Non ci provare, amico!
– Tetsuya! – esclamò Jun – Smettila subito!
– Questo maiale ha cercato d’abbracciarmi! – ringhiò lui.
– Signore – s’intromise il maggiordomo – la prego di credere che nessuno dei miei commessi, prima d’ora...
– Prima d’ora, appunto! – sbottò Tetsuya.
– Ma non è mai successo che abbiano mancato di rispetto ad un cliente...
– Adesso sì!
– Insomma, basta! – Jun s’intromise costringendo l’incollerito compagno a lasciare la sua vittima – Lascia andare quel poverino!
– E va bene – rispose Tetsuya, mollando finalmente la presa – Ma se questo furbone ci riprova, darò del lavoro al suo dentista.
Abbandonato a sé stesso il giovanotto, il cui aspetto non era più così impeccabile, s’afflosciò sul bancone e si rivolse con voce tremante al maggiordomo: – D-direttore, io v-volevo solo prendergli la misura del torace...
– Mi ha messo le braccia attorno! – sbottò Tetsuya, schifato – Che altro potevo pensare? Con l’aspetto che ha, poi...
– La vuoi piantare? – sibilò Jun, furiosa – Mi farai morire di vergogna!
– Scusa, ma quella specie di finocchietto mi ha...
– Tetsuya! BASTA!
Quando Jun usava il tono delle grandi occasioni, l’unica cosa sensata da fare era starsene ben zitti, a meno di non voler sopportare le inevitabili conseguenze; Tetsuya ammutolì, e finalmente il giovanottello poté nuovamente avvicinarsi con il suo metro.
– Posso... continuare...? – domandò, guardando Tetsuya come si guarda una tigre nervosetta e dall’azzannatina facile.
– Prego – e con un’occhiata d’ammonimento al compagno, Jun tornò dal maggiordomo a discutere di calzature.
Dandosi una sistemata alle scomposte chiome, il commesso riprese a misurare Tetsuya: distanza spalla-polso... punto vita... adesso bisognava passare alle misure dei pantaloni. Il commesso inspirò, prese fiato, si fece avanti con aria decisa...
Nuovo, infernale trambusto. Jun piombò sul posto proprio mentre Tetsuya stava stringendo il metro a nastro attorno al collo del malcapitato giovanottello.
– Non ti dico dove voleva toccarmi, stavolta! – ruggì, inferocito.
L’infelice commesso appariva di un intenso color paonazzo, e gli occhi avevano ormai assunto il colore e le dimensioni di due grossi pomodori. Jun intervenne prontamente, sottraendolo ad una rapidissima morte per asfissia.
– Non puoi prendertela con me! – esclamò Tetsuya – Quel porco! L’ho fermato in tempo, ma mi aveva già messo le mani addosso!
– Dovevo p-prendergli la m-misura della gamba – rantolava intanto l’infelice, piegato in due su una sedia – E quando sono arrivato al cavallo... oooh!
Il direttore prese una mano del commesso e vi batté sopra continuando a ripetere “su, su”; quanto a Jun, si piantò di fronte a Tetsuya e gli sibilò svariate dozzine di parole con un tono così secco da fargli raggricciare i peli. “Pezzo d’idiota” fu uno degli epiteti più gentili che gli indirizzò.
Quindi, con immensi occhi colmi di rammarico si rivolse al commesso, flautandogli quanto era spiacente, come era costernata per il comportamento da buzzurro di certe persone (e qui scoccò a Tetsuya un’occhiata-laser) e infine gli chiese con voce da sirena se si sarebbe sentito di ultimare il suo lavoro.
Il giovanottello, che nonostante fosse fin troppo azzimato era persona da apprezzare parecchio i grandi occhi, il delizioso viso e i rotondi annessi e connessi di Jun, balzò subito in piedi e brandì nuovamente il metro, pronto a portare a termine la sua pericolosissima missione; nemmeno l’occhiataccia bieca rivoltagli da Tetsuya lo distolse dalla sua decisione.
Con gran sprezzo del pericolo, il commesso prese infine l’ultima, pericolosissima misura; la taglia fu correttamente stabilita, giacca e pantaloni vennero scelti e finalmente indossati. Dieci minuti dopo, Tetsuya guardava con palese disgusto la propria immagine riflessa nello specchio.
– Non provarti a dire che sembri un becchino! – l’ammonì Jun, che lo conosceva bene.
– Sembro pronto per finire nella cassa – corresse Tetsuya – Ho visto parecchi cadaveri conciati così.
Il giovanottello ridacchiò: – Il signore ha un gran senso dell’umorismo!
– Proprio per niente, invece – Jun allungò un calcetto a Tetsuya che stava aprendo bocca per protestare e si rivolse al commesso: – Con questo vestito, che tipo di cravatta mi consiglia? Tradizionale, o a papillon?
– A papillon, senza dubbio! – esclamò il commesso, stupito da una simile, ovvia domanda.
– Vuoi dire uno di quei cosi a farfalla? – scattò Tetsuya – Mai!
– Signore, il papillon è essenziale, per l’uomo elegante – cominciò il commesso.
Tetsuya prese fiato; quando parlò, si espresse con molta calma e chiarezza: – Non metterò mai quella specie di fiocchetto dall’aria equivoca. Spero sia ben chiaro. Se provi ad avvicinarti con uno di quei cosi, giuro che te lo faccio mangiare.
Il commesso si voltò verso Jun: – Lo farebbe davvero?
– Certo – sospirò lei.
– Capisco – il giovanottello si rivolse a Tetsuya: – Ripensandoci, signore, un uomo veramente elegante può permettersi anche una cravatta tradizionale.
Sorvoliamo ora sulla sofferta scelta della cravatta: basti sapere che culminò con un nuovo assalto di Tetsuya al commesso, reo d’aver cercato di strangolarlo con il suddetto capo d’abbigliamento (“Volevo solo fargli il nodo”, si sarebbe giustificato l’infelice, una volta sottratto alle grinfie dell’incollerito cliente).
Anche la scelta della camicia non fu indolore (“Seta? Roba da smidollati!” “Taci, imbecille!”).
– Dimenticavo – esclamò infine Jun – Avremo bisogno anche di calzini neri.
– Perché? – si stupì Tetsuya – Quelli che ho, bianchi, non vanno bene?
– No! – scattò Jun, esasperata.
– Ma il bianco sta con tutto – osservò lui, serafico.
Nuovo ruggito di Jun, ammutolimento di Tetsuya, e alcune paia di calzini neri vennero aggiunte al già congruo conto.
Fu poi la volta della biancheria: più volte Jun aveva lamentato lo stato di mutande e canottiere del compagno (“Non vorrai portare ancora quegli slipponi ascellari!”). La scelta delle canottiere fu semplice; un po’ meno quella delle mutande, dato che l’azzimato commesso ebbe l’ardire di chiedere se il signore volesse gli slip o le boxer. Subito Tetsuya prese a guardare storto quel sedicente maschio tanto interessato a particolari intimi della vita di altri maschi; ignaro del pericolo, il commesso prese a magnificare la comodità delle boxer, osando infine proporre al signore di provarne un paio per rendersi conto del comfort che esse fornivano.
Oltretutto, ebbe la dabbenaggine di aggiungere l’incosciente, le boxer erano disponibili in un vasto assortimento di colori e fantasie: azzurre, verdi, gialle, persino rosa... a quest’ultima, equivoca offerta cromatica, Jun fu rapidissima ad intervenire, salvando l’incauto giovanottello da un nuovo tentativo di strangolamento. Svariate paia di mutande a slip, tutte rigorosamente bianche, vennero aggiunte al mucchio. Il conto lievitò ulteriormente, ma che importava? Tetsuya sarebbe stato elegantissimo.
Gli acquisti vennero accumulati alla cassa – e a questo punto, l’azzimato commesso non poté trattenere un ghigno malefico all’idea di quanto avrebbe dovuto sborsare quel suo intrattabile cliente. La cassiera digitò lo scontrino, e subito il maggiordomo, che era improvvisamente riapparso come dal nulla, con voce tutta rosolio flautò la cifra.
Tetsuya boccheggiò, stroncato dallo shock. Jun fu rapidissima a pagare, acchiappare il suo compagno, cacciargli in mano la borsa con gli acquisti e dirottarlo verso l’uscita; disgraziatamente per lei, Tetsuya era uomo da riprendersi molto in fretta: – Ma sono pazzi! Tutti quei soldi!!!
– Smettila! – sotto gli sguardi colmi di disapprovazione del maggiordomo, le cui narici si erano ulteriormente dilatate, lei lo pilotò verso la porta.
– Che razza di ladri! – continuò Tetsuya, inferocito – Adesso mi sentiranno, io non... Jun, perché mi hai tirato un calcio?
– Per evitare di strozzarti! – ringhiò lei, rivolgendo nel contempo un gran sorriso al maggiordomo e all’azzimato commesso: – Arrivederci. È... è stato un piacere...
Solo per lei, signora, fu ciò che NON dissero i due, rivolgendole invece un compito inchino.
– Macchè piacere! – ruggì Tetsuya – Col cavolo che questi qui mi rivedono!
Grazie a Dio, dissero le occhiate che si scambiarono maggiordomo e commesso.
– Gente avida e viscida, ecco cosa sono! – brontolò lui, mentre Jun lo spingeva fuori.
– Insomma, vuoi stare un po’ zitto? – sibilò lei.
– Perché? – trasecolò lui – Sto dicendo solo la verità!
Jun sentì le lacrime salirle agli occhi: – Sei il solito selvaggio, rozzo e incivile! E io che speravo di insegnarti un po’ di buone maniere... tempo perso!
A quel punto, persino un uomo come Tetsuya capì d’averla fatta grossa; mogio, seguì la seccatissima compagna verso l’automobile parcheggiata lì vicino.
– Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia! – esclamò Jun, mettendosi al volante.
Imbarazzato, Tetsuya chinò la testa e rimase in silenzio per tutto il viaggio.
Di tanto in tanto gettò un’occhiata a Jun, che guidava in silenzio senza degnarlo d’uno sguardo: era veramente arrabbiata, non c’è che dire.
Ci teneva tanto a questa serata elegante, si disse Tetsuya, che sentiva rimordergli la coscienza. In fondo, Jun non mi ha mai chiesto molto... un piccolo sforzo per lei potrei anche farlo... il peggio ormai è fatto, il vestito è comperato; tanto vale che lo metta e cerchi di fare bella figura perché lei sia contenta.
Da quell’uomo tutto d’un pezzo che era, prese la sua decisione: avrebbe indossato quel vestito. Avrebbe accompagnato Jun, sarebbe stato impeccabile, avrebbe persino sopportato il tutto con il sorriso sulle labbra, pur di farsi perdonare... e comunque, non si trattava poi di nulla di drammatico: l’indomani sarebbero usciti con i loro amici per passare una serata divertente vedendo una commedia.
E Jun sarebbe stata finalmente orgogliosa di lui.


Non appena Alcor (in jeans e maglietta, beato lui!) fu uscito per andare verso il suo filmone tutto spari e sangue, Tetsuya uscì dalla doccia e s’infilò i nuovi vestiti.
Sorpreso, si guardò allo specchio: l’abito gli stava a pennello. La camicia, pur di seta, non gli dava certo quell’aria un po’ equivoca che lui aveva tanto temuto. L’azzurro chiaro della cravatta s’intonava perfettamente con i suoi occhi.
Ma guarda se non faccio anch’io la mia porca figura!, si disse, sbalordito.
Jun, splendida nel suo vestito da sera color oro, rimase senza fiato: abituata a vedere il compagno in tuta da combattimento, magari sudato e sanguinante, stentava a riconoscerlo in quell’elegantissimo, distinto gentiluomo. Con il cuore che le scoppiava dalla felicità salì con lui in macchina: la serata sarebbe stata un successone, ne era sicura!
Si trovarono con i loro amici proprio nel foyer tutto specchi, velluti e stucchi dorati del teatro. Venusia appariva molto elegante e femminile nel suo vestito rosa; con il suo inappuntabile abito da sera Actarus naturalmente era molto distinto ed attraente, ma (e qui Jun non potè trattenere un moto di gioia) accanto a lui Tetsuya non sfigurava affatto, anzi!
Fu con infinito orgoglio che Jun fece il suo ingresso in teatro al braccio di Tetsuya, che stava comportandosi davvero come un perfetto gentiluomo... chi avrebbe mai potuto riconoscere in lui il rude pilota del Grande Mazinga?
Una volta seduti ai loro posti in attesa che il sipario si alzasse, Tetsuya si guardò rapidamente attorno: la felicità di Jun l’aveva messo d’ottimo umore.
Ma sì, in fondo non era affatto spiacevole essere eleganti, andare in un lussuoso teatro in mezzo ad altra gente ben vestita per vedere una divertente commedia...
– ...Commedia...? – esclamò Jun, attonita.
– Ma come...? – Actarus era sinceramente sorpreso – Tetsuya, quale commedia? Siamo venuti a vedere un balletto!
– Il Lago dei Cigni – aggiunse Venusia – Danza classica. Una storia molto romantica.


Tutti, tra i presenti che gremivano la sala, sono concordi nell’affermare che l’ululato che echeggiò a quel punto nel teatro non aveva più nulla d’umano.


Link per prendere a legnate Tez o me, a seconda: SU MISURA


– Ti prego, dimmi ancora una volta che diavolo siamo venuti a fare qui – gemette Tetsuya.
Jun ripose nella borsetta le chiavi dell’auto e spiegò pazientemente: – Dobbiamo fare acquisti. Tu hai bisogno di un vestito nuovo, molto elegante, per accompagnarmi a teatro.
– Ma a me non piace andare a teatro – brontolò Tetsuya.
– Non ci sei mai stato, come fai a dire che non ti piace? – gli fece notare Jun, avvicinandosi alle vetrine di un grande negozio di sartoria.
– Posso immaginarmelo, però – bofonchiò lui, imbronciato. Aveva temuto fortemente che Jun volesse trascinarlo a vedere una di quelle noiosissime tragedie in costume con intere frotte di personaggi; fortunatamente, lei gli aveva assicurato che non si trattava di nulla di simile. Beh, l’idea di assistere ad uno spettacolo divertente era decisamente molto meglio... – Jun, cos’hai detto che andiamo a vedere? Una commedia?
Lei non gli badava nemmeno: – Guarda che bei vestiti!
Tetsuya gettò un’occhiata agli abiti, e subito uno spasmo gli torse il duodeno: impeccabili giacche, pantaloni dal taglio perfetto, camicie su misura, cravatte all’ultima moda...
– Jun! – esclamò, inorridito – Non vorrai che mi metta quella roba!
Lei gli gettò uno sguardo spazientito: – Pensi di venire a teatro in jeans e maglietta?
Tetsuya guardò ancora gli abiti esposti e sentì la fronte cospargerglisi di gelidi sudorini: – Quando mi vedrà conciato come un becchino, Kabuto mi farà morire!
– Ma tuo fratello non ti vedrà – rispose Jun – Andiamo a teatro con Actarus e Venusia. Alcor non viene.
La prospettiva di non venir visto – e debitamente sbertucciato – dal fratello parve rendere a Tetsuya il futuro un po’ meno fosco: – Non viene...?
– Ha un altro impegno – preferì non dirgli che Alcor aveva rifiutato sdegnosamente la serata elegante a teatro (“Per carità! Poi, mi toccherebbe vestirmi come un beccamorto!”) per optare per un più rilassante film con alieni cattivi, sparatorie a raffica e gran spargimento di sangue e budella.
Tetsuya parve respirare, sollevato; subito, Jun approfittò del suo momentaneo sollievo per acchiapparlo per un polso e trascinarlo dentro al negozio, là dove gli sarebbe stato ben più difficile sfuggirle.
Essendo finalmente riuscita ad imporre al compagno un cambio di look, anche se temporaneo, Jun aveva fatto le cose in grande: il negozio in cui l’aveva trascinato era una sartoria molto elegante, un po’ vecchio stile, con impeccabili commessi in giacca e cravatta, arredamento piacevolmente rétro e un clima silenzioso ed austero che faceva pensare più a una cattedrale che non ad un frivolo negozio di confezioni maschili. Mancava solo qualche effluvio di incenso perché l’illusione fosse perfetta.
Tetsuya fece appena in tempo a guardarsi attorno con aria smarrita, che subito un individuo alto e sparuto che sembrava un maggiordomo inglese si fece avanti, chiedendo con voce sommessa in che modo avrebbe potuto essere utile ai signori.
– Vorremmo un vestito scuro, elegante – rispose Jun, radiosa, mentre serrava con forza il polso di Tetsuya per evitare inopportune fughe.
– Ma certamente, signora – rispose il maggiordomo con la sua voce dolente – Se i signori volessero accomodarsi da questa parte...
Di quel che successe dopo, Tetsuya ebbe solo una vaga idea: il vestito era per lui, ma era evidente che circa la scelta del modello e del colore il maggiordomo si sarebbe rivolto solo a lei; un paio di volte Tetsuya tentò d’intervenire, venendo regolarmente ignorato. Tentò infine la ribellione (“Non lo voglio grigio!!!”); mentre il maggiordomo lo guardava con palese disapprovazione, Jun gli spiegò in tono secco che un abito da sera doveva essere per forza nero.
Momentaneamente zittito, Tetsuya tacque mentre i due definivano gli ultimi particolari; e finalmente, venne il momento di passare alla prova.
Il maggiordomo fece scorrere rapidamente lo sguardo su Tetsuya, percorrendolo da capo a piedi in silenzio, un po’ come si fa quando si osserva qualcosa di particolarmente viscido e ripugnante; dilatò lievemente le narici e si rivolse a Jun sempre parlando con quel suo tono di voce basso e dolente che faceva molto impresario di pompe funebri: – Penso che sarà opportuno prendere le misure del signore.
– Ma io non voglio un abito su misura! – scattò subito Tetsuya – Con quel che costa! Non avete qualcosa di già pronto?
Jun si sentì morire; quanto al maggiordomo, le sue narici si dilatarono ulteriormente, mentre lo guardava con disgusto ancor più palese.
– Ma certamente, signore – più che “signore”, sembrò che avesse detto “pidocchio” – Prendere le misure è però necessario per aver la certezza di scegliere la taglia più adatta.
Tetsuya sospirò, rassegnato; il maggiordomo schioccò le dita, e subito si fece avanti un azzimato giovanottello in impeccabile completo grigio. Non uno dei suoi aurei capelli era fuori di posto, la camicia appariva immacolata e il papillon richiamava il ceruleo intenso dei suoi occhi.
Tetsuya lo odiò selvaggiamente da subito.
Mentre Jun restava in disparte a parlare col maggiordomo, il sorridente giovanotto, totalmente ignaro dell’astio del suo cliente, fece apparire un lungo metro a nastro con cui si accinse a compiere il suo lavoro.
Jun stava appunto chiedendo lumi al maggiordomo circa il tipo di scarpe adatto a un sì meraviglioso completo, quando un certo trambusto li richiamò immediatamente. Tetsuya aveva afferrato per il bavero il giovanotto, scuotendolo con tal forza da fargli sbattere i perfettissimi denti: – Non ci provare, amico!
– Tetsuya! – esclamò Jun – Smettila subito!
– Questo maiale ha cercato d’abbracciarmi! – ringhiò lui.
– Signore – s’intromise il maggiordomo – la prego di credere che nessuno dei miei commessi, prima d’ora...
– Prima d’ora, appunto! – sbottò Tetsuya.
– Ma non è mai successo che abbiano mancato di rispetto ad un cliente...
– Adesso sì!
– Insomma, basta! – Jun s’intromise costringendo l’incollerito compagno a lasciare la sua vittima – Lascia andare quel poverino!
– E va bene – rispose Tetsuya, mollando finalmente la presa – Ma se questo furbone ci riprova, darò del lavoro al suo dentista.
Abbandonato a sé stesso il giovanotto, il cui aspetto non era più così impeccabile, s’afflosciò sul bancone e si rivolse con voce tremante al maggiordomo: – D-direttore, io v-volevo solo prendergli la misura del torace...
– Mi ha messo le braccia attorno! – sbottò Tetsuya, schifato – Che altro potevo pensare? Con l’aspetto che ha, poi...
– La vuoi piantare? – sibilò Jun, furiosa – Mi farai morire di vergogna!
– Scusa, ma quella specie di finocchietto mi ha...
– Tetsuya! BASTA!
Quando Jun usava il tono delle grandi occasioni, l’unica cosa sensata da fare era starsene ben zitti, a meno di non voler sopportare le inevitabili conseguenze; Tetsuya ammutolì, e finalmente il giovanottello poté nuovamente avvicinarsi con il suo metro.
– Posso... continuare...? – domandò, guardando Tetsuya come si guarda una tigre nervosetta e dall’azzannatina facile.
– Prego – e con un’occhiata d’ammonimento al compagno, Jun tornò dal maggiordomo a discutere di calzature.
Dandosi una sistemata alle scomposte chiome, il commesso riprese a misurare Tetsuya: distanza spalla-polso... punto vita... adesso bisognava passare alle misure dei pantaloni. Il commesso inspirò, prese fiato, si fece avanti con aria decisa...
Nuovo, infernale trambusto. Jun piombò sul posto proprio mentre Tetsuya stava stringendo il metro a nastro attorno al collo del malcapitato giovanottello.
– Non ti dico dove voleva toccarmi, stavolta! – ruggì, inferocito.
L’infelice commesso appariva di un intenso color paonazzo, e gli occhi avevano ormai assunto il colore e le dimensioni di due grossi pomodori. Jun intervenne prontamente, sottraendolo ad una rapidissima morte per asfissia.
– Non puoi prendertela con me! – esclamò Tetsuya – Quel porco! L’ho fermato in tempo, ma mi aveva già messo le mani addosso!
– Dovevo p-prendergli la m-misura della gamba – rantolava intanto l’infelice, piegato in due su una sedia – E quando sono arrivato al cavallo... oooh!
Il direttore prese una mano del commesso e vi batté sopra continuando a ripetere “su, su”; quanto a Jun, si piantò di fronte a Tetsuya e gli sibilò svariate dozzine di parole con un tono così secco da fargli raggricciare i peli. “Pezzo d’idiota” fu uno degli epiteti più gentili che gli indirizzò.
Quindi, con immensi occhi colmi di rammarico si rivolse al commesso, flautandogli quanto era spiacente, come era costernata per il comportamento da buzzurro di certe persone (e qui scoccò a Tetsuya un’occhiata-laser) e infine gli chiese con voce da sirena se si sarebbe sentito di ultimare il suo lavoro.
Il giovanottello, che nonostante fosse fin troppo azzimato era persona da apprezzare parecchio i grandi occhi, il delizioso viso e i rotondi annessi e connessi di Jun, balzò subito in piedi e brandì nuovamente il metro, pronto a portare a termine la sua pericolosissima missione; nemmeno l’occhiataccia bieca rivoltagli da Tetsuya lo distolse dalla sua decisione.
Con gran sprezzo del pericolo, il commesso prese infine l’ultima, pericolosissima misura; la taglia fu correttamente stabilita, giacca e pantaloni vennero scelti e finalmente indossati. Dieci minuti dopo, Tetsuya guardava con palese disgusto la propria immagine riflessa nello specchio.
– Non provarti a dire che sembri un becchino! – l’ammonì Jun, che lo conosceva bene.
– Sembro pronto per finire nella cassa – corresse Tetsuya – Ho visto parecchi cadaveri conciati così.
Il giovanottello ridacchiò: – Il signore ha un gran senso dell’umorismo!
– Proprio per niente, invece – Jun allungò un calcetto a Tetsuya che stava aprendo bocca per protestare e si rivolse al commesso: – Con questo vestito, che tipo di cravatta mi consiglia? Tradizionale, o a papillon?
– A papillon, senza dubbio! – esclamò il commesso, stupito da una simile, ovvia domanda.
– Vuoi dire uno di quei cosi a farfalla? – scattò Tetsuya – Mai!
– Signore, il papillon è essenziale, per l’uomo elegante – cominciò il commesso.
Tetsuya prese fiato; quando parlò, si espresse con molta calma e chiarezza: – Non metterò mai quella specie di fiocchetto dall’aria equivoca. Spero sia ben chiaro. Se provi ad avvicinarti con uno di quei cosi, giuro che te lo faccio mangiare.
Il commesso si voltò verso Jun: – Lo farebbe davvero?
– Certo – sospirò lei.
– Capisco – il giovanottello si rivolse a Tetsuya: – Ripensandoci, signore, un uomo veramente elegante può permettersi anche una cravatta tradizionale.
Sorvoliamo ora sulla sofferta scelta della cravatta: basti sapere che culminò con un nuovo assalto di Tetsuya al commesso, reo d’aver cercato di strangolarlo con il suddetto capo d’abbigliamento (“Volevo solo fargli il nodo”, si sarebbe giustificato l’infelice, una volta sottratto alle grinfie dell’incollerito cliente).
Anche la scelta della camicia non fu indolore (“Seta? Roba da smidollati!” “Taci, imbecille!”).
– Dimenticavo – esclamò infine Jun – Avremo bisogno anche di calzini neri.
– Perché? – si stupì Tetsuya – Quelli che ho, bianchi, non vanno bene?
– No! – scattò Jun, esasperata.
– Ma il bianco sta con tutto – osservò lui, serafico.
Nuovo ruggito di Jun, ammutolimento di Tetsuya, e alcune paia di calzini neri vennero aggiunte al già congruo conto.
Fu poi la volta della biancheria: più volte Jun aveva lamentato lo stato di mutande e canottiere del compagno (“Non vorrai portare ancora quegli slipponi ascellari!”). La scelta delle canottiere fu semplice; un po’ meno quella delle mutande, dato che l’azzimato commesso ebbe l’ardire di chiedere se il signore volesse gli slip o le boxer. Subito Tetsuya prese a guardare storto quel sedicente maschio tanto interessato a particolari intimi della vita di altri maschi; ignaro del pericolo, il commesso prese a magnificare la comodità delle boxer, osando infine proporre al signore di provarne un paio per rendersi conto del comfort che esse fornivano.
Oltretutto, ebbe la dabbenaggine di aggiungere l’incosciente, le boxer erano disponibili in un vasto assortimento di colori e fantasie: azzurre, verdi, gialle, persino rosa... a quest’ultima, equivoca offerta cromatica, Jun fu rapidissima ad intervenire, salvando l’incauto giovanottello da un nuovo tentativo di strangolamento. Svariate paia di mutande a slip, tutte rigorosamente bianche, vennero aggiunte al mucchio. Il conto lievitò ulteriormente, ma che importava? Tetsuya sarebbe stato elegantissimo.
Gli acquisti vennero accumulati alla cassa – e a questo punto, l’azzimato commesso non poté trattenere un ghigno malefico all’idea di quanto avrebbe dovuto sborsare quel suo intrattabile cliente. La cassiera digitò lo scontrino, e subito il maggiordomo, che era improvvisamente riapparso come dal nulla, con voce tutta rosolio flautò la cifra.
Tetsuya boccheggiò, stroncato dallo shock. Jun fu rapidissima a pagare, acchiappare il suo compagno, cacciargli in mano la borsa con gli acquisti e dirottarlo verso l’uscita; disgraziatamente per lei, Tetsuya era uomo da riprendersi molto in fretta: – Ma sono pazzi! Tutti quei soldi!!!
– Smettila! – sotto gli sguardi colmi di disapprovazione del maggiordomo, le cui narici si erano ulteriormente dilatate, lei lo pilotò verso la porta.
– Che razza di ladri! – continuò Tetsuya, inferocito – Adesso mi sentiranno, io non... Jun, perché mi hai tirato un calcio?
– Per evitare di strozzarti! – ringhiò lei, rivolgendo nel contempo un gran sorriso al maggiordomo e all’azzimato commesso: – Arrivederci. È... è stato un piacere...
Solo per lei, signora, fu ciò che NON dissero i due, rivolgendole invece un compito inchino.
– Macchè piacere! – ruggì Tetsuya – Col cavolo che questi qui mi rivedono!
Grazie a Dio, dissero le occhiate che si scambiarono maggiordomo e commesso.
– Gente avida e viscida, ecco cosa sono! – brontolò lui, mentre Jun lo spingeva fuori.
– Insomma, vuoi stare un po’ zitto? – sibilò lei.
– Perché? – trasecolò lui – Sto dicendo solo la verità!
Jun sentì le lacrime salirle agli occhi: – Sei il solito selvaggio, rozzo e incivile! E io che speravo di insegnarti un po’ di buone maniere... tempo perso!
A quel punto, persino un uomo come Tetsuya capì d’averla fatta grossa; mogio, seguì la seccatissima compagna verso l’automobile parcheggiata lì vicino.
– Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia! – esclamò Jun, mettendosi al volante.
Imbarazzato, Tetsuya chinò la testa e rimase in silenzio per tutto il viaggio.
Di tanto in tanto gettò un’occhiata a Jun, che guidava in silenzio senza degnarlo d’uno sguardo: era veramente arrabbiata, non c’è che dire.
Ci teneva tanto a questa serata elegante, si disse Tetsuya, che sentiva rimordergli la coscienza. In fondo, Jun non mi ha mai chiesto molto... un piccolo sforzo per lei potrei anche farlo... il peggio ormai è fatto, il vestito è comperato; tanto vale che lo metta e cerchi di fare bella figura perché lei sia contenta.
Da quell’uomo tutto d’un pezzo che era, prese la sua decisione: avrebbe indossato quel vestito. Avrebbe accompagnato Jun, sarebbe stato impeccabile, avrebbe persino sopportato il tutto con il sorriso sulle labbra, pur di farsi perdonare... e comunque, non si trattava poi di nulla di drammatico: l’indomani sarebbero usciti con i loro amici per passare una serata divertente vedendo una commedia.
E Jun sarebbe stata finalmente orgogliosa di lui.


Non appena Alcor (in jeans e maglietta, beato lui!) fu uscito per andare verso il suo filmone tutto spari e sangue, Tetsuya uscì dalla doccia e s’infilò i nuovi vestiti.
Sorpreso, si guardò allo specchio: l’abito gli stava a pennello. La camicia, pur di seta, non gli dava certo quell’aria un po’ equivoca che lui aveva tanto temuto. L’azzurro chiaro della cravatta s’intonava perfettamente con i suoi occhi.
Ma guarda se non faccio anch’io la mia porca figura!, si disse, sbalordito.
Jun, splendida nel suo vestito da sera color oro, rimase senza fiato: abituata a vedere il compagno in tuta da combattimento, magari sudato e sanguinante, stentava a riconoscerlo in quell’elegantissimo, distinto gentiluomo. Con il cuore che le scoppiava dalla felicità salì con lui in macchina: la serata sarebbe stata un successone, ne era sicura!
Si trovarono con i loro amici proprio nel foyer tutto specchi, velluti e stucchi dorati del teatro. Venusia appariva molto elegante e femminile nel suo vestito rosa; con il suo inappuntabile abito da sera Actarus naturalmente era molto distinto ed attraente, ma (e qui Jun non potè trattenere un moto di gioia) accanto a lui Tetsuya non sfigurava affatto, anzi!
Fu con infinito orgoglio che Jun fece il suo ingresso in teatro al braccio di Tetsuya, che stava comportandosi davvero come un perfetto gentiluomo... chi avrebbe mai potuto riconoscere in lui il rude pilota del Grande Mazinga?
Una volta seduti ai loro posti in attesa che il sipario si alzasse, Tetsuya si guardò rapidamente attorno: la felicità di Jun l’aveva messo d’ottimo umore.
Ma sì, in fondo non era affatto spiacevole essere eleganti, andare in un lussuoso teatro in mezzo ad altra gente ben vestita per vedere una divertente commedia...
– ...Commedia...? – esclamò Jun, attonita.
– Ma come...? – Actarus era sinceramente sorpreso – Tetsuya, quale commedia? Siamo venuti a vedere un balletto!
– Il Lago dei Cigni – aggiunse Venusia – Danza classica. Una storia molto romantica.


Tutti, tra i presenti che gremivano la sala, sono concordi nell’affermare che l’ululato che echeggiò a quel punto nel teatro non aveva più nulla d’umano.



Link per prendere a legnate Tez o me, a seconda delle preferenze: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=2910
 
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