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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 24/5/2010, 21:52     +2   +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Altro racconto recuperato.

LOVE HISTORY


Primissima infanzia

Nei giardini reali, all’ombra di un albero fiorito, seduta nel suo box, Naida guardò con estremo interesse il bimbetto che veniva fatto accomodare nell’altro angolo.
Duke gettò uno sguardo svagato alla bimbetta dall’altra parte, e riprese a succhiare il suo ciuccio.
Naida tentò un sorrisetto.
Duke continuò a succhiare il suo ciuccio.
Naida batté le manine, fece “ciao”.
Duke continuò imperterrito la sua opera di succhiaggio.
Naida rise, fece delle smorfie, tentò infine d’attirare l’attenzione con un tentativo di conversazione: – Giggle! Giggle!
Duke non alterò nemmeno il ritmo di ciucciata.
Naida afferrò il giocattolo più pesante e spigoloso che trovò a portata di manina, e con una mira notevole per una frugoletta lo scagliò addosso a Duke.
Lui si strofinò l’occipite, guardò Naida con aria di rimprovero: – Pecché?
Poi recuperò il suo ciuccio, e si rimise all’opera.
Naida si trascinò fino da lui, gli afferrò la testa e gli fece dare una capocciata contro la parete del box.


Prima infanzia

Ai piedi d’uno degli alberi secolari che ornavano il giardino del palazzo reale, seduta nel bel mezzo d’una vasta pozza di fango, Naida giocava al pasticcere; accanto a lei, Duke sedeva con lo sguardo remoto, perso verso lontani orizzonti.
Davanti a sé, lei aveva la bellezza di dodici torte di fango, tutte regolari, tonde, artisticamente eseguite.
Prese la più bella, la più grossa e spessa, e la tese a Duke: – Totta. Vuoi?
– Gracchie – rispose lui con la consueta buona grazia, e Naida gli depose la torta sulle ginocchia.
Il fango prese a scorrergli in rivoli giù per le gambe, insinuandosi fino nei sandaletti; Duke parve non farvi caso e riprese a fissare l’orizzonte.
Naida rimase in attesa: gli aveva donato una cosa sua, fatta con le sue mani, era naturale aspettarsi qualcosa in cambio.
Duke continuava a fissare l’orizzonte, mentre la torta gli si squagliava in grembo.
Naida gattonò verso di lui.
Niente.
Lei mise il viso a due centimetri da quello di lui.
Duke le gettò uno sguardo interrogativo che era tutto un “ma che vuoi, adesso?”.
Esasperata, lei si tese in avanti e gli schioccò un bacione sulla guancetta tonda.
Duke prese ad ululare come se fosse stato scottato.
Senza far motto, con l’aristocratica compostezza che le era propria, lei gli rovesciò in testa le altre undici torte di fango.


Seconda infanzia

A quell’ora del primo pomeriggio, il giardino del palazzo reale era praticamente deserto; Naida e Duke si ritrovarono sotto un grande albero fiorito. Cespugli in fiore li circondavano, il prato era una festa di corolle multicolori.
L’animo femminile di Naida fu ispirato da un sì meraviglioso spettacolo: – Duke, giochiamo che tu eri un principe e io una belliffima principeffa?
Lui era troppo ben educato per farle notare che una principessa non può essere bellissima quando le sono caduti i denti davanti: – Va bene.
– Però poi veniva un cavaliere cattivo – continuò lei.
– Va bene.
– Il cattivo mi rapiva e tu venivi a falvarmi.
– Va bene.
– E poi tutto finiva bene, perché noi ci fpofavamo e vivevamo felici e contenti... Duke...?
Si voltò dove un secondo prima si trovava lui.
In vita sua, Naida non avrebbe mai visto nessun altro talmente veloce nella corsa dei trecento piani.


Adolescenza

Sotto il caldo sole estivo, il lago riluceva come uno specchio. L’aria era immobile, dai cespugli fioriti veniva un intenso, dolce profumo.
Sdraiati l’uno accanto all’altra, Naida e Duke prendevano il sole: avevano fatto una lunga gita in barca, avevano fatto un lungo bagno (non si erano dedicati ad altre, proficue attività a due, ma purtroppo Duke da quell’orecchio ci sentiva pochino). In quel momento, si sentivano perfettamente in pace con sé stessi e con il resto del pianeta.
Naida aprì un occhio, gettò uno sguardo a Duke: – Come si sta bene.
– Proprio vero – ammise subito lui.
Lei aprì entrambi gli occhi, azzardò uno sguardo più diretto: – Intendo che sto proprio bene… con te.
– Anch’io – ammise subito lui.
Naida raccolse il coraggio a due mani e si rialzò su un gomito: – Io… io ti amo, Duke.
– …Eh…? Oh, certo, anch’io, sì – omise all’ultimo il “ci mancherebbe, che diamine”.
Naida sentì il cuore scoppiarle di felicità: – Allora… ci siamo messi assieme…?
– Suppongo di sì – fu la romantica risposta che ottenne.
– Allora siamo fidanzati! – trepidò lei – Vivremo insieme, e un giorno ci sposeremo, e…
Lui balzò subito a sedere: – Oh… non te l’ho detto? Che stupido…
– Detto, cosa?
– Sai Re Vega? Quel tizio odioso, quel tiranno della nebulosa di Vega…?
– Allora?
– Vuole allearsi con noi, e per questo vuole che io sposi sua figlia… Rubina, credo si chiami. Buffo, vero?
Calma, si disse Naida – Duke, ma tu… tu cosa farai? Dovrai… sposarla…?
Lui si strinse nelle spalle: – Non ho molta scelta, lo sai… nella mia posizione, purtroppo… – emise un sospiro molto artistico; poi, da quello sciagurato che era, disse l’ultima cosa che avrebbe dovuto anche solo pensar di poter dire: – Ma noi due resteremo sempre amici, no?
Naida afferrò il remo della barchetta e glielo picchiò selvaggiamente sulla testa.


Giovinezza

Il giardino reale traboccava di fiori. Corolle odorose e coloratissime s’affacciavano da alberi e cespugli. Da ogni angolo giungevano dolci, romantici effluvi.
– Mi dispiace che la tua storia con Rubina sia andata a finire male, Duke – disse Naida, con un tono afflitto che puzzava parecchio di falso.
– Che vuoi… – mormorò lui, l’aria disillusa di chi ben conosce il mondo e le sue delusioni – Cose che succedono.
Non volle dirle che essersi trovato ad un passo da confetti e marce nuziali e venirne salvato all’ultimo istante, dato che il futuro suocero aveva cambiato idea, era stato per lui un’esperienza terrificante: il sollievo era stato talmente forte da risultare traumatico. Certo, Rubina aveva fatto un po’ di capricci, ma presto si sarebbe consolata con qualche altro malcapitat… ehm, uomo fortunato.
Quanto a lui, era libero.
– Non ho più obblighi, adesso – esclamò, compiaciuto.
Naida sentì la gioia traboccarle nel cuore: – Oh, Duke…!
– Non sono più costretto a sposare Rubina… posso fare quello che voglio!
Di scatto, lei gli balzò al collo: – Duke, è meraviglioso!!! …Quando ci sposiamo?
Lui inorridì. Svegliarsi da un incubo per ritrovarsi in un altro ben peggiore è uno scherzo del destino ben crudele: – Ma Naida, io veramente…
– Cosa vuoi dire? – esclamò lei, e sarebbe stato ben difficile scorgere un minimo di calore umano nel suo sguardo – Un tempo, tu amavi me! Me l’hai detto!
– Sì, ma…
– Poi è arrivata questa Rubina… Vega, gli obblighi dinastici eccetera… e va bene, l’ho accettato!
– Certo, però…
– Adesso Rubina se ne è andata, tu non devi più sposarla, sei libero… stai cercando di dirmi che non vuoi impegnarti con me?
– Ecco, a dire il vero…
– Insomma, Duke! – Naida lo mise letteralmente spalle al muro, o meglio all’albero, incantonandolo contro un tronco secolare – Voglio una risposta precisa! Vuoi sposarmi, sì o no?
Duke esitò, mentre gelidi sudorini cominciavano a ruscellargli giù dalla fronte… e proprio allora, lontano ma inconfondibile, giunse il più spaventoso dei suoni.
L’allarme.
Vega aveva dichiarato guerra.
– Quanto mi dispiace, devo andare subito – lui fece per svicolare, ma Naida, che se l’era aspettato, fu rapidissima ad acchiapparlo – Naida, non senti l’allarme? Io devo andare, Fleed ha bisogno di me…
– IO, ho bisogno di una risposta! – ruggì lei, occhi baluginanti e denti digrignanti.
– Non essere assurda… proprio ora… poi adesso c’è la guerra, rischieresti di restare vedova – assunse un’aria molto, molto nobile: – Non posso importi un simile sacrificio!
– Ma Duke…!
– Ne riparleremo a guerra finita, d’accordo? – finalmente riuscì a liberarsi dalla pervicace fanciulla e tentò una nuova fuga.
Per terra giaceva un piccone, dimenticato da uno dei giardinieri.
Naida lo prese e cominciò a lavorare con tutta la sua notevole energia.


Pochi minuti dopo, mentre sfrecciava con Goldrake nell’azzurro dei cieli, gli occhi che faticavano a fissarsi contemporaneamente sullo stesso soggetto e l’elmo che gli premeva dolorosamente sui bernoccoli fioriti sul cocuzzolo, Duke si disse che Re Vega era sì un tiranno, una carogna, un colossale fetente… ma in fatto di tempismo, tanto di cappello.
Era la seconda volta che lo salvava in punto di morte…
Se avesse potuto farlo, gli avrebbe stretto la mano.

Altro recupero.

Dedicato a Runkirya, pittrice dal meraviglioso talento, con grandissimo affetto e stima.


LO SCONTRO


– Sinceramente, penso che tu stia sbagliando – con la consueta calma, Procton sedette al suo scrittoio.
Actarus si voltò a guardare il padre, sorpreso: – Pensavo che tu avresti capito le mie ragioni.
– Certo che le capisco – Procton aprì un cassettino e ne estrasse la sua pipa favorita – Comprendo il tuo punto di vista. Però non sono affatto d’accordo con te.
Actarus fece un gesto d’impazienza e si voltò a guardare fuori dalla finestra: le montagne apparivano candide e remote, rosate dalla luce del sole calante.
– Venusia non deve combattere – sibilò, secco – È fuori discussione!
– Ah, sì? – suo padre non alzò la voce, non sottolineò il suo dissenso con gesti violenti: proprio la sua calma fece capire ad Actarus che la battaglia sarebbe stata durissima – E per quale motivo hai deciso che Venusia non potrà far parte della squadra?
Actarus spalancò le braccia in un gesto quasi esasperato: – Mi pare talmente ovvio...! Mi meraviglia che tu non lo voglia capire!
Procton caricò con calma la sua pipa: – Vorresti spiegarmelo tu, allora? O pensi che sia tempo sprecato?
– Scusami, non volevo dire questo – s’affrettò ad assicurare Actarus, ed era sincero – Ultimamente sono piuttosto teso... Venusia non vuole proprio capire, continua ad insistere; Alcor la spalleggia, è naturale, ed è una discussione dietro l’altra. Ma perché non comprendono?
Procton lo guardò in silenzio per quello che ad Actarus parve un’eternità: improvvisamente, il giovane ebbe l’impressione di trovarsi su un vetrino, sotto la lente del microscopio, e non fu affatto un’impressione piacevole.
– Venusia è venuta da me, stamattina – disse infine Procton, rigirandosi una penna tra le dita – Era sconvolta.
– Mi dispiace – mormorò Actarus.
– Mi ha raccontato di ieri... del vostro giro a cavallo.
Actarus assentì e non rispose. Il giorno prima lui l’aveva trascinata in una folle galoppata, e lei gli aveva sempre tenuto dietro; poi lui aveva spinto il suo stallone a saltare da una riva all’altra del fiume, e lei non aveva osato seguirlo. In quel modo, Actarus ne era sicuro, Venusia aveva compreso di non essere alla sua altezza, di non essere abbastanza forte da poter combattere con lui.
– Era proprio necessario umiliarla a quel modo? – chiese improvvisamente Procton, la voce tagliente come Actarus non l’aveva mai sentita.
– Padre, tu sai che io non avrei mai voluto fare una cosa simile! – rispose animosamente il giovane – Però, lei non mi ha lasciato scelta! Non vuole capire...
– Venusia non vuole capire! – solo una collera estrema fece sì che Procton, il correttissimo Procton, troncasse la parola in bocca al figlio – Venusia non vuol capire, Alcor non vuol capire, io non voglio capire... Actarus, non ti viene il dubbio che invece sia tu quello che non vuol capire?
Actarus trasalì, come se le parole del padre fossero state uno schiaffo; inarrestabile, Procton riprese: – Credi davvero che Venusia non possa combattere con te perché non ha voluto saltare quel fiume?
– Sapevo che non ne avrebbe avuto il coraggio – rialzò la testa, sicuro del fatto suo.
– O forse, lei sapeva benissimo che il suo cavallo non era in grado di compiere quel salto – rispose Procton, secco – In questo caso, Venusia ha avuto l’intelligenza di non rischiare la vita solo per stare al tuo gioco.
– Ma io l’ho fatto per dimostrarle...
– Quella tua bravata ha dimostrato la maturità e il buon senso di Venusia, cosa che non si può certo dire di te – tagliò corto Procton – Che sarebbe successo, se lei fosse stata così impulsiva da seguirti? Pensa se al posto di Venusia ci fosse stato Alcor: lui ti avrebbe imitato senza esitare, e adesso... beh, prova un po’ a pensare a come ti sentiresti, adesso.
Actarus sentì mancargli il fiato: sapeva che Alcor avrebbe saltato quel fiume, sapeva che pochissimi cavalli sarebbero riusciti in una simile impresa... improvvisamente, provò uno spasmo alla bocca dello stomaco: Venusia avrebbe potuto morire per tentare di seguirlo, e se fosse successo proprio lui, che avrebbe voluto preservarla da qualunque pericolo, sarebbe stato responsabile della sua fine.
– Naturalmente, io sapevo che non avrebbe saltato – articolò, a mo’ di spiegazione; ma Procton non sembrava per nulla soddisfatto delle sue ragioni.
– Actarus, tu vuoi negare a Venusia la possibilità di battersi perché pensi di poter affrontare da solo i mostri di Vega...
– E non ho sempre fatto così? – esclamò energicamente il giovane – Non li ho sempre sconfitti?
– Certo, l’hai fatto... finora. – Procton lo guardò in tralice – La verità è che gli attacchi di Vega si fanno sempre più violenti.
– Goldrake ce la farà contro qualunque mostro di Vega!
Procton scosse la testa: – Sembra di sentir parlare Alcor. Se solo penso a quante volte l’hai accusato di essere troppo impulsivo, di voler far troppo da solo... – si mise in bocca la pipa, ancora spenta, e rimase a braccia conserte, fissando la parete davanti a sé; poi, sempre senza alzare la voce, riprese: – Tante volte abbiamo visto come la combinazione tra te e Alcor sia stata vincente: in molti casi, hai vinto la battaglia proprio grazie al suo aiuto.
– È vero – ammise con franchezza Actarus – Ho sempre detto che senza di lui sarei stato sconfitto più di una volta, ma non vedo come Venusia...
– Venusia ci ha salvati tutti almeno in due occasioni – gli fece notare Procton – Ricordi quando il centro è stato assalito da Hydargos? Goldrake era fuori uso, Alcor, io e tutti gli altri eravamo stati catturati; da sola, Venusia è riuscita a creare un diversivo per tenere a bada Hydargos in modo da darti il tempo di riparare il robot. L’avevi dimenticato?
– No, ma...
– Poco tempo fa ha pilotato lei stessa Goldrake 2 mentre Alcor era fuori combattimento, e il suo aiuto è stato determinante.
– È vero – riconobbe Actarus – Ma non credo che...
– Oggi, poi, ha fatto anche di meglio – continuò Procton – Ha sventato l’attacco a sorpresa con cui i veghiani volevano distruggere il nostro centro. Da sola, usando la tua moto ha affrontato tre dischi. Tre, ripeto; e ne è uscita illesa.
– Io non voglio negare la sua abilità e il suo coraggio! – esplose Actarus – Solo che lei sembra considerare il combattere come qualcosa di desiderabile, e non è giusto! La guerra è orribile, nessuno dovrebbe voler battersi solo per... – s’interruppe vedendo il padre scuotere la testa e guardarlo con commiserazione.
– Conosci così male Venusia da pensare una cosa simile...! – mormorò, sconfortato – Possibile che tu non comprenda che lei vuole battersi per salvare tutto ciò che ama? Tu hai deciso di lottare per questo nostro pianeta; Venusia appartiene a questo mondo, è naturale che senta il desiderio di difenderlo dal nemico che vuol distruggerlo! Possibile che tu non capisca questo?
– Ma certo che lo capisco – s’affrettò ad assicurare Actarus – Però non voglio che lei corra pericoli, lei è...
– Parliamoci chiaramente, Actarus – sbottò Procton – Sappiamo entrambi che d’ora in poi sarà sempre peggio: i veghiani si faranno sempre più spietati, e i loro attacchi saranno sempre più difficili da sostenere. Se Goldrake dovesse soccombere, che ne sarebbe dei terrestri? Tu sai meglio di me cosa facciano i veghiani ai loro prigionieri!
Actarus serrò i pugni: – Sono delle belve!
– Infatti – Procton lo guardò direttamente negli occhi: – Al punto in cui siamo, Actarus, per Venusia non è meglio rischiar di morire in combattimento, piuttosto che cadere viva nelle mani di quei mostri?
Actarus rabbrividì: già una volta Venusia era stata catturata da Hydargos, e ricordava ancora la furia impotente che aveva provato vedendola indifesa nelle grinfie del nemico. Sapeva che tra i prigionieri di Vega il destino peggiore toccava alle donne... no, meglio morta, senza dubbio!
– Hai ragione – mormorò, e le parole gli vennero a fatica – Non avevo considerato questo.
Procton si permise uno dei suoi rari, lievi sorrisi: – Ti eri solo fermato sul fatto che Venusia è una ragazza? Forse ti fa effetto pensare di dover cooperare con una donna...?
Actarus trasalì, sorpreso: non pensava d’avere atteggiamenti maschilisti. Era forse questa l’opinione che poteva dare di sé?
Provò a riflettere, scavando dentro di sé i ricordi che aveva di Venusia: lei che coltivava i fiori, che accudiva amorevolmente un cavallo malato, lei con in braccio un agnellino appena nato... in quegli anni, per lui Venusia era stata la serenità, la dolcezza, la bellezza di vivere. Tornare a casa dopo aver combattuto e vederla sorridente, sentire la sua voce dolce, era stato ciò che gli aveva ricordato che la vita non è solo lotta, sangue e morte. Si era sempre aggrappato a quell’immagine di lei come se fosse stata una sorta di angelo consolatore...
...ma anche gli angeli possono avere una spada e lottare. C’è un tempo anche per questo.
– Non mi fa impressione combattere assieme a Venusia – affermò infine – Ho solo sperato che lei potesse restare lontana dal conflitto.
– Non è più possibile, purtroppo – gli fece osservare Procton, in tono gentile – I tempi sono cambiati.
– È vero – Actarus sospirò lievemente – Sono contento d’averne parlato con te, padre. Adesso capisco che stavo sbagliando. Penso davvero che Venusia potrà essere di grande aiuto, per noi.
– Ma certo – soprattutto, dopo che avremo completato il nuovo mezzo che abbiamo in lavorazione e di cui non ho ancora voluto dirti nulla, pensò Procton.
Mentre Actarus tornava a guardare verso le montagne, il professore sorrise tra sé, pregustandosi la sorpresa che avrebbe avuto Venusia quando le avrebbe annunciato d’aver pronto il nuovo... come chiamarlo? Squalo? No... Orca? Nemmeno... Delfino? Ecco, molto meglio.
Con gesti misurati, Procton accese finalmente la pipa.
Delfino Galattico...? No...
Tirò una boccata di fumo, appoggiandosi con le spalle alla sedia. Di tante discussioni che aveva avuto con Actarus, questa era stata senza dubbio la più violenta, la più simile ad un vero litigio. Beh, era naturale che prima o poi sarebbe successo: è normale bisticciare, tra padre e figlio.
Delfino Cosmico...? Bleah...
Actarus gettò uno sguardo alla falce – argentea, non rossa – che stava spuntando dietro le montagne.
– Mi chiedo – mormorò – se ci sarà mai la pace, nello spazio...
Delfino Spaziale... e perché no?
– Delfino Spaziale – mormorò Procton, e annuì. Suonava bene.
Actarus si voltò: – Scusa, hai detto qualcosa?
– Niente d’importante – Procton sorrise – Stavo parlando tra me.
Delfino Spaziale. Approvato.
Grazie al Cielo, anche questa era fatta...

Edited by H. Aster - 12/11/2016, 22:05
 
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view post Posted on 27/5/2010, 21:43     +1   -1
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Ulteriore ripescaggio.

Per Kojimaniaca, splendida scrittrice e sensibile artista, con grandissima ammirazione.


NON LASCIARMI

L’aveva perduto, l’aveva ritrovato e poi l’aveva perso ancora, e stavolta per sempre. Non sarebbe mai tornato, mai più... Kenzo Kabuto, suo padre, era morto.
Le mani in tasca e il viso indurito, Koji fissò il mare che si rifrangeva ai suoi piedi, come un mostro domato. La spiaggia era completamente deserta. Poco lontano da lì, fino a pochi giorni prima si sarebbe vista emergere dall’acqua la sagoma inconfondibile della Fortezza delle Scienze... ma era tutto scomparso per sempre. Come suo padre.
Koji prese a camminare lungo la riva del mare, senza meta, incurante delle conchiglie sotto i suoi piedi scalzi; rimboccò l’orlo dei pantaloni ed entrò nell’acqua. Rabbrividì sentendola fredda e alzò gli occhi verso l’orizzonte.
Alti sopra di lui, stridevano i gabbiani; il mare era grigiastro, ostile. Il cielo nuvoloso si stava rapidamente scurendo, la spiaggia era una distesa di arida sabbia incolore… un paesaggio triste, bigio, senza speranze né prospettive.
Adattissimo a come si sentiva lui, dunque.
Per anni e anni era stato convinto di essere un orfano: lui e Shiro erano stati allevati dal nonno, baby sitter e governanti si erano succedute. Il padre e la madre erano stati solo alcune fotografie che stavano sbiadendo e un mucchio di ricordi in cui era dolorosissimo sprofondare.
La notizia l’aveva colpito anni dopo, come un fulmine inaspettato: il padre, da anni creduto morto, era invece sopravvissuto.
La seconda notizia era stata ancora più scioccante: in tutto quel periodo, invece di tornare da loro, i suoi figli, Kenzo si era occupato di due orfani... due perfetti estranei.
Koji raccolse un sassolino, lo scagliò con rabbia nell’acqua. Ricordava ancora la sua collera, la sua delusione bruciante: perché in tutto quel tempo lui non aveva mai saputo niente? Perché suo padre aveva lasciato che lui e Shiro lo piangessero come morto? E soprattutto, perché invece di tornare dai suoi figli aveva adottato quei due orfani? Che cosa c’entravano, loro?
Kenzo Kabuto era stato un uomo logico e ragionevole, e logiche e ragionevoli erano state le sue spiegazioni.


– Koji, tu non puoi sapere dell’addestramento cui ho dovuto sottoporre Tetsuya per trasformarlo nel guerriero che è diventato... e ho dovuto farlo, o non avremmo avuto alcuna speranza di sconfiggere i Mikenes. Tu non hai la minima idea della vita che ha fatto Tetsuya – Kenzo gli aveva messo le mani sulle spalle, gliele aveva strette; per una volta, la sua voce fredda e controllata aveva tremato leggermente: – Non avrei mai potuto imporre una cosa simile a te. Non a mio figlio.
Koji aveva chinato il capo, mentre sentiva un piacevole tepore nel petto: suo padre aveva agito così perché era preoccupato per lui, gli voleva bene!
Un istante dopo, un pensiero insidioso si fece strada nel suo animo: ma per tutti quegli anni era stato Tetsuya a stargli accanto. Non lui.
Aveva lasciato parlare Kenzo, ascoltando ognuna delle sue logiche e ragionevoli parole; ma dentro di lui, nascosto ma presente, il tarlo della gelosia aveva continuato a lavorare. Si era sforzato di ignorare tutti quei pensieri negativi, di comportarsi normalmente e di essere gentile con Tetsuya, e in effetti era sempre riuscito a nascondere il suo disagio: ora, tutto rispuntava prepotentemente, come un pallone gonfio di gas putrido che riaffiora con violenza dall’acqua.


Koji scagliò furiosamente un altro sasso tra le onde.
Il suo rancore era improvvisamente emerso, avvelenandogli l’animo: non un solo pensiero astioso era però rivolto al padre. Tutto il suo odio era per quel fratellastro, quell’estraneo scostante e pieno di sé che lui s’era sforzato di sopportare. Aveva sempre cercato d’ignorare la disapprovazione implicita di Tetsuya per il suo stile di vita e il suo atteggiarsi a vero guerriero, forte del severissimo addestramento cui solo lui era stato sottoposto; ma ora basta.
Era lui, Tetsuya, l’estraneo, che si era insinuato nelle loro vite, lui che si era frapposto tra padre e figlio, lui che in tutti quegli anni aveva avuto solo per sé l’intera attenzione di Kenzo – attenzione che sarebbe spettata a lui, Koji, il figlio legittimo.
Come non bastasse, era sempre per colpa di Tetsuya che Kenzo era morto, scagliandosi con la Fortezza delle Scienze contro il mostro che stava per distruggere il Grande Mazinga ed uccidere Tetsuya. Sempre Tetsuya, sempre Tetsuya che si frapponeva tra padre e figlio…
Il pensiero che lui, l’estraneo, fosse ferito e in ospedale attraversò fugacemente la coscienza di Koji: in quel momento provava troppo dolore per soffermarsi a pensare agli altri, e la possibilità che anche Tetsuya stesse soffrendo non lo sfiorò nemmeno. Anche in quel momento, riusciva a pensare al fratellastro solo come individuo arrogante, pieno di sé, sprezzante.
Sei sempre stato insopportabile, Tetsuya… se solo penso che mio padre è morto per salvare un bastardo come te!
Formulare quel pensiero e provare una fitta di rimorso fu tutt’uno: le parole di suo padre, le ultime che aveva articolato a fatica mentre la vita lo abbandonava, risuonarono ancora in lui: “Tetsuya mi è caro come un figlio, proprio come te, Koji… è dovere di un padre sacrificarsi per il proprio figlio”.
Per papà, Tetsuya era proprio come me… io avevo sempre pensato di essere qualcosa di speciale per mio padre, e invece…
Koji chinò la testa, reprimendo le lacrime, mentre la collera riprendeva a montare in lui. Respinse rabbiosamente le altre parole che gli aveva detto Kenzo – quelle solo per lui, quelle che adesso non voleva ricordare – e strinse rabbiosamente i pugni.
Non avrebbe mai potuto perdonare Tetsuya. Voleva che soffrisse anche lui, voleva rovesciargli addosso tutto il suo rancore, voleva vedere quegli occhi grigi, sempre alteri e sprezzanti, riempirsi di dolore. Solo allora lui avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo dal suo tormento.
Se Koji fosse stato più riflessivo, più maturo, avrebbe capito che odiare Tetsuya era infinitamente più facile che elaborare il lutto per il padre. In quel momento, addossare ogni responsabilità al fratellastro, detestarlo, era una possibilità che si stendeva davanti ai suoi piedi come un sentiero spianato; e lui lo intraprese senza la minima esitazione.
È tutta colpa tua, Tetsuya. Colpa tua. Maledizione a te, e al giorno in cui sei entrato a far parte della nostra vita.
Adesso basta.
Sordo a qualunque cosa non fosse la sua collera, Koji tornò indietro di corsa, verso la sua motocicletta che aveva lasciato al limitare della spiaggia. Si pulì alla bell’e meglio i piedi dalla sabbia, s’infilò calze e scarpe e balzò in sella. Si mise il casco: quante volte aveva dovuto dire al suo fratellino, Shiro, d’indossarlo? Praticamente, ogni volta che l’aveva portato con sé in moto. Certe cose proprio non si vogliono apprendere…
Il pensiero di Shiro lo bloccò, ma fu solo per un attimo: l’aveva affidato a Sayaka e al professor Yumi, non c’era da preoccuparsi.
Avviò rabbiosamente la moto: voleva discutere alcune cose con Tetsuya, e l’avrebbe fatto subito.


La grande costruzione bianca si ergeva davanti a lui, severa: del resto, gli ospedali non sono mai edifici dall’aspetto frivolo.
Koji controllò l’antifurto della moto, prima di lasciare il parcheggio ed avviarsi a grandi passi verso l’ingresso.
Non si pose problemi circa lo strano orario che aveva scelto per la visita, scartò l’ipotesi che Tetsuya per qualche motivo non potesse o non volesse parlare con lui: troppo preso dal cruccio che l’angustiava, Koji non era certo in grado di badare a certi dettagli.
Vagamente, ricordò d’aver sentito bisbigliare sulle condizioni di salute di Tetsuya: era rimasto ferito nell’ultimo scontro, ma non doveva essere nulla di così grave. Koji era sicuro che le lesioni che aveva riportato non fossero pericolose.
Percorse corridoi, salì con l’ascensore, camminò per altri corridoi: incontrò pochissime persone, non fece caso a nessuna di loro e nessuno fece caso a lui.
Entrò nel reparto in cui Tetsuya era stato ricoverato e prese ad osservare le porte della camere, cercando il numero che Jun gli aveva comunicato… quando? Due giorni prima…? Era passato così tanto tempo, da quando Tetsuya era stato ferito e suo padre era… era…
Scosse la testa: non voleva pensare a papà.
Si concentrò sul suo astio, invece.
La sigla che cercava… era arrivato.
S’arrestò sulla soglia: l’uscio era socchiuso, e da dentro non proveniva alcun suono.
Koji rimase un attimo sospeso, e per un istante parve chiedersi se fosse opportuno piombare in camera di Tetsuya per rovesciargli addosso il suo rancore; sentì echeggiare nelle orecchie la voce dura e sferzante di lui, ricordò l’ostilità che aveva percepito nelle sue frasi secche, le continue discussioni, i puntigli… e il fatto che il tutto fosse culminato nel non voler collaborare con lui, nel non volersi battere al suo fianco nell’ultimo scontro.
Pensavi che io non fossi alla tua altezza, vero?, Koji sentì bruciargli gli occhi e respinse le lacrime. Non hai voluto ascoltare, hai fatto di testa tua… e papà si è sacrificato per salvarti. Sarebbe stato meglio se fossi morto tu, Tetsuya. Sarebbero stati ben pochi a rimpiangerti.
Si passò rabbiosamente la mano sugli occhi; poi, con un gesto brusco spinse da parte la porta.


Scivolò in silenzio nella stanza: era andato fino là proprio per affrontare Tetsuya, ma in quel momento non volle nemmeno gettare uno sguardo alla figura immobile nel letto.
La sua attenzione era tutta per Jun, accasciata su una poltrona, il viso nascosto tra le mani.
Piange per... per Tetsuya...? si disse Koji, allibito. È così grave...?
In quel momento, lei parve percepire la sua presenza; s’asciugò rapidamente le lacrime e si voltò a guardarlo.
Appariva grigiastra in viso, gli occhi rossi, incavati e gonfi di chi ha pianto a lungo; le mani che tese verso di lui erano scosse da un tremito violento: – Koji, sono così contenta che tu sia qui...!
Attonito, lui fece un passo verso di lei; un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia, scossa dai singhiozzi. Rimasero così a lungo, lei che piangeva tutto il suo dolore e lui che tentava in qualche modo di consolarla, balbettando parole impacciate.
– Scusami – mormorò infine Jun, quando ebbe ripreso una parvenza di controllo – Con quello che è successo... il professore, e ora Tetsuya... – improvvisamente, parve ricordarsi che Koji era il vero figlio dello scomparso professor Kabuto: lui aveva più diritto di lei al dolore per la perdita del padre – Koji, mi spiace! Non dovrei dire proprio a te...
– Lascia stare – tagliò corto lui, più brusco di quanto avrebbe voluto – Come sta Tetsuya?
Jun lo condusse più lontano dal letto, quasi avesse temuto che il malato potesse sentirli: – Le ferite sono serie, ma lui è forte. Ce la farebbe sicuramente, se... – si morse il labbro, scossa da un nuovo tremito.
– Se...? – l’incoraggiò Koji.
– Se solo lui volesse ancora vivere – disse Jun, in un soffio.
Koji gettò un rapido sguardo verso il letto: – Stai scherzando...!
Jun scosse il capo, reprimendo le lacrime.
– Mi avevano detto che non era grave…! – esclamò Koji, con voce soffocata.
– Non lo sarebbe… ma il problema è un altro – mormorò lei – Tetsuya si sente spaventosamente responsabile di quello che è successo. Si accusa per la morte del professore...
Infatti, è tutta colpa sua!, si disse rabbiosamente Koji, Non potrò mai perdonarlo!
– ...e poi, si sente colpevole verso Shiro e te.
Verso me? Figuriamoci...
– È davvero sconvolto – continuò Jun – Koji, dico sul serio, non l’ho mai visto così! Mi ricordo di quando s’incolpava per la morte del cane di quella bambina, Midori: era fuori di sé dal dispiacere, ma almeno allora sperava che Midori lo perdonasse – si voltò a guardarlo rapidamente in viso, poi chinò la testa: – Adesso temo che sia convinto che tu non voglia perdonarlo.
Koji trattenne il fiato. Perdonare Tetsuya? Perdonare il pazzo che ha causato la morte di mio padre?
Jun gli mise una mano sul braccio: – Koji...
Lui le prese la mano, gliela strinse: provava un misto d’affetto e ammirazione per Jun, ma non poteva – non voleva – dire nulla, promettere nulla... in quel momento vide la profonda stanchezza di lei. Quanto tempo era rimasta, accanto a Tetsuya? Ormai erano passati più di due giorni da quando lui era rimasto ferito...
– Jun, non puoi continuare così – disse con dolcezza – Vai a riposare.
– Non posso lasciarlo...
– Resto io con lui – disse impulsivamente Koji – Ti prego, Jun, devi dormire un poco.
Lei parve esitare: si sentiva veramente distrutta, l’idea di sdraiarsi, di riposare era davvero attraente.
– Non mi muoverò di qui – assicurò lui, guidandola verso la porta – Hai la mia parola.
Jun si fermò proprio sulla soglia: – Koji, lui... lui sta veramente male. Ho davvero paura che... che lui...
– Vedrai, ce la farà. – asserì Koji, in tono leggero – Tetsuya è molto forte.
– Oh, no! È molto fragile, invece!
Fragile? Ma vogliamo scherzare? Quello è fragile come un blocco di cemento armato... – Va bene, Jun. Ci penso io. Alla peggio, basta che suoni il campanello e chiami l’infermiera, no?


Uscita Jun, Koji chiuse la porta e si voltò verso il letto, fissando ostilmente il corpo che vi giaceva.
Passare la notte a vegliare Tetsuya… proprio quello che mi ci voleva! Imparerò mai a stare zitto?
Si riprese, provando una fitta di vergogna: aveva agito d’impulso, come sua deplorevole abitudine, ma l’aveva fatto per Jun. Gli era parsa talmente stanca, talmente provata, che in lui il buon cuore aveva agito prima del buon senso; ora lei avrebbe potuto finalmente riposare, mentre lui si sarebbe trovato a dover dare assistenza proprio all’ultima persona con cui avrebbe voluto aver a che fare.
Inutile recriminare, ormai è fatta.
Koji s’accomodò sulla vecchia poltrona di fianco al letto: non era poi così scomoda. Prese una coperta in pile che Jun aveva ripiegato e lasciato sullo schienale e se la gettò addosso, disponendosi filosoficamente a passare una notte che, lo sentiva, sarebbe stata molto, molto lunga.
Tetsuya non si mosse, non emise un sospiro: era sprofondato in un sonno pesante, e fortunatamente era voltato dall’altra parte, in modo che Koji non fosse nemmeno costretto a guardarlo in faccia. Meglio così. Con un po’ di fortuna avrebbe dormito fino all’indomani, magari non si sarebbe nemmeno accorto del cambio avvenuto al suo capezzale.
Koji guardò l’ora: le otto e mezzo. Non aveva nemmeno portato con sé un libro, e naturalmente a quell’ora lui non aveva affatto sonno. Dannazione…
Si guardò in giro: una camera quadrata, molto pulita come qualsiasi camera d’ospedale. Mobili semplici e lineari, pareti chiare, due grandi finestre. Un vaso di fiori dava un tocco di gentilezza a quell’ambiente così asettico e severo: Jun, senza dubbio.
Fiori per Tetsuya… un cactus spinoso sarebbe più indicato.
Koji gettò un’occhiata colma di desiderio al piccolo televisore sul tavolino: magari, tenendo il volume molto basso…
Tetsuya si mosse nel sonno, gemette. No, niente TV.
Tornò a guardarsi attorno, e finalmente scorse quello che aveva tanto sperato di trovare: dall’anta semiaperta dell’armadio facevano capolino alcuni giornali.
Koji li esaminò: un paio di quotidiani, un mensile scientifico e una rivista di moda femminile. Scartò i quotidiani che aveva già letto, diede una rapida scorsa alla rivista (“Ma in che modo si conciano, queste?”) e sprofondò nuovamente nella poltrona immergendosi nella lettura del mensile scientifico.
Dopo essersi istruito sulle relazioni tra parte destra e sinistra del cervello, sugli ultimi ritrovamenti nella zona di Stonehenge e sulla vita sessuale dei celenterati, Koji pensò d’averne avuto abbastanza e passò all’ultima pagina, dove campeggiava il temuto, complicatissimo cruciverba.
Stava impazzendo sull’otto orizzontale (L’ultimo faraone della XVIII dinastia, otto lettere) quando un gemito lo riportò alla realtà.
Alzò gli occhi dal giornale: Tetsuya si era voltato sulla schiena, il viso contratto in una smorfia di sofferenza. Una mano era tesa verso di lui, quasi fosse stata alla ricerca di qualcosa, di qualcuno.
Ostile, Koji guardò quella mano che si protendeva inutilmente verso... verso cosa, verso chi? Forse sperava che lui gliela avrebbe stretta?
Fissò quasi con odio quelle lunghe dita forti, tanto forti da poter guidare il Grande Mazinga; ma dentro di sé non sentì pietà, compassione.
Hai ucciso mio padre, si disse Koji, affondando ostinatamente il naso nel giornale. Non è per te che resto qui: lo faccio solo per Jun, perché gliel’ho promesso. Non fosse per lei, me ne sarei andato da un pezzo.
Si obbligò a tenere gli occhi sul cruciverba, mentre Tetsuya, il viso stravolto dall’angoscia, continuava ad agitare la mano nel vuoto. Sembrava un uomo che stesse brancolando alla cieca nel buio, e tendesse la mano nella speranza di trovarne un’altra che lo tenesse saldamente, lo guidasse alla luce... suo malgrado, Koji abbassò il giornale. Guardò ancora quel viso sconvolto, quelle dita tremanti, e provò vergogna. Fece per afferrare quella mano tesa: ma il braccio ricadde.
Koji rimase un istante come sospeso; poi alzò le spalle. Ovviamente, nemmeno nella malattia Tetsuya aveva bisogno degli altri... benissimo, che s’arrangiasse da solo.
Riaprì il giornale e tornò al cruciverba.
Tetsuya parve sprofondare in un sonno più profondo; ma non era certo un riposo ristoratore, il suo. Il viso gli si contraeva in smorfie di sofferenza, le mani stringevano convulsamente le coperte, qualche parola inintelligibile gli usciva dalle labbra contratte e secche. Senza degnarlo d’uno sguardo, Koji chiuse il giornale, spazientito: non riusciva più ad andare avanti col cruciverba. Tanto valeva cercare di dormire un poco. S’avvolse meglio nella coperta e cercò una posizione più comoda.
All’improvviso, Tetsuya sbarrò gli occhi, fissando un punto davanti a sé, un’espressione incredula sul viso sfatto: – ...Professore...?
Koji sobbalzò, ma si riprese subito: naturalmente, non c’era proprio nessuno in quella stanza, oltre loro.
Di bene in meglio… adesso delira. Sono proprio fortunato.
Pallidissimo, due chiazze scarlatte sugli zigomi, Tetsuya tentò di rialzarsi su un gomito; il braccio gli tremò, ma lui tese l’altra mano davanti a sé, rivolgendosi ancora ai suoi fantasmi: – Professore...
Stavolta, Koji guardò meglio il fratellastro: era stravolto ma sorrideva, come se avesse visto qualcuno che mai avrebbe sperato di rivedere. I suoi occhi, cerchiati e fondi, adesso d’un grigio chiarissimo, slavato (morti, pensò con un brivido Koji) fissavano ostinatamente sempre uno stesso punto, guardando quello che solo lui poteva scorgere.
In quel momento, Koji fu invaso da una paura come non ne aveva mai provata in vita sua, mai nemmeno quando in battaglia si era sentito spacciato. Solo allora capì quanto avesse sottovalutato lo stato di Tetsuya... “È molto fragile”, aveva detto Jun; e lui non le aveva creduto.
Improvvisamente, il terrore che lui morisse gli tolse il fiato.
– Tetsuya, no! – lo strinse tra le braccia, come per ancorarlo a sé stesso, al mondo reale: trasalì sentendolo così magro e fragile, proprio lui che era sempre stato vigoroso e pieno di vita. Attraverso il tessuto del pigiama percepì il bruciore del suo corpo esausto, divorato dalla febbre. Pareva impossibile che un uomo potesse sopportare una simile temperatura...
– Tetsuya, no! – Koji non sapeva nemmeno cosa stava dicendo, le parole gli uscivano da sole dalle labbra – No! Non ti lascio andare! Non puoi! Non te lo permetterò!
Tetsuya non lo ascoltava. In preda alla febbre continuava a protendersi verso ciò che lui solo era in grado di vedere, il viso trasfigurato dalla gioia: – Professore...!
Koji non faticava a trattenerlo: quel corpo fragile, indebolito dalle ferite e dalla febbre non poteva certo opporre resistenza. Ma la battaglia che si stava svolgendo non era sul piano fisico, e Koji non era affatto sicuro di riuscire a vincere: – Tetsuya, ti prego! No!
Rimasero qualche istante immobili, Tetsuya sempre teso verso ciò che lui solo vedeva, e Koji aggrappato a lui in quella che, lo sapeva, era la sua battaglia più disperata. Tetsuya tentò un’ultima volta di protendersi in avanti; poi le sue misere forze gli mancarono, e s’accasciò su sé stesso, restando completamente immobile. Terrorizzato (tutta quell’inerzia, in un corpo che era sempre stato scattante, pieno di vita!) Koji capì di essere sul punto di perdere. Un grido di vera angoscia gli eruppe dalla gola: – Tetsuya! Resta con me, non lasciarmi anche tu!
Tetsuya emise un singhiozzo, mentre un’altra espressione (delusione?) prendeva il posto di quella spaventosa gioia ultraterrena; Koji continuò a tenerlo stretto, lottando con la morte come non aveva mai lottato prima d’allora: tutti i suoi combattimenti con i mostri non erano nulla, nulla, in confronto a quest’ultimo scontro. Pregò, supplicò, chiamò il fratello, implorò, promise... nemmeno lui aveva più coscienza di cosa stava facendo.
Tetsuya parve riprendere un minimo di forze; si rialzò sul gomito, una luce folle negli occhi, e tentò ancora una volta di gettarsi in avanti; Koji lo strinse tra le braccia e si rivolse all’unica persona cui ancora non aveva osato ricorrere.
Papà, ti prego, non portarmelo via... ti prego, ti prego... non potrei sopportarlo... non anche lui...
Rimasero così a lungo, Tetsuya che tentava inutilmente di protendersi verso ciò che si stava ormai allontanando da lui e Koji che continuava a stringerlo a sé, trattenendolo con tutto il suo essere; poi improvvisamente il corpo martoriato di Tetsuya cedette e il giovane si afflosciò sul materasso, il viso contratto dalla sofferenza: – Papà...
Era stato appena un soffio, un sussurro per una parola che lui mai prima d’allora si era mai permesso di dire. Per la prima volta da che si conoscevano, Koji provò una pena indicibile per il fratellastro: – Ci sono io, qui. Penserò io a te, andrà tutto bene...
Tetsuya non rispose: era nuovamente sprofondato nel torpore della febbre.
Solo allora Koji osò lasciare il fratello, solo allora osò riprendere fiato; gli toccò una mano, poi la fronte, e scattò subito verso il campanello per chiamare l’infermiera.
Poco prima era stato troppo occupato a trattenere Tetsuya per pensare di chiedere aiuto; ora premette il pulsante con disperazione. Sapeva di non poter farcela da solo.
Una dottoressa entrò col passo frettoloso di chi è abituato alle emergenze. Non fece domande, le bastò guardare in viso Tetsuya per capire. Gli tastò il polso, scosse il capo e gli rilevò la temperatura. Emise un’esclamazione soffocata e si precipitò fuori della stanza, tornando subito con una siringa; alzò una manica del pigiama di Tetsuya e gli praticò l’iniezione nel braccio, poi gli tastò nuovamente il polso.
Spaventato, Koji riuscì finalmente a spiccicare parola: – È... molto alta?
– Quarantuno e due – sussurrò lei – L’iniezione dovrebbe abbassargli la temperatura. Ha avuto convulsioni?
– Ha... ha delirato – disse in fretta Koji. Avrebbe voluto chiedere se c’era pericolo, ma aveva troppa paura della risposta che avrebbe ricevuto.
Guardò ansiosamente Tetsuya. Gli era sempre apparso alto e forte, pieno di vigore e di spirito: in quel momento gli sembrò incredibilmente piccolo e minuto, inaspettatamente fragile e indifeso. Lo guardò in viso e gli parve di vedere altri lineamenti sovrapporsi a quei tratti forti: per un attimo, Koji ebbe una visione del bambino che era stato, del ragazzo che anni prima il professor Kabuto aveva scelto d’adottare.
Un’infermiera entrò di corsa, portando un paio di borse del ghiaccio; ne pose una sulle caviglie di Tetsuya e l’altra contro la parte alta della schiena, prima d’affrettarsi fuori.
– Abbiamo un altro paziente molto grave – spiegò in tono di scusa la dottoressa – È tutta notte che siamo impegnate con lui... anche se temo che non ne avrà per molto. Non è un giovanotto forte come... è vostro fratello?
– Sì – rispose lentamente Koji – È mio fratello.
La dottoressa gli rivolse un sorriso stanco; poi toccò la fronte di Tetsuya: – Bene, sta cominciando a sudare.
Koji sentì piegarglisi le ginocchia e ricadde nella poltrona. Non seppe per quanto tempo la dottoressa rimase accanto a Tetsuya, tastandogli il polso e misurandogli la febbre ad intervalli regolari; di tanto in tanto entrava un’infermiera, si consultava a voce bassa con la dottoressa e s’allontanava in fretta. D’istinto, Koji mormorò una preghiera per quell’altro malato che stava lentamente morendo.
– Va meglio – disse infine la dottoressa.
Koji trasalì, incredulo, e lei gli mostrò il termometro: trentotto e uno.
– Grazie, papà – mormorò, mentre lei esaminava rapidamente le medicazioni sul torace di Tetsuya, controllando che le fasciature fossero ancora a posto e le ferite non avessero ripreso a sanguinare; quindi gli richiuse la giacca del pigiama e gli sistemò le coperte: – Devo andare da quell’altro paziente. Non penso che ci sia da preoccuparsi, almeno per il momento; se ci sono problemi, chiamate subito.
Koji assentì, incapace di spiccicare parola; quindi rimase a fissare Tetsuya, che ora era sprofondato in un sonno tranquillo. Il viso non presentava più quelle spaventose chiazze scarlatte di febbre, il respiro era regolare. Guardò l’orologio: le due meno cinque.
Stanchissimo, infreddolito, Koji s’avvolse nella coperta e cercò una posizione un po’ più comoda. Non voleva dormire, naturalmente, ma...
Piombò nel sonno senza nemmeno rendersene conto.


Non seppe cosa fu a svegliarlo: semplicemente sussultò, aprì gli occhi e vide puntato su di sé lo sguardo grigio e serio di Tetsuya: – Koji...?
– Come stai? – represse uno sbadiglio.
Tetsuya si guardò rapidamente attorno, quasi stesse chiedendosi dove si trovasse. Riconobbe la sua stanza d’ospedale, e i ricordi di quanto era successo lo assalirono all’improvviso. Dolore, senso di colpa e profonda vergogna s’alternarono rapidamente nei suoi occhi; Tetsuya voltò di lato la testa, non osando guardarlo in faccia: – Io... il professore… è tutta colpa mia.
Koji trattenne il fiato, mentre sentiva agitarsi nell’animo una pallida traccia dell’odio che aveva nutrito per Tetsuya; ma era una pallida traccia appunto, e scolorì rapidamente davanti al ricordo freschissimo di quella notte che non era ancora trascorsa del tutto.
– No – disse lentamente – Non è colpa tua – riprese fiato, cercando le parole che faticavano a venirgli – È stata una sua scelta.
Tetsuya non rispose, non si voltò nemmeno, ma Koji era sicuro che non stesse perdendo una parola, e continuò: – Lo so perché me lo ha detto lui, prima... prima di morire – affrontare il ricordo della morte di suo padre era dolorosissimo, e allo stesso tempo gli dava un inaspettato sollievo; Koji riprese, con maggior decisione: – Lo sapevi che mi ha parlato di te?
Tetsuya scosse lievemente il capo: no, non lo sapeva.
– Ha detto – Koji sentì risuonare in sé quella voce così cara – Ha detto che un padre deve sacrificarsi per i suoi figli... e che tu sei come un figlio, per lui. Proprio come me.
Tacque: non poteva vedere Tetsuya in viso, ma poteva sentire il suo respiro accelerato, poteva vedere la mano contratta sulla coperta. Attese in silenzio, mentre risentiva anche le ultime parole di suo padre... parole destinate solo a lui, e che sarebbero state il suo tesoro più prezioso: “Koji, non dimenticare di essere gentile ed premuroso con tutte le persone che ti sono amiche”.
Allora, quelle parole l’avevano ferito: come avrebbe potuto essere gentile, provare affetto per quel pazzo che l’aveva reso orfano?
Ora che aveva rischiato di perdere anche Tetsuya, ora che aveva lottato per lui, Koji provò un’ondata profonda d’affetto per quel suo fratello adottivo ruvido e orgoglioso. Come avrebbe potuto odiarlo, dopo averlo visto moribondo, indifeso, in preda alla febbre? Dopo averlo sentito invocare disperatamente l’uomo che per lui era stato come un padre?
Era un Koji molto maturato quello che prese una mano di Tetsuya e la strinse: un Koji che aveva perso moltissimo, ma che sapeva anche che avrebbe potuto guadagnare altrettanto. Certo, con il carattere spigoloso di Tetsuya non si poteva sperare che le cose sarebbero state sempre facili, tutt’altro; ma adesso la sofferenza li aveva avvicinati, e lui non intendeva rinunciare a ciò che aveva già conquistato.
– Koji... mi dispiace – bisbigliò Tetsuya.
– Lo so – adesso capisco quanto gli hai voluto bene anche tu, pensò Koji.
– Non posso perdonarmelo... sono stato un pazzo.
Anch’io, pensò Koji. Ho anch’io le mie colpe verso di te… ma ne parleremo quando starai meglio.
– Tu e Shiro avete perso così tanto... – la voce di Tetsuya parve spezzarsi.
– Adesso ascoltami – disse con fermezza Koji.
Col coraggio di chi è abituato a guardare in faccia ostacoli e nemici, Tetsuya si voltò verso di lui e Koji riprese: – Tutti noi abbiamo perso tanto: Shiro e io, certo, ma anche tu e Jun. Non vogliamo però perdere anche te, per cui smetti con i sensi di colpa e cerca di guarire in fretta, o avrai reso inutile il sacrificio di nostro padre.
Tetsuya trasalì, sorpreso dal tono secco di Koji, o forse dalle parole che mai si sarebbe aspettato, “nostro padre”; ma fu un attimo. Gli occhi grigi cercarono ansiosamente quelli neri: s’incontrarono, si guardarono e si capirono più che se avessero parlato.
Tetsuya si rilassò, il suo corpo contratto si distese; uno scintillio del suo antico spirito guizzò nel suo sguardo.
– D’accordo, Kabuto – mormorò, soffocando uno sbadiglio – ... e grazie.
È di nuovo lui, pensò Koji, sorridendo tra sé; quindi guardò il suo orologio: – Le quattro e un quarto. Vediamo se riusciamo a dormire un poco.


Jun s’affrettò per il corridoio dell’ospedale.
Aveva riposato alcune ore, svegliandosi improvvisamente quella mattina con l’orrenda sensazione che fosse successo qualcosa d’irreversibile; l’angoscia l’aveva spinta a vestirsi in fretta e precipitarsi a tutta velocità al capezzale di Tetsuya. Aveva avuto un bel ripetersi che in caso d’emergenza Koji l’avrebbe sicuramente chiamata: dentro di sé, lei era sicura che fosse successo qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe fatto sì che nulla sarebbe stato più come prima.
Disperata, Jun aveva guidato l’automobile come una pazza, continuando a pregare che non fosse successo niente, che Tetsuya fosse ancora vivo; mentre percorreva a tutta velocità gli interminabili corridoi dell’ospedale, continuò a rimproverarsi per aver lasciato proprio Koji ad accudire Tetsuya. Come aveva potuto fare una cosa simile? Quei due non erano mai andati d’accordo, ultimamente erano stati come cane e gatto, e ora che era successo... che il dottor Kabuto... non voleva pensarci... beh, sicuramente quello che era accaduto non avrebbe certo migliorato i già pessimi rapporti tra Koji e Tetsuya.
Sono stata pazza, pazza, pazza, continuava a ripetersi Jun, senza voler pensare a quanto era stata stanca, quanto aveva avuto bisogno di riposare un poco, quanto quel po’ di sonno le era stato prezioso...
Bussò alla porta ed aprì senza nemmeno aspettare una risposta... e s’arrestò immediatamente.
Tetsuya dormiva nel suo letto, il viso disteso e sereno come non l’aveva mai visto. Accanto a lui, avvolto nella coperta, Koji riposava nella sua poltrona.
Meravigliata, Jun fece un passo avanti, rimanendo attonita a guardarli. Ultimamente li aveva sempre sentiti ostili l’uno verso l’altro, li aveva sempre visti accapigliarsi, provocarsi, coprirsi di insulti; ora, la pace che emanava da loro era talmente evidente da essere palpabile.
Si sono trovati, pensò Jun, sentendosi bruciare gli occhi, Dio mio, si sono trovati...
Sorrise, incredula. S’asciugò le lacrime e tornò a guardarli, chiedendosi come fosse possibile, cosa fosse accaduto, perché... all’improvviso rivide dentro di sé il viso del professor Kabuto, quell’uomo che lei aveva amato come un padre, e per un folle istante ebbe la percezione di sentirlo vicino, vicinissimo... ed ebbe la sua risposta.
Grazie, papà...
 
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view post Posted on 27/5/2010, 22:02     +1   -1
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E questo non è un ripescaggio... anzi, è il motivo del recupero delle storie di cui sopra.

Penso sia inutile specificare chi desidero omaggiare. Lo si capirà leggendo.^^


VATTENE


Uno… due… destro… sinistro…
I sei metri più faticosi della sua vita. Probabilmente, nemmeno quando aveva imparato a camminare aveva compiuto un simile sforzo... senza contare il dolore.
Destro... sinistro... uno... due... ancora un metro... uno... due... mezzo metro... ancora... un passo... era arrivato.
Il corpo madido di sudore, Tetsuya ricadde sulla sbarra, respirando a pieni polmoni. Le gambe gli tremavano e parevano piegarsi sotto al suo peso, lo stomaco era squassato dalla nausea e dalla schiena s’irradiava un dolore che lo percorreva dai calcagni alla sommità della testa.
Devo riposare un poco, si disse Tetsuya, e chiuse gli occhi.


Un tempo si sarebbe gettato a testa bassa in qualunque sfida, pronto a travolgere ogni ostacolo; adesso stava imparando a portare pazienza. Anni prima avrebbe negato ferocemente la sofferenza, colpevolizzando le proprie membra doloranti; adesso stava cominciando a rispettare quel suo corpo martoriato che aveva le sue esigenze, i suoi ritmi.
Stai facendo progressi, gli aveva assicurato Jun; era vero, fino a poche settimane prima alzarsi dal letto e restare in piedi era stato un pensiero impossibile. Adesso stava addirittura riprovando a camminare.
Nell’ultimo scontro con i Mikenes, Tetsuya ne era uscito più morto che vivo: trauma cranico, fratture varie e soprattutto una lesione a livello delle vertebre sacrali e un’incrinatura al bacino. Era stato operato alla schiena, ma per il bacino non c’era stato nulla da fare: solo restare a letto in riposo assoluto e sperare che le ossa si aggiustassero senza problemi.
Settimane d’immobilità gli avevano atrofizzato i muscoli della schiena e delle gambe: Tetsuya aveva considerato con disgusto i propri arti inferiori, ridotti a due irriconoscibili stecchi.
«Gambe di sedano», aveva borbottato.
Elvy, la sua infermiera preferita, con il consueto buon senso non gli aveva permesso di autocommiserarsi troppo: «I muscoli si svilupperanno di nuovo. Quel che importa adesso, è che le tue ossa si aggiustino bene».
Tetsuya aveva bofonchiato, ma dentro di sé aveva sentito rinascere un po’ di speranza: era l’effetto benefico che Elvy aveva su di lui e su tutti gli altri pazienti affidati alle sue cure. Irradiava positività e simpatia, con lei un ammalato non era semplicemente un numero.


Afferrando le sbarre Tetsuya sorrise tra sé, mentre si sforzava di rimettersi in piedi: le gambe non lo reggevano ancora, doveva procedere lungo le sbarre a forza di braccia.
Sei metri di lunghezza.
Ok, ricominciamo.
Uno... due... destro... sinistro...


Ricordava ancora quando si era rivisto per la prima volta a torso nudo: era stata proprio Elvy a togliergli le medicazioni, in attesa che il medico gli levasse i punti.
Vedere il reticolo di cicatrici rossastre che gli solcavano il torace l’aveva lasciato senza fiato. Non si era trattato di ferite profonde o gravi, ma erano davvero tante.
«Le ragazze impazziranno per te», aveva detto subito Elvy. «Moriranno per la curiosità di sapere come ti sei fatto tutte queste ferite, e non degneranno d’uno sguardo quei ragazzotti palestrati che vanno per la maggiore. Vedrai se non ho ragione».
«Sembro una carta geografica», aveva obiettato lui.
Elvy gli aveva strizzato l’occhio: «Anche la geografia può avere il suo fascino!»
Tetsuya non aveva più aperto bocca, chiedendosi nel contempo se Jun avrebbe apprezzato quella specie di mosaico.


Destro... sinistro... arrivato.
Aggrappato alle sbarre, Tetsuya respirò a fondo: fortunatamente, le ferite al torace non gli facevano quasi più dolore, e le braccia erano rimaste pressoché intatte. Un bene, visto che ora doveva contare sulla forza dei suoi bicipiti per poter rieducare le gambe.
Mentre riprendeva fiato, ripensò ad una decina di giorni prima, quando i medici gli avevano assicurato che vertebre e bacino erano in buone condizioni. L’operazione era perfettamente riuscita, le lastre avevano rivelato che le ossa si erano saldate. Era il momento di cominciare con la rieducazione.
«Dovrai avere pazienza», l’aveva ammonito Elvy. «La rieducazione è dolore».
Oh, beh, la cosa non l’aveva preoccupato troppo: lui e il dolore erano vecchie conoscenze.
Il problema, se mai, era la pazienza.


Solo alcuni giorni prima era stato fatto sedere in poltrona: una vera conquista, una grandissima sorpresa per Jun che era rimasta meravigliata di non trovarlo come al solito sdraiato a letto; lui le aveva sorriso, ma in realtà si era sentito malissimo. Ondate di nausea, vertigini… come avrebbe potuto tornare quello che era stato un tempo?
Scoraggiato, aveva guardato con disgusto il proprio corpo smagrito che sguazzava in un pigiama che un tempo gli era andato a pennello.
«Sono un relitto», aveva mormorato.
«Non dire sciocchezze!», Jun l’aveva abbracciato quasi avesse voluto trasmettergli la sua forza. «Tu guarirai! È solo questione di tempo… devi avere pazienza!»
Pazienza, già.


Avanti, ricominciamo.
Uno… due… destro… sinistro…


Una settimana prima, gli era stato prospettato il programma di rieducazione.
Ogni mattina presto, un fisioterapista veniva a massaggiargli vigorosamente schiena e gambe.
Poi gli erano stati insegnati alcuni esercizi, da eseguire più volte al giorno, per tonificare i muscoli di cosce e polpacci.
Nella tarda mattinata era la volta della ginnastica da eseguirsi in una speciale piscinetta piena d’acqua; Tetsuya si era illuso che quei nuovi esercizi fossero meno faticosi, ma regolarmente usciva dalla vasca stremato.
Dopo vari giorni di trattamenti, l’ortopedico venuto a visitarlo si era dichiarato soddisfatto dei risultati raggiunti.
«Ma se nemmeno mi reggo in piedi!», aveva esclamato Tetsuya, scoraggiato dalla lentezza dei suoi progressi. Le sue gambe sembravano ancora due stecchi…
Sentendolo sfiduciato, quella sera Elvy gli aveva fatto un predicozzo: lui avrebbe ripreso a camminare, sarebbe tornato addirittura ad essere quello di prima: ci volevano costanza ed applicazione, e soprattutto nessuna fretta.
«Credi che i muscoli si riformino così?», Elvy aveva schioccato le dita. «Ci vuole tempo!»
«E pazienza», aveva ringhiato Tetsuya.
«E pazienza», aveva confermato lei. «Vedo che stai imparando».


Fino ad allora, tutte le attività di rieducazione erano state concentrate nel mattino; il giorno prima, Elvy era venuta a prenderlo, l’aveva fatto salire su una sedia a rotelle e l’aveva portato in palestra.
Allibito, Tetsuya aveva fissato le due traverse, lunghe sei metri. Avrebbe dovuto aggrapparsi a quelle sbarre per camminare… percorrere tutta quella lunghezza gli era parso un compito irrealizzabile.
Un tempo correvo chilometri e chilometri, si era detto Tetsuya; ora, sei metri mi sembrano un’impresa impossibile.
Ma non era impossibile: aggrappandosi, sforzandosi, stringendo i denti aveva percorso quella distanza una volta, due, tre… ce l’aveva fatta.
Cosa più importante: aveva capito che non gli avevano mentito. Lui avrebbe potuto guarire.


Jun, che era sempre venuta tutti i pomeriggi a trovarlo, l’aveva accompagnato in palestra, dove l’aveva incoraggiato e spronato.
«Credo di essere l’unico malato di questo ospedale ad avere una cheerleader», aveva commentato lui, sfinito, mentre Jun gli apriva una lattina di limonata.
Lei gli aveva sorriso e gli aveva retto la bibita mentre lui, ancora aggrappato alle sbarre, beveva avidamente con una cannuccia; quindi Tetsuya si era rimesso in piedi e aveva ricominciato a camminare. Destro… sinistro…
Jun era stata una presenza costante, nella sua degenza; l’altra, a sorpresa, era stato Koji.
Lui e Jun si alternavano per tenergli compagnia nel pomeriggio: in genere lui veniva sul presto, lei verso sera.
Praticamente, non c’era stato giorno in cui il giovane non fosse venuto a trovarlo: era gentile, sollecito, premuroso. Si comportava come se si fosse sentito in debito nei suoi confronti, e la cosa lasciava in Tetsuya un senso di disagio.
Sono io che mi sento in debito verso di lui. Koji ha perso suo padre… cioè, nostro… insomma, è colpa mia. Non potrò mai perdonarmelo.


Destro… sinistro… destro… capolinea.
Tetsuya riprese fiato, gettando uno sguardo torvo alle due stampelle che qualcuno aveva lasciato appoggiate contro le sbarre. Presto avrebbe potuto cominciare ad usarle, finalmente, e allora avrebbe guadagnato un po’ d’indipendenza.
Quel giorno, non c’era nessuno con lui nella palestra: era stato accompagnato da una giovane allieva, piuttosto inesperta, che si era allontanata dopo averlo aiutato a raggiungere le traverse. Tetsuya era praticamente sicuro che Elvy non l’avrebbe lasciato solo, ma era contento di potersi concentrare sul camminare senza aver nessuno a distrarlo.
Però…
Guardò l’orologio sulla parete: a quell’ora, in genere Koji era già arrivato. Strano…


«Mi spiace aver fatto tardi», Koji entrò a passo svelto nella palestra. «Sono stato trattenuto. Una telefonata».
«Qualcosa d’importante?», Tetsuya raggiunse l’estremità delle sbarre e si voltò, pronto per un nuovo percorso.
«No, niente di speciale», incontrò lo sguardo indagatore del fratello e scoppiò in una risata imbarazzata: non era mai stato bravo a nascondere la verità, lui. «In realtà è importante… non indovineresti mai chi mi ha telefonato».
«Non ci provo nemmeno», Tetsuya mosse un passo, poi un secondo.
«Mi ha chiamato la NASA».
Se anche era sorpreso, Tetsuya riuscì a non darlo assolutamente a vedere: «Ah, sì? E cosa volevano?»
«Ti sembrerà buffo…», Koji era sempre più imbarazzato. «Hanno contattato anche Sayaka, non solo me; ci hanno offerto di andare a specializzarci in robotica spaziale. Capirai, con l’esperienza che abbiamo…»
«Ma certo». La stessa esperienza che ho anch’io. Ma forse alla NASA vogliono studenti sani, non ruderi anzitempo.
«Credo che Sayaka abbia accettato di volata», continuò Koji, sempre più imbarazzato.
«Naturale», rispose Tetsuya, impassibile. «Quando partite?»
«Ecco…», Koji intrecciò le dita, «A dire il vero, io non parto». Deglutì. «Credo che rifiuterò».
Un attimo terribile di silenzio.
Tetsuya si appoggiò con i gomiti sulla sbarra: «Non ho capito bene le ultime parole».
«Ho detto», Koji scandì bene ogni sillaba, «che voglio rifiutare. Mi troverò un lavoro qui, in Giappone. Penso che le proposte non mancheranno».
Il silenzio cadde tra loro. Rimasero immobili a fissarsi, Koji orgogliosamente eretto nella persona, Tetsuya chino in avanti che lo guardava di sotto in su: due contendenti in un duello.
«Sei ancora più idiota di quel che pensassi», sbottò infine Tetsuya. «E bada che ho una buona immaginazione».
«Non voglio discuterne», tagliò corto Koji. «È una decisione mia».
«Visto che mi hai coinvolto in questa scelta, direi che riguardi pure me», osservò seccamente Tetsuya.
«Non è un problema tuo».
«Ragazzino, se sei così imbecille da rifiutare un lavoro alla NASA… la NASA, ripeto… ho qualcosa da dire, eccome! È l’occasione della tua vita, e vuoi gettarla per… per cosa?»
«Solo per mio fratello», sorrise Koji.
Tetsuya non rispose al sorriso: un’ombra parve scendergli sul volto. Poi fissò Koji, gli occhi grigi luminosi e freddi come l’acciaio.
«Non siamo fratelli», disse, reciso. «Fino a poco più di un anno fa nemmeno ci conoscevamo. Non abbiamo nessun rapporto, nessun obbligo, nessun vincolo…»
«Nostro padre voleva che…»
«È morto», ringhiò Tetsuya. «Lui era l’unico legame tra noi. Non c’è più. Fine della storia».
«Però noi ci siamo ancora», insisté Koji. «Noi possiamo…»
«No, non possiamo. Lascia perdere i sentimentalismi e guarda le cose per quel che sono: noi non andiamo d’accordo. Siamo cane e gatto».
«Ma in questi ultimi tempi…»
«In questi ultimi tempi io ti faccio pena, Koji. Lo so. È per questo che porti pazienza; ma la realtà è che noi non ci sopportiamo. Non appena starò meglio, vedrai che ricominceremo a litigare come abbiamo sempre fatto».
«Ma…»
«Non abbiamo nessun legame. Se credi poi che io sia disposto a sopportare ancora le tue sbruffonate da moccioso viziato, il tuo voler fare da solo senza ascoltare gli altri… Koji, sembra che tu ti senta il depositario della Verità. Proprio come stai facendo ora, che decidi da solo cose che riguardano anche gli altri». Scosse il capo, rabbioso: «Giuro che ti picchierei!»
«Ma non puoi farlo» esclamò Koji, trionfante. «Che tu voglia o no, hai bisogno di me».
Tetsuya lo fissò a lungo, in silenzio, e Koji sentì un brivido scorrergli per la schiena: così doveva aver guardato i mostri di Mikenes prima di dar loro il colpo di grazia…
Un istante dopo, una stampella d’acciaio volò sopra la testa di Koji, mancandolo d’un soffio e andando poi a cadere sul pavimento, con un fracasso infernale.
«Ma sei impazzito?», urlò Koji. «Potevi uccidermi!»
«Sì, se avessi voluto farlo». Tetsuya strinse l’impugnatura dell’altra stampella: «Ho ancora una buona mira, Kabuto».
«Sei… sei un criminale!»
«Non ho bisogno di te!», ringhiò Tetsuya, pallido d’ira. «Ma chi ti vuole? Esci dalla mia vita!»
Koji scosse la testa, incredulo. Non aveva mai visto un simile odio negli occhi del fratello… era pazzo di collera, di gelosia. L’essere stato tagliato fuori dalla proposta della NASA era stato troppo…
«Tetsuya, io…»
Suo fratello alzò la stampella, lo sguardo folle: «Vattene!»


«E tuo fratello?», chiese Elvy, che aveva molta simpatia per Koji e che era rimasta male non trovandolo assieme a Tetsuya.
«Un impegno improvviso», tagliò corto Tetsuya.
«Beh, verrà senz’altro domani a trovarti».
«Come no…»
Elvy sospinse verso di lui la sedia a rotelle, l’aiutò ad accomodarsi.
Lui rimase in silenzio, il viso cupo. Gettò uno sguardo alle due stampelle appoggiate contro le sbarre: aveva dovuto strisciare per terra per recuperare quella che aveva scagliato. Riportarla indietro e rimettersi in piedi da solo era stata una vera faticaccia, ma non avrebbe mai voluto che restasse una traccia di quel che era avvenuto là dentro.
«Allora!», esclamò allegramente Elvy, afferrando i manubri della sedia e cominciando a spingerla fuori, nel corridoio. «Abbiamo avuto una giornata proficua, oggi?»
«Altrochè», rispose Tetsuya.


«Koji era sconvolto e furioso», disse quella stessa sera Jun. «Ha detto che non avrebbe voluto litigare con te, ma che tu… beh, non voglio ripetere le parole che ha usato».
«Posso immaginarmele».
«Ha detto che uno come te non merita niente… Tetsuya, ma sei stato proprio così orribile?»
Lui fissò una crepa sul soffitto: «Abbastanza».
«Koji era davvero fuori di sé», continuò Jun. «Dice che non vuol più vederti».
«Tanto meglio».
«Ha telefonato in America. Accetta. Domani andrà a prendere il biglietto aereo».
«Perfetto».
Jun tacque un attimo. «Era proprio necessario trattarlo a quel modo?»
«Certo», rispose lui, improvvisamente stanco. «Altrimenti avrebbe gettato via il suo futuro per star dietro a me. Non potevo permetterlo. Gli ho già fatto abbastanza male».
«Un giorno dovrai dirglielo».
Lui prese una mano di Jun, se la premette contro la guancia: «Un giorno glielo dirò. Promesso».




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A Isotta e Runkirya, muse ispiratrici.


LA REGINA DI VEGA
(Dio salvi il Re)


Ciò che gli era rimasto come ricordo indelebile dell’ultimo Capodanno non era stata tanto la cena squisita, o la compagnia eterogenea, e tantomeno il gran finale a suon di crocchette pirotecniche.
No, ciò che Sua Maestà Yabarn Re di Vega non poteva assolutamente dimenticare erano le curve, decisamente prosperose ed invitanti, delle bellissime ospiti intervenute quella sera.
Jun, con i suoi colori solari e le sue prorompenti caratteristiche era stata quella che gli era rimasta maggiormente impressa, colei che gli aveva mandato il sangue in ebollizione e la pressione alle stelle.
Per somma disgrazia, tra di loro si era parato un imprevisto ostacolo sotto forma di un accigliatissimo – e dannatamente muscoloso – Tetsuya.
Sua Maestà era un uomo perspicace; gli era bastato incrociare lo sguardo d’acciaio del giovane, e soprattutto considerare il calibro dei suoi bicipiti, per mettersi prudenzialmente da parte e puntare il suo interesse su quella che, a suo parere, era l’altra dama più affascinante della serata: Maria, la principessa di Fleed.
Completamente diversa dalla più matura Jun, Maria era più sottile e minuta, e possedeva una sua grazia fresca ed acerba che non l’aveva certo lasciato insensibile; in più, e anche questo contribuiva notevolmente al suo fascino, non c’erano di mezzo ingombranti, nerboruti fidanzati.
A dire il vero, Maria era interessata a quel tal Alcor – molto meno preoccupante di Tetsuya bisogna dire; però lui non sembrava troppo propenso a concederle l’esclusiva di sé stesso. Come non bastasse, oltre a Maria c’era in lizza anche quell’altra ragazza, quella Sayaka, e non era assolutamente stato possibile capire chi, tra le due, avesse più chances di vittoria.
Da allora, Sua Maestà aveva continuato ad interrogarsi su Maria: forse, Alcor le aveva preferito Sayaka… magari lei era rimasta sola… addirittura, lei avrebbe potuto voler rendere la pariglia allo sciagurato giovane che aveva avuto la dabbenaggine di preferirle un’altra…
Insomma, Sua Maestà aveva ormai mente ed ormoni in totale subbuglio; del resto, così si giustificava con sé stesso il sire, era vedovo e solo da un buon paio di decenni, in tutto quel tempo la vita per lui era stata solo conquistare pianeti, sterminare popolazioni, radere al suolo città. I tempi erano maturi per dare un nuovo corso alla sua esistenza di solitario monarca; per evitare pietose descrizioni, saltiamo quindi tutti i suoi pensieri e ripensamenti e passiamo a quando, teso come uno scolaretto al suo primo appuntamento con la bellissima della classe, dopo aver chiuso gli occhi per meglio raccogliere le idee, il sire prese a digitare, con grande imbarazzo e virgineo rossore sulle gote, un’appassionatissima mail destinata a colei che gli faceva palpitare il cuore.
Sua Maestà non era mai stato granché bravo a manifestare per iscritto i propri sentimenti; anzi, il sire non era assolutamente capace di esprimere in nessuna maniera le proprie emozioni. Quella volta, stranamente, le parole fluirono dalle sue dita, e in breve la mail fu scritta, riletta e corretta all’inverosimile ed infine, con grandi patemi d’animo, spedita all’interessata.
Chi potrà mai narrare quali dolci tormenti attanagliassero l’animo del sovrano mentre attendeva trepidante la risposta? Chi potrà mai descrivere lo schianto al cuore che ebbe quando la bramata lettera giunse? E chi potrà mai spiegarsi perché, invece di un rifiuto colmo di raccapriccio, la missiva conteneva invece parole gentili e un chiaro invito a proseguire il carteggio?
Nessuno può farlo. Ci sono misteri destinati a rimanere tali, e bisogna farsene una ragione.
Leggere il messaggio di Maria e scoppiare di felicità fu un tutt’uno; anzi, trovandosi nel chiuso del proprio regio mega-camerone da letto, Re Vega azzardò persino un paio di passi di danza accompagnati da selvaggi ululati.
Nuova mail a Maria, ulteriore risposta; fu così che, dopo un consistente numero di lettere, messaggi e messaggini i due arrivarono infine ad incontrarsi. Fu lei ad indicare il posto: un locale poco frequentato, piuttosto distante dal ranch e dal laboratorio. Re Vega vi si recò in gran segreto, forte del travestimento che aveva assunto e che lo rendeva molto simile ad un terrestre. Nessuno avrebbe fatto caso a lui, ne era più che certo – santo cielo, nonostante sfoggiasse un colorito roseo e la sua barba da viola fosse diventata nera, il sire restava pur sempre un uomo che si nota come si può notare un individuo alto due metri e venti; ma tant’è.
Maria lo stava aspettando, seduta ad un tavolo; discreti separées di legno li celavano a sguardi inopportuni. Nonostante avesse tanto temuto quel momento (“di che le parlo?”), il sire non se la cavò poi male. Quanto a lei, appariva decisamente ben disposta nei suoi confronti.
Non che fosse da stupirsene: ultimamente, Alcor aveva avuto una netta predilezione per Sayaka, e lei non aveva desiderato altro che fargliela pagare. La lettera di Sua Maestà era stato per Maria una sorta d’inaspettato aiuto celeste, un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Fu per questo che si mostrò molto condiscendente; rise alle battute di lui, lo adulò quel tanto che bastava a ringalluzzirlo, lo stuzzicò, lo guardò adorante con i suoi grandi occhioni cerulei. Dopo mezz’ora di quel trattamento, Re Vega le avrebbe donato la sua collezione di bombe nucleari; dopo un’ora, le avrebbe dato anche metà del suo regno; e dopo tre ore, e dopo svariati cicchetti per farsi coraggio, le offrì il trono, la corona e tutto sé stesso in sovrappiù. Le fece notare tutti i vantaggi che sarebbero derivati da un simile matrimonio: lei avrebbe avuto potere, ricchezze incalcolabili, vestiti e gioielli tali da far schiattare d’invidia le sue amiche. Senza contare il fatto che una loro unione avrebbe sancito la pace tra i loro due popoli (quella della pace per lui non era altro che una seccatura, ma a quanto pareva per gli altri non era così, per cui tanto valeva parlarne). Infine, dopo averci pensato a lungo, espose l’ultimo motivo che l’aveva portato ad un simile passo: «Insomma, ecco, hmf, io… tu… voglio dire, noi… beh, ecco, insomma, mi hai capito».
Maria osservò senza battere ciglio il re inginocchiato ai suoi piedi e che la guardava con occhio da mite agnello, e senza pensarci due volte acconsentì a distribuire confetti e bomboniere.
Dopo tanti anni, Vega avrebbe avuto finalmente una regina.


Le successive settimane furono un autentico turbine di avvenimenti: stabilita la pace con Actarus (non si può lanciar mostri nucleari contro il proprio cognato. Non sta bene), cominciarono i preparativi veri e propri per le nozze. Fu un susseguirsi di impegni frenetici: ordinazioni di fiori, scelta del menù per il pranzo (e qui convincere lady Gandal a non prestar la sua opera culinaria fu ardua), prova dei vestiti per la cerimonia, spedizioni di inviti. Il tempo letteralmente volò, e prima ancora d’essersene reso conto, Sua Maestà si ritrovò con addosso i suoi abiti migliori e con appesa al braccio Maria, splendida nel suo vaporoso vestito di tulle bianco.
Di tutta la cerimonia, Re Vega non conservò che pochi ricordi: l’aria un po’ “contenta lei” di Alcor, Venusia tutta trepidante per l’amica, lady Gandal che singhiozzava commossa asciugandosi gli occhi con un fazzolettone del marito, Rubina che fissava Actarus “e noi quando?”, mentre lui guardava ovunque tranne che verso di lei, e soprattutto l’espressione impagabile di Hydargos quando si vide cadere in mano il bouquet lanciato dalla sposa.
Il pranzo non era stato cucinato da lady Gandal, per cui fu squisito; infine, distribuita l’ultima cucchiaiata di confetti, la coppia felice si ritrovò finalmente sola, al chiuso dei regali appartamenti.
Nonostante la sua nonchalance, il sire si sentiva piuttosto agitato: il suo atteggiamento era quello di un botanico esperto che si appresta a cogliere un raro, prezioso fiore. Ci voleva un po’ di tatto, di gentilezza, sicuramente lei, povero candido giglio, era a dir poco agitatissima…
Terminata la sua toilette, il sovrano si cosparse – con discrezione, vivaddio! – con un po’ di colonia; quindi passò nella regale camera da letto, pronto in cuor suo a rassicurare ansie e dissipare timori. Sperò solo che lei non si sarebbe messa a piangere: poche cose l’innervosivano come una donna in lacrime.
Fu un attimo: la sposina, spazientita per la sua lunga permanenza in bagno, lo abbrancò saldamente per la barba, costringendolo a piegarsi in due, e lo sottopose ad un interminabile bacio-bostick. Quindi, mentre il sire tentava disperatamente di riprendere fiato, lei ne approfittò per dargli una spinta all’indietro. Re Vega atterrò sul materasso, Maria d’un balzo lo raggiunse, e un istante dopo lui si chiese confusamente chi di loro due fosse l’esperto raccoglitore, e soprattutto chi fosse il fragile fiore.


Quando finalmente aprì un occhio, come ogni mattina Re Vega allungò un braccio verso il comodino, là dove tutte le sere prima di addormentarsi deponeva la corona.
Niente.
Aprì anche l’altro occhio, tastò freneticamente: la corona non c’era.
Inorridito, il sire s’alzò di scatto a sedere: non vide nemmeno il mantello color porpora, che tutte le sere deponeva ordinatamente sull’apposito regio attaccapanni.
Un attimo dopo, Re Vega si ricordò confusamente qualcosa; guardò meglio nel suo letto, sollevò persino i guanciali, e con gran spirito d’osservazione s’accorse che sua moglie non c’era.
In preda ad una mica troppo vaga inquietudine, il sovrano si rivestì alla bell’e meglio e perlustrò l’appartamento reale: Maria brillava per la sua assenza. Ahi ahi…
Sempre più preoccupato, uscì dalle sue stanze, percorse corridoi: che lei ne avesse avuto già abbastanza, che l’avesse lasciato, che fosse tornata sulla Terra…? Piantato subito dopo la prima notte di nozze: sai che figura...
Era forse rimasta sconvolta da quel che era successo tra di loro? Forse lui l’aveva spaventata, con la sua irruenza di maschio predatore.
Un attimo dopo ricordò meglio i particolari di quel che era avvenuto, e si disse che se qualcuno avrebbe dovuto sentirsi sconvolto per l’irruenza dell’assalto, quel qualcuno era senz’altro lui.
Ma allora, dov’era finita?
Ebbe la sua risposta quando fece capolino nella sala delle udienze.
Regalmente assisa sul trono, avvolta nel mantello purpureo e con la corona che le brillava sulla fronte, Maria stava conferendo con i vari comandanti di Vega.
«…Beh…!» Re Vega avrebbe voluto dire qualcosa di più concettoso, ma in quel momento non gli venne nulla; dall’alto del trono, Maria gli sorrise, radiosa.
«Volevi qualcosa, Yabarn caro?» cinguettò.
Yabarn caro… Re Vega si sentì morire. Lanciò uno sguardo preoccupato ai suoi sottoposti, ma nessuno di loro parve aver voglia di ridere: anzi, avevano tutti l’espressione funerea di chi ha capito benissimo d’aver trovato un padrone capace di far filare a bacchetta.
«Ma che sta succedendo?», sbottò il sovrano.
Zuril e Hydargos lo guardarono con commiserazione; fu Gandal, sposato da sempre, a considerarlo con maggior compatimento.
«Tesoro mio, stiamo lavorando», Maria scese dal trono e camminò verso di lui col mantello che spazzava il pavimento dietro di lei a mo’ di strascico. Con cortese fermezza, sorda ai tentativi di protesta del marito, lei lo afferrò per un gomito, pilotandolo fuori della sala; udita l’ultima esclamazione, invero poco galante, del consorte, Maria gli sorrise e gli diede un bacetto sulla punta del naso.
«Va bene, pupottino mio. Adesso vai a casa, che io sono tanto occupata. Ci vediamo più tardi» e le porte si chiusero inesorabilmente davanti a lui.
Fu un Re Vega fortemente seccato, tanto per usare un eufemismo, quello che rientrò nei regali appartamenti. Non sapeva se era più furioso per essere stato estromesso dalla sala del trono, o se gli rodeva di più che lei l’avesse chiamato “pupottino” davanti ai suoi uomini. Sai quanto avrebbero riso di lui…
Ripensò alle occhiate tragiche che gli avevano lanciato, e si disse che probabilmente stavano masticando troppo amaro per aver voglia di ridergli dietro.


Quella sera, una Maria particolarmente garrula fece ritorno all’ovile, trovandovi un marito che nemmeno la più benevola descrizione può definire “amabile”.
Re Vega aveva appena cominciato a dare la stura alle proprie lagnanze, quando Maria inarcò le sopracciglia in un modo che lui avrebbe imparato a temere, e molto, nei successivi giorni. Quindi, la sposina in circa trentamila parole gli comunicò quello che avrebbe potuto dirgli in dieci, e precisamente: per il futuro, lui avrebbe dovuto starsene buono e zitto.
Il nuovo tentativo di Sua Maestà di intervenire fu troncato subito: in tono decisamente secco, e usando vocaboli invero poco adatti ad una sovrana, Maria gli fece capire che la regina di Vega era lei, e che al trono e al governo avrebbe badato lei, appunto. Se lui avesse avuto qualcosa in contrario, benissimo: ognuno è libero d’avere le proprie opinioni. Punto.
Il sire ammutolì: mai si sarebbe aspettato una simile forza d’animo in un esserino sottile e che con la testa gli arrivava si e no al gomito… avrebbe potuto protestare, pestare i piedi, imporsi. Non ne ebbe il coraggio. Ricordò le facce sconfitte dei suoi fieri generali, masticò amaro e disse l’unica cosa che si sentiva di dire in quel momento: «Sì, tesoro».
Maria tornò all’istante dolce e zuccherosa: gli arruffò affettuosamente la barba e lo chiamò il suo pupacchiotto. Mentre Re Vega si chiedeva ansiosamente se lei avrebbe voluto tornare subito in camera da letto per riprendere il round interrotto quel mattino, Maria lo sorprese ancora una volta: nuovo bacio schiantalabbra, e balzo sul divano per la ripresa del match.


I giorni si susseguirono alla stessa maniera: di giorno, il sire doveva trascorrere lunghe giornate intessute di malumore mentre sua moglie, indossati mantello e corona, dalla sala del trono diramava ordini, legiferava, stabiliva, governava. La sera, Maria tornava da lui tutta allegra, e sempre d’umore molto, mooolto affettuoso. E mentre lui si sentiva stroncato dalla frenetica attività notturna che gli veniva imposta lei, piccola e fragile come appariva, dimostrava un’energia che aveva del prodigioso. Misteri della resistenza femminile…
Ci sono cose che un uomo non può sopportare; venir soppiantato nell’esercizio del potere, esser trasformato in marito-oggetto, venire comandato a bacchetta è già di per sé spiacevole; ma venir chiamato “miciottino” e “bambolottone” davanti ai propri generali, è davvero un po’ troppo.
Fu un Re Vega irriconoscibile, tremolante e con le lacrime a fior di pelle quello che si trascinò infine davanti ad Actarus: «Ti prego! Riprenditela!»
Il giovane guardò con stupore il sire che gli s’era avvinghiato alle ginocchia: «Un patto è un patto», rispose, col tono gentile ma fermo che avrebbe usato per dire “mi spiace, è scaduta la garanzia”.
«Ti prego, abbi pietà! Non puoi farmi questo! Non puoi…» strisciando a terra, Re Vega gli serrò maggiormente le gambe, implorò, pianse, supplicò senza più il minimo ritegno…


…Guardò le proprie dita: stavano schiantando il mouse, non la rotula di Duke Fleed.
Re Vega aprì gli occhi: doveva essersi assopito… era stato tutto un orribile incubo? Possibile…?
Si guardò rapidamente attorno: il suo studio privato, la sua scrivania, il suo computer… in testa aveva la corona, sulle spalle il mantello porpora... ma allora non era successo nulla! Non si era sposato, non esisteva una regina di Vega… non c’erano pupacchiotti e miciottoni!
Sospirò di sollievo; poi lo sguardo gli cadde sullo schermo del computer. Una mail…?
Improvvisamente ricordò: aveva chiuso gli occhi per un momento, prima di concentrarsi meglio su ciò che avrebbe scritto.
Lesse: “Cara Maria…”
Basta. La sua vena letteraria si era esaurita subito.
Mentre s’affrettava a cancellare quelle due compromettentissime parole, e ad eliminare l’indirizzo mail di Maria dal proprio database, Re Vega s’accorse che i bollori che gli avevano fatto frizzare il sangue come gassosa si erano miracolosamente dileguati.
Allungandosi compiaciuto contro lo schienale della poltrona, il sire si disse che per quella volta il popolo di Vega non avrebbe avuto una regina; ma almeno, avrebbe conservato vivo il proprio re.





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Un racconto per augurare a tutti buone vacanze... dedicato a Grande Blu, con grandissima stima.


IL BABY-SITTER


Da un vecchio diario di Sua Maestà Re Vega

Caro diario,
è doloroso ammetterlo per un sovrano, ma la realtà è purtroppo una: si può essere Imperatori di una galassia. Questo è innegabile.
Peccato che non si possa esserlo anche nella propria reggia… non finché c’è un’Imperatrice che ha la malaugurata idea di comandarti a bacchetta.
Adesso ti racconto un poco com’è andata oggi, perché ancora faccio fatica a riordinare le idee…


Palazzo Reale di Vega – Mezzogiorno

«Tu oggi dov’è che vai?», ululò Sua Maestà, che non era ben sicuro d’aver capito bene.
Dal basso del suo metro e sessanta, l’Imperatrice Telonna incenerì con una semplice occhiata i due metri e venti di marito: «Vado a trovare le mie amiche. Sono stata invitata a prendere un té dalla regina di Fleed…»
«Ma è nostra nemica!»
«…e ci troviamo con la regina di Moru…»
«Ma è un’altra nemica!»
Telonna batté a terra l’imperiale piedino: «Voialtri maschi non fate che combinar guai con quei vostri dannati caratteracci! Sempre pronti a dar battaglia a tutto e tutti! Se non ci fossimo noi donne a riparare i vostri misfatti…»
«A riparare…?», boccheggiò il Sire. «Telonna, sto per dichiarare guerra a quei due maledetti pianeti, e tu vuoi andare a scambiare pettegolezzi con le loro regine?»
«Il solito guerrafondaio!», sbottò l’Imperatrice, col tono di chi ne ha abbastanza di battaglie, testate nucleari, assalti, macelli e genocidi assortiti.
«Ma…»
«Adesso ascoltami!», esclamò lei, con il tono secco delle grandi occasioni; quello, per capirci, che infallibilmente richiamava all’ordine il suo consorte.
«Sìssignora», disse d’istinto lui, e poco mancò che scattasse sull’attenti. Telonna, pur minuta, bionda e dall’aspetto fragile, era dotata di una volontà adamantina, e Re Vega sapeva, per sofferta esperienza personale, che con sua moglie c’era ben poco da scherzare.
«Io starò via tutto il giorno, per cui dovrai occuparti tu di nostra figlia», continuò la signora.
«…?», fu tutto ciò che Re Vega riuscì ad esprimere.
«Nostra figlia. Rubina», lo informò premurosamente lei. «Yabarn, possibile che tu ti dimentichi persino d’avere una bambina?»
«Ma per piacere!», esclamò il sire. «Ovviamente, so di avere una figlia… hm, Rubina, già… quel che non capisco è perché in tua assenza debba occuparmene proprio io. Non c’è una baby-sitter, per questo?»
«La baby-sitter sta poco bene, le ho dato una settimana di malattia», rispose dolcemente la signora che con lui condivideva trono, corona eccetera.
«La governante, allora», insisté il sovrano.
«Sua madre è malata, per un po’ di tempo non verrà a palazzo», Telonna controllò rapidamente in uno specchio d’avere i capelli in ordine.
«…La prima cameriera…?»
Telonna si lisciò una piega del vestito e gli rivolse un sorriso smagliante: «È in ferie».
Re Vega sentì mancarsi il fiato: «Il maggiordomo?»
Sorriso più ampio: «Oggi è il suo giorno libero».
«La seconda cameriera?», ogni parola sembrava strozzare lo sventurato sire. «La sguattera? Il valletto? I camerieri di sala? I giardinieri, i…?»
«Non c’è nessuno» ulteriore esposizione di denti con sbrilluccichìi «In questo palazzo, oggi ci sarete solo tu e Rubina. Sarà la volta buona che ti occuperai tu di lei. Sei suo padre, e scommetto che non ti ricordi nemmeno di che colore ha gli occhi!»
Re Vega capì d’essere sul ciglio del burrone: «…Verdi…?»
«Azzurri!» La regina rivolse un’invocazione alle Celesti Sfere, perché le venisse concessa la capacità di portare pazienza e non trucidare quel genitore indegno. «Decisamente, è tempo che tu stia un poco con tua figlia. Vieni qui che ti faccio vedere…»
«Ma quanto starai via?», gemette Re Vega «Non dovrò mica darle da mangiare…?»
«Sì. E cambiarle il pannolino, portarla a spasso, farla giocare…»
«Mi rifiuto!» incrociò lo sguardo laser della moglie e deglutì, portando la voce dal ruggito dell’indipendenza al pigolio sottomesso: «Cioè, io non so nemmeno come fare… ma non deve poppare il latte? Voglio dire…»
«Rubina mangia le pappe da tre mesi» l’informò la consorte, la voce parecchi gradi sottozero. «Ha già pranzato, e ora sta facendo la nanna. Qui c’è la sua merenda nel contenitore termico. Qui c’è la sua cena. Qui ci sono vestitini di ricambio. Qui i pannolini. Qui hai una lista di impegni da rispettare. In questa reggia ci siete solo tu e lei, ricordatelo: se la bambina avrà a soffrire, sarà solo colpa tua. Buon pomeriggio» e infilata la porta, la regina uscì lasciando un attonito Re Vega a fissare costernato l’elenco che gli aveva cacciato in mano.
«Cosa, cosa…?» esclamò, angosciato, scorrendo la lista. «Ruttino… passeggiata… bagnetto? Cambio del pannolino??? Telonna!!!»
Ma lei se ne era ormai andata, lasciandolo solo in balìa d’una bimba di nove mesi.



Primo pomeriggio

Agghiacciato dal terrore, Re Vega fissava con occhio iniettato di sangue la culla dove sua figlia dormiva il sonno del giusto. Prima o poi la bambina si sarebbe svegliata, e allora... non voleva pensarci.
Fu un’eternità dopo, o almeno così parve a Re Vega che aveva trascorso il tempo guardandola come se fosse stata una bomba ad orologeria, che Rubina diede chiari segni di risveglio: si stiracchiò, aprì gli occhi e si guardò curiosamente attorno.
Vedere come prima cosa la faccia ingrugnita di Re Vega non è in genere il modo migliore di risvegliarsi; da quella donna forte che era, non solo la piccola non si mise a piangere, ma gli sorrise, persino.
“Giggle!”, esclamò gioiosamente, tendendogli le manine.
“Humpf, immagino che adesso avrai fame”, brontolò Re Vega, che consultata la lista aveva visto che dopo la nanna era contemplata la merenda.
Acchiappò in qualche modo la figlia e riuscì dopo qualche tentativo a piazzarla sul seggiolone.
Versare la pappa di frutta e biscotti in una ciotolina rossa a disegni fu facile; molto meno lo fu far mangiare la bambina. Rubina, per motivi suoi personali, non voleva saperne di collaborare. Suo padre le parlò con voce ragionevole, tentò di convincerla usando le sue parole più logiche e comprensibili.
Niente.
Alla fine, esasperato, il sire esclamò ciò che il suo cuore paterno gli dettava:
«Sono il tuo sovrano, e ti ORDINO di mangiare!»
Rubina guardò il padre, gli occhioni colmi di lacrime, e protese la boccuccia tremante in una smorfia piena di stoica sopportazione; fu proprio allora, in pieno dramma, che si udì il segnale sonoro che indicava l’arrivo di un visitatore. Forse era tornata la baby-sitter, o almeno la governante, la cameriera...? Re Vega volò letteralmente ad aprire. Mai come allora aveva tanto sperato di trovarsi davanti un essere di sesso femminile; gli crollò la mascella trovandosi al cospetto della fisionomia indubbiamente maschile di Gandal.
«Ah, sei tu», disse, con scarsissima buona grazia, da quel perfetto diplomatico che era; si ricordò poi che il suo comandante era provvisto di moglie, e si fece molto più cordiale: «Devo parlare con la tua signora».
Gandal fece una smorfia disgustata: «Maestà, è proprio necessario? Per una volta in cui sta tranquilla, senza seccare...»
«Ho un problema». Re Vega esitò un ultimo istante, poi esclamò, tutto d’un colpo: «Giurami che non ne parlerai con nessuno!»
«Sire, sapete che potete contare su di me!» Gandal stava cominciando a preoccuparsi sul serio: il suo sovrano sembrava davvero teso. Cos’era accaduto? Una nuova minaccia, una dichiarazione di guerra, l’annuncio di un’invasione...?
«Vieni con me», Sua Maestà gli fece cenno di seguirlo e lo pilotò in una stanzetta tutta tinte pastello; con un gesto drammatico, accennò alla bimba seduta sul seggiolone, la ciotola della pappa intatta posata davanti a lei: «Ecco!»
«Sarebbe questo il problema?», si stupì Gandal.
«Non vuole mangiare! Non vuole saperne, eppure deve avere fame, ormai l’orario è passato da un pezzo, e se Telonna... la regina, voglio dire, tornerà a casa e la troverà digiuna, io non so che mi... cioè, s’inquieterà molto. Sai come sono ansiose le mamme», aggiunse, con un tono molto falso. «Per questo pensavo che magari tua moglie, come donna...»
«Lasciamo perdere mia moglie», disse recisamente Gandal. «Più che darle la merenda, l’avvelenerebbe... beh, vediamo che si può fare». S’avvicinò a Rubina, che da quella meravigliosa bambina che era ancora continuava a trattenersi dal piangere, e con una voce flautata tutta di testa completamente diversa da quella che il sovrano ben conosceva, esclamò: «Ma chi è che non vuole la sua pappa, qui?»
Attonito, Re Vega non riuscì a spiccicare parola, mentre realizzava improvvisamente che il suo sottoposto, ferreo Comandante Supremo delle forze di Vega, aveva il dono tutto naturale di amare i bambini e farsi apprezzare da loro. Fu un attimo: Rubina fece sparire i lacrimoni, sorrise, batté le manine. Gandal immerse il cucchiaino nella pappa, l’offrì alla piccola che subito spalancò la bocca.
Pochi istanti dopo, Re Vega si godé lo spettacolo di sua figlia che mangiava allegramente ogni cosa, mentre Gandal le porgeva il cucchiaino facendo vari versi con la bocca (“Brrrrr... ecco il mostro che arriva... Fzzzzzzz... lo stormo di minidischi...”)
«Avete visto, Maestà? Ha finito tutto!», esclamò infine Gandal, depositando la ciotola vuota.
«Ah, beh, ma guarda», esclamò il sovrano, sbalordito. «Bisognava imboccarla! Averlo saputo...»
Gandal lo guardò come si guarda un perfetto deficiente; in quel momento, una piccola deflagrazione l’informò che la principessina aveva cominciato la sua digestione. Un’altra, di genere e provenienza diversa, segnalò invece che la manovra di scarico aveva avuto luogo. Con un gridolino deliziato, il Comandante Supremo di Vega la tolse dal seggiolone e controllò rapidamente lo stato del pannolino: «Oh, abbiamo bisogno di cambiarci, a quanto pare!»
«Giggle!», rispose Rubina, felice.
Un attimo dopo, un Gandal tutto trilli procedeva alla delicata operazione di scartamento-pulizia-nuovo incartamento della bimba. Re Vega, che aveva seguito il tutto con un misto di apprensione e sollievo d’averla scampata, si ritrovò in mano il pacchetto puzzolente da portare subito via, “sennò s’impesta la cameretta della piccola”.
Mentre uno schifatissimo sovrano andava a liberarsi dell’ingombro (“Ma sire, è tutta robina santa...” “Da come puzza, non si direbbe!”), Gandal decise che la piccola andava cambiata, visto che facendo merenda si era macchiata la tutina.
Così, dopo aver messo addosso a Rubina un delizioso vestitino rosa tutto pizzi (“Ma non sarà troppo frivolo?” “Ma no, Maestà!”), completato da un cappellino bianco ornato di nastri (“Me la prenderanno per un’effemminata!”), fu finalmente il momento di andare a spasso.
«Potremmo andare a vedere il nuovo mostro», propose subito Re Vega.
Rifiuto inorridito. Perché portare una bambina piccola in un posto simile?
«Allora, al centro di sperimentazione. Devono provare le nuove testate nucleari ad alto potenziale», concesse magnanimamente il sire. Cosa non si farebbe per i figli...!
Altro sguardo di compatimento di Gandal, mentre il sovrano si chiedeva nervosamente cos’aveva detto di sbagliato.
Così fu che pochi minuti dopo i due uomini e la bambina entravano nelle regie serre. Là, per volere della regina, venivano coltivate piante che, non essendo alimentari e non fornendo sostanze adatte per la medicina o per le armi di sterminio, il sovrano riteneva totalmente inutili. Fu così che i regi giardinieri poterono godersi lo spettacolo del loro imbronciato sovrano che spingeva il passeggino, mentre qualche passo avanti a lui Gandal teneva in braccio una festante Rubina, cui con grandi versi di meraviglia faceva osservare tutti i fiori presenti. Lui continuava a parlarle con la voce tutta cinguettii, lei lo guardava adorante: era indubbio che fosse nato un grande amore.
Alle loro spalle, il sovrano si faceva sempre più cupo: aveva molto apprezzato l’aiuto del suo sottoposto, naturalmente, ed era stato ben contento di evitarsi la pappa, il cambio del vestito e soprattutto quello del pannolino: però adesso, vedendo Rubina felice in braccio ad un altro, un estraneo se proprio vogliamo dirla tutta, lui si sentiva a dir poco seccato. La gelosia cominciava a rodergli fegato e pure cistifellea: quella era SUA figlia, che diamine!
Spingendo il passeggino, il sire non profferì’ più parola, mentre il suo malumore aumentava; fu così che, quando si decise che la passeggiata fosse durata abbastanza e che fosse ormai tempo di rientrare, il sire s’affrettò a congedare Gandal “per non approfittare troppo”. Il tentativo di protesta del Comandante (“Ma no, nessun disturbo”) venne troncato sul nascere; Gandal tentò un diverso approccio (“Ma siete sicuro di sapervela cavare?”), che venne prontamente dribblato (“Ma certo! Ormai ho visto come si fa! Che ci vuole?”).
Il Comandante dovette infine cedere, anche se a malincuore; cominciarono i saluti con la piccola, che il padre s’affrettò a troncare prima che si cadesse troppo nello strappalacrime. Finalmente Gandal se ne andò, e il sire si ritrovò solo con sua figlia.


Pomeriggio inoltrato

Un rapido esame della lista l’informò che era l’ora del bagnetto. Re Vega imprecò mentalmente: non aveva idea di come fare... ma che ci sarebbe voluto, in fondo?
Sorvoliamo sulla preparazione della vaschetta piena d’acqua, prima troppo fredda e poi decisamente calda (e infatti il sire, che se ne era rovesciata inavvertitamente una parte addosso, ne ricavò un’ustione alla mano).
In genere, non c’è bambino che una volta posto nella sua vaschetta non sciaguatti allegramente schizzando litri d’acqua ovunque per un raggio di tre metri circa: non Rubina, bimba angelica, che fece il suo bagnetto con la compostezza d’una vera principessa. Nonostante questo, alla fine dell’operazione nella vasca v’era appena un dito d’acqua, mentre il resto aveva inzuppato ogni cosa là attorno, Re Vega per primo.
Fradicio ma non domo, il sovrano continuò la sua opera: trasferì la bambina sul fasciatoio per cominciare l’opera di vestizione. Anche qui è doveroso non indugiare troppo su particolari penosi, per cui è bene riassumere: dopo aver in qualche modo infilato una tutina alla figlia, Re Vega si disse che magari prima avrebbe dovuto asciugarla, e non potendo fare di meglio usò una salvietta per stropicciarle almeno i capelli; solo allora realizzò d’aver dimenticato qualcosa di molto, molto importante – e lo comprese quando, presa in braccio la piccola, si sentì inzuppare da un liquido tiepido. Il pannolino, porc...!
Ripulitosi, il sire tolse i vestitini sporchi alla figlia e cominciò a combattere con l’odioso pannolino. Dopo due o tre tentativi, e dopo aver quasi strangolato Rubina (pannolino posizionato erroneamente), riuscì finalmente nella sua impresa. Nuovo tentativo di strangolamento nell’infilarle una tutina pulita.
Si era ormai fatta ora di cena: lette le istruzioni della moglie, il sire aprì il contenitore termico e versò la pappa in un piatto, e fin qui tutto bene. Il resto fu ben peggiore, perché per quanto Rubina, affamatissima, fosse più che disposta a collaborare il sire sembrava totalmente incapace di imboccarla correttamente. Alla fine, sudato, distrutto (lanciare testate nucleari era infinitamente più semplice, che diamine!), il sire osò anche lanciarsi in un’esibizione di versi (“Brrrrrummmm! Il bombardiere che lancia missili protonici...”). Il risultato fu ovviamente penoso, ma Rubina era troppo gentile per farlo rilevare al padre. Mangiò ogni cosa con buona grazia, ma rimase mezzo digiuna perché una buona metà della sua pappa era stata versata in terra o schizzata tutt’attorno. Un grumo particolarmente grosso stagnava nella barba violacea del padre.


Sera

Nonostante il piglio deciso sfoggiato quel giorno, la regina Telonna in realtà era in preda ad una forte inquietudine: il timore che il suo sciagurato consorte non si fosse occupato a dovere della bambina non le aveva dato tregua un solo istante. Per quanto si fosse più volte ripetuta tutte le ottime ragioni che l’avevano spinta ad obbligare il marito a fare finalmente il papà, il pensiero di cosa avrebbe trovato a casa non l’aveva abbandonata un istante. Rubina sarebbe stata affamata, svestita, sporca...? Addirittura, il disgraziato le avrebbe fatto del male, imbranato com’era?
Non c’era stato un attimo di respiro per la povera mamma.
Così quella sera la regina s’era precipitata a casa e, col fiato corto dall’apprensione, aveva puntato dritta verso la cameretta della figlia. A quell’ora, senz’altro Rubina stava dormendo.
La stanzetta versava nel caos: vestitini sporchi ovunque, pannolini sparpagliati per terra, lettino disfatto e vuoto. La regina guardò nel bagno: vaschetta con tracce di schiuma, litri e litri d’acqua ovunque, asciugamani fradici gettati qua e là.
Ormai terrorizzata, l’infelice madre passò nella camera dei giochi, e qui solo il suo perfetto aplomb le permise di non lanciare un ululato.
Giocattoli e libri illustrati giacevano dappertutto nel raggio di almeno quattro metri: praticamente, sugli scaffali non era rimasto più niente. Sembrava che nella stanza fosse esploso uno dei marchingegni di suo marito. Ma che aveva combinato, quello sciagurato di Yabarn...!
In un angolo, evidentemente stremato, giaceva appunto il disgraziato: era sporco, col mantello bagnato e pieno di macchie, un po’ di omogeneizzato gli faceva capolino da sopra un’orecchia. Seduto a terra e con le spalle appoggiate al muro, il sire russava sonoramente mentre Rubina gli sedeva in grembo con aria beata.
La piccola vide la madre e le sorrise, ma da quella brava bambina che era non emise nemmeno un “giggle” di benvenuto: il papà dormiva, poverino. Non bisognava disturbarlo.
Incredula, Telonna si fece avanti, guardò sua figlia: era vestita in modo approssimativo, aveva i capelli umidi, era sporca di pappe e, a giudicare dalla macchia umida che si stava allargando sotto di lei, e che inzuppava il mantello purpureo del padre, aveva il pannolino non posizionato correttamente. Sorrideva, felice.
Uno sguardo d’intesa da donna a donna intercorse tra madre e figlia; poi Rubina strinse a sé il suo orsacchiotto, si rannicchiò meglio tra le braccia del padre e sprofondò in un sonno beato.


Da un vecchio diario di Sua Maestà Re Vega

...e questo, caro diario, è quanto è successo oggi. Mi sento molto confuso: tra pappe, bagnetti e pannolini sporchi il tempo è a dir poco volato.

Telonna dice che era ora che io passassi un po’ di tempo con Rubina; boh, probabilmente ha ragione. In ogni caso, non mi sono annoiato. Non ne ho avuto il tempo.
Oggi comunque ho imparato che:
1.i bambini di nove mesi sono totalmente incapaci di mangiare da soli. Bisogna imboccarli;
2.immergere un pargolo in una vaschetta piena d’acqua fino all’orlo provoca l’immediata creazione di cascate;
3.prima di dichiarare veramente chiuso un pannolino, e quindi considerare il pupo a tenuta stagna, occorrono accurati controlli;
4.accudire un singolo bambino è infinitamente più stancante che ordinare un intero genocidio.



 
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view post Posted on 20/8/2010, 13:04     +1   -1
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Ho dei pensieri che non condivido!

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ci siamo persi un racconto nella vecchia sezione. :)



CITAZIONE (H. Aster @ 12/2/2008, 22:50)
Bene, San Valentino incombe, per cui parliamo di... ahem... diciamo amore, va'...

Il fatto è che in questo racconto due personaggi "si danno da fare". Titolo e sottotitolo non dovrebbero lasciare dubbi. Gli animi sensibili sono avvertiti.

Propongo una specie di quasi-sondaggio: prima di leggere, provate a pensare chi saranno le due parti in causa, e poi quando commentate diteci se avevate indovinato o meno.


PROPOSITO INDECENTE


– Per l’ultima volta, Duke Fleed: arrenditi, e consegnaci Goldrake! – tuonò Gandal, con la sicurezza del baro che sa d’avere non solo tutti gli assi nella manica, ma pure i re e le regine in tasca.
Attraverso lo schermo, Actarus guardò il suo nemico come se fosse stato un perfetto imbecille: – Tu vaneggi!
– Abbiamo qui qualcosa che certo t’interessa – Gandal afferrò Venusia per un braccio e la sospinse davanti allo schermo.
– Actarus, mi spiace! – singhiozzò lei.
Il giovane boccheggiò: avrebbe voluto dire qualcosa d’intelligente, ma in quel momento non sapeva nemmeno da dove cominciare. Venusia catturata da quei mostri…!
Gandal ghignò, pregustandosi il colpo ferale che stava per vibrare al suo odioso avversario: – Questa è la tua fidanzata, non è vero, Duke Fleed?
Fidanzata?, pensò Actarus mentre sentiva un nodo stringergli la strozza: – Beh… a dire il vero, non…
– Ti lascio immaginare cosa ho in mente per lei.
– Maledetto, vuoi ucciderla?
Sghignazzata più aperta: – Non esattamente.
– Non vuoi…? Ah, capisco. Allora, da quel mostro spietato che sei, vorrai torturarla…
– Non la torturerò. Non le torcerò nemmeno un capello. Sarebbe un peccato, una ragazza così carina.
Carina. Venusia drizzò la testa. Un apprezzamento che non aveva sentito spesso… e soprattutto, non da Actarus… C’era voluto un veghiano, per definirla carina!
– Niente tortura – continuò Gandal – Adesso io me la…
– Non ti ci provare!!! – lady Gandal sbucò fuori dal viso del consorte con la velocità e la precisione di un cucù svizzero – Lo so cos’hai in mente, sporcaccione!
– Ma…
– Niente “ma”! Sei un uomo sposato, ricordatelo!
– E chi se lo scorda…! – ringhiò lui.
– Ti ho sentito!!! Comunque, terrai le tue zozze zampacce lontano da quella ragazza, va bene? Guai a te se provi soltanto…
– Non hai capito niente! – la zittì Gandal, che sapeva anche imporsi, e soprattutto comprendeva quando era il caso di ripiegare – Ci penserà Hydargos.
L’interessato fece uno zompo: – Eh?
– Tu sei libero, non hai vincoli matrimoniali – anche un neonato avrebbe percepito l’invidia feroce che vibrava nella voce di Gandal – Quella è la fidanzata di Duke Fleed. Datti da fare. – si fece da parte lasciando il campo al suo vice. Maledizione! Avere la moglie sempre attorno, essere letteralmente impossibilitati ad avere la più piccola scappatella… Che vita asfissiante, la sua!
Hydargos recuperò frettolosamente la mascella che gli era crollata.
Lui avrebbe dovuto fare cosa?!
Ma come? Proprio lui, che con le donne era sempre stato d’una timidezza disastrosa?
Perché non gli avevano dato un compito più semplice… che so, radere al suolo una città, sterminare un popolo, far saltare un intero pianeta?


E va bene. Se ci si aspettava da lui che si comportasse come un bruto, benissimo, avrebbe obbedito. In fondo, si trattava pur sempre della fidanzata dell’odioso Duke Fleed.
Drizzò le spalle e mostrandosi molto più sicuro di quanto realmente non si sentisse si rivolse ad Actarus: – Adesso, Duke Fleed, lo sai cosa farò alla tua fidanzata? Eh? Lo sai? Me la sc…
– HYDARGOS! – ululò lady Gandal, che essendo una vera signora non sopportava rozze espressioni – Non essere volgare!
– Va bene, mia signora. Allora, me la porterò a let…
– Insomma! – strillò lei – Non occorre essere così espliciti! Un po’ di decenza, che diamine!
– D’accordo. Allora io… io la… io e lei… – annaspò penosamente: sapeva cosa dire, e sapeva anche quali termini, invero strettamente gergali, avrebbe usato per manifestare le proprie intenzioni; purtroppo non è facile annunciare i propri turpi propositi dovendo parlare forbito. Il ripiego che usò fu dunque discutibile, ma legittimo data la situazione: – Insomma, io le mancherò di rispetto. Ecco. – diede a lady Gandal un’occhiata “va bene così?” e lei annuì, compunta.
Actarus trasecolò: – Vuoi dire… tu oseresti…?
Hydargos prese fiato ed esclamò, tutto in un colpo: – Violenza sessuale!
Ecco. L’aveva detto. Occhieggiò in fretta lady Gandal, e vide che un certo pudibondo rossore le era apparso sulle guance; tuttavia la signora non protestò. Che diamine, quando ci vuole ci vuole.
– Non puoi… tu non oserai fare una cosa simile! – boccheggiò Actarus.
Non oserai…?
Hydargos drizzò subito la testa, ringalluzzito: – Stai dandomi un ordine?
Actarus corse subito ai ripari: – No, no… però… non puoi…
– Non posso? Perché, credi che non sarei capace di farlo? – sbottò Hydargos, che cominciava a sentirsi scaldare le orecchie.
Actarus strinse le labbra. Qualsiasi cosa dicesse, era evidente che non faceva altro che peggiorare la situazione. Il suo silenzio però risultò piuttosto irritante per Hydargos, che esplose in un minacciosissimo ultimatum: – Per l’ultima volta, Duke Fleed! Decidi: o ti arrendi e ci consegni Goldrake, o la tua amica verrà… – occhiata a lady Gandal – …hm, disonorata. Hai tempo fino a…
– No, Hydargos! Ho già preso la mia decisione!
Oh, Actarus!, pensò Venusia, sentendosi un canto sgorgarle nel cuore. Non sopporti l’idea che questi mostri mi brutalizzino! Adesso mi verrai a salvare, e…
– Perdonami, Venusia – disse Actarus.
Il canto s’interruppe con una stecca atroce. Lei ricadde dalle sue rosee nuvolette: – Eh…?
– Non posso consegnare Goldrake, è l’unica speranza di salvezza per la Terra. Cerca di capire!
Venusia ebbe l’impressione d’aver improvvisamente ricevuto sull’occipite una mazzata da vari quintali: – Ma… Actarus! – squittì – Questi… questi mostri… hanno detto che… che mi…
– Mi dispiace – ripeté Actarus.
Hydargos scambiò un’occhiata allibita con Gandal, prima di rifare la faccia feroce e rivolgersi ancora ad Actarus: – Forse non ci siamo spiegati bene – disse, con il tono che un insegnante può usare con il più zuccone della classe – Hai capito che cosa verrà fatto alla tua amichetta se non ti arrendi?
– Ho capito benissimo. Però la risposta è sempre no.
Altro scambio di sguardi stupefatti, ma stavolta tra Hydargos e Venusia, rimasta annichilita.
– Venusia sa che è giusto così – asserì Actarus, con la serafica calma di chi sa di non poter sbagliare – Non è vero, Venusia?
– Ah, sì? – esalò lei.
– È davvero giusto così? – le chiese conferma Hydargos, che cominciava a temere sul serio di doversi produrre in un’interpretazione di maschio brutale e violento.
Venusia non rispose, gli occhi fissi sull’incosciente che la guardava dallo schermo.
Tanti piccoli, sgradevoli avvenimenti le si affacciavano alla mente…
“In discoteca? Ma, Venusia… io detesto ballare!”
“Andare a bere qualcosa assieme? Ma, Venusia… io sono astemio!”
“Un picnic noi due soli? Ma, Venusia… lo sai che devo lavorare!”
“Al cinema? Ma, Venusia… finisce tardi, lo sai che io domani io devo alzarmi all’alba per spalare il letame!”
“Un weekend? Noi due? Ma… VENUSIA!!!”
Venusia strinse i denti. Di questo passo, se non cambia qualcosa, la mia vita sentimentale sarà ai livelli di quella d’una bimba dell’asilo!
Un tuffo al cuore: infatti era proprio così… tutti i suoi passati trascorsi si riducevano ad un bacetto che le aveva dato il suo fidanzatino Seiji, all’asilo appunto.
Bacetto, poi… non esageriamo. Una specie di timbratura boccuccia-boccuccia, ecco cos’era stato. Non c’era praticamente altro, se si esclude un corteggiamento da parte di Banta. Capirai…!
Già, a proposito… e la volta in cui aveva vanamente tentato di far ingelosire Actarus uscendo con un altro? Come aveva reagito, lui? “Divertitevi!”. Vigliacco.
(Vabbè, l’altro era Banta appunto. Purtroppo non c’era niente di meglio, sottomano…)
Se solo pensava a tutte le gite in moto che si facevano Alcor e Maria… quando non si dedicavano al cinema, alla discoteca o ad altre ben più piacevoli attività…
E lei?
Niente, a parte il bacetto ricevuto all’età di anni tre e mezzo.
Che tristezza…
Che cos’era stata la sua vita, fino ad allora? Occuparsi del fratellino e soprattutto del suo immaturo e turbolento genitore. Mungere vacche, nutrire galline, strigliare cavalli; poi, si capisce, c’era la casa, interamente sulle sue spalle. Tutto questo, quando non era occupata a rischiare la pelle contro i mostri di Vega.
Per cosa sopportava il peso d’una simile esistenza, poi?
Da Actarus, nemmeno un bacio, che dico? un buffetto sulla guancia, una cordiale stretta di mano, neppure un “dammi il cinque!”. Niente, niente, niente. E non c’era da sperare che la situazione cambiasse.
Non è giusto!!!
E ora… ora… Actarus non avrebbe mosso un dito per impedire che quello spregevole individuo, quell’Hydargos… non osava neanche pensarlo… che schifo…
Eppure, anche lei avrebbe tanto voluto avere qualcosa da confidare alle sue amiche – e da tacere a qualsiasi futuro eventuale partner… Ma su Actarus, era decisamente meglio non contare.
Guardò di sottecchi quel veghiano che stava per assumere un ruolo piuttosto importante nella sua vita sentimentale, e le parve di sentire le domande che le avrebbero fatto le amiche invidiose...
“Oh, Venusia, raccontaci… com’era, lui?”
“Beh, lui era…”

Doveva pure esserci persino in Hydargos qualcosa d’interessante… Inarcò le sopracciglia e lo scrutò meglio.
Era alto. Molto alto, anzi. Spalle larghe, sì. Longilineo e snello, il che non guastava.
“Ragazze, era alto, un bel fisico. Il genere magro e nervoso, capite”.
“Sì, ma di viso com’era?”

Il viso… santo cielo… aveva una faccia da far irrancidire il latte alle mucche, questo era innegabile…
“Non bello, capite. Un tipo. Ecco, un tipo.”
“Brutto?”
“Affascinante”.

Ecco. Questa è una definizione che fa sempre il suo effetto.
Figurati se mi perdo quest’occasione. Peggio per te, Actarus!


– E va bene, facciamola finita – sbottò Gandal – Hydargos, procedi!
Qui? Davanti a tutti?, pensò lui, agghiacciato.
– Andiamo via, Gandal – disse lady Gandal – Non vorrai che una signora come me assista ad un simile, disgustoso spettacolo.
– Oh, ci sentiamo delicate, oggi, vero? – rise lui.
– Insomma, puoi avere un po’ di rispetto per tua moglie!
– È ridicolo che sia proprio tu a parlare di rispetto…
– Mi farai impazzire!
– Ma va’, che pazza lo sei già…
Uscirono, sempre litigando.
Nella sala rimasero solo Hydargos e Venusia, con Actarus presente via etere.
Bene, pensò Hydargos, che si sentiva lo stomaco aggrovigliato su sé stesso, ci siamo.
Adesso, si capisce, erano arrivati al dunque. Non si poteva più tergiversare.
Hydargos prese un gran respiro.
Coraggio. Diamo il via ad una scena di efferata violenza sessuale…
Si voltò verso Venusia: si aspettava urla di raccapriccio, suppliche, tentativi di fuga, persino uno svenimento, magari… insomma, era pronto a tutto tranne che ritrovarsi abbrancato e sottoposto ad un bacio di notevole lunghezza ed intensità. Roba da record d’apnea. Quando si ritrovò libero, dovette riprendere fiato.
– Ma… signorina! – esclamò infine, giustamente sorpreso. E vagamente scandalizzato, pure.
– Che cosa hai intenzione di farmi, orribile individuo? – tubò Venusia.
– Ma come? – Hydargos era a dir poco sbalordito, non era abituato a suscitare un simile entusiasmo nelle donne – Non gridi, non piangi, non…?
Piangere? Che, sono scema?
– Venusia!!! – articolò Actarus, strabiliato (tanto per usare un eufemismo) – Ma… ma come puoi…?
– Oh, e piantala! – Venusia tese una mano verso un pannello di controllo e premette un pulsante, spegnendo lo schermo. Ecco. Sparito. Actarus, così bello, così irraggiungibile, così…
– …Bastardo! – ringhiò.
Hydargos trasalì: – Chi? Io?
– Ma no, caro! – Venusia con un balzo gli volò letteralmente in braccio, mandandogli la pressione verso pericolosissime vette – Sono tua! Accartocciami, spianami come una sfoglia, ciancicami, insomma, fa’ di me ciò che vuoi! Abusa di me! Sono la tua schiava!

Qualche minuto dopo, la vita erotico-sentimentale di entrambi ebbe una notevole, gradevolissima svolta.


– Non capisco – disse Actarus, trasecolato – Venusia sembrava in collera con me… che sia per qualcosa che le ho fatto?
– No – Maria gli parlò col tono che si usa generalmente con un bambino piuttosto duro di comprendonio – È per qualcosa che non le hai fatto.
– Non capisco – ripeté Actarus.
Maria alzò gli occhi al cielo e sospirò: – Lo so, caro, lo so…


Parecchio tempo più tardi, Venusia cominciò a rassettare la camera, che in seguito ai recenti avvenimenti versava in un disordine spaventoso.
Avrebbe anche dovuto passare la cera sul pavimento, affrettandosi visto che Hydargos le aveva chiesto di stirargli una montagna di mantelli e tute. Povero caro, si vedeva che non c’era una donna ad occuparsi di lui. Ah, doveva anche rammendargli i calzini e preparargli la cena.
Venusia sospirò. Tra tutti i meravigliosi ricordi del recente passato che le affollavano la mente, un pensiero molesto continuava però a martellarle nel cervello… i veghiani non dicono mai le cose tanto per dire. Mai. In nessuna occasione.
Forse non avrebbe dovuto parlare di “schiava”…

 
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view post Posted on 1/10/2010, 18:39     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Stavolta ho preparato qualcosa di completamente diverso.
L'idea era nata per il concorso di Mondoraro: il tema era l'incontro tra i manga giapponesi e la cultura italiana. Io scrivo il mio racconto, e poi scopro che il concorso è finito nel diementicatoio... e così ve lo ammollo, avvertendo da subito che non si tratta di uno zuccherino.
Se non riuscirete a venirne a capo, avete tutta la mia comprensione.^^

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L’INFERNO DI GO

Con un gesto secco, Luca chiuse il quaderno di algebra: aveva finito il compito – che le equazioni fossero giuste o meno era una faccenda di cui si sarebbe occupato l’indomani. Aveva anche studiato scienze (i foraminiferi, animali della cui esistenza gli importava quanto il bollettino meteorologico della Namibia) e filosofia (Aristotele, un tizio che a giudicare da quel che era arrivato ad architettare, aveva avuto troppo tempo libero). Le frasi di latino da tradurre non erano un problema: le avrebbe copiate l’indomani da Gianpiero. Essere in banco col secchione della classe da qualche vantaggio.
C’era solo una cosa che non aveva fatto: studiare la stramaledetta Divina Commedia.
Ma perché bisognava perdere tanto tempo per un poema (un poema!!!), scritto per di più in modo incomprensibile? Una vera pizza...
Guardò l’ora: le nove meno cinque. Si era rinchiuso in camera dicendo che avrebbe finito i compiti, e infatti aveva terminato le equazioni. L’onore era salvo.
Sentendosi perfettamente a posto con la coscienza, Luca estrasse da un cassetto un DVD: si trattava di vecchiumi, cartoni animati di epoche arcaiche che aveva scaricato da internet. Mamma e papà gliene avevano parlato parecchio; in genere, i suoi gusti non coincidevano affatto con quelli dei suoi genitori, ma questi cartoni gli erano parsi interessanti.
Scorse i titoli: Capitan Harlock, Jeeg, il Grande Mazinga, Goldrake, Heidi, Hello Spank, Lamù... roba degli anni ottanta. Alcuni, persino degli anni settanta! Giurassico, insomma. Da non credere che allora ci fosse la TV... in bianco e nero e senza telecomando, gli aveva spiegato sua madre. Bleah...
Aprì la porta della camera quel tanto che gli bastava per gridare ai genitori, seduti sul divano del salotto a guardarsi un film, che aveva finito i compiti e che sarebbe andato a letto presto, per cui buonanotte; quindi, dopo aver chiuso a chiave la porta e dopo aver inserito il disco nel lettore DVD, si sistemò nella sua poltroncina girevole ergonomica-anatomica-aerodinamica eccetera, indossò le cuffie per evitare che all’esterno si sentisse rumore e diede il via al primo cartone, che rispondeva al nome del Grande Mazinga.


Quella di Luca non fu una maratona: fu un’autentica scorpacciata. Aveva scaricato un po’ di puntate a casaccio, ripescando qualche titolo tra quelli più conosciuti: mai avrebbe pensato che simili, preistorici reperti avrebbero potuto emozionarlo a tal punto. Aveva seguito trepidante le epiche imprese di Goldrake e Jeeg, aveva riso con Spank e con Lamù e s’era emozionato con lady Oscar e Devilman. Adesso, a dire il vero, era incappato in un paio di puntate un po’ troppo sullo strappalacrime per i suoi gusti: Heidi ancora ancora era riuscito a digerirla, Candy era stata un po’ peggio, ma ora gli sembrava di essere piombato in piena melassa. Remi... roba da far venire il diabete solo a guardarlo.
Gettò un’occhiata colpevole alla Divina Commedia, abbandonata sulla scrivania: il ritratto di Dante in copertina sembrava guardarlo con aria di rimprovero.
Scrollò le spalle, tornando a dedicare la propria attenzione al misero orfanello sullo schermo: solo, infreddolito, perso in una foresta ricoperta dalla neve...
Luca sbadigliò, raggomitolandosi meglio nella poltroncina. Era piuttosto tardi, ma voleva vedere come sarebbe andata a finire la puntata... certo che i robot erano molto meglio... in particolare, il suo preferito era stato il Grande Mazinga. Quel Tetsuya era proprio un tipo tosto.
Perso nella foresta, Remi piangeva sconsolatamente, mentre attorno a lui gli alberi sembravano farsi sempre più fitti... più scuri... più fitti... più...


Fu così ch’io, Luca, precipitai... precipitai... e poi...

Nel mezzo di stucchevole puntata
mi ritrovai per una selva oscura,
ché stanza mia s’era eclissata.

Ah, qual timor provai, qual paura
d’esta selva selvaggia e cupa assai,
tutta arbori fitti, e sanza radura.

A sgomentar principiai: com’ero colaggiù giunto? In qual loco mi trovavo, e per lo qual motivo?
Fu allor che, sopracciglioso e ruvido assai, un uom mi si parò dinante, e con alate parole così presentossi:

«Nomato son Tetsuya, e son pilota;
or per l’inferno irem sanza timori,
acciocché ti sia infin cosa nota

esto poema, con ciò che vi dimori:
dimoni, mostri, bimbi inguaiati assai,
le donne, i cavalier, l’armi, gli amori!»

Ed io: «Signor, ma che mi dici mai?
Dante non lo scrisse, ma l’Ariosto!»
«Il so», disse «e lieto son, ché pure tu ‘l sai!

Orsù, sanza indugi partiam tosto;
scenderem ne lo profondo inferno
acciocchè vediam ciò che vi è posto».

Incamminossi lo buon duca mio, e io ratto gli fui secondo; uscimmo da li tristi arbori, e scendemmo un erto sentiero, che nostri passi condusse ad alta, immensa porta ne la dura pietra scolpita. Sopra tal porta, mirai alcune, oscure parole:

Se maturi, savi apparir voi bramate
volgete altrove vostro passo: di saggezza
lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate.

«Maestro mio, sembra poco prudente entrar in tal infernal loco...», cominciai, e già li piedi miei volgevansi ver la selva; mi trattenne lo buon pilota, e con alate parole conforto diede al vacillante animo mio.
«Là siamo diretti, e là giunger dobbiamo. Fa’ dunque cor, e principiam lo nostro fatale andare».
“Fatale andare” parvemi termine sinistro assai, e ratta la man mia levossi, il pugno chiuso e due dita protese in gesto di scongiuro; spazientissi lo buon maestro, balenar gli occhi suoi, qualche parola, inver poco alata, profferì dalle sue labbra. Ammutolìi, e mi disposi seguirlo sanza più protesta alcuna.
Superammo la trista porta: desolato paesaggio, cupo e roccioso, si presentò agli attoniti occhi miei.
In quella, nell’oscuro cielo scese in ratto volo una criatura come mai li occhi miei avevan visto.
«Mira, lassù, quell’alato che ver noi svolazza», indicommi lo duca mio.
«Ben lo vedo, maestro», risposi, «Ma non mi è chiaro di qual natura ei sia, se homo o dimonio: parvemi entrambi, poiché forma humana presenta, ma lo corpo suo è del color de li ramarri…»
«Egli è entrambi, giustamente dicesti», disse benigno il gentil pilota. «Homo e dimonio in lui spartiscono il luogo, ed ei Devilman è nomato».
In picchiata volò l’infernal creatura, proprio ver noi puntando. Mirocci il dimonio con l’occhi suoi di bragia, e tosto profferì minacciose parole.

«Guai a voi, anime prave!»
principiò lo dimon a gridare;
e lo duca mio rispose, grave:

«Dimon, non ci scocciare!
Luca puote andar dove vuole,
oggi, e tu più non fiatare!»

I girone: eroi

Lasciato lo dimon alle nostre spalle, scendemmo nello primo girone infernal, che gli eroi raccoglie.
Vidi il prence dal ceruleo sguardo assassino, che infinite pulzelle innamora. A lato, stavasi colui che con molti nomi è noto, Koji, e poi il forte Hiroshi. Remoto e solitario, Harlock il pirata mirava lontani orizzonti. Altri trovavansi più lontani, e lo buon duca mio indicolli: Haran Banjo, poi li tre piloti che il Getter robot si spartiro, e infine i quattro giovani che il poter Y condividono.
«O tu che vai tra la perduta gente», iniziò Koji, a me rivolto, «ti è noto chi sia colui che ti conduce?»
Ed io: «Egli è lo duce mio, esperto e saggio quanto poc’altri».
Scrosciar di riso eco fe’ alle parole mie. Unico restato serio, Actarus mirò con stupor la guida mia, e favellò cortese: «Dinne, Tetsuya, per qual motivo proprio tu posto fosti a far da guida a costui?»
«Il motivo è presto detto», così Koji s’interpose. «Poffarre, non vi son forse note le doti sue? La pazienza, lo buon carattere, la gentilezza?»
E il forte Hiroshi così concluse: «Si sa: tanto gentile e tanto onesto pare…»
Balenaro gli sguardi di Tetsuya, e le risa tosto cessaro.
«Vi basti saper questo», sclamò il gentil pilota (invero, ora gentil non troppo), «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole; e più non dimandate».
Attonito stupor accolse tai detti.
«Chieggo perdonanza», s’intromise lo pirata Harlock, «Le tue parole paion oscure assai».
«Intendo che tutto avvenne per ordini superiori di chi può comandare» e tosto Tetsuya mi sospinse avanti, verso l’uscita.
«Ordini superiori?», ripeté Koji.
«Dell’autore», e voltate le spalle procedemmo verso novo girone, da cui s’udian dolenti note.

Edited by H. Aster - 12/11/2016, 22:13
 
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Seconda parte. La terza ed ultima a breve.


II girone: Animali

Non eravamo neancora scesi dal giron primaio giù nel secondo, che lo maestro mio arrestossi: oltre, strane, insolite e variopinte creature d’ogni genere saltellavano ovunque, emettendo suoni e voci.
«Maestro mio», cominciai, «Puoi dirmi quali criature son quelle ch’io vedo? Animali paionmi; eppur, parole sento uscir dalle fauci loro».
«Non tutti parlanti sono», spiegò lo paziente duca mio, «e quei pochi a favellar atti, nulla dicon d’assennato e savio. Mira il gatto tondo e turchino: Doraemon è nomato. Là vedi la nera, ciarliera cornacchia di Boss compagna. O peggio, fissa lo sguardo su Spank, cane dalla vasta bocca sempr’aperta, e non sperar che voci di saggezza giungan da loro».

«Mira Fiocco di Neve, di Heidi amica.
Con sua gran bocca Spank caninamente latra.
Più in là, colui che dice sempre “pica”,

Tascabil mostro color giallo anàtra.
Pikachu è nomato, e con sua coda
foco sprizza, e i nemici squatra».

Tacque lo buon maestro mio, e perplesso io così a lui mi rivolsi:
«Maestro, perdona l’ardir, ma… “Squatra”? E poi… “anàtra”?»
«Licenze poetiche», fe’ lui, serafico.
Licenze…? Io molto avrei commentar voluto; ma in quella, il giallo mostro piccin si fece avante, puntando dritto ver noi ed arrestando a breve distanza. Grazioso parvemi, per cui innanzi mi feci. Lieto in volto, e con parole gentili a lui così il parlar rivolsi:

«O animal grazioso e benigno…»
E lui: «Animal, sarà tua mamma!»
«Così ti dissi», spiegai, con un ghigno,

«in quanto ANIME, disegnato dramma,
animata imago…» e’l gialletto:
«Animal dicesti; or godi mia fiamma».

La coda puntommi verso il petto;
lo duca mio calciò con gran premura
e’l deretan colse del tappetto.

Sprizzò foco, tal creatura:
il Prence colse al fondo schiena.
Ah, quanto a dir qual era è cosa dura!

Mi voltai verso il passato giron, e mirai l’infelice Actarus correr via, le terga infocate; ratti come sol uom, Koji e Hiroshi gli furo da presso, gli prestaro soccorso. Calmossi il misero, cessò ‘l suo ululato amaro.
Più in là, dolorante nell’istesso loco, Pikachu brontolava sanza interruzion veruna.
«Alle terga colpisti, alle terga fosti colpito: mirabil esempio di contrappasso», gli disse Tetsuya.
Incomprensibil profluvio provenne dall’inferocito animal; ed io: «Maestro mio, ma che vuol dir simil parlare? Par ch’ei sempre ripeta “pica pica” , e sanza cessar mai…»
«Così è, infatti: loquela infernal che mai non resta», rispose lo buon maestro mio. «Or, non ti curar di lui, ma guarda e passa».


III girone: robot e astronavi

Oltre scendemmo, giungendo così in novello, oscuro loco.
«Maestro», cominciai, «quali esseri trovansi in codesto girone?»
«Laggiù puoi mirarli», rispose Tetsuya.
Guardai: in fronte a noi, immani sagome svettavan contro l’oscuro cielo. Giganti mi parvero, mostruosi esseri difformi e smisurati; pure, immobili restavano, siccome statue.
«Essi son color grazie ai quali la Terra fu salva», disse reverente lo maestro mio. «La forza lor fu usbergo per l’umanità, la possanza lor fu difesa dagli invasori alieni».
«Maestro mio, ti piaccia dirmi il nome di quei potenti», diss’io. «Chi è quel forte, grosso mostro innanzi lor? Unico tra essi, che eretti stanno immoti, ei giace al suol, come dire... sdraiato...»
«Puoi dir “spaparanzato”», disse Tetsuya, e la sua voce fu simile a ringhio. «Quello è Boss Robot; e di lui parlando, dimentica quanto dissi in fatto di forza e di possanza, che proprio non è il caso».
«Udii quanto dicesti!», gridò una voce; dalla bocca del robot uscì nerboruto un uom, che vociando venne ver noi.
«Boss, pilota del robot», disse laconico Tetsuya.
«Tetsuya ingrato», sclamò Boss «ti dimentichi forse quante volte lo robot mio salvò in battaglia te e la compagna tua?»
«Non dimentico», rispose lo buon maestro, «e ricordo pure quante volte fui io a salvar te, che son ben maggiori».
Ammutolì Boss, e mugugnando allontanò li passi suoi; e noi procedemmo oltre, verso li giganti ferrigni e immoti.

Goldrake vidi, e poi Mazinga
(lo Zeta e il Grande), Jeeg con loro,
e innanzi lor sedeva la raminga

di Mazon reina, a capo di coloro
che l’universo intero traversaro
per sulla Terra trovar ristoro.

Raflesia si noma, e ‘l suo avversaro
è Harlock, spazial pirata;
in duello mortal ei s’affrontaro.

Mirai la bellissima sovrana, che silenziosa sedeva sul suo trono, le spalle voltando ai possenti ferrigni giganti; in quella, una nave levossi oltre l’orizzonte, volando ver noi.
Si riscosse la reina, volgendo il pallido volto verso la nave; una mano levò contro essa, e la sua voce echeggiò, cupa e funesta:

«Ahi, vile Alkadia di dolore ostello,
nave tormento de la razza mia,
che portasti l’uom che fu di noi flagello!»

Alzossi sconsolata Raflesia la reina, muovendo lo pié verso lo successivo giron, là dove trovavansi l’altre eroine.


IV girone: eroine

Seguimmo Raflesia,di Mazon la reina, scendendo così nello giron che le eroine rinserra. Con gran maraviglia attorno mi guardai, mentre lo buon maestro mio m’indicava una ad una le gentili le cui vicende erano state narrate con li animati disegni.
«Laggiù», disse lo buon Tetsuya, «vedi Jenny, colei che con grande abilitate giocò la pallacorda...»
«Tennis», azzardai; subito, balenar gli occhi de lo maestro mio.
«Possibile ti par che ne la loquela dantesca possa entrare lo vocabolo “tennis”?», osservò ei.
«Pallacorda», m’affrettai a dir.
Rasserenossi lo maestro mio, che così riprese: «Mira poi Oscar la guerriera: donna, cresciuta come uom, criatura leggiadra ma problematica assai...»
«Problemi d’identità sessuale?», azzardai io; sbuffò come mantice lo buon maestro mio.
«Dantesca loquela», ripeté. «Cessa lo tuo rozzo parlar, ascolta ciò ch’io dico e comprendi quel che si nasconde sotto il velame de li versi strani!»
«Maestro», diss’io tanto per mutar argomento, ché li discorsi spinosetti assai s’eran fatti, «chi son quelle due ch’io miro? Assieme sempre sono, eppur par che mal si sopportin l’una e l’altra».
«Le compagne del forte Haran tu mirando stai», rispose Tetsuya. «La prima, Reika, dietro viso gentil cela mente acuta, volontà forte e cuore saldo...»
«E l’altra? Parmi invero appetitosa... voglio dire, con prorompenti doti... insomma, una fanciulla assennata», conclusi frettoloso.
«Celestial bellezza ella possiede, e infatti Beauty ell’è nomata», rispose Tetsuya, «Ma qui finiscon le doti sue, ché assolutamente nulla alberga ne lo cranio suo».
Riportai l’occhi miei a consuete dimensioni, mentre lo maestro mio dié di gomito, da parte opposta indicando:
«Laggiù mira quell’alata fanciulla, di liopardo vestita», disse lo maestro mio. «Lamù è nomata».
«Mio buon duca, parvemi leggiadra invero», cominciai, fissandone il bel viso, le graziose membra, il prosperoso pet… hm, i grandi occhi.
«Invero, graziosa essa è molto», rispose Tetsuya gentil, «ma anche molesta e noiosa assai, allo sdilinquimento pronta e dedita al perenne sbaciucchìo».
In quella, la mirabil guardommi con gran maraviglia: un grido alzò, tendendomi le braccia, e ver me ratta mosse qual colomba dal disìo chiamata.

«Alfin ti miro, o tesoruccio mio!»,
gridommi, il viso a me rivolto.
«Cessa infin tuo perpetuo pigolio,

donna baciante, appiccicosa molto!»
(così s’espresse lo nobile maestro)
«Proseguir ei dée, non daratti ascolto!»

Scornata, dileguossi la gentil donzella; di sollievo respirai, ché già m’ero visto sua preda.
S’allontanò lo maestro mio, e ratto gli tenni dietro.
 
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Ed ecco la conclusione.

I commenti, come sempre, per favore a questo link: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=510#lastpost



V girone: cattivi

Dal quinto giron allor io discesi
Nel sesto, che i cattivi inserra;
E fui così tra color che son sospesi.

Tenuti pei pié, alti da terra
vidi Vega il Grande e ‘l Dottor
Inferno, che all’uom fé guerra,

e del Drago l’Imperator,
tutti veementi ed irati assai,
sì che udiasi gran clamor.

«Son color che distruggere volean la Terra», spiegommi benigno Tetsuya. «Sempre maltrattavan gl’infelici sottoposti loro; or pagan de le malefatte il fio».
In quella vidi giungere Hydargos e lo Barone Ashura: sempre disprezzati e derisi, ora tormentavan li aguzzini loro. Sotto l’occhi serafici dei lor più fortunati colleghi, Gandal, Zuril, Yanus la marchesa e lo Nero Generale, entrambi impugnaro sferze sibilanti.
«Pronto?», chiese Hydargos.
«Noi siamo pronti!», confermò lo barone.
«Cani! Non oserete!», strillò lo infernal Dottor.
«Hydargos, sei lo solito imbecille!», aggiunse il Sire.
Le sferze colpiro, e ben diverso fu lo canto dei due condannati.
In quella, ratta la reina Himika appropinquossi all’Imperator del Drago, che sdegnoso pendea pei piè.
«Volesti sedere sullo trono mio?», disse lei, la voce mielosa. «Ebben vediamo ora se ancora bramerai sederti!». Lesta, la reina brandì lo scettro suo, che di bipenne avea la forma; un colpo netto, e dritto l’imperial deretan colse. Barrì il condannato, mentre alto dai presenti levavasi un applauso.
Dall’orror sussultai, e ratto lo buon maestro mio mi condusse verso novel giron, là dove allignano li melensi fanciulli di melense historie.


VI girone: bambini

Tra li orrendi orror fin allora incontrati, nulla parvemi peggio di ciò che vidi nello sesto giron.
Verde smeraldin, di fiori costellato, stendeasi un prato; su esso, aprivasi un cielo blu, di bianche nubi cosparso. Caldo e giallo, un gran sole illuminava il tutto. Lo paesaggio talmente bucolico apparia, ché tosto le budelle mi si torsero in spasmo di colica.
«Ciò avvien per lo eccesso di zuccaro, che dolerti fa le viscere», spiegommi lo buon maestro. «Natural conseguenza del veder cotali fantolini, ché la sdolcinatezza lor fa ammalar l’omo normale».
«Maestro mio», rantolai, «già molte cose io vidi costaggiù, ma mai nulla che paragonar si possa a simili, repellenti fanciulli...»
«Scendendo ne lo inferno, ne scopriam gli orrori», rispose Tetsuya. «Ora, fa’ cor e mira laggiù: sul prato, vedi Heidi saltellar giuliva. A lato, osserva ‘l tenace Marco, che l’Appennino lasciò per cercar la genitrice, che invan sull’Ande rifugiata s’era: misera madre, che non tenne conto della dura cervice del figliol suo! Oltre, vedi Anna dalle rosse trecce, e Charlotte leziosa; a parte, mira lo stucchevol lacrimevole Remi, al lagno e al sospir sempre pronto».
«Vedo ‘l funesto infante», risposi. «Ben lo conosco, ché proprio lui guardando, m’abbioccai...»
«L’omo non pole Remi vedere sanza lo fio pagare», spiegommi grave lo buon mio duca. «Credi tu forse che esso sia quanto di peggio esister possa?»
«Invero sì», risposi pronto. «Noioso parmi, e sdolcinato assai».
«Lo peggio esiste, fatti cor» Tetsuya additò infantil figura. Crin d’oro inanellato, grandi occhi turchini: angelica beltà parea, e così dissi.
«Non t’inganni la leggiadria sua», rispose severo lo maestro mio. «Gran flagello essa rimane: imbranata e stucchevol assai, nefasta pei fidanzati suoi. Candy è nomata; la bionda chioma cela gallinaceo cerebro, la voce dolce sciocchezze su sciocchezze ti rifiata».
Proprio allor appropinquossi la donzella, e con parole di senso prive cominciò cianciar sanza posa:

«Papè Satan, papè Satan Aleppe!»
ciangottò Candy con la voce lagna;
e Tetsuya gentil, che già ne avea zeppe

l’ore: «Bimba, cessa tua piagna!
Fatta non fosti a parlar come pupi
ma a iellar l’altrui cuticagna».

Tacque la fanciulla, ma non a lungo la cosa durò: ché, volendoci dimostrar lo senno suo, cominciò a parlar ancora: «Amor, che ne la mente mi ragiona...»
«Ragionar?» sbottò Tetsuya. «Con la mente tua? Questa è fantascienza invero».
E la donzella, pesta ma non doma: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona...»
«Che vuol dir ciò?», esclamai.
Candy ristette, ammutolì: rispondermi avrebbe voluto, ma non poté farlo, ché tal ragionamento era troppo per le meningi sue.
Sospirai ed andai oltre, lo mio maestro seguendo ne lo profondo più profondo, ove attendevan altri orrori.


VII girone: Go Nagai e le arpie

Glacial dimora s’aperse innanzi a nostri passi; là, sulle nevi, ben accomodato giaceva lo grande maestro Go Nagai, che a masticar intento parea, tal che ver noi né sguardo né verbo ei rivolse.
Lento m’avvicinai, e vidi che ei proprio mangiando stava: mentre qualcosa masticava, altre due cose ne li pugni stringea, e a volte sputava quel ch’avea in bocca e tosto sostituivalo con altro che in man serrava. Il tutto proseguiva senza sosta, e io molto mi maravigliai: sì affamato ei era? E cos’era ciò ch’ei sgranocchiava senza posa?
Ancor m’avvicinai, e meglio così osservar potei.
Tre criature eran ciò che da pasto al maestro fungean: uno appariva in forma di topo, un secondo di papero avea l’aspetto e il terzo cane scuro somigliava.
«Criature estranee, da la concorrenza create», spiegò lo buon maestro. «Non t’impietosisca sorte lor, ch’essi gran fama ebbero, e tutto a questo mondo si paga. Per questo or sbocconcellati son qual ripieno panino».
Tacqui, fissando lo maestro Nagai in attesa d’un cenno, un motto... ma ei continuò lo lavorio suo, nulla mi disse.

La bocca non levò dal fiero pasto;
Primo, Pippo masticò, poi Paperino
addentò; come ‘l papero fu guasto

con gran lena azzannò Topolino.
Sgranocchiollo con indomito vigor,
e sempre ei rimase a capo chino.

«Oltre andiam, che giunti siamo al fin de lo fatal andare», disse Tetsuya gentil. «Ei non risponderatti, che troppo affamato ei pare».
«Più che il parlar, qui può ‘l digiuno», osservai; ma tosto tacqui, che mutato ancor una volta il paesaggio s’era.
Dopo lo stucchevol praticello vedre smeraldino, innanzi a noi innalzavansi contorti arbori. Orridi apparivano, ma non torsero le viscere mie come poc’anzi avean fatto cielo, fiorellini e nuvolette.
«Le arpie», disse Tetsuya.
Guardai: appollaiate su quegli orridi alberi, Jun, Sayaka, Miwa, Maria, Venusia… tanto atroci non mi parvero, per lo qual motivo mi rivolsi allo duca mio: «Maestro, arpie tanto non mi paiono, bensì fanciulle, e formose assai…»
«Fidati dello mio dire», lo buon maestro mio così mi rispose: «Arpie son nomate non per lo lor aspetto, leggiadro invero, ma per lo animo tristo e rio».
Sì belle creature tanto malvagie? Impossibile parvemi, e feci per manifestare lo dubbio mio; in quella, dagli arbori alto levossi uno strillo, cui un secondo rispose:
«Uno masculo fra noi!»
«Sorelle, cacciamo l’importuno!»
Fu un istante: le gentili su me piombarono, percuotendomi il capo, il groppone. Lor mani delicate armi letali si rivelarono; invan lo mio buon maestro tentò loro cacciarle, e io caddi… caddi… precipitevolissimevolmente.


Aprì gli occhi, guardandosi attorno: il tappeto di camera sua, la sua poltrona… il letto, gli scaffali colmi di libri… la TV, ormai spenta dopo essere arrivata alla conclusione del DVD. Doveva essersi addormentato davanti allo schermo ed era piombato sul pavimento, battendo la testa. Remi può fare brutti scherzi, niente da dire.
Però, che sogno incredibile!
Guardò l’ora: le due meno un quarto. E domani doveva alzarsi presto, affrontare la prof e soprattutto conquistarsi l’inevitabile quattro! Fortuna che mamma e papà dormivano da un pezzo e non s’erano accorti di nulla, altrimenti sai quanto avrebbero rotto…!
Mentre s’infilava rapidamente nel letto, dandosi un’amorevole tastatina al bernoccolo che stava spuntandogli sulla fronte, gli parve d’udire un’ultima eco del sogno che ancora non l’aveva abbandonato…

Sul capo mi colpiro, quelle belle;
io caddi come corpo morto cade
e fu così che infin potei veder le stelle.





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Finalmente ce l'ho fatta, ho finito il racconto (leggi: malloppone) su Kein, di cui qui sotto vi posto il prologo e il primo capitolo.

Ma... c'è un ma: per contenuti e temi trattati, è una FF decisamente più "adulta" di quel che generalmente viene letto su queste pagine. Ho cercato di tenere la mano il più possibile leggera, ma la storia è quel che è.
Mi sento perciò in dovere di avvertire che in particolar modo il primo capitolo, gli altri sono più "tranquilli", può urtare la sensibilità di qualcuno. Se lo desiderate, potete saltare questo primo capitolo, di cui metto sotto spoiler il riassunto, e leggere i successivi.
A tutti, buona lettura.


Prologo: Zuril osserva la superficie di Fleed, devastato dal bombardamento al vegatron, e si dice che distruggere un simile pianeta sia stato uno spreco imperdonabile.

Capitolo 1: Nel corso dell'invasione di Fleed, i soldati devastano la casa dell'undicenne Kein e gli uccidono il padre. La madre viene violentata da un gruppo di soldati proprio sotto agli occhi del figlio, che a sua volta viene brutalizzato. Il ragazzo viene poi gettato in un magazzino assieme ad altri ragazzini, tutti sofferenti quanto lui. Dopo alcuni giorni di prigionia da incubo, in cui Kein ha tentato inutilmente di soccorrere una bambina in stato catatonico per lo shock, i ragazzi vengono fatti uscire dalla prigione per venir trasferiti su un'astronave di Vega. Kein ha un'idea fissa: scappare. La bambina e altri piccoli troppo malridotti per venire usati come schiavi vengono uccisi dai soldati.



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A PICCOLI PASSI

Prologo

Idiozia pura, si disse Zuril, l’unico occhio fisso sull’enorme immagine che torreggiava sopra di lui.
Sul megaschermo, il pianeta Fleed appariva avvolto da una densa coltre di nuvole d’un malsano giallastro: il bombardamento a tappeto a suon di ordigni al vegatron aveva compiuto la sua opera nefasta. Fleed era un mondo morto.
Zuril serrò le mascelle, stringendo convulsamente i pugni: mesi trascorsi nel vano tentativo di far ragionare Sua Maestà, di convincerlo a conquistare quel mondo fertile senza distruggerlo... infinite ore di lavoro per progettare un attacco che ne avrebbe eliminato la popolazione senza danneggiarne il delicato ecosistema... e poi tutto il tempo trascorso a raccogliere il materiale che suffragava la sua tesi circa il disastro ecologico che incombeva sul pianeta Vega. Da anni si era sforzato di chiedere la riduzione dell’uso del vegatron, così potente, così radioattivo... non era stato ascoltato, anzi, era stato persino deriso. “Zuril, tu e le tue idee ecologiste! Tu non capisci il progresso, la crescita economica...”
Per anni era stato trattato come un profeta di sventura da far tacere; ora, lui sapeva che presto, molto presto Vega avrebbe collassato, stroncato dallo sfruttamento eccessivo. Avere la possibilità di conquistare un mondo fertile ed incontaminato gli era parsa una sorta di ancora di salvezza, e l’aveva fatto presente al sire.
Aveva persino tentato di tirare dalla propria parte il ministro della difesa, Dantus: tra loro non erano mai intercorsi buoni rapporti, ma Zuril aveva sperato che gli interessi comuni avrebbero avuto la meglio sulle loro divergenze. Dantus, per quanto detestabile, non era un imbecille, doveva immaginarsi anche lui che un disastro incombeva sul loro pianeta; e infatti, pur a denti stretti Dantus aveva ammesso di temere qualcosa di simile, ed aveva accettato di parlarne con lui al sovrano.
Disgraziatamente, conquistare Fleed senza danneggiarlo avrebbe richiesto molto tempo; troppo secondo Sua Maestà, che aveva fretta di sterminare gli odiosi fleediani ed aggiungere la conquista di quel pianeta all’elenco dei suoi successi. In questo aveva avuto l’entusiastico sostegno del generale Barendos, comandante in capo delle forze d’invasione del pianeta Fleed. Barendos non era certo uomo da porsi troppi problemi per il futuro: a suo parere i timori di Zuril erano solo teoria campata in aria. Quel che contava veramente era conquistare, dare una prova di forza, annientare totalmente il nemico.
Vista la mala parata, Dantus s’era ben guardato dall’appoggiare Zuril, che si era ritrovato da solo a tentar di convincere Re Vega... un’impresa disperata fin dall’inizio. Il sire non era certo un uomo ragionevole.
Le ragioni della vanità avevano avuto la meglio sul buon senso, e Fleed era stato inesorabilmente distrutto.
Zuril girò di scatto le spalle allo schermo e si allontanò senza voltarsi indietro, il viso fosco.
Un errore enorme, si disse. So già che lo pagheremo caro. Molto caro.


1. La fine di un mondo


Dolore, dolore, dolore.
In quel momento sembrava non potesse esistere altro.
Non avrebbe voluto ripensare a quel che era accaduto, – quando? Secoli prima, o solo pochi giorni? – ma non poteva impedirselo.
Ancora, come in un incubo spaventoso da cui non è possibile risvegliarsi, ripercorse quel che gli era successo negli ultimi tempi… e per l’ennesima volta, rivide la sua vita sconvolta, distrutta. Niente sarebbe mai più potuto essere come prima.


Venne trascinato nel salone e scaraventato in avanti; Kein s’insaccò contro il divano e scivolò sul pavimento, senza fiato.
Il ragazzo sbarrò gli occhi, fissando un qualcosa gettato in un angolo: un mucchio di stracci, sangue… una mano…
Con orrore, si rese conto che quelli che aveva preso per stracci assomigliavano fin troppo ai vestiti che quel mattino aveva visto addosso a suo padre… ma allora…?
Un grido lo strappò da quella mostruosità, gettandolo in un orrore anche peggiore.
Si girò a guardare: un gruppo di soldati che trascinava sua madre.
Kein aveva sempre visto la mamma in perfetto ordine, elegante, mai un capello fuori di posto: quella creatura scarmigliata e dagli abiti stracciati non poteva essere lei! E cosa volevano quei mostri che la circondavano, e che ridevano, ridevano… Voci volgari, che parlavano in un modo osceno che il ragazzo non aveva mai udito prima d’allora.
«…Abbiamo tutto il tempo che vogliamo!»
«Allora possiamo spassarcela!»
«Forza! Chi è il primo?»
Incredulo, Kein vide sua madre venire gettata a terra. I suoi abiti furono strappati, uno di quei mostri si gettò su di lei mentre gli altri li attorniavano, ridendo ed applaudendo. Lei si morse le labbra per non urlare, gli occhi persi in quelli inorriditi del figlio; e mentre Kein si chiedeva disperatamente che stava succedendo, che cosa quegli assassini stessero facendo alla sua mamma, una mano d’acciaio l’afferrò per il collo, lo sollevò da terra gettandolo contro il divano. Kein udì sua madre urlare, guardando qualcosa alle sue spalle che lui non poteva vedere; sentì un corpo gravare su di lui, un colpo forte alla testa, e per un istante fu tutto oscuro. Poi fu un dolore orribile, impensabile, a richiamarlo dalle tenebre.
Urlò e continuò ad urlare, gli occhi persi in quelli morenti di sua madre.


Ancora una volta, fu il dolore a farlo tornare indietro dall’oscurità.
Voci confuse attorno a lui, qualche risata; aprì con fatica gli occhi e si guardò attorno.
Giaceva sul pavimento di… ma era il salotto di casa sua? Con quei mobili rovesciati, le vetrate infrante, le tende strappate? L’immacolato salotto cui la mamma teneva tanto…
La mamma…!
Nonostante il forte dolore alla testa, Kein si sforzò di guardarsi in giro: schizzi rossi sulle pareti, un mucchio informe in un angolo, dove già l’aveva visto… (papà…?) Un sottile corpo bianco chiazzato di rosso, orribilmente contorto… immobile, troppo immobile… (mamma…?)
Kein si rialzò di scatto su un gomito: subito, una coltellata di dolore lo trafisse nelle viscere, facendolo spasimare. Con orrore, il ragazzo s’accorse d’avere le gambe lorde di sangue. Ma cosa gli avevano fatto…?
Ancora quelle voci volgari, quelle risate. Vide quei mostri di Vega che avevano invaso e violato la sua casa, li vide distruggere i mobili per strapparne via gli oggetti più preziosi. Cose che conosceva da sempre distrutte o rubate da quella gentaglia… in preda al furore, Kein fece per rialzarsi ma una nuova spaventosa fitta lo fece cadere al suolo, gemendo per il dolore.
Rimase lì, dimenticato da tutti, per un tempo che gli parve interminabile: nel frattempo, quelle bestie andavano e venivano, razziando e distruggendo quella che era stata la sua casa.
Poi qualcuno si chinò su di lui, sentì un osceno scroscio di risa; il soldato l’afferrò e lo rivoltò sulla schiena, strappandogli un nuovo gemito di dolore.
«Questo qui è ancora vivo».
«Fatti da parte, ci penso io» e uno dei suoi compagni spianò il fucile, puntandolo su Kein.
«Lascia stare, non è così malridotto. Può ancora servire» il primo soldato l’afferrò e se lo gettò in spalla come avrebbe fatto con un pacco; Kein strinse i denti per non urlare, e ancora una volta la tenebra l’avvolse, pietosa, impedendogli di vedere oltre.


Duro, freddo.
Rabbrividendo, Kein riaprì faticosamente gli occhi: nella semioscurità che lo circondava, intravide altre sagome, altri corpi… dove l’avevano portato?
Si rialzò sui gomiti, mosse le gambe e subito un dolore spaventoso lo trafisse, costringendolo a serrare i denti per non gridare. In un flash rivide la sua casa devastata, suo padre… sua madre… i soldati, risentì il dolore rosso che lo devastava, la vergogna, la rabbia, l’umiliazione…
In genere, ci si risveglia con sollievo dai propri brutti sogni; destarsi in un incubo era un qualcosa che Kein non aveva mai provato prima. Era successo davvero, era stato tutto vero…
Non piangere. Non ora.
Kein trasse dei lunghi respiri, sforzandosi di calmarsi: c’erano altri vicino a lui, e non voleva assolutamente farsi vedere piegato dal dolore. Avrebbe resistito.
Seppellì dentro di sé i propri incubi: non voleva pensarci. L’avrebbe fatto un’altra volta, quando ne avesse avuto la forza
Conta il presente.


Quando finalmente si sentì di farlo, si guardò attorno.
Attorno a lui, decine e decine di ragazzi, anche bambini più piccoli di lui; molti giacevano a terra come era costretto a fare lui, che riconobbe in loro il suo stesso dolore, la sua stessa vergogna.
Degli altri, molti piangevano sommessamente, altri tacevano, gli occhi sbarrati nel vuoto; in un angolo, una ragazzina urlava e urlava, isterica, mentre altri la guardavano incapaci di intervenire, di darle soccorso.
Si sforzò di alzarsi puntellandosi sui gomiti, ed ignorando le fitte spaventose che gli attraversavano le viscere: erano stati rinchiusi in un ambiente molto grande... un magazzino, o qualcosa del genere. Alcune finestre, altissime e irraggiungibili, fornivano loro aria e luce; per il resto, là dentro non c’era assolutamente nulla, solo creature dalla vita spezzata.
Kein sentì un’onda di disperazione crescere prepotentemente in lui; non voleva abbandonarsi al dolore. Si guardò attorno, cercando una qualsiasi cosa che potesse distrarlo da sé stesso.
A pochi metri da lui sedeva una ragazzina, praticamente una bimba; aveva i vestiti strappati, il viso tumefatto, le cosce esili macchiate di sangue. Tremava violentemente, incapace di emettere un qualsiasi suono.
Kein si trascinò sulle braccia fino a lei, la strinse a sé; la bambina emise un sospiro e continuò a tremare, lo sguardo fisso, completamente persa in un mondo tutto suo, come se non avesse nemmeno percepito la presenza di lui.


Kein riemerse faticosamente dai suoi ricordi, sperando di non doverli rivivere ancora e ancora.
Accanto a lui, persa in sé stessa, la ragazzina giaceva a terra, gli occhi fissi nel vuoto, totalmente incurante di lui, che continuava a stringerla tra le braccia per farle coraggio – e anche per trarre da lei la forza di andare avanti, di non farsi abbattere.
Ce la farò, continuava a ripetersi, come un ritornello ossessivo. Ce la farò. Ce la farò…


Per quattro giorni, i ragazzi rimasero prigionieri in quel magazzino. Di tanto in tanto venivano soldati a portar loro da mangiare e da bere: ma, come Kein ebbe subito modo di verificare, si trattava sempre di una disgustosa brodaglia ricavata da chissà quali avanzi di cibo, e le porzioni erano molto ridotte. Anche l’acqua, scarsa, era sporca, e ovviamente non ce n’era abbastanza per pulire le ferite, figuriamoci per l’igiene personale. Nonostante le finestre aperte, il puzzo era nauseabondo: escrementi, sudore, corpi non lavati e, sopra tutto, l’odore pungente della paura.
Kein strinse i denti, mentre si sforzava d’inghiottire quel pasto che, nonostante la gran fame, sentiva come immangiabile. Vide che la bambina di cui si era preso cura non aveva mosso un dito verso il recipiente con il cibo: troppo persa in sé stessa, non sentiva forse nemmeno i morsi della fame, chissà... Kein non era riuscito a farla parlare, nemmeno aveva saputo come si chiamasse; occuparsi di lei era diventato per lui un bisogno primario, almeno in quel modo non avrebbe dovuto pensare al proprio personale orrore.
Vide un paio di ragazzini occhieggiare il pasto della bambina, e li cacciò via. Finì d’inghiottire gli ultimi bocconi e cominciò ad imboccare la ragazzina, che teneva i denti serrati. Riuscì faticosamente a cacciarle in bocca qualche cucchiaiata di brodaglia, accertandosi ogni volta che lei deglutisse; nemmeno allora lei lo degnò d’uno sguardo.
Infine, stravolto, sedette accanto alla sua silenziosa compagna, che non batté ciglio.
Prima o poi dovranno farci uscire di qui, e allora troverò il modo di scappare.
Guardò la ragazzina, sempre immobile, e si sentì in colpa: non avrebbe potuto far fuggire anche lei, così totalmente inerte... Passò lo sguardo sugli altri: erano tutti come inebetiti, incapaci di reagire. Da loro non avrebbe avuto nessun aiuto.
Dovrò tentare da solo.
Questo fu il pensiero che continuò ad accompagnarlo per tutto il periodo della sua prigionia in quel magazzino: scappare, scappare, scappare.
Il quinto giorno, i soldati gridarono loro di alzarsi in piedi; tra le urla e gli insulti, spintonati in malo modo, i ragazzi vennero incolonnati e scortati all’esterno, pronti per essere fatti salire su una delle astronavi di Vega.
Mentre usciva da quella che era stata la sua prigione, Kein si voltò rapidamente a guardare: alcuni di loro erano rimasti a terra, chi ferito, chi malato, chi semplicemente ormai troppo lontano da tutto e da tutti, come la bambina di cui in quei giorni lui aveva avuto cura e che nonostante tutti i suoi tentativi non aveva voluto saperne di rialzarsi.
Un paio di soldati entrarono nel magazzino, i fucili spianati; le porte vennero chiuse, i ragazzi fatti allontanare, ma questo non impedì loro di udire il rumore secco degli spari.

Secondo e terzo capitolo. Qui non ci sono particolari problemi, per cui non metto spoiler o altro. Buona lettura.

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2.Zuril

Scortati da quattro soldati, stretti l’uno all’altro e tenendosi per mano i bambini andavano incontro ad un futuro che era facile immaginare mostruoso. Stavano per venire condotti nel ventre dell’astronave, in una prigione da cui sarebbero usciti solo per finire come cavie umane, o come minatori nei campi di lavoro, o peggio.
Zuril alzò la testa dal display del suo computer portatile e li guardò: un centinaio di marmocchi tra gli zero e i dodici anni, chi agghiacciato dal terrore, chi piangendo apertamente, senza vergogna. I più grandi portavano in braccio i più piccoli, gli altri si stringevano tra di loro in cerca di un conforto impossibile da trovare; tutti erano terrorizzati fin nel più profondo del loro animo.
Fleediani, pensò Zuril. Esseri educati all’emotività, alla bontà, alla generosità... alla debolezza.
Scosse il capo, guardando quelle creature tremanti e piangenti: non avevano torto ad essere così spaventati, il loro destino sarebbe stato sicuramente tremendo. Era raro, rarissimo che una coppia decidesse di prendere un bambino per allevarlo: per quanto il pesante inquinamento avesse diffuso la sterilità su Vega, ben difficilmente la scelta di un figlio adottivo sarebbe caduta su un rampollo di una razza notoriamente debole come quella di Fleed. I veghiani erano guerrieri, erano predatori: l’intimo pacifismo di Fleed ai loro occhi non era altro che intollerabile mancanza di forza di carattere. Un figlio rammollito e privo di spirito guerresco sarebbe stata una vergogna.
Zuril rimase assorto ad osservare quelle creature che andavano incontro al loro destino senza reagire, senza combattere: eppure dovevano sapere che li aspettava un futuro come cavie di laboratorio, come trastullo per qualche ufficiale o come lavorante in una qualche miniera radioattiva; e nonostante questa consapevolezza, niente. Nessuna reazione, nessuna ribellione.
Inerti, fiacchi, deboli fin nel midollo.
Molti di quei bambini erano veramente belli, come tutti gli abitanti di Fleed: peccato che a tanta grazia fossero associate viltà e debolezza... Ma evidentemente, rifletté Zuril, fa parte del loro essere. Non si può andare contro il proprio dna.
E se non fosse così?, si trovò a chiedersi poi. Se fosse un problema d’educazione? Che succederebbe, se si prendesse uno di questi bambini e lo si crescesse come un vero guerriero? Sarebbe interessante scoprirlo...
Un urlo seguito da un trambusto riscosse lo scienziato, che riemerse frettolosamente dai propri pensieri.
Un bambino s’era ribellato ed era sfuggito ai propri carcerieri; tre dei soldati tenevano a bada gli altri piccoli prigionieri, che si erano risvegliati dal loro torpore e stavano seguendo la prodezza del loro compagno, inseguito senza troppo successo dal quarto milite.
Il ragazzino era magro e svelto, tutto gomiti e ginocchia; grande e grosso, il soldato faticava a tenergli dietro mentre gli sfuggiva correndo a zig zag tra i compagni e gli altri tre carcerieri.
Improvvisamente, il piccolo si rivoltò contro il soldato che era sul punto di agguantarlo e gli sferrò un potente calcio in un ginocchio, sfuggendo così alla cattura.
Non male, pensò Zuril. Abilità o fortuna?
Pur dolorante, il soldato riuscì ad acchiappare il ragazzo per un braccio; subito il bambino si rivoltò e gli colpì il polso col taglio dell’altra mano. Con un grido strozzato il soldato fu costretto a mollare la presa.
Abilità, decise Zuril.
Un fremito passò tra i bambini, che vedendo il loro compagno vittorioso si erano improvvisamente animati; subito i tre militi li sospinsero verso la porta. Non era bene che quei prigionieri vedessero il loro compagno farsi beffe di un soldato di Vega.
Incuriosito, Zuril osservò attentamente il ragazzo: appariva teso, concentrato, perfettamente presente a sé stesso. Gli occhi che fissava sul soldato erano seri, attenti e scrutatori: non c’era traccia di paura in lui, solo fredda determinazione. L’impressione era che si sarebbe lasciato ammazzare piuttosto che cedere.
Il soldato si fece avanti per ghermirlo; il ragazzino fu rapido a cacciargli due dita negli occhi e, in rapidissima successione, a sferrargli un pugno in piena faccia.
L’urlo del soldato fu spaventoso; sul cappuccio si allargò una macchia rossa e densa.
Naso fratturato, pensò Zuril.
Uno degli altri militi lasciò i prigionieri e si fece avanti, ma il soldato ferito gli urlò di non immischiarsi: era una faccenda personale, ormai.
Zuril trattenne il fiato: il soldato era imbestialito, c’era il rischio che uccidesse il ragazzo ottenendo così il duplice scopo di vendicarsi e dare agli altri bambini un esempio di cosa succede a chi si ribella. Era prassi comune ammazzare un prigioniero per ottenere la terrorizzata obbedienza degli altri. Fece per intervenire, ma un’occhiata al viso determinato del giovane fleediano lo trattenne: curioso di vedere come avrebbe reagito, attese.
Il soldato fece l’atto di attaccare: rapido, il ragazzo si gettò di lato per schivare l’assalto, accorgendosi un istante troppo tardi che si era trattato di una finta. Con un ruggito di trionfo il soldato afferrò per la collottola la sua vittima, scuotendola come una bambola di pezza.
Intontito ma deciso a non cedere, il ragazzino gli allentò un poderoso calcio in uno stinco; il soldato reagì con un manrovescio che lo lasciò stordito.
«Fermo!» disse Zuril, ma il soldato era troppo inferocito per ascoltarlo.
«Hai finito di fare il furbo, vero?», il soldato gli appioppò un altro schiaffo, e continuò a colpirlo, scandendo con i ceffoni la propria collera: «Questo è perché ti sei ribellato... Questo per i calci... Questo perché impari chi è che comanda qui... Questo...»
«Basta così!», esclamò con forza Zuril, mettendosi in mezzo.
Il soldato s’arrestò con la mano a mezz’aria: «Come dite, signore?»
«Ho detto basta!», Zuril gli afferrò il polso. «Così lo ammazzi!»
«È quel che si merita! Questo bastardo mi ha...»
«Ho visto tutto, soldato», Zuril non mollò la presa. «Però non voglio che tu gli faccia ancora del male. Basta».
«Ma signore...!»
«Ha dimostrato d’avere coraggio e cervello. Merita qualcosa di più che venir massacrato di botte. Lascialo».
«Ma...»
L’unico occhio di Zuril ebbe un bagliore metallico: «Mi hai sentito, soldato?»
Rimasto fino ad allora inerte come un corpo morto, il ragazzo si riprese e agì all’improvviso mordendo rabbiosamente il polso del suo carnefice, e sferrandogli nel contempo un potente calcio. Aveva mirato all’inguine, lo colpì invece all’interno della coscia; furioso, prima che Zuril potesse impedirglielo il soldato scaraventò la sua vittima contro la parete. Il ragazzo batté la testa e s’afflosciò a terra senza un grido.
«Maledetto idiota!» Zuril lo scostò rabbiosamente e si chinò sul ragazzo. Lo rigirò con delicatezza sulla schiena, gli tastò il petto: il cuore batteva. Gli sollevò una palpebra, verificò il respiro: era solo svenuto.
Zuril prese il suo scanner scientifico e lo passò sul corpo esanime del ragazzo: non aveva la precisione di un analizzatore medico, ma per un primo test era più che sufficiente.
Esaminò la testa: non c’era commozione cerebrale. Controllò il resto del corpo: nessuna frattura, solo ematomi. Meglio così.
Zuril si rialzò e si girò verso il soldato: «Buon per te che non l’hai ucciso. Lo prendo io. Fatemi portare i documenti, così regolarizziamo l’acquisto».
I soldati esitarono solo un attimo: quegli schiavi avevano già una loro destinazione... comunque, nessuno avrebbe badato ad un bambino in meno, e loro non volevano assolutamente inimicarsi il potente ministro Zuril.
«Va bene, signore», rispose il soldato, tamponandosi il naso fratturato; con la mano dal polso insanguinato per il morso accennò al ragazzo inerte: «Dove volete che ve lo portiamo?»
«Penso io a lui», Zuril ripose lo scanner. «Voi procuratemi i documenti necessari, verserò il denaro e sarà fatta; e tu va’ a farti medicare».
«Grazie, signore», tenendosi la mano premuta sul viso, il soldato fece cenno agli altri di andare. Inorriditi, i bambini videro il loro compagno in potere di quello spaventoso veghiano... poi ordini vennero urlati, i piccoli prigionieri furono spintonati e condotti via.
Zuril si chinò sul suo nuovo schiavo e lo esaminò rapidamente: undici-dodici anni, magro e nervoso, un gran ciuffo di capelli tra il verde e l’azzurro.
Sarebbe stato interessante scoprire se aveva investito bene il suo denaro.
Lo raccolse con precauzione da terra: non pesava molto. Sogghignò pensando che un affarino da nulla come lui aveva spaccato la faccia ad un feroce soldato di Vega.
Aveva idea che quel ragazzo sarebbe stato un’interessante fonte di sorprese.


3.Patto

Morbido.
Aprire gli occhi fu una fatica indicibile. Ci volle qualche istante perché le immagini sfuocate si facessero nitide ed acquisissero un senso.
Soffitto. Pareti. L’impressione di soffice sotto di sé. Doveva essere sdraiato su un letto, o qualcosa del genere.
Come mosse il capo, una fitta lancinante gli tolse il respiro. Si premette la mano contro la fronte ma il dolore continuò, martellante.
Altro dolore… la schiena, le spalle, il petto, il viso, tutto gli doleva… oltre al dolore segreto alle viscere che non l’abbandonava da giorni.
Improvvisamente ricordò il soldato che l’aveva riempito di botte, e comprese.
Sono prigioniero di Vega, si disse, mentre un misto di rabbia e angoscia montava rapidamente in lui.
I ricordi presero a scorrere nella sua mente: la cattura, la deportazione, i suoi compagni di sventura… quell’orrendo veghiano che aveva cercato di fermare il soldato che lo stava massacrando…
Con fatica, si rialzò su un gomito; la testa sembrava dovesse spaccarglisi dal dolore.
Si guardò attorno: pareti, mobili metallici e lineari.
Aveva creduto di risvegliarsi sul pavimento d’una cella e si ritrovava invece sul divano di uno studio.
Solo allora s’accorse d’un lieve ronzio che proveniva da un angolo: un uomo era seduto a una scrivania, intento a lavorare al suo computer. Kein poteva vederlo solo di spalle, ma non ebbe esitazioni nel riconoscere in lui il veghiano che s’era opposto al soldato.
Assorto nel suo lavoro, l’uomo non s’era accorto che lui, Kein, s’era risvegliato. Proprio sulla parete opposta a quel veghiano s’apriva una porta: se lui fosse riuscito a raggiungerla…
Ignorando la fitta lacerante alle viscere, s’alzò. Occhieggiò l’uomo: nessuna reazione.
Un primo cauto passo verso la salvezza… un altro…
«Se esci da quella porta diventi uno schiavo fuggiasco», Zuril parlò con calma, senza nemmeno voltarsi. «Credimi sulla parola se ti dico che non ti piacerebbe sapere quel che si fa agli schiavi fuggiaschi».
Il ragazzo s’arrestò immediatamente, guardando con palese antipatia l’uomo che aveva davanti. Non aveva certo intenzione di mostrarsi intimorito, anzi! Strinse i pugni e urlò tutta la sua sfida: «Non potete tenermi qui! Io... io troverò il modo di scappare!»
Zuril fece ruotare la sua poltroncina girevole e considerò con attenzione il ragazzino magro e pallidissimo che lo stava affrontando: un mocciosetto capace di rivolgersi a lui con spavalderia nonostante fosse chiaramente spaventato e sofferente. Stava in piedi a malapena e parlava con una simile arroganza... fantastico.
«Ammiro il tuo coraggio», disse infine Zuril, «anche se dimostri una deplorevole mancanza di buon senso. Rassegnati: sei prigioniero, e non hai più nessun posto in cui scappare».
Kein si sforzò d’ignorare le fitte spaventose alla testa: «Tornerò su Fleed! Troveremo il modo di combattervi... noi... »
Zuril scosse il capo, guardandolo con sincero compatimento: «Mi spiace, ragazzo. Temo che non sarà proprio possibile».
«Riuscirò ad andarmene, vedrete!», insisté Kein ostentando una baldanza che non provava affatto. «Scapperò, troverò il modo di tornare su Fleed!»
«Sono sicuro che ci proverai», rispose calmissimo Zuril. «Si tratterà però di un viaggio piuttosto lungo, perché abbiamo lasciato l’orbita di Fleed da parecchio tempo… per la precisione, da due ore, trentasei minuti e diciassette secondi».
«…Cosa…?»
«Se anche tu riuscissi a scappare, evitare di essere ripreso, impadronirti d’un mezzo qualsiasi, pilotarlo fino a Fleed ed atterrare… se tu riuscissi a fare tutto questo, cosa di cui dubito… non sopravvivresti a lungo. Fleed è stato bombardato pesantemente col vegatron, le radiazioni non ti darebbero scampo».
Kein sbarrò gli occhi: «Non ci credo!»
Senza una parola, Zuril digitò qualcosa sulla sua tastiera; un’immagine apparve sullo schermo del monitor. Kein allungò il collo per vedere meglio e Zuril si scostò facendogli cenno d’avvicinarsi.
Fleed, inconfondibile… avvolto in una nuvola d’un malsano giallastro.
«È una nube radioattiva», spiegò Zuril. «Per qualche anno, scendere su Fleed sarà un autentico suicidio».
Kein deglutì, sentendosi la bocca improvvisamente arida. Vacillò, fece un paio di passi indietro, mentre pian piano prendeva coscienza dell’orrore accaduto al suo pianeta: contaminato, distrutto... morto.
«In più, siamo ormai molto distanti», Zuril parlava senza cattiveria: non voleva ferire il ragazzo, solo fargli comprendere la situazione. «Non credo tu sia in grado di pilotare un’astronave e compiere un viaggio interstellare; moriresti stupidamente nello spazio nel tentativo inutile di raggiungere un pianeta morto».
Nello spazio… via da Fleed… Fleed, devastato dalle radiazioni…
Kein non era mai stato così lontano da casa – una casa che nemmeno più esisteva, ormai. Lo assalì uno spaventoso senso di perdita irrimediabile, e il ragazzo sentì cedergli le ginocchia. Un capogiro lo colse, e Kein si ritrovò seduto sul divano, scosso dalle vertigini e con la testa che gli pulsava dolorosamente.
Le lacrime gli bruciavano gli occhi, ma non avrebbe mai pianto davanti a quel veghiano. Sarebbe morto, piuttosto.
Zuril strinse l’occhio, osservandolo; quel che vide dovette allarmarlo parecchio perché si alzò, lo raggiunse in due falcate e passò nuovamente lo scanner su di lui. Rassicurato, Zuril porse al ragazzo un bicchiere d’acqua e due pastiglie bianche e tonde: «Prendile. Ti sentirai subito meglio».
Kein guardò le pastiglie, poi l’uomo, poi ancora le pastiglie, senza accennare di volerle toccare.
«Puoi fidarti», aggiunse Zuril. «Non è veleno. Se avessi voluto ucciderti l’avrei fatto prima, mentre eri svenuto».
Giusto, pensò Kein. La testa gli pulsava sempre più dolorosamente, come se un artiglio d’acciaio stesse conficcandoglisi nel cervello… prese le pillole e le inghiottì, bevendo fino all’ultima goccia d’acqua. Non s’era accorto d’avere così tanta sete.
Accennò timidamente al bicchiere vuoto: «Posso… averne ancora?»
Zuril glielo tolse di mano, lo infilò in una nicchia nella parete e digitò un codice sul display di fianco. Poi gli rese il bicchiere, colmo d’acqua fresca.
Kein lo sorseggiò pian piano, guardandosi attorno. In quel momento, qualsiasi cosa l’avrebbe incuriosito, qualsiasi… pur di non dover pensare a Fleed. A casa sua.
Pareti e pavimenti metallici. Mobili in metallo e plastica. Lieve odore di detergenti chimici… Vega, insomma.
Zuril prese la propria poltroncina e sedette davanti a lui: «Ti senti meglio?»
Con suo grande stupore, Kein s’accorse che il dolore alla testa era quasi completamente scomparso, lasciandogli solo il collo indolenzito e un lieve senso d’intontimento.
«È… passato» mormorò, incredulo.
Zuril aprì un documento, lo scorse: «Ti chiami Kein, non è vero?»
«S-sì», rispose il ragazzo, a disagio.
«Bene». Zuril ripiegò la carta. «Ti ho comperato, per cui d’ora in poi i soldati non potranno più farti del male; solo io avrò il potere di punirti».
Kein trasalì: schiavo! Era uno schiavo… Lui! Di quel veghiano.
«Sono il Ministro delle Scienze Zuril, casomai t’interessasse saperlo», continuò quello che ormai era a tutti gli effetti il suo proprietario. «Non mi piace maltrattare i ragazzini, ma non sopporto stupidità e disobbedienza, tanto vale che tu lo sappia subito. Comportati bene, e andremo d’accordo. Hai capito?»
«Sì…»
Zuril lo guardò in tralice: «Sì, cosa?»
Per un paio di secondi che gli parvero eterni, Kein non comprese; poi, all’improvviso capì cosa intendesse Zuril: «Sì, signore. Come volete».
Zuril scosse il capo: «Puoi darmi del tu. Sarebbe ridicolo continuare con le cerimonie, non trovi?»
Già, niente formalismi con uno schiavo... «Come vuoi, signore» .
«Perfetto». Ora che il suo schiavo aveva capito qual era il suo posto, Zuril riprese, discorsivo: «Sarai contento di sapere che non ti manderò a scavare in una miniera, né intendo ammazzarti di fatica in un campo di lavoro».
«Perché mi hai comprato, allora?», chiese bruscamente Kein. «In genere, voi veghiani non usate gli schiavi per i lavori più pesanti e pericolosi?»
«In genere sì», rispose Zuril, imperturbabile. «Ovviamente, possono esserci anche delle eccezioni».
Kein sentì marcargli il fiato: forse...? Inorridito, fissò Zuril con autentico raccapriccio. Sarebbe morto, piuttosto!
«No, oh no», rispose ridendo lo scienziato allargando le mani in un gesto di pace. «Non è quello che pensi. Puoi stare tranquillo». Vide che Kein lo guardava un po’ di traverso ed aggiunse, fissandolo in viso perché comprendesse che gli stava dicendo la verità: «I ragazzini non m’interessano; e poi hai la stessa età di mio figlio».
Kein tacque, sentendosi la bocca improvvisamente arida, e si limitò lanciare al suo interlocutore un’occhiata poco convinta.
«Non ho bisogno di un giocattolo», tagliò corto Zuril. «Ho intenzione di compiere un esperimento scientifico, e tu mi aiuterai».
Terrorizzato, Kein s’addossò allo schienale del divano, gli occhi sbarrati.
«Non intendo vivisezionarti, se è questo che ti preoccupa», con un gesto secco, Zuril parve spazzar via quell’atroce eventualità; quindi prese a spiegare rapidamente i suoi dubbi circa l’importanza dell’educazione e del dna per avere un vero guerriero.
Immobile, Kein ascoltava senza comprendere granché: secondo quel suo padrone, l’educazione che veniva impartita su Fleed era errata, il pacifismo, il rispetto dell’avversario erano sbagliati… lui faticava a comprendere.
«Io… credo di non capire», mormorò, confuso. «Tu, signore, mi hai comperato per… per educarmi come un veghiano?»
«Ti ho visto combattere con quel soldato», spiegò Zuril. «Hai dimostrato d’avere coraggio e cervello. È un peccato sprecare queste qualità ammazzandoti di lavoro in qualche cava. Ho deciso di farti istruire come uno dei nostri ragazzi; però voglio dei risultati. Questo dev’esserti chiaro».
«Sissignore», balbettò Kein. L’alternativa dei campi di lavoro lo terrorizzava.
«Voglio vedere cosa diventerà un ragazzo di Fleed addestrato come un guerriero di Vega», continuò Zuril. «Noi diciamo di voi che siete gente debole, senza spina dorsale; tu potrai dimostrarmi che voi siete forti, sono solo la vostra educazione e filosofia ad essere sbagliate».
«C-certo, signore», Kein si sentiva soffocare. Non capiva perché ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, ma avrebbe fatto di tutto per non deludere Zuril… e per non finire in fondo a qualche miniera.
«Avrai le stesse possibilità di un ragazzo di Vega». Zuril gli posò le mani sulle spalle e lo guardò dritto negli occhi: «Voglio vedere cosa riusciremo a cavare, da te. Dimostrami il tuo valore, e hai la mia parola che saprò ricompensarti come nemmeno t’immagini».

Edited by H. Aster - 12/11/2016, 22:15
 
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4. Incubi

«Signore», chiese timidamente Kein, «potrei lavarmi? Mi sento sporco».
«Forse perché sei sporco», osservò Zuril.
Risentito, il ragazzo si voltò di scatto verso il suo padrone, ma non percepì cattiveria in lui; al contrario, nonostante la sua estrema serietà nel suo unico occhio guizzava una scintilla d’umorismo. Suo malgrado, Kein sorrise lievemente.
«Quello è il bagno», Zuril accennò ad una porta, «troverai tutto quel che ti serve». Considerò con aria disgustata gli abiti di Kein, sporchi, stracciati ed insanguinati, poi osservò con occhio critico il ragazzo, valutandone l’altezza e la corporatura: «Hai bisogno di un cambio di vestiti. Vedrò per il momento che cosa posso procurarti».
Andò ad un pannello nella parete, lo aprì e digitò sulla tastiera una serie di comandi; come Kein avrebbe saputo successivamente, in quel modo potevano essere dati ordini ai robodomestici per qualsiasi esigenza, dall’ordinazione di un cibo alla richiesta di un farmaco... o, in questo caso, per la confezione d’un indumento.
Zuril lesse rapidamente la risposta sul monitor ed assentì, soddisfatto: «Vai a lavarti. Vedrai che poi troverai pronti i vestiti nuovi».
«Grazie, signore» rispose Kein, chiudendosi nel bagno; venne poi colto dall’idea che Zuril, scrupolosamente pulito ed attento all’igiene come tutti i veghiani, non sopportasse aver attorno uno schiavo sporco e maleodorante e si sentì un po’ meno grato nei suoi confronti.
Si liberò con sollievo dei suoi stracci luridi e puzzolenti, e si chiuse nella cabina della doccia; impostò sul display la temperatura dell’acqua, scelse a casaccio un sapone sperando che non emanasse fetore di disinfettante e s’infilò sotto il getto tiepido.
Dopo giorni di sporcizia, poter finalmente usare una doccia ad ultrasuoni era un po’ come sentirsi tornare un essere umano. Kein s’insaponò vigorosamente (tra l’altro, il sapone aveva un aroma un po’ secco e asprigno per nulla spiacevole) e si sciacquò frizionando la pelle fino a farla dolere. Voleva levarsi di dosso fin l’ultimo residuo di sporcizia, quasi avesse potuto eliminare con il lerciume anche quel che era successo in quella spaventosa prigione. Si lavò con cura anche i capelli; sotto le dita sentì le croste di sangue, un ricordo del soldato cui aveva tentato di sfuggire poche ore prima.
Asciugatosi, si esaminò rapidamente in uno specchio: dopo vari giorni di semidigiuno il suo corpo magro appariva tutto spigoli, le ossa sembravano dovessero bucargli la cute. Lividi e croste di sangue maculavano la sua pelle pallida, i capelli penzolavano un po’ flosci ai lati del suo viso smunto; ma era vivo. Quel che più contava, aveva un minimo di sicurezza, di certezza nel futuro. Era uno schiavo, ma a quanto pareva il suo padrone non era un uomo spietato: una fortuna indicibile, per un prigioniero di Vega.
Si avvolse in un telo da bagno e fece capolino alla porta: come promesso, sul tavolo erano posti dei vestiti accuratamente piegati. Kein li prese: biancheria, pantaloni e una tunica blu. In terra, un paio di stivali.
Accanto agli abiti c’era un tubetto di crema: lo rigirò tra le mani, senza capire.
«È per te», Zuril, che sedeva alla sua scrivania, girò la sedia verso di lui. «Ti ho esaminato con il mio scanner per controllare il tuo stato di salute... so cosa ti è stato fatto».
Kein sentì la vergogna fargli avvampare le guance e chinò il capo.
«Sono... sono delle bestie», mormorò infine, stringendo i pugni.
Zuril tacque. Violentare i prigionieri era uno dei modi più usati per incutere terrore, per stroncare qualsiasi desiderio di ribellione; personalmente, lui aveva sempre considerato la cosa con estremo disgusto. Uomo logico, sapeva che esistono mezzi molto più sottili ed efficaci per ottenere obbedienza e sottomissione; tuttavia, era conscio di non poter pretendere simili finezze dalla truppa.
«Mi dispiace» aggiunse, ed era la verità.
Kein ricacciò indietro le lacrime. Non voglio piangere, non davanti un veghiano...
Si richiuse in fretta nel bagno, ma portò il tubetto di crema con sé.
Quando uscì, parecchio tempo dopo, aveva gli occhi arrossati ma aveva riacquistato un perfetto autocontrollo; con suo grande sollievo, la crema gli aveva lenito in gran parte il dolore, che in quei giorni non l’aveva mai abbandonato. Guardò Zuril quasi sfidandolo a dirgli qualcosa, ma per fortuna lui sembrava aver dimenticato completamente quel che era successo poco prima.
I vestiti nuovi gli andavano bene di lunghezza, anche se gli erano un po’ larghi; incerto, Kein teneva in mano i suoi abiti vecchi, sporchi e strappati.
«Gettali via», disse Zuril.
Kein esitò: erano tutto quel che gli restava di Fleed, della sua vita passata. «Signore, vorrei... vorrei tenerli. Se è possibile».
Zuril fece per sbottare, ma era un uomo troppo sensibile per non comprendere il desiderio del ragazzo, e si riprese subito: «Se proprio ci tieni... però falli lavare».
Stavolta il sorriso di Kein fu più aperto: «Grazie, signore!»
Entrò un robodomestico, portando due vassoi termici; improvvisamente, Kein s’accorse d’avere veramente fame. In quei giorni di prigionia, i pasti erano stati molto diradati e scarsi.
Il ragazzo fece per impossessarsi d’un vassoio; sentì su di sé lo sguardo di Zuril e si tirò subito indietro. Era uno schiavo, era uno schiavo! Gli schiavi mangiano e vivono solo finché viene loro concesso...
Zuril sedette al tavolo; vide il viso smunto di Kein, intercettò il suo sguardo d’animale affamato e gli fece cenno di sedersi. Non voleva tormentarlo: solo, ci teneva che il ragazzo capisse da subito quale fosse il suo posto.
Cominciarono il pasto; o meglio, Zuril interruppe quasi subito il suo e rimase a guardare Kein che divorava sistematicamente ogni cosa. Solo quando ogni piatto del suo vassoio fu vuoto, il ragazzo s’accorse che il suo padrone lo stava fissando.
Ho fatto qualcosa che non va?, pensò Kein, preoccupato.
«Avevo... avevo fame», mormorò, a mo’ di scusa.
Un lampo d’umorismo scintillò nell’occhio di Zuril: «Ho avuto quest’impressione».
Non avendo molto appetito, allungò al ragazzo uno dei propri piatti, ancora intatto; incredulo, Kein lo vuotò rapidamente.
Sentendosi finalmente sazio come da fin troppo tempo non gli era più accaduto, il ragazzo s’appoggiò con le spalle allo schienale della sua sedia; subito, come su comando, una spaventosa stanchezza s’impadronì di lui. La testa gli ciondolò sul piatto, gli occhi gli si chiusero. Si rialzò di scatto, ma sentì che non avrebbe potuto restare sveglio a lungo.
«Hai bisogno di dormire», quella di Zuril non fu una domanda.
Kein soffocò uno sbadiglio, e ancora gli ricadde la testa: «Sì, signore».
«Ci sistemeremo meglio quando saremo arrivati», disse Zuril; passò nella propria camera, uscendone con una coperta che tese a Kein: «Intanto, tu puoi usare il divano».
Kein lo guardò con scetticismo: nonostante poco prima vi fosse stato disteso sopra, quel mobile gli pareva troppo squadrato e lineare per essere accogliente. Dovette sedervicisi per comprendere che era molto più comodo di quanto non potesse apparire a prima vista. Si tolse gli stivali, s’allungò sui cuscini avvolgendosi nella coperta e s’addormentò all’istante.


Zuril si ritrovò sveglio e seduto sul letto, chiedendosi confusamente cosa fosse successo; l’urlo si ripeté, viscerale, quasi disumano, e il ministro d’un balzo fu fuori dalla sua stanza.
Sul divano, Kein s’agitava convulsamente, la bocca spalancata in un grido d’angoscia. Zuril si chinò su di lui, lo scosse; il ragazzo continuò ad urlare, gli occhi sbarrati e fissi, incapaci di vedere nulla che non fosse lo spaventoso incubo che lo tormentava.
Sempre chiamandolo, Zuril cercò ancora di destarlo, ma fu inutile: perso nei suoi orrori, il ragazzo continuava ad urlare, agitandosi sempre più pazzamente. Zuril dovette rinunciare a scuoterlo, preferendo afferrargli i polsi e tenerlo bloccato: nelle condizioni in cui era, Kein avrebbe potuto farsi del male, era meglio trattenerlo finché non fosse rientrato in sé.
Zuril tentò di nuovo di chiamare Kein, ma il ragazzo, sentendosi immobilizzato, si dibatté ancora più furiosamente, rivelando di possedere in quel suo corpo gracile una forza notevole. Per quanto fosse un adulto robusto, non volendo fargli del male Zuril faticò parecchio bloccarlo: il ragazzo si divincolava come una serpe, e pareva sempre sul punto di riuscire a liberarsi. Alla fine, stremato, Kein cedette e smise di combattere, mentre le sue grida si spezzavano in singhiozzi convulsi. Nonostante avesse smesso di lottare, Zuril continuò a trattenerlo: Kein avrebbe potuto riprendere ad agitarsi come un forsennato, e allora…
Un’esclamazione soffocata, e Kein parve finalmente rientrare in sé: fino ad un istante prima si era trovato in quella spaventosa prigione, con i soldati che… che gli… e invece…
«Va meglio, ora?» Zuril lo lasciò libero, pronto però ad afferrarlo ancora se la crisi fosse ripresa.
Kein si guardò rapidamente attorno, come cercando una conferma del posto in cui si trovava, prima di rivolgersi a Zuril: «Signore…? Ma che è successo?»
«Un sogno». Zuril gli toccò la fronte: niente febbre. «E, a giudicare da quanto hai urlato, un sogno davvero brutto».
I ricordi lo sommersero, e l’orrore lo sopraffece; Kein si coprì il viso con le mani, mentre un brivido incontrollato lo scuoteva da capo a piedi. Zuril s’era aspettato a questo punto un pianto salutare e liberatorio; Kein invece prese a tremare sempre più violentemente, i denti che gli battevano fino a dolergli, ma non emise suono.
Zuril scattò in piedi e sparì nel bagno, tornandone poi con un bicchiere colmo d’acqua: «Kein, bevi».
Il tono non ammetteva repliche, e il ragazzo tentò d’obbedire: afferrò il bicchiere, ma le mani gli tremavano talmente da rischiare di fargli rovesciare l’acqua. Con fermezza, Zuril gli pose il bicchiere contro le labbra, costringendolo a bere.
L’acqua era fresca ma singolarmente amarotica; Kein avrebbe voluto respingere il bicchiere ma Zuril fu irremovibile, e lo costrinse a vuotarlo fino all’ultimo sorso.
Il ragazzo ricadde sul divano stringendosi convulsamente le braccia attorno al corpo magro; si vergognava troppo per chiedere cosa gli stesse succedendo, ma…
«Una crisi nervosa», disse Zuril, che pareva avergli letto nella mente. «È perfettamente normale, data la situazione. Presto starai meglio».
Kein fissò il bicchiere, poi guardò Zuril con aria interrogativa; ancora una volta, il veghiano parve aver indovinato il suo pensiero.
«Ti ho dato un sedativo», spiegò. «Un bel sonno non può farti che bene».
Il ragazzo sbarrò gli occhi: sonno significava sogni, e per nulla all’universo lui avrebbe voluto piombare ancora in quel terrificante incubo, che…
«Non voglio dormire!», esclamò, d’impulso.
«Non dire sciocchezze, tu devi dormire», tagliò corto Zuril. «Con il calmante che ti ho dato, vedrai che non avrai più incubi. …Cos’avevi sognato? La prigione, i soldati…?»
Kein si sentì avvampare: « …Sì…»
Il viso severo di Zuril parve raddolcirsi: «Mi dispiace, Kein. Ci vorrà del tempo, naturalmente, perché tu possa…»
«Non dimenticherò mai!»
Ci credo! «Potrai però imparare a superare la cosa».
Kein sbadigliò, sentendosi intorpidire. Evidentemente, il sedativo stava funzionando. Senza quasi accorgersene si lasciò scivolare nel sonno, rannicchiandosi su un fianco. In un ultimo barlume di coscienza si tirò addosso un lembo della coperta.


Il giorno successivo, Kein si risvegliò a fatica: si sentiva intontito, gli occhi granulosi. Gettò le gambe giù dal divano, e il suo corpo cominciò ad inviargli molteplici segnali di dolore. Quando provò a rialzarsi, una fitta spaventosa gli ricordò ancora una volta cosa gli era stato fatto giorni prima dai soldati… come se avesse potuto dimenticarselo.
«Oggi va male», quella di Zuril non era una domanda. Lo scienziato era in piedi da chissà quando, ed era già al lavoro al suo computer.
Kein chinò la testa, le guance in fiamme, e non rispose. Una volta chiuso in bagno si lavò con delicatezza e applicò la crema, che come il giorno prima gli diede un immediato sollievo. Provò a ruotare il collo, flettere i muscoli: non c’era parte del suo corpo che non gli dolesse. Il soldato l’aveva picchiato per bene, niente da dire.
Si esaminò allo specchio: gran parte del torace era ricoperto di lividi. Aveva una guancia gonfia e violacea, altri segni sul mento e sul collo, dove le dita brutali del soldato l’avevano stretto fin quasi a soffocarlo. Spalle e schiena erano maculate di chiazze scure.
Kein uscì dal bagno e zoppicando si trascinò fino al tavolo, dove l’attendeva un vassoio termico. Zuril lasciò a sua volta il lavoro per fare colazione.
«Qualcosa non va?», chiese Zuril, sentendosi addosso lo sguardo stupefatto del ragazzo.
Kein si schiarì la voce: «Non credevo che i veghiani avessero l’abitudine di mangiare in compagnia». Aveva sempre considerato il popolo di Vega troppo chiuso ed egoista per poter provare la gioia di condividere un pasto.
«Io sono di Zuul», gli fece notare Zuril.
«Oh… ?», un nome che non conosceva affatto.
«Zuul è una colonia», spiegò Zuril. «Discendiamo da un gruppo di coloni di Vega; apparteniamo allo stesso popolo, ma abbiamo da troppi secoli abitudini e mentalità diversi per considerarci uguali».
«Capisco…»
«E comunque, nonostante quel che puoi pensare, i veghiani non sono così… diciamo, strani. Qualcosa mi dice che col tempo rivedrai qualcuna delle idee che ti sei fatto su di noi».
Kein aveva i suoi robusti dubbi, circa questo; ma preferì tacere.
Sollevò il coperchio del vassoio: un paio di piatti con cibi che ancora non conosceva, e una tazza colma d’un liquido fumante d’un color ambra scuro. Un profumo forte e aromatico gli solleticò le narici. Lo assaggiò cautamente: gli parve molto buono.
«Si chiama ween», spiegò Zuril, mentre il ragazzo sorseggiava con gusto la sua bevanda. «È un infuso molto comune, da noi».
«Non l’avevo mai provato», e in un paio di sorsi Kein vuotò la sua tazza.
«A quanto pare, qualcosa di buono in noi l’hai trovato», commentò leggermente Zuril, mentre osservava Kein divorare ogni cosa. Quando ebbe finito di mangiare, il ragazzo si sentì nuovamente stanco, assonnato. Sembrava impossibile, ma nelle sue condizioni anche mangiare costava fatica.
Zuril, che si era alzato per tornare al suo computer, cambiò idea, prese il suo scanner ed esaminò nuovamente Kein.
«Abbiamo davanti a noi un viaggio di parecchi giorni», disse, spegnendo l’apparecchio. «Ti conviene approfittarne per dormire quanto più ti è possibile, in modo da recuperare le forze».
Kein impallidì e scosse la testa.
Zuril comprese: «Gli incubi?»
«Sì…»
Senza una parola, lo scienziato gli porse un bicchiere d’acqua: aveva lo stesso sapore amarotico di quella che gli aveva dato la notte precedente. Kein bevve; poi si trascinò sul divano, gli occhi che già gli si chiudevano.


5. Guarigione

Era la prassi, per i medici di Vega, far dormire il più possibile i loro pazienti: in quel modo il corpo poteva impiegare tutte le proprie energie per la guarigione, e in più il malato non era costretto a sopportare dolori e fastidi. Lo stesso veniva fatto per chi aveva subito un trauma psicologico, un lutto, un dolore insopportabile: era teoria accettata da tutti i medici che nel sonno il cervello si disponesse ad affrontare meglio lo shock.
Kein si svegliò non seppe quanto dopo: chiusi in un’astronave, non era facile percepire lo scorrere del tempo. Aprì gli occhi, si guardò in giro: passò con lo sguardo sulle pareti metalliche, udì il lieve ronzio del computer di Zuril...
...improvvisamente rivide suo padre cadere a terra, stroncato da un raggio energetico, rivide la sua casa invasa e devastata, sentì la vergogna crescere in lui mentre il suo dolore segreto lo faceva spasimare... e poi rivide gli occhi di sua madre mentre si spegnevano poco a poco...
Non poté trattenersi: pianse, pianse, pianse senza più nessun ritegno. Pianse la sua famiglia sterminata, la sua casa distrutta, il suo mondo devastato. Pianse la sua vita annientata, pianse la sua vergogna, pianse la sua rabbia impotente... non poté fermarsi. Non provò nemmeno a farlo.
Quando si riprese, alzò timidamente la testa e occhieggiò Zuril: concentrato sul suo lavoro, non s’era nemmeno voltato. Probabilmente non s’era accorto di nulla.
Si rimise in piedi, e le ginocchia gli vacillarono, mentre un nuovo spasmo alle viscere gli faceva mordere le labbra per non emettere alcun suono. Mosse un passo barcollante verso il bagno, cercando di non far rumore: avrebbe dovuto passare proprio dietro a Zuril, ma forse...
Lo scienziato ruotò la poltroncina verso di lui, e gli fece cenno d’arrestarsi. Kein obbedì, rimanendo a capo chino in modo che i capelli gli ricadessero sul viso. Zuril tese una mano e lo costrinse ad alzare il mento: vide gli occhi rossi e gonfi ed assentì, soddisfatto.
Il ragazzo lo guardò con aria di sfida: aveva pianto, certo. Adesso, se solo quel veghiano sempre così freddo e controllato gli avesse detto qualcosa... se solo ci avesse provato...
Zuril gli batté leggermente su una spalla: «Va meglio, adesso?»
Incredulo, Kein si limitò ad annuire.
Poco dopo, mentre si risciacquava il viso cercando nell’acqua fresca un po’ di sollievo per gli occhi che gli bruciavano, Kein rifletté sull’accaduto. Il suo padrone appariva come un uomo controllatissimo, e lui era stato sicuro che avrebbe considerato il piangere come una debolezza: s’era aspettato un rimprovero, o almeno del sarcasmo, e invece niente. Zuril era sembrato addirittura contento che lui avesse pianto... mah!
Kein scosse il capo: dubitava che sarebbe mai riuscito a capire quel veghiano.


Nei giorni successivi, Zuril continuò a tenere Kein sotto controllo con lo scanner; il ragazzo si muoveva un poco per la cabina, consumava un pasto e poi prendeva un sedativo, sprofondando in un sonno ristoratore. Allora, lo scienziato tornava al suo lavoro.
Come promesso da Zuril, il sedativo impediva l’insorgere di incubi; disgraziatamente, in sogno spesso si presentavano alla mente di Kein le persone che aveva amato e i luoghi in cui aveva vissuto. Rivedeva i suoi genitori, i suoi amici, la sua casa; poi, il risveglio cancellava tutto in un istante. I ricordi gli piombavano addosso come macigni, e il ragazzo doveva stringere i denti per non urlare la sua disperazione. Sognare la sua felicità perduta gli rendeva ancora più penoso il presente: certo, Zuril era gentile con lui, ma… ma…
Il viso affondato nel cuscino, Kein restava immobile a lungo, fingendo di dormire e piangendo invece tutta la sua disperazione. Continuavano allora a tornargli in mente le cose più diverse: il tono di voce di suo padre, il tocco leggero di sua madre che aveva un modo tutto speciale di carezzargli la testa. Poi la sua casa, la sua cameretta, i suoi giochi; i suoi amici, i parenti, i suoi insegnanti, tutto ciò che aveva perduto gli si ripresentava con il nitore delle cose indimenticabili. Alle volte, era un piccolo particolare a tornargli in mente, facendolo spasimare: la sua tazza azzurra con una minuscola crepa, che la rendeva unica. Oppure un angolino speciale del giardino di casa sua, dove spuntava sempre un ciuffo di fiorellini bianchi a forma di stella.
Era un Kein sempre molto pallido e dagli occhi rossi e gonfi quello che infine si alzava dal divano; il suo corpo stava finalmente guarendo, i lividi si riassorbivano, ma non c’era nulla che potesse dare pace al suo spirito. In silenzio, andava a sedersi accanto a Zuril, che immancabilmente era al lavoro al suo computer.
In quei momenti, Kein avrebbe dato qualsiasi cosa per un contatto fisico, per sentirsi abbracciare, udire qualche parola dolce; purtroppo, Zuril non sembrava in grado di aiutarlo in questo. Era gentile con lui, si preoccupava del suo benessere, ma rimaneva sempre remoto. Confusamente, Kein si chiese se fosse mai stato capace di manifestare affetto per qualcuno… per suo figlio, forse.
Da parte sua, lo scienziato intuiva la tempesta che devastava il suo piccolo schiavo: sapeva che molti prigionieri impazzivano, dopo aver perso completamente ogni cosa, e sapeva anche di poter far ben poco per aiutare Kein a superare il trauma. Contava più che altro sulla sua forza d’animo e sulla giovane età: il ragazzo doveva farcela, e doveva riuscire da solo.
In quel modo, passarono vari giorni: Kein cominciava a sentirsi il corpo meno dolorante, e chiese a Zuril di permettergli di dormire un po’ meno. Voleva sospendere il sedativo, trascorrere da sveglio qualche ora.
Si sentiva però svogliato, totalmente inerte: provava a distrarsi con un videolibro, ma la lettura aveva perso per lui ogni fascino. La musica non era che rumore, e qualunque spettacolo olografico gli sembrava scipito. Trascorreva allora il tempo sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, totalmente incapace di trovare interesse in qualcosa.
Il suo corpo nel frattempo era quasi completamente guarito, anche se molto debole; dopo averlo esaminato con lo scanner, Zuril, che dopo ore al computer aveva bisogno di muoversi un poco, gli propose di visitare l’astronave.
Senza una parola, il ragazzo lo seguì lungo camere e corridoi, mentre Zuril gli dava informazioni un po’ su tutto. All’inizio, il ragazzo lo ascoltava più che altro per educazione; poi cominciò a fare una domanda, e dopo un’altra. Zuril amava dare spiegazioni, e le domande di Kein erano poste con intelligenza; poco a poco il ragazzo prese a scuotersi dalla sua abulia, interessandosi veramente a quanto gli veniva illustrato.
Zuril avrebbe voluto condurre Kein anche nell’osservatorio dell’astronave per vedere le stelle, ma il ragazzo cominciò a dare evidenti segni di stanchezza: ci sarebbe stato un tempo anche per questo.
Quando infine fecero ritorno al loro alloggio, Kein non era certo di umore allegro, ma si era almeno scosso dall’apatia, e questo era precisamente quel che aveva voluto Zuril.
Dopo aver consumato un buon pasto, il ragazzo andò a sdraiarsi disponendosi a dormire.
Si sentiva ancora triste e depresso, ma senza che se ne fosse reso conto qualcosa in lui stava lentamente germogliando: il suo desiderio di vivere, che in realtà era stato solo sopito da Vega, e non ucciso.
 
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Nuova puntata, dove incontriamo un po' di vecchie conoscenze.


6. Vega

Avvolto nella sua coperta, Kein dormiva profondamente.
Zuril si chinò su di lui, gli batté su una spalla: «Avanti, svegliati».
Il ragazzo non si mosse. Zuril dovette scuoterlo con una certa energia, per vederlo finalmente reagire.
«Che succede…?» Assonnato, Kein faticava a tenere gli occhi aperti.
«Siamo entrati nell’orbita di Vega. Il nostro viaggio è finito. Alzati, dobbiamo andare».
Improvvisamente sveglio, Kein gettò le gambe giù dal divano. Si precipitò in bagno, uscendone poi rivestito, il viso ancora umido e i capelli ravviati. L’idea di sbarcare su Vega lo angosciava non poco, e non voleva rischiare di tardare e venire magari separato da Zuril, la cui presenza gli dava un minimo di sicurezza. Ripiegò in fretta i suoi vestiti, infilandoli in una sacca, e controllò rapidamente di non aver dimenticato nulla.
Zuril, che aveva osservato con un certo divertimento l’agitazione del ragazzo, scosse la testa: «Va bene spicciarsi, ma non esagerare. Hai fame?»
Improvvisamente, il ragazzo realizzò d’aver lo stomaco completamente vuoto: «Molta, signore».
Un ordine di Zuril, e un robodomestico portò due vassoi termici. Mentre consumava il proprio pasto leggero, e mentre Kein divorava le abbondanti porzioni che gli erano state portate, Zuril spiegò rapidamente quello che avrebbero fatto nei giorni futuri.
«Non staremo a lungo su Vega» disse, versandosi una tazza di ween. «Rimarremo solo per qualche tempo, devo ultimare le mie relazioni su…» una lievissima esitazione «quello che è successo su Fleed. Poi ci trasferiremo su Zuul».
«Bene, signore». Kein odiava il pensiero di restare su Vega, non aveva idea di come fosse Zuul, aveva un concetto decisamente fosco del suo futuro e preferì non sbilanciarsi troppo.
«Potremmo stare su Vega fino a quando mio figlio non abbia terminato l’anno scolastico: in realtà, manca molto poco. Io però preferisco vivere su Zuul quanto più mi è possibile» nonostante Kein si sorvegliasse, Zuril aveva compreso il suo stato d’animo, per cui aggiunse: «Sono sicuro che quando saremo là capirai anche tu il motivo di questa mia preferenza».
Kein inghiottì un po’ di ween. «Certo, signore». In realtà, aveva i suoi forti dubbi: non vedeva come fosse possibile preferire uno dei pianeti di Vega rispetto ad un altro. Notoriamente, si trattava di mondi inquinati, al limite dell’invivibile. Era certo che avrebbe odiato anche Zuul.
«A dire il vero», continuò Zuril, fingendo di non aver rilevato lo scetticismo del ragazzo «le mie ferie cominciano più tardi. Mi prendo sempre il mio periodo di riposo in concomitanza con le vacanze di Fritz; comunque, per quel che attualmente devo fare posso lavorare anche da casa mia». Da quella persona ordinata che era, impilò i piatti e raccolse le posate, mentre Kein finiva di ingollare gli ultimi bocconi. Poi Zuril si mise a tracolla la valigetta con il suo computer personale e lo scanner; la sua robovaligia, ripiena dei suoi effetti personali, si staccò da una parete, pronta a tenergli dietro. Kein afferrò la sua sacca e se la gettò in spalla, seguendolo poi nel corridoio dell’astronave.
Zuril percorse corridoi e prese ascensori, muovendosi con estrema disinvoltura in quell’enorme astronave; Kein continuava a seguirlo senza capire bene dove fossero diretti. Aveva completamente perso l’orientamento; mentre scendevano nel ventre della nave stava quasi per azzardarsi a fare una domanda, quando davanti a lui si aprirono i portelli automatici dell’ascensore, rivelando un enorme hangar. Navette di varia taglia erano ordinatamente allineate, in attesa. Zuril si diresse senza esitazione verso un mezzo allungato dall’aria veloce: era la sua navetta personale, come Kein avrebbe capito in seguito. Salirono, deposero i bagagli; Zuril si mise ai comandi e Kein prese posto accanto a lui.
Guardandolo attraverso il vetro dell’astronave, il grande pianeta Vega appariva avvolto da una malsana atmosfera rossastra: abituato ai cieli azzurri e alla luce di Fleed, a Kein quel mondo dall’aria perennemente caliginosa diede subito un’impressione sgradevole.
Mentre scendevano lentamente verso la superficie violacea del pianeta, Kein esaminò l’immagine ingrandita sullo schermo.
Vide città e città, ampie aree ricoperte da costruzioni; oltre, zone livide che dall’alto non riusciva ad identificare... mari, forse...?
«Deserti» lo informò Zuril, che pilotava la nave con estrema disinvoltura. «I mari sono ormai in gran parte asciugati. Quelli rimasti sono ridotti a paludi di scorie».
Un mondo senza mari... Kein sentì stringerglisi il cuore: «Che... che ne è stato dell’acqua...?»
«Il clima è cambiato spaventosamente, da allora», rispose Zuril, la voce cupa. «Se osservi bene i poli, noterai che sono completamente ghiacciati, e che solo la fascia attorno all’equatore è abitata. Questa è Vega: ghiaccio e deserto. Non c’è altro».
Kein osservò meglio i poli: non si vedeva il candore del ghiaccio, apparivano invece più scuri dei deserti violacei, quasi plumbei, e si protendevano per un buon terzo della superficie del pianeta.
«Il ghiaccio è proprio quella zona scura», spiegò Zuril.
«Perché non è bianco?», bisbigliò Kein, che ormai aveva paura della risposta che avrebbe ottenuto.
«Inquinamento», rispose Zuril, cupo.
Con la morte nel cuore, Kein guardò ancora quel pianeta dall’inquietante superficie violacea. Andare a vivere in un posto talmente squallido lo deprimeva oltre ogni dire... il pensiero di Fleed, della sua aria tersa, della luce, della vegetazione rigogliosa gli fece salire le lacrime agli occhi. «Ma come è potuto accadere?»
«Pensi che Vega sia un mondo malato?» chiese Zuril.
Kein cercò una risposta diplomatica; non trovandola, preferì tacere.
«Avresti torto a crederlo», aggiunse Zuril. «Vega è un mondo morto. È solo questione di tempo, noi di Zuul lo sappiamo. Da sempre tentiamo di lanciare l’allarme: nessuno ci ha mai ascoltati. Prima o poi, il popolo di Vega pagherà per la dissennatezza di anni e anni di sfruttamento selvaggio».
Kein ascoltava, incredulo: aveva pensato che fosse stato un disastro immane a ridurre così Vega, e lo disse.
Zuril scosse il capo: «Nessun disastro immane. Fosse stato così, la gente se ne sarebbe accorta, avrebbe reagito. Invece è successo tutto in modo insidioso, molto lentamente, a piccoli passi. È così che avvengono i grandi cambiamenti: poco per volta, giorno dopo giorno, senza accorgersene... quando ci si rende conto della cosa, ormai il mutamento è avvenuto, irreversibile, inarrestabile. Ricordatene, Kein: i cambiamenti duraturi avvengono sempre poco per volta. Per Vega è stato così».


Sotto di loro ormai si distinguevano gli altissimi edifici delle città, tutti coperti da cupole trasparenti; miriadi di navette sfrecciavano diversi livelli più in basso.
Un bip bip proveniente dal pannello comandi annunciò l’arrivo di una comunicazione, che subito il computer oculare di Zuril intercettò passandola direttamente alla mente dello scienziato. L’astronave compì una brusca virata.
«Cambiamento di programma», annunciò Zuril. «Pensavo di portarti subito a casa, ma a quanto pare Sua Maestà è troppo ansioso di vedermi. Dovrai venire con me».
«Dove?», s’allarmò il ragazzo. «Da… da Re Vega?»
«Ci sono inviti che non possono essere rifiutati», sogghignò Zuril.
Re Vega… il tiranno, il mostro sanguinario distruttore di pianeti…
Agghiacciato, il ragazzo non disse nulla, mentre tentava disperatamente di dominare l’agitazione che sentiva crescere dentro di sé.
Zuril puntò decisamente verso una costruzione imponente, ancora più alta dei pur altissimi palazzi che l’attorniavano. Kein stava giusto chiedendosi come avrebbero superato la cupola trasparente che l’avvolgeva, quando la navetta parve affondare dentro la lucida superficie. Un attimo dopo, la navetta volava all’interno della cupola, che appariva perfettamente liscia e lucida come prima: Kein ebbe l’impressione di essere entrato in una bolla di sapone, tenacissima ma elastica.
«Contro l’inquinamento», spiegò Zuril in risposta alla domanda inespressa dell’esterrefatto Kein. «Non è sufficiente, ma almeno fornisce una copertura parziale. Al di fuori di queste cupole, l’atmosfera è letale».
Ricevuta l’autorizzazione a planare, lo scienziato fece scendere la navetta su un’ampia terrazza nel fianco del palazzo reale; prese la valigetta del computer, disse a Kein di lasciar pure lì il suo bagaglio e aprì il portello che s’inclinò fino a terra, formando una passerella e permettendo loro di scendere.
Soldati li accolsero, rigidi sull’attenti. Vederli e accostarsi istintivamente a Zuril per Kein fu un tutt’uno.
«Picchetto d’onore», spiegò lo scienziato. «Siamo ospiti importanti».
Scese tra quegli uomini con la disinvoltura di chi è abituato a venir accolto con tutti i riguardi. Kein lo seguì, occhieggiando timorosamente i soldati. Non poterli vedere in viso era per lui a dir poco inquietante: ognuno di loro avrebbe potuto essere uno di quegli animali che… che gli… non voleva pensarci.
Un milite salì sulla navetta; subito il portello venne richiuso, e il piccolo mezzo si alzò in verticale, prima di sparire oltre il bordo della terrazza.
Kein lo guardò allontanarsi, sgomento.
«Quando dovremo andarcene ce lo riporteranno», disse alle sue spalle la voce di Zuril.
Il ragazzo fece per seguirlo verso l’interno del palazzo, ma all’improvviso gli occhi gli bruciarono spaventosamente, cominciando a lacrimare; Kein sentì quell’aria pesante intasargli i polmoni, e cominciò a tossire e tossire, restando senza fiato.
Quando finalmente riuscì a rialzare gli occhi lacrimosi su Zuril, questi gli batté una mano sulla spalla: «Bene, ragazzo. Benvenuto su Vega».


7. Sua Maestà

Kein continuò a tossire e lacrimare anche quando furono all’interno del palazzo; a poco a poco, però, pur sentendosi naso e gola irritati il ragazzo sentì che là dentro poteva respirare molto meglio.
Come avrebbe imparato nei tempi successivi, non c’era edificio, su Vega, che non fosse fornito di depuratori d’aria.
Seguendo Zuril, Kein attraversò saloni e percorse corridoi. La reggia di Vega gli appariva così diversa dal palazzo reale di Fleed, a lui tanto familiare: là, ampie finestre aperte da cui proveniva il profumo dei giardini sottostanti, leggere tende chiare per velare la luce troppo forte del sole, colonnine bianche e sottili, stanze ampie e luminose... e qui, finestroni in plastivetro ermeticamente chiusi, interminabili corridoi, asettica aria depurata e odorosa di detergenti chimici. Nessun’opera d’arte ornava le sale, nessuna decorazione rendeva meno squallide quelle pareti disadorne. Le linee leggere ed armoniose qui diventavano forti e pesanti: la reggia di Vega, ben lontana dal ricordare un palazzo di fiaba, sembrava in tutto e per tutto una fortezza, severa e inattaccabile.
La zona in cui ora si trovavano aveva un’aria incredibilmente lussuosa, almeno per il sobrio metro veghiano: era una galleria molto ampia, illuminata sulla destra da finestroni a tutta parete attraverso i quali si poteva scorgere lo sconcertante cielo rossiccio. Il corridoio presentava una decorazione geometrica sul pavimento, e terminava con una doppia porta ornata dalla stella a quattro punte simbolo della casa imperiale di Vega. Due guardie immobili ai lati della porta confermarono a Kein che là dietro doveva trovarsi il tiranno in persona.
Poco prima della doppia porta, sulla sinistra s’apriva una saletta d’aspetto; fu qui che Zuril condusse Kein.
«Non posso venire anch’io?», chiese supplichevole il ragazzo, occhieggiando le due impassibili guardie. «Non darò fastidio, te lo prometto».
«È meglio che tu rimanga qui», tagliò corto Zuril; comprese il terrore del suo schiavo ed aggiunse: «Non ti faranno niente».
«Sì, signore», balbettò Kein, gli occhi sbarrati fissi sui soldati.
«Non dovrei far tardi», e Zuril andò a farsi annunciare dalle guardie, prima di scomparire oltre le due porte.
Dominando a fatica il terrore che l’invadeva, Kein sedette su una poltroncina e s’aggrappò con entrambe le mani al sedile, quasi avesse temuto di venir strappato via a viva forza.
Per un tempo che gli parve interminabile, Kein restò immobile senza quasi respirare, occhieggiando nervosamente gli altrettanto immobili soldati.
Senza alcun preavviso le porte si spalancarono, mentre le guardie ai lati scattavano sull’attenti; una figura immensa avvolta in un ampio manto purpureo apparve sulla soglia.
Sua Maestà Re Vega, l’Imperatore della Nebulosa… l’uomo che aveva ordinato la distruzione di Fleed.
Sentendosi una fitta alla bocca dello stomaco, Kein balzò in piedi; vide che tutti i presenti si erano profondamente inchinati davanti al sovrano, e prima ancora d’aver compreso cosa stesse facendo si chinò a sua volta. Sentiva il suo cuore terrorizzato pulsargli in gola, rimbombargli nelle orecchie; un misto di odio e panico gli spezzò il respiro. Era un ragazzino solo, solo in mezzo ad infiniti nemici e al cospetto del più feroce, sanguinario tiranno di cui avesse mai sentito parlare… in quel momento desiderò solo scomparire, essere dimenticato, svanire nel nulla.
Il sovrano avanzò, seguito da un gruppo dei suoi più uomini più fidati i cui visi erano tristemente noti a Kein: il Comandante Supremo Gandal con il suo braccio destro Hydargos, il Ministro della Difesa Dantus, il feroce Comandante Barendos, l’uomo responsabile della distruzione di Fleed, e naturalmente Zuril.
Kein rimase immobile dov’era, a testa china: lui non era nessuno, non sarebbe nemmeno stato notato; così almeno sperava.
Improvvisamente, la gigantesca ombra di Sua Maestà gli cadde addosso.
«Questo, chi è?» La voce profonda del sovrano lo fece sobbalzare.
«Uno schiavo di Fleed che ho acquistato, Maestà», rispose Zuril.
«E perché hai ritenuto di doverlo comperare?»
Barendos si permise un ghigno e ammiccò verso Dantus: «Oh, forse perché è molto carino».
«Vedo che te ne intendi, sei un vero esperto», rispose dolcemente Zuril, prontissimo. Stavolta a ghignare furono Gandal e Hydargos, mentre gli altri due si rabbuiavano e Sua Maestà aggrottava le sopracciglia.
«Basta così!», sbottò il sire, voltandosi poi verso Zuril in attesa della sua risposta.
«Maestà, ho visto questo ragazzo battersi con uno dei nostri soldati. Ha dimostrato d’aver abilità e coraggio, oltre che intelligenza. Mi è parso uno spreco lasciare che venisse mandato a lavorare in una miniera».
Il sovrano assentì: «Sono d’accordo con te. In passato, ho preso anch’io la stessa decisione: alle volte, è meglio sfruttare i propri nemici, piuttosto che ucciderli. Coraggio ed intelligenza sono qualità rare e preziose. Che progetti hai per lui?»
«Penso di iscriverlo alla scuola per allievi ufficiali», disse Zuril.
«Molto bene». Dopo aver discusso della distruzione di Fleed, Sua Maestà era di ottimo umore: guardò benevolmente il ragazzino tremante che aveva davanti e si degnò di rivolgergli la parola: «Allora, qui abbiamo un futuro ufficiale di Vega!»
Kein gettò uno sguardo disperato a Zuril, che gli fece cenno di rispondere; con la gola secca, chinò la testa ed emise una specie di sibilo che il sire prese per un assenso.
«Bravo, bravo», in un incredibile slancio di bonomia, il sovrano batté sulla spalla del ragazzo, prima di avviarsi giù per il lungo corridoio, scortato dalle sue guardie, e sparire oltre un’alta porta che dava direttamente negli appartamenti reali, seguito da Gandal, Dantus e Barendos.
Kein riprese a respirare.
Zuril cominciò a parlare fitto fitto con Hydargos: Kein non poteva sentire quel che stavano dicendosi, ma era evidente che stavano prendendo accordi. Ebbe come l’impressione che Hydargos stesse per partire per un luogo lontano… stavano progettando una nuova conquista? Qualche altro sventurato pianeta che… Kein provò una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco, mentre reprimeva quel pensiero.
Sempre parlando tra di loro, Zuril e Hydargos imboccarono un altro corridoio che li avrebbe condotti all’esterno del palazzo, e Kein s’affrettò a correr loro dietro. Per nulla al mondo in quel covo di nemici avrebbe voluto perdere di vista il suo padrone!
Zuril ed Hydargos ritornarono alla piattaforma esterna, dove si arrestarono. Uno dei due soldati di guardia aprì un comunicatore ed inviò rapidamente un messaggio, mentre i due comandanti continuavano a parlare animatamente.
Kein si guardò in giro: si trovavano ad un’altezza vertiginosa dal suolo, per cui invece che in basso preferì andare con lo sguardo verso il cielo rossastro dalle pesanti nubi caliginose. Anche a quella quota, e riparati dalla cupola, ci si sentiva soffocare; il livello d’inquinamento atmosferico doveva essere mostruoso.
Sull’ampia piattaforma planò una navicella simile a quella con cui Kein era giunto assieme a Zuril: un soldato ne scese e salutò, prima d’allontanarsi.
Zuril e Hydargos scambiarono qualche altra parola, poi il comandante salì sulla navetta. Solo allora Kein notò che al posto del passeggero era seduta una donna pallida dai lunghi capelli d’un chiaro verde dorato. Non era possibile… sembrava…?
«Naida…?» esclamò Kein, incredulo; ma ormai era troppo tardi, la navicella si era allontanata, rapida e silenziosa.
«La conosci?» chiese Zuril, mentre salivano sulla loro navetta, appositamente condotta lì da un altro soldato.
«Sì», mormorò Kein. L’aveva creduta morta, come tutti coloro che aveva conosciuto… sentì un nodo serrargli la gola, e non poté più parlare.
«Non credo che Hydargos la tratti male, stai tranquillo» Zuril si mise ai comandi e fece partire la nave.
Non lo credeva proprio, infatti: da quel poco che aveva visto, lei gli era apparsa bellissima. Hydargos sarebbe stato imperdonabilmente idiota se avesse maltrattato una donna simile.
Kein rimase pensieroso, mentre Zuril guidava in silenzio. Anche Naida era prigioniera, come lui; i loro proprietari si conoscevano. Forse ci sarebbe stata l’occasione di vedersi, di parlare…
«Mi dispiace», disse Zuril, quando il ragazzo accennò timidamente a quella possibilità. «Hydargos è in partenza per una nuova base che stiamo costruendo su un satellite», preferì non dirgli che stavano progettando di conquistare anche il meraviglioso pianeta attorno cui ruotava quel satellite; quanto a Kein, ebbe il buon senso di non fare domande di cui non gli sarebbero piaciute le risposte.


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view post Posted on 24/1/2011, 20:05     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Andiamo avanti... Un capitolo solo, ma corposo.

8 Colleghi

L’abitazione di Zuril era posta in un complesso altissimo, ben riparato dalla sua cupola trasparente. Ognuna delle unità era corredata di un’ampia terrazza su cui far planare la propria navetta.
Era un appartamento lussuoso, per il metro piuttosto spartano dei veghiani; appariva invece piccolo e con stanze poco spaziose a Kein, abituato ad ambienti vasti ed ariosi. Si era aspettato che il potente ministro Zuril abitasse in una dimora ben più sontuosa; invece…!
Impiegò ben poco per esplorare tutta la casa: un soggiorno, due camere, due bagni. Niente cucina: i cibi venivano ordinati sull’apposito display, preparati dai robodomestici e inviati nelle varie abitazioni. Una nicchia in un muro, chiusa da uno sportello trasparente, era in comunicazione con la cucina nel sotterraneo: bastava chiedere una vivanda, ed entro breve tempo questa veniva spedita, pronta per essere consumata.
Ampi finestroni a tutta parete permettevano una visuale sconvolgente del panorama di Vega: a quell’altezza, sembrava di trovarsi all’interno delle nuvole violacee. Attraverso l’atmosfera densa e rossastra, la stella appariva come un’enorme palla scarlatta.
Kein si guardò in giro: superfici piane e lisce, mobili essenziali, tutti in metallo, plastica e vetro. Non c’era nulla in materiale naturale: niente legno, tessuto, cuoio… Nessun ninnolo, nessun soprammobile. Unica concessione, su una parete una fine decorazione geometrica in plastivetro, nei toni del verde, del bianco e del blu. Una casa elegante, ma fredda ed anonima.
Ovunque, regnava una pulizia scrupolosa. Nell’appartamento aleggiava un odore di plastica e disinfettante, misto a quell’indefinibile sentore artificiale dell’aria depurata: l’odore tipico di Vega, così Kein stava imparando a riconoscerlo.
Una delle camere era evidentemente di Zuril; l’altra doveva essere senz’altro proprietà di Fritz. Kein cominciò ad occhieggiare il divano: quello sarebbe stato il suo letto, ne era sicuro.
«Tu puoi dormire qui», Zuril accennò verso la camera che doveva appartenere a Fritz.
Kein guardò all’interno: un letto, un tavolo, un armadio, un paio di poltroncine.
«Signore», disse timidamente, «questa è la camera di tuo figlio. Io sono uno sconosciuto, per lui».
«E allora?»
«Non so se tuo figlio sia felice che io adoperi le sue cose». Chissà come avrebbe reagito quel ragazzo se avesse saputo che un estraneo aveva usato il suo letto… “Ciao, sono Kein lo schiavo, e ho invaso la tua stanza”. No, quello non gli sembrava il modo migliore di far conoscenza.
Ancora una volta, Zuril dimostrò un’apertura d’idee eccezionale per un veghiano: invece di intimargli seccamente di non dire idiozie, valutò l’obiezione del suo schiavo e la trovò accettabile.
«Forse non hai torto». Andò verso una parete, toccò un pannello: ne uscì un secondo letto. «Qui dormono gli amici di Fritz, quando li ospitiamo. Puoi usarlo tu. Lì c’è il bagno». Vide Kein esitare ed aggiunse: «Smettila con gli scrupoli. Fritz non avrà niente da ridire».
Speriamo, si disse Kein, appoggiando titubante il proprio bagaglio sul letto.
Non conosceva ancora il figlio del suo padrone, ma provava un’inquietudine sempre più viva man mano che il tempo passava: era sicuro che Fritz l’avrebbe trovato odioso e gli avrebbe reso la vita impossibile.


Il giorno dopo, Zuril annunciò di dover tornare a palazzo per conferire con Re Vega.
«Non ti conviene venire con me, ti annoieresti», concluse.
Kein sentì la paura spezzargli il respiro: l’idea di rimanere chissà per quanto tempo da solo nella capitale del nemico lo agghiacciava. Non pensò al fatto che sarebbe stato al sicuro, nell’appartamento di Zuril: si vide indifeso in mezzo a gente ostile.
«Ti prego, signore, lasciami venire con te!», esclamò d’impulso. «Non ti darò fastidio: resterò in un angolo ad aspettare».
Sorpreso, Zuril si voltò a guardarlo, mentre il minuscolo computer oculare gli inviava rapidamente le proprie conclusioni.
Ha paura di restare solo… assurdo. Nessuno oserebbe toccarlo.
«Kein, qui sei al sicuro».
Il ragazzo impallidì, serrando i denti per non batterli: era sicuro che sarebbe impazzito, tutto solo… intuì la contrarietà del suo padrone, e un timore peggiore lo costrinse a chinare la testa.
«Sì, signore. Come vuoi».
Forse fu il viso cereo, forse il filo di voce che gli era uscito dalle labbra… Zuril parve cambiare idea.
«Molto bene, vieni pure». D’accordo, ragazzo. Fatti le tue esperienze da solo.


Come il giorno precedente, Kein sedette ad un tavolo nella saletta vuota all’esterno dello studio di Sua Maestà; gettò un’occhiata alle guardie, sempre immobili, e tirati fuori dalla sua sacca un videolibro e un riproduttore portatile per ascoltare musica che gli aveva prestato Zuril, si dispose ad aspettare mentre il suo padrone conferiva con il sire.
Re Vega era più che soddisfatto della conquista di Fleed: gli odiosi reali che l’avevano contrastato erano morti, il popolo sterminato, lo stesso pianeta era reso irriconoscibile dalle radiazioni. Un pericolo per la sua corona era stato interamente sventato, distrutto. Mancava solo un elemento perché il suo trionfo fosse completo: si erano impossessati di Goldrake, ma non avevano ancora catturato il principe di Fleed, l’unico in grado di pilotarlo. Non appena il giovane fosse stato preso e condizionato, lui, Re Vega, avrebbe avuto in pugno l’arma con cui avrebbe potuto sottomettere l’universo.
In quel momento, il nuovo obiettivo del sire era un pianeta non particolarmente grande, ma importantissimo per ricchezze e materie prime. Disgraziatamente, era abitato da una razza inferiore che sarebbe stato necessario eliminare.
Zuril era però di ben altre idee. A suo parere, Terra (così gli abitanti chiamavano il loro pianeta) era un mondo straordinario per clima e habitat: devastarlo a suon di bombe vegatron sarebbe stato un irreparabile disastro, tantopiù che Vega era ormai inquinato, senza rimedio.
«Sire, verrà il giorno in cui avremo bisogno di un nuovo mondo in cui vivere», disse con forza.
«Ancora le tue solite storie!» esclamò Barendos, sprezzante.
Il sire non rispose. Aveva avuto fretta di distruggere Fleed perché ne aveva temuto le difese; i terrestri però sembravano un popolo molto più arretrato, spazzarli via non sarebbe stato così difficile. Nonostante tutto, lui stesso capiva che Vega era inquinato oltre ogni livello di guardia… tacque, incerto.
«Maestà, lasciate che vi conquisti questo mondo», continuò Barendos.
«Sire, vi prego! Questo pianeta è unico!», esclamò Zuril. «Distruggerlo sarebbe un delitto imperdonabile! Lasciatemi il tempo di studiare una strategia che ci permetta di conquistarlo senza danneggiarlo!»
«Sempre le tue perdite di tempo!», sbottò Barendos; e a Re Vega, che li ascoltava in silenzio: «Vostra Maestà, vi ho mai deluso, io?»
Un bip bip segnalò una comunicazione urgente. Con un gesto secco della mano, Re Vega troncò le discussioni e lesse il comunicato apparso sul suo monitor: pallido d’ira, guardò Barendos con occhi di fuoco: «Ci hanno rubato Goldrake!»
Il comandante si fece cinereo: «Non è possibile…»
«Quel maledetto Duke Fleed è riuscito a portarlo via sotto al naso dei nostri soldati!» urlò Re Vega battendo rabbiosamente il pugno sul tavolo. «Senza quel robot, la nostra vittoria non conta niente!»
«Sire, lo recupereremo…»
«Hanno già inviato navi all’inseguimento, ma Goldrake è troppo veloce» ringhiò il sovrano. «Non riusciranno a raggiungerlo! Lo perderemo nello spazio!»
«Maestà, il principe di Fleed è solo un ragazzino inesperto», pigolò Barendos «Riusciremo a…»
«Mi chiedevi se mi hai mai deluso» continuò Re Vega. «L’hai fatto adesso!»
Barendos si lasciò cadere in ginocchio davanti a Re Vega, che lo guardò con disgusto prima di voltarsi verso Zuril: «Volevi del tempo per studiare quel pianeta».
Lo scienziato sostenne il suo sguardo: «Sì, Maestà».
«Ho fatto male a badare a chi pensa solo a distruggere e conquistare» Re Vega girò ostentatamente le spalle a Barendos e tornò a rivolgersi a Zuril: «Prenditi pure tutto il tempo che ti è necessario».
«Grazie, Maestà».
Re Vega si rivolse poi a Gandal, rimasto in silenzio fino a quel momento: «Hydargos è già partito per la base in costruzione su quel satellite di Terra…»
«Luna», completò istintivamente Gandal.
«Per Luna. Mettiti in contatto con lui, digli che per il momento qualsiasi operazione bellica deve essere sospesa. Il ministro Zuril provvederà a mandargli istruzioni per le ricerche che intende eseguire».
«Manderò subito una comunicazione ad Hydargos, Maestà».
«Bene», lo sguardo di Re Vega parve trafiggere Barendos, «La seduta è tolta».


Le porte dello studio si aprirono; Zuril fu il primo ad uscire, seguito da Gandal e Dantus, che quel giorno era rimasto prudentemente in silenzio. Per ultimo giunse Barendos, che nascondeva la sua collera dietro un’espressione baldanzosa molto fasulla.
«Stavolta hai vinto tu, Zuril», esclamò, e il suo sorriso era un semplice stiramento della bocca.
Kein raccolse in fretta il videolibro, spense il riproduttore di musica e uscì dalla sala d’aspetto per andare incontro a Zuril.
Barendos sorrise, lascivo, ed accennò a Kein: «Non vuoi proprio separartene, eh?»
Zuril scosse la testa con finta riprovazione: «Mi meraviglia che tu ti scandalizzi per questo, dopo quello che hai combinato su Fleed».
Barendos si rabbuiò subito: «Che cosa vuoi dire?»
«Andiamo», Zuril sorrise con leggerezza, «ci siamo capiti perfettamente».
Era stato un colpo vibrato alla cieca, ma aveva toccato il segno. Barendos s’era fatto grigiastro e continuava a fissarlo, chiedendosi evidentemente cosa quel maledetto sapesse sul suo conto.
Zuril assunse un’aria molto innocente, ma dentro di sé esultava.
A quanto pare, abbiamo la cosa di paglia… interessante.
Barendos si guardò rapidamente oltre la spalla, in direzione di Sua Maestà, e si fece minaccioso: «Senti, Zuril, se solo vai a dire in giro…»
«Vuoi scherzare?», esclamò il ministro, che stava divertendosi come non mai. «Non dirò una sola parola». Non disse “siamo uomini di mondo”, ma il tono era quello. Masticando amaro, Barendos si allontanò frettolosamente, mentre Zuril lo seguiva con lo sguardo.
Data la fama di Barendos, se aveva combinato qualcosa di cui lui stesso non voleva si parlasse, doveva trattarsi di marciume allo stato puro.
Zuril s’allontanò dirigendosi verso la terrazza esterna, e subito Kein gli corse dietro.
«Signore», il ragazzo aveva il viso in fiamme. «Quel… quel…»
«Il comandante Barendos».
«Lui… non ho sentito bene quel che ti ha detto, ma… lui…», l’indignazione gli spezzò le parole.
Zuril si permise un sogghigno: «Lui pensa quello che gli è più facile pensare, Kein».
«Ma non è giusto! Tu non… cioè…»
«Capisco quello che intendi; però tutti abbiamo diritto alle nostre piccole opinioni, non trovi? Persino», la sua bocca si piegò in una smorfia tra il sarcastico e lo sprezzante, «il comandante Barendos».
Mortificato, Kein non rispose: provava una gran vergogna, si sentiva sporco, insudiciato.
Bene, adesso ha capito perché volevo che restasse a casa, si disse Zuril.
Kein tacque. In silenzio, sedette di fianco a Zuril nella navetta che li avrebbe ricondotti a casa.
«Se me lo permetti, domani non verrò con te», disse infine, gli occhi fissi davanti a sé.
«T’avevo detto che ti saresti annoiato, ad accompagnarmi».
«Non è questo», Kein prese fiato. «Non voglio che quel… quel…»
«Quel comandante Barendos…»
«Beh, non voglio che per colpa mia dica male di te» esclamò impulsivamente Kein. «Non te lo meriti!»
Sorpreso, Zuril gli gettò uno sguardo: a quanto pareva, aveva trovato nel ragazzo un difensore della propria rispettabilità.
«Ti ringrazio, Kein», disse infine, e non c’era alcuna traccia d’ironia nella sua voce.


Nei giorni successivi, Kein rimase chiuso nell’appartamento. Zuril gli aveva dato accesso alla sua collezione di videolibri; pur non amando eccessivamente la lettura, il ragazzo ne scelse un paio e trascorse così una buona mezza mattina.
Sentendosi aggranchito, provò qualche esercizio di ginnastica dolce: i muscoli gli dolevano ancora in alcuni punti. Ci sarebbe voluto del tempo per riprendersi completamente dai maltrattamenti che aveva subito.
Giocherellò con l’impianto olografico, e si distrasse assistendo ad un documentario sul passato di Vega: scoprì che un tempo era stato un pianeta verdeggiante, ricco di fauna e di vegetazione. Gettò uno sguardo all’esterno: nuvole violacee, aria densa di polveri, e al di fuori delle zone abitate, il deserto. Sentì un brivido percorrergli la schiena.
Zuril non rientrò che molto tardi, e lo stesso avvenne nei giorni successivi. Kein continuava a trascorrere la giornata come meglio poteva, annoiandosi mortalmente; ogni sera, Zuril tornava cupo in viso, e profondamente stanco. Il ragazzo non osava fargli domande, ma gli pareva evidente che il suo padrone era preoccupato, e parecchio.
Una sera, Zuril rientrò talmente provato da sedersi subito su una poltrona.
Senza dire una parola, Kein andò al pannello nella parete, ordinò una tazza di ween e gliela porse.
Stupefatto, Zuril guardò prima la tazza e poi il ragazzo. In quel momento non aveva certo voglia di ween, ma non volle deludere Kein: sentendosi poi meglio, dovette riconoscere a sé stesso che il suo schiavo aveva avuto più buon senso di lui.
«Grazie, Kein» osservò il viso serio del ragazzo e decise di trattarlo come un adulto, esattamente come da tempo faceva con suo figlio Fritz. «Siediti pure. Devo parlarti».
Sorpreso, il ragazzo s’accomodò sul bordo del divano: «Sì, signore».
«Avrai capito che c’è nell’aria qualcosa d’importante».
Kein annuì: «Mi sembra che tu lavori anche troppo, signore».
«È a causa della Terra, un nuovo pianeta che Sua Maestà Re Vega ha deciso di conquistare».
Il ragazzo sentì stringerglisi il cuore: «Ci sarà una guerra, signore?»
Zuril scosse la testa: «Un’invasione, se mai. I terrestri non sono assolutamente in grado di opporsi alle forze di Vega. Verranno spazzati via come niente».
Un altro popolo innocente che sarebbe stato sterminato… infinite persone deportate, uccise, bambini come lui privati di una casa, una famiglia… tutto.
Kein respinse quasi con rabbia quel pensiero: «Sì, signore».
«Terra è un pianeta meraviglioso», Zuril guardò istintivamente fuori del finestrone, vide le nuvole di polvere violacea e fece una smorfia. «Un mondo popolato da piante e animali, un luogo d’incredibile bellezza… ma è inutile che te lo descriva, Kein. Dovresti vederlo».
Anche Fleed era meraviglioso… «Certo, signore».
«Nonostante quel che continuo a ripetergli, so che Re Vega vorrebbe conquistare questo mondo come ha fatto con tutti gli altri: bombardandolo, distruggendo irreparabilmente ogni essere vivente… trasformandolo in un pianeta sterile, morto». Zuril si guardò pensosamente le mani: «Io sto cercando d’impedirglielo».
«Signore, vuoi dire che stai cercando di salvare i terrestri?»
A dispetto della sua abituale compostezza, Zuril si permise un verso disgustato: «Quella gentaglia inutile, che non sa fare altro che danneggiare il mondo meraviglioso su cui vive? Vuoi scherzare? Se spazzassimo via quei parassiti, la Terra non ne avrebbe che vantaggi! …No, io voglio salvare il pianeta. Sto studiando un modo per eliminare i terrestri senza arrecare danno all’ecosistema. Per questo ho bisogno di tempo; e per avere il tempo, sto tenendo testa a Barendos, che vorrebbe partire subito all’attacco, da quel bestione idiota che è…»
Kein smise d’ascoltarlo e lo guardò come se lo vedesse per la prima volta: quell’uomo era stato così gentile con lui, l’aveva salvato, nutrito, curato, si era sempre preoccupato che lui avesse tutto il necessario, l’aveva sempre trattato con rispetto… e ora parlava senza batter ciglio di un genocidio! Non poteva crederci…
«Qualcosa non va?» Zuril si era accorto del suo smarrimento, evidentemente.
«Signore», Kein deglutì, «stai parlando di… di uno sterminio di massa…!»
«È molto spiacevole, ne convengo», rispose Zuril. «Non credere che mi piaccia l’idea di eliminare quella gente, per quanto inutile e dannosa possa essere. Se potessi, preferirei evitarlo. Disgraziatamente, non abbiamo altre soluzioni: quel mondo ci serve».
«Ma…»
«Kein, Vega ha il tempo contato. Presto, molto prima di quanto Sua Maestà stesso voglia sentirsi dire, questo mondo devastato collasserà: dove potremo portare il nostro popolo, allora, per salvarlo dal disastro? Che noi sappiamo, non esiste un pianeta come la Terra e che sia disabitato».
Kein scosse la testa: «No…»
«Noi veghiani siamo predatori», spiegò in tono ragionevole Zuril «Quello che vogliamo, ce lo prendiamo. È la nostra natura. Adesso ci serve quel pianeta, e come sono finalmente riuscito a far comprendere al nostro beneamato sire, ci serve integro. Con buona pace di Barendos, oggi ho vinto io: Sua Maestà ha confermato definitivamente l’ordine di studiare il pianeta e aspettare a dare l’attacco. Barendos vuole rifarsi, visto che con la fuga di Goldrake ha perso parecchio agli occhi del nostro sovrano; ovviamente sperava di riuscire a convincere Re Vega a dare l’ordine d’invasione, ma sono riuscito ad impedirlo». Si rilassò appoggiandosi con le spalle allo schienale della poltrona: «Adesso, ho finito il mio lavoro, qui. Domani potremo partire per Zuul. Non dovremo più restare su questo dannato pianeta».
Kein sbarrò gli occhi: «Pensavo che tu fossi contento di essere a casa tua»
«Casa?», Zuril si guardò in giro con aria piena di repulsione. «Questo è solo il posto in cui vengo a dormire dopo il lavoro».
Kein tacque, mentre qualcosa che aveva sentito parve tornargli alla mente: «Signore, hai detto… la fuga di Goldrake?»
«Sì», ammise di malavoglia Zuril. «Duke Fleed è riuscito a prenderlo ed è scappato. Colpa di Barendos, che non l’ha sorvegliato a dovere».
«Scappato…?», Kein conosceva bene Duke, e faticava parecchio ad immaginarselo fuggire davanti ai nemici.
«Ovviamente, ha dovuto farlo», spiegò Zuril. «Portarci via Goldrake è stata da parte sua la mossa più logica. È scomparso nello spazio, e penso che non lo rivedremo mai più. Un peccato aver perso quel robot. …Adesso mangiamo e andiamo a riposare: domani abbiamo un lungo viaggio che ci aspetta».


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Nuovo capitolo, corposo pure questo.

9 Zuul

«A casa, finalmente», Zuril si guardò attorno con aria d’approvazione: mancava da tantissimo tempo, e non gli pareva vero essere finalmente sul suo pianeta, nella propria abitazione.
Kein entrò a sua volta, titubante: quel nuovo mondo, Zuul, era una sorpresa.
Per lui, Vega era sinonimo di inquinamento, natura distrutta, metallo, plastiche, materiali sintetici; ma, come gli aveva spiegato Zuril, Zuul era qualcosa di totalmente diverso. Colonia di Vega da innumerevoli secoli, era un pianeta ricoperto di vegetazione, molto simile a quello che era stato Fleed; un Fleed dal clima più rigido e dai pallidi colori nordici, ma pur sempre un mondo in cui la natura cresceva rigogliosa. Le città erano immerse nel tenue verde argento di Zuul, le case erano costruite in materiali naturali, l’aria era tersa, pulita. Oltre i centri abitati, il verde più scuro delle foreste regnava ovunque, incontrastato.
Kein si guardò curiosamente attorno.
La casa di Zuril era una tipica abitazione di Zuul: costruita in pietra e legno, dalle vaste stanze luminose e dai soffitti bassi, con grandi vetrate che si aprivano sul verde, arredata con mobili lineari, essenziali e funzionali. Era concepita in un modo che per Kein era totalmente alieno, ma comunque molto più familiare dei gelidi alloggi di Vega, tutti plastica e metallo. Ma, come gli aveva spiegato Zuril, gli abitanti di Zuul tendevano ad integrarsi con il loro mondo, mentre i veghiani lo dominavano senza averne cura o rispetto.
Kein sospirò leggermente, chiedendosi che tipo di vita l’attendesse su quel pianeta; nel frattempo, Zuril era sparito chissà dove, andato probabilmente a deporre la valigetta con lo scanner e il computer portatile da cui non si separava mai. Muovendosi silenziosamente sui cuscinetti a sfera, la robovaligia contenente gli altri suoi effetti personali doveva averlo seguito.
Incerto, Kein osservò meglio la stanza: era un ampio soggiorno, molto arioso, nei toni del legno chiaro, del bianco e dell’azzurro. Le porte erano a scomparsa, come su Vega, ma non erano automatiche. La cosa però che lo sorprese anche di più era la totale assenza di mobili come armadi, scaffali e credenze, per cui si chiese oziosamente dove il suo padrone tenesse gli oggetti d’uso comune – più avanti avrebbe scoperto che su Zuul erano diffusi gli armadi a muro, e che in una casa non v’era parete che non celasse scaffali e ripostigli. Anche le porte, non automatiche, erano tutte a scomparsa.
Il ragazzo rimase immobile dov’era, non osando muoversi in quella che non sapeva se avrebbe dovuto considerare la sua casa; non ebbe nemmeno il coraggio di deporre la sacca che portava in spalla e che conteneva tutti i suoi averi, consistenti in biancheria ed alcuni vestiti di ricambio che Zuril gli aveva comperato. Restò in piedi, sentendo crescere dentro di sé l’inquietudine che mai l’aveva lasciato da quando era divenuto un prigioniero; in quel momento, Zuril ricomparve e sembrò sorpreso nel vederlo così a disagio.
«Non so dove… dove mettere le mie cose», mormorò Kein, confuso.
«Hai ragione. Ti faccio vedere la tua stanza, vieni», Zuril imboccò un lungo corridoio: la parete di destra era a vetri, sull’altra si aprivano alcune porte. Kein lo seguì (aveva proprio detto “la tua stanza”? Possibile?); Zuril aprì l’ultima porta e si fece da parte per lasciarlo passare.
Il ragazzo trattenne il fiato.
La camera non era molto grande ma luminosissima e pulita; c’erano un letto, un comodino, un tavolo e un paio di sedie, senza contare tutti i vani a muro di cui era dotata. Una porta dava su un piccolo bagno; dalla portafinestra si poteva andare su un balcone da cui si aveva una panoramica su un grande prato, alberi, altre abitazioni seminascoste dal verde.
«Io… questa stanza… è proprio per me?» Non poteva crederci…
Zuril parve sorpreso, non era abituato a veder messo in dubbio quel che diceva: «Certo, è tua. Qui c’è l’armadio; puoi sistemare i tuoi vestiti». Vide lo stupore di Kein e aggiunse: «Credevi che t’avrei fatto dormire ancora su un divano?»
Se c’era una cosa che Kein aveva imparato subito del suo padrone, era che bisognava dirgli sempre la verità, per quanto sgradevole potesse essere: «Scusami, signore. Io… beh… non so cosa mi aspettavo. Si dice che su Vega gli schiavi siano trattati… mh… non bene».
«Vuoi dire “in modo inumano”». Zuril assentì. «Ti dico due cose, Kein: innanzitutto, qui non siamo su Vega. In secondo luogo, tu sai perché ti ho comperato. Sarebbe idiota che ti maltrattassi senza motivo, non trovi?»
«Sì, signore» comprometterebbe l’esperimento. Certo.
«Ti ho detto che ti avrei dato le stesse possibilità di un ragazzo di Vega» continuò Zuril «Te ne ricordi?»
«Sì, signore, mi ricordo bene».
«Perfetto. Io ho una parola sola, tienilo presente».
Rimasto solo, Kein cominciò a prendere possesso della sua stanza: osservò i mobili, aprì tutti gli scomparti, si affacciò alla finestra respirando a pieni polmoni quell’aria fine e dai profumi ancora sconosciuti, esaminò il bagno. Quella camera, ordinata, elegante ma un po’ anonima, doveva essere stata usata come stanza per eventuali ospiti; chissà perché, ebbe l’impressione che nessuno vi dormisse da molto tempo.
Sul letto campeggiava un oloquadro incorniciato d’argento; raffigurava un paesaggio di montagna con una cascata, ed era sufficiente sfiorare i comandi incastonati nella cornice per vedere l’acqua scorrere e sentirne lo scroscio. Kein toccò un pulsante e la cascata scomparve lasciando il posto alla figura di un uccello variopinto. Altre immagini si susseguirono: una scogliera sul mare, un antico albero contorto, un cielo nuvoloso spazzato dal vento… Kein le scorse tutte, e infine tornò sulla cascata, che effettivamente gli piaceva più delle altre.
Aprì la sacca che aveva lasciato a terra e ne tirò fuori i vestiti, che dispose nell’armadio a muro; lasciò fuori solo un cambio completo e andò a provare la doccia ad ultrasuoni. Si sentiva ancora addosso l’odore dell’astronave, un misto di plastica e detergenti.
Quando si fu asciugato e rivestito uscì dalla camera: sentiva il rumore di un’altra doccia, ma non riusciva a localizzare esattamente da dove provenisse. Evidentemente, Zuril aveva avuto la sua stessa idea.
Percorse il corridoio, gettando un’occhiata nelle varie stanze: un’altra camera da letto, molto simile alla sua, un piccolo studio, una porta chiusa… evidentemente, la stanza di Zuril. Tornò nel soggiorno, girellò senza meta; finalmente, un oloquadretto posato su un tavolino attirò la sua attenzione.
Lo prese in mano: raffigurava un bambino un po’ più giovane di lui, dalla pelle verdastra e dallo sguardo franco, diretto. Aveva un’espressione completamente diversa da quella di Zuril, ma non c’erano dubbi, i lineamenti erano gli stessi. Quello doveva essere Fritz.
Kein continuò a fissare il ritratto, continuando a chiedersi che tipo di ragazzo fosse divenuto quel bambino: aveva timore ad incontrarlo e non capiva il perché…
O meglio, lo capiva benissimo.
Aveva paura che Fritz fosse un ragazzo antipatico, viziato, magari il tipico giovane veghiano arrogante e violento; se così fosse stato, uno schiavo non avrebbe potuto ribellarsi alle sue angherie. Senza contare che difficilmente Zuril sarebbe andato contro il proprio figlio parteggiando per un servo…
Provando una fitta di timore, Kein guardò ancora il ritratto: non sembrava il viso d’un ragazzo crudele, ma non c’era da fidarsi.
Non s’accorse d’aver premuto un altro pulsante: l’immagine cambiò. Una donna teneva in braccio un Fritz molto più piccolo.
Quella doveva essere stata la moglie di Zuril: non era particolarmente bella ma aveva lineamenti fini, occhi intelligenti e un’espressione dolce. Il bambino le teneva le braccine attorno al collo e le sorrideva, beato. Dovevano essere stati molto felici.
Un’altra immagine: stavolta Fritz era più grande, ed era in piedi accanto al padre. Il viso di Zuril appariva più sereno, meno segnato; vedendoli vicini, Kein non poté non notare la grande somiglianza tra i due. Chissà se Fritz aveva ereditato dal padre la capacità di comportarsi con estrema freddezza, di celare i sentimenti, di apparire sempre molto logico e ragionevole…
«Cosa stai guardando?»
Kein trasalì, e quasi l’oloquadro gli sfuggì dalle mani. Non si era accorto che il rumore della doccia era cessato, non aveva sentito Zuril arrivare alle sue spalle. Forse non aveva piacere che lui guardasse quelle immagini della sua famiglia…
Il suo padrone tese una mano, e Kein dovette consegnargli il quadro. Zuril guardò, e il suo viso non tradì alcuna emozione.
«Questo è Fritz, qualche anno fa. Avete circa la stessa età, voi due», gli restituì il quadro; Kein lo prese, inavvertitamente toccò il piccolo pulsante. Una nuova immagine apparve, un ritratto della madre di Fritz: era sola, molto giovane, e sorrideva un po’ stentatamente come se si fosse sentita a disagio nel posare per un ologramma.
Zuril trattenne il fiato, un’ombra parve scendergli sul viso; quando parlò, la sua voce era però ferma come sempre: «Quella è la madre di Fritz. Mia moglie. È morta da molti anni».
«Mi… mi dispiace», era banale, ma Kein non sapeva che altro dire.
Zuril gli tolse di mano il quadro, rimase qualche istante assorto ad osservare il ritratto della moglie; mosse lievemente un dito sull’immagine come per una fugace carezza, poi selezionò ancora l’immagine di Fritz da solo e depose nuovamente il quadretto sul tavolino. Rimase soprappensiero qualche istante, prima di riemergere dai propri ricordi.
«È piuttosto tardi» Zuril si voltò a guardarlo: «Hai fame?»
Improvvisamente, Kein s’accorse di essere sfinito: «Sì, signore. Molta».
«Beh, vediamo che cosa c’è rimasto» Zuril andò in una stanza che Kein riconobbe per una cucina. Su Vega si servivano cibi approntati dai robodomestici, ma era evidente che su Zuul ci si poteva preparare il proprio pasto.
«Non ci sono i robodomestici?», chiese infine Kein, arrampicandosi su un alto sgabello.
«Consumano molta energia, come le porte automatiche». Zuril stava cavando da una credenza una serie di contenitori di cibi che Kein non conosceva. «Poi, trovo rilassante preparare da mangiare».
«Niente robot». Kein si guardò in giro «E le pulizie?»
«C’è il robodomestico», Zuril fece un sorrisetto. «Detesto le pulizie».
Sorrise anche Kein: evidentemente, meglio sciupare un po’ di energia che svolgere quell’odioso lavoro…
Rimase a guardarsi come uno spettacolo il suo padrone, il Ministro delle Scienze, mentre armeggiava con i tegami: dimostrava una notevole perizia, e infatti la cena, per quanto esotica e ricca di sconosciuti sapori, gli parve decisamente gradevole. Zuril era invece di ben altro avviso, secondo lui avrebbe potuto fare di meglio… ma naturalmente, avevano dovuto arrangiarsi con quel che c’era in casa. L’indomani avrebbero provveduto a rifornire la dispensa, per oggi si sarebbero accontentati.
Non appena ebbe finito gli ultimi bocconi, Kein sentì una pesante sonnolenza impadronirsi di lui, gravargli sugli occhi che faticavano a restare aperti. Sbadigliò: forse Zuril gli aveva ancora messo qualcosa nella cena per farlo dormire…?
«Proprio no», Zuril raccolse i piatti e li depose in una nicchia nel muro che conteneva il pulitore ad ultrasuoni. «Questa è normale stanchezza. Non ho bisogno di te, vai a letto».
Kein non se lo fece ripetere. Aveva pensato che la prima notte su quel nuovo, sconosciuto pianeta non avrebbe potuto chiudere occhio; sprofondò invece in un sonno profondo e ristoratore.
Aveva l’impressione di essere arrivato a casa.


Nonostante i suoi modi gentili e la ragionevolezza, Kein aveva intuito in Zuril una spietata volontà d’acciaio; aveva capito subito che fosse molto pericoloso contrariarlo, o peggio, inimicarselo, e aveva agito di conseguenza.
Per sua fortuna, lo scienziato non era certo un tiranno e non lo opprimeva con obblighi e castighi; al contrario, tendeva a lasciarlo indipendente. A parte una rigorosa puntualità negli orari dei pasti, Kein era praticamente libero di fare quel che più gli piaceva, a patto di non lasciare sporco o disordine per casa. In quei giorni, mentre il suo padrone si chiudeva a lavorare nel suo studio privato, il ragazzo trascorse molte ore sdraiato sotto un albero del giardino a divorare un videolibro dietro l’altro. Fece anche qualche passeggiata, ma non osò spingersi ad esplorare zone lontane da casa: si sentiva ancora molto stanco, come se fosse stato convalescente dopo una lunga malattia, per cui leggeva, faceva un poco di moto e soprattutto riposava molto.
Pian piano sentiva il suo corpo rinforzarsi e guarire; al contrario, il suo spirito sembrava incapace di riprendersi da quanto era successo.
Man mano la sua salute migliorava, incubi spaventosi avevano continuato a tormentarlo: praticamente, da dopo il suo arrivo su Zuul non c’era stata notte in cui non si fosse svegliato almeno una volta, agghiacciato dall’angoscia e col corpo madido di sudore. Non disse nulla al suo padrone ma a Zuril bastò un’occhiata al suo viso tirato, agli occhi incavati e gonfi per capire.
Quella sera, subito dopo cena gli mise davanti una boccetta: «Cinque gocce».
Intontito dal sonno, Kein la prese, la rigirò tra le dita: «È un sonnifero?»
«Direi che tu non abbia bisogno di qualcosa che ti faccia dormire», rispose Zuril mentre Kein sbadigliava profondamente. «Tu devi solo rilassarti. Queste gocce ti aiuteranno a riposare meglio».
«Grazie, signore». Kein versò cinque gocce nel suo bicchiere, aggiunse acqua e bevve d’un fiato. Fece per aiutare Zuril a raccogliere le stoviglie, ma fu respinto: «Faccio io. Tu vai a dormire».
Pieno di gratitudine, il ragazzo si trascinò verso la porta.
«Kein».
Si voltò proprio sulla soglia: «Sì, signore?»
«Rifiutarsi di affrontare i problemi non è una soluzione. Serve solo a crearne altri».
Era stata la sua immaginazione, o la voce del suo freddo padrone aveva vibrato di preoccupazione? Kein si voltò a guardarlo, ma Zuril gli apparve come sempre, impassibile e controllatissimo.
«Hai ragione, signore», rispose, ma sapeva che non avrebbe seguito il consiglio.
Non voleva affrontare i suoi problemi. Non voleva ripensare a quello che era successo, non poteva elaborare i lutti che l’avevano colpito, la sventura immane che aveva distrutto il suo mondo: non voleva ricordare, non se la sentiva.
Se avesse cominciato a piangere, non avrebbe più potuto smettere...
Ricacciò indietro tutti i suoi pensieri, respingendoli come sempre aveva fatto nel più profondo del suo essere.
Era vivo. Era in buona salute. Aveva una nuova vita davanti a sé.
Conta il presente, si disse, sdraiandosi nel letto e affondando il viso nel cuscino. Il passato non mi serve più... è solo dolore.


Quella porticina l’aveva incuriosito da subito.
Kein aveva gironzolato per tutta la casa, imparando a conoscerla poco a poco; l’unico interrogativo che ancora gli restava era proprio quel piccolo uscio nella camera di Zuril.
Doveva trattarsi di un locale di modeste dimensioni, almeno da quel che poteva giudicare: avrebbe potuto essere un’olocamera, ma sapeva che Zuril non amava particolarmente quel genere d’intrattenimento. Non ebbe però mai il coraggio di chiedere; intanto, la curiosità cresceva.
Fu un mattino in cui Zuril s’era assentato per… beh, Kein non era stato a sentire il motivo per cui il suo padrone s’era allontanato: gli era bastato sapere d’essere solo in casa per un po’ di tempo.
Scivolare nella stanza di Zuril fu affare di pochi istanti.
Dalle pareti, dal tavolino accanto al letto, lo guardavano vari ritratti della moglie del suo padrone; Kein evitò di guardarli, quasi il non vederla lo facesse sentire non visto, e s’affrettò ad aprire la porticina.
Entrò: una stanzetta buia, completamente priva di finestre, ricavata nella camera da letto del suo padrone. Una luce azzurra sembrava piovere su di lui: davanti e attorno, una parete ricurva e trasparente, acqua, bolle d’aria… decine e decine di esseri argentei…
Un enorme acquario.
Senza fiato, Kein s’avvicinò maggiormente alla superficie in plastivetro: tutto si sarebbe aspettato, tutto… ma questo…
Una musica parve colargli addosso: note lente, rilassanti, ovattate… sembrava d’essere immersi in quelle acque, di fluttuare con quei pesci.
Allargò istintivamente le braccia, quasi avesse potuto nuotare a sua volta: incantato, continuò ad osservare quelle creature che guizzavano, mandando bagliori argentei. Era tutto meravigliosamente rilassante: l’azzurro, i pesci, le bolle d’aria, la musica…
«È molto distensivo, non trovi?»
Kein sobbalzò, sentendosi il cuore martellargli dolorosamente nel petto: Zuril era tornato, l’aveva scoperto proprio lì… cosa gli avrebbe fatto, ora? L’avrebbe punito, ne era certo.
Come ho potuto essere così idiota…?
«Signore, io…», deglutì, annaspando penosamente nel vano tentativo di trovare le parole. «Io… mi dispiace, io non volevo…»
«Io penso che tu volessi, invece», rispose Zuril, il viso impenetrabile.
Kein prese fiato: al suo padrone bisognava sempre dire la verità, per quanto sgradevole potesse essere. Non poteva mentirgli e sperare di farla franca… non con lui.
«Io… mi dispiace, ma… volevo sapere…», deglutì faticosamente. «Questa porta… io…»
«Volevi sapere cosa c’è dietro quella porta», completò Zuril serissimo.
Kein chinò la testa: «Sì».
Zuril tacque, fissandolo per qualche istante che gli parve eterno; poi, il suo unico occhio ebbe uno scintillio d’umorismo: «Beh, è la risposta più onesta che potessi darmi».
«Mi dispiace…»
«Lo so che ti dispiace», rispose Zuril, e la sua voce non suonava più così gelida «So però anche che lo rifaresti subito». Rise senza cattiveria della confusione del ragazzo ed aggiunse: «Non t’aspettavi un acquario, vero?»
Kein scosse il capo. No.
«Già che ci sei, guardalo meglio», Zuril lo sospinse verso il centro della stanzina, dov’era posta una poltrona girevole che, al buio, il ragazzo non aveva notato. Ancora confuso per l’imbarazzo, Kein sedette: era molto rilassante restare così, seduto comodo in quella penombra azzurrata, udendo quella musica…
Sorpreso, guardò Zuril che parve comprendere la sua domanda.
«Certo, potrei ottenere un effetto molto simile anche guardando un semplice ologramma», spiegò lo scienziato. «Trovo però molto più piacevole pensare che si tratta di pesci veri».
«Mi dispiace essere entrato così», mormorò Kein confuso, mentre poco dopo usciva dallo stanzino assieme a Zuril. «Non avrei dovuto... cioè...»
«Non avresti dovuto, è vero», rispose leggermente Zuril. «Che cosa ti sembra dei miei pesci?»
«Sono magnifici», rispose d’impulso il ragazzo. «Guardarli nuotare... non so, mi faceva star bene».
«Allora, hai anche capito perché li allevo», concluse il suo padrone.


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Un paio di capitoli più brevi, stavolta.

10 Test d’ammissione

Fu un mattino mentre sedevano per la colazione, che Zuril affrontò l’argomento del futuro di Kein.
«L’anno scolastico sta per terminare, e mio figlio avrà le sue vacanze», cominciò Zuril. «Penso di andarlo a prendere su Vega, in modo da iscrivere anche te per l’anno prossimo».
Kein, che aveva un boccone in bocca, si sentì soffocare. Zuril finse di non essersene accorto, e proseguì:
«Ti sottoporranno un test per valutare le tue competenze ed inserirti nella classe più adatta».
«Un… test?», Kein deglutì, mentre sentiva il terrore annodargli lo stomaco. «Ma… io… io non so se…»
«La cosa ti preoccupa?», chiese Zuril. «Sarai contento allora di sapere che ti ho preparato anch’io un test perché tu possa allenarti. Niente di complicato, si tratta solo di una serie di domande».
Kein ingollò quel che restava del suo succo di frutta: «Quando dovrei farlo?»
«Hai impegni, per stamattina?» chiese soavemente Zuril.
Il ragazzo gettò un’occhiata colma di rimpianto al giardino, con il suo grande albero ombroso, e disse quel che doveva dire: «Naturalmente no, signore».
Non molto dopo, Kein sedeva stringendosi convulsamente la testa tra le mani, le caviglie attorcigliate attorno alle gambe della sedia e gli occhi fissi sull’infernale test architettato dal suo padrone.
In tutta la sua carriera scolastica, Kein non era certo stato un alunno modello: intelligente, intuitivo e dotato di eccellente memoria, aveva contato soprattutto su queste sue caratteristiche per strappare qualche voto discreto, visto che il suo spirito turbolento non era affatto portato per lo studio costante. Per anni i suoi insegnanti si erano sgolati a ripetergli quali meravigliosi risultati avrebbe ottenuto, se solo si fosse in minima parte impegnato… ora, rimpiangeva amaramente di non averli ascoltati. Avesse studiato, magari avrebbe avuto qualche possibilità di cavarsela con quella prova impossibile.
Riguardò per l’ennesima volta i fogli: domande cui doveva rispondere per esteso, domande cui doveva scegliere la risposta giusta, domande in cui andavano selezionate le opzioni errate… e tutte erano domande complicate che esigevano risposte corrette e minuziose. Praticamente, non c’era argomento che non fosse stato sviscerato.
Kein rifletté febbrilmente: di alcune domande, pochine in verità, conosceva la risposta corretta.
Della maggior parte aveva solo una vaga idea della risposta, e di alcune non sapeva proprio cosa rispondere.
“Non tirare ad indovinare”, gli aveva consigliato Zuril, “gli insegnanti preferiranno vedere cosa effettivamente sai. Mettere le risposte a caso ti fa solo rischiare di sbagliare e fare la figura dello stupido”.
Kein rispose come poté. Scrisse le scarse risposte di cui era sicurissimo, con grandi incertezze aggiunse le parecchie risposte che sapeva imperfette e saltò completamente le domande di cui ignorava la risposta. Alla fine, stanco e nervoso, consegnò i fogli del test a Zuril ed andò finalmente a riposarsi in giardino. Si sentiva come svuotato, aveva praticamente trascorso l’intera mattinata a sudare su quelle domande, ed era più che sicuro d’aver fatto una figuraccia. In preda al panico, si chiese che avrebbe pensato Zuril della sua preparazione: avrebbe forse deciso che lui fosse troppo ignorante per una scuola di Vega…?
Titubante, raggiunse il suo padrone per il pranzo: si era aspettato che lui gli parlasse del fiasco compiuto con quel test… ma Zuril non aveva con sé i fogli.
Ci vorrà parecchio per correggerli tutti, pensò Kein.
Aveva ancora qualche ora per far credere di essere pronto ad affrontare le scuole di Vega; poi la verità sarebbe stata palese, e Zuril avrebbe perso qualsiasi illusione nei suoi confronti.
Quel pomeriggio Kein, nervosissimo, stava tentando di leggere per l’ennesima volta una pagina del suo videolibro quando Zuril lo chiamò nel proprio studio. Era seduto alla scrivania: davanti a lui, i fogli del test.
Sentendosi morire, Kein occhieggiò le correzioni – molte, veramente troppe – che campeggiavano sul suo lavoro. Possibile che avesse sbagliato così tante domande? Non ce n’era praticamente una che non fosse stata corretta… era andata anche peggio di quel che si fosse aspettato.
Zuril gli accennò ad una sedia accanto alla propria; poi prese il primo foglio e cominciò a scorrere le risposte, una per una.
Pian piano, Kein cominciò ad avere un quadro un po’ più completo della situazione: molte risposte erano sostanzialmente giuste, più che correggere Zuril aveva aggiunto precisazioni ed approfondimenti. Alcune domande, tuttavia, erano state lasciate completamente in bianco, altre risposte erano gravemente incomplete… un disastro…
Quando ebbe esaminato l’ultima domanda, Zuril raccolse ordinatamente i fogli, li batté con i bordi sul tavolo per impilarli e li unì con una cambretta. Finalmente guardò in viso Kein, che stava torcendosi disperatamente le mani.
«Devo dire che mi aspettavo molto meno, da te», commentò Zuril.
Ci volle qualche secondo perché Kein comprendesse in pieno quel che gli era stato detto: «…Eh…?»
«Hai risposto, anche se imperfettamente, a molte domande che mi aspettavo avresti lasciato in bianco. Temo d’aver avuto un concetto sbagliato del sistema scolastico di Fleed, la tua preparazione è migliore di quel che pensassi».
«La mia…? Ma… », deglutì, riprese fiato: «Signore, ho lasciato in bianco tante risposte…»
«Mi avrebbe meravigliato molto il contrario».
«…e molte altre erano mezze sbagliate…»
«Incomplete, se mai. Non sbagliate. Alcune poi erano del tutto giuste, ho solo aggiunto qualche piccola precisazione». Lo guardò dritto negli occhi: «Questo test era davvero difficile, per la tua età».
«Difficile…? Ma allora, perchè…?»
«Semplice: se hai affrontato questo, non sarà certo la prova d’ingresso che ti daranno a scuola ad impensierirti. Tutto lì» lo fissò nuovamente negli occhi: «Eri spaventato all’idea di farti esaminare dagli insegnanti? Di’ la verità».
«Sì, lo ero».
«E ora?»
Kein rifletté un attimo: «Molto meno, signore».
Zuril assentì, soddisfatto: «Ottimo. Ho ottenuto quel che volevo».


Mentre usciva dallo studio del suo padrone, i fogli corretti in mano, Kein gettò uno sguardo attorno: una foto sulla scrivania, un grande ritratto appeso alla parete.
Lei, sempre lei… non vi erano altre immagini, nello studio di Zuril. Lo stesso, Kein lo ricordava bene, era nella sua stanza. Solo lei. Eppure, doveva essere passato ormai tanto tempo…
Kein gettò uno sguardo rapido al Ministro delle Scienze, chino sul suo computer: appariva quel che era, un uomo molto solo.
Uscì e chiuse la porta dietro di sé, appoggiandocisi con le spalle.
Non avrebbe mai pensato di poter un giorno provare pena per un veghiano.


Sotto un’immensa cupola che la proteggeva dalla malsana atmosfera di Vega, la scuola era costruita alla periferia della capitale, in una landa desolata battuta dal vento. Più avanti, Kein avrebbe scoperto che là attorno un tempo erano sorte case e palazzi, poi abbandonati e distrutti; ma la scuola, la tenace, antica scuola dalle mura di pietra, aveva resistito, ed era tutt’ora considerata la migliore in assoluto.
Si trattava d’un complesso di edifici bassi, sparpagliati su un terreno piuttosto ampio; un gran cortile cintato, un campo sportivo quadrato e un ampio spiazzo ad uso parcheggio per le navette completavano il tutto.
Severo ed austero come tutte le costruzioni di Vega, totalmente privo di qualsiasi decorazione sulla scabra facciata, l’edificio principale aveva un che di arcigno che intimidì il ragazzo; Zuril dovette dargli una leggera pacca nella schiena per farsi seguire all’interno.
Poco dopo, seduto sul bordo di una sedia nell’ufficio personale del preside, Kein si sentiva la gola completamente chiusa dalla tensione; quanto a Zuril, chiacchierava tranquillamente con il preside stesso, un ometto piccolo e grigiastro che continuava a rivolgere al suo illustre ospite larghi sorrisi che mettevano in mostra i suoi denti da topo. Ma certo, il giovane Kein sarebbe stato accolto tra gli allievi… no, non era un problema il fatto che fosse di Fleed, e per di più uno schiavo… naturalmente, lui sarebbe stato garante che non ci sarebbero state ingiustizie nei suoi confronti… intanto, avrebbero sottoposto il ragazzo ad un piccolo, semplicissimo test d’entrata, tanto per valutare il suo livello d’istruzione. Il ministro doveva comprendere, era la prassi…
Zuril scambiò uno sguardo con Kein, l’unico occhio scintillante: «Ma certo, preside».
Una donna alta e magra dall’aria acida, evidentemente una delle insegnanti più anziane, fece la sua comparsa e disse brevemente a Kein di seguirla. Mentre percorrevano lunghi, oscuri corridoi, il ragazzo continuava ad occhieggiarla, timoroso: lei aveva un’espressione decisamente disgustata, come se lui fosse stato un qualcosa di repellente. Essere uno schiavo di Fleed non gli avrebbe portato le simpatie della gente, di questo era più che cosciente.
Kein sospirò leggermente. Fortuna che il preside ha detto che non ci saranno ingiustizie…
Attraverso le porte chiuse, Kein sentiva il brusio di voci: l’anno scolastico quel giorno sarebbe finito, ma gli studenti erano ancora in piena attività.
La donna fece entrare Kein in un’aula vuota; giunse anche un altro insegnante, un ometto piccolo e tozzo, dall’aria un po’ più bonaria. La donna consegnò a Kein un foglio e gli disse in tono asciutto quanto tempo aveva per compilare il test.
Il ragazzo scorse rapidamente le domande; dovette rileggerle una seconda volta, incredulo.
Erano semplicissime.
Calmati, non sottovalutare le domande…
Kein trasalì: gli era parso quasi di sentire la voce di Zuril. Del resto, era sicuramente quel che gli avrebbe detto, se fosse stato lì.
Con calma, Kein rilesse la prima domanda: era davvero semplice.
Rispose ad ogni quesito: non potevano porre grandi problemi a chi aveva superato il test di Zuril. Quando consegnò il lavoro, ebbe la soddisfazione di vedere la donna inarcare un sopracciglio, evidentemente sorpresa.


11 Fritz

Fu un Kein trionfante quello che uscì nel cortile in cerca del suo padrone: aveva superato il test a pieni voti, come gli aveva detto la professoressa, la bocca storta in una smorfia che nessuno avrebbe preso per un sorriso.
Zuril sedeva in un angolo del cortile assieme ad un ragazzo che doveva avere circa la stessa età di Kein; Fritz, senza dubbio. Anche se appariva più grande che in fotografia, era indubbiamente lui.
Intimidito, Kein sentì morirgli le parole in bocca: aveva tanto temuto quel momento… ma l’altro si alzò e gli andò incontro, tendendogli la mano: «Ciao, io sono Fritz!»
Borbottando il suo nome, Kein ricambiò la stretta del ragazzo; gli bastò guardarlo in viso per sentir svanire tutti i suoi timori.
Fritz appariva sinceramente lieto di vederlo; il suo sorriso era autentico, e autentico era il calore che gli vibrava nella voce. Venir accolto così cordialmente tolse il fiato a Kein, che sentì bruciargli gli occhi, e non certo a causa dell’aria inquinata di Vega, cui stava pian piano abituandosi.
Balbettando non seppe nemmeno lui cosa, Kein salutò anche Zuril, che gli chiese del test.
«Tutto giusto», mormorò Kein, che aveva il pianto in gola.
«Sapevo che ce l’avresti fatta», esclamò Zuril, e per una volta tanto la sua voce non fu così fredda e controllata. «Adesso sarà meglio che vada a completare la tua iscrizione. Aspettatemi qui», e rientrò nella scuola.
Rimasti soli, i due ragazzi sedettero sul muretto basso che separava il cortile dalle aree per le esercitazioni.
«Allora, tu sei Kein», osservò Fritz, in tono discorsivo. «Mio padre mi aveva parlato di te, naturalmente, ma… beh, sono contento di conoscerti».
«Ti ringrazio, signore».
Fritz fece una smorfia: «Non vorrai chiamare me signore!»
«Ma... »
«Chiamami Fritz», tagliò corto il ragazzo. «A dirti la verità, ero un po’ preoccupato».
«Per me?», si stupì Kein.
«Beh, non sapevo cosa aspettarmi» rispose Fritz, con calma disarmante; gli sorrise, e Kein capì d’aver superato un esame.
«Allora l’anno prossimo verrai anche tu in questa scuola?», continuò Fritz.
«Penso di sì», Kein chinò la testa, guardò le proprie dita intrecciate. «Mi hanno detto che ho superato il test d’ammissione…»
«Mio padre non te ne aveva fatto fare uno?»
«Sì… molto difficile».
«Cosa ti aveva detto?»
«Che era sorpreso, pensava che avrei risposto a molte meno domande».
Fritz fischiò: «Hai fatto meglio di me, allora! Complimenti, i test di papà sono veramente impossibili!» Frugò in tasca e ne cavò un pacchetto: «Ne vuoi?»
Sembravano caramelle, gommose e verdastre. Kein ne prese una: era asprigna, dissetante, con un gusto fresco e un po’ pungente. Gli parve squisita.
Pian piano, succhiando caramelle, i due ragazzi cominciarono a parlare amichevolmente tra di loro: Fritz era più espansivo, Kein più riguardoso, ma entrambi cominciarono a sentirsi sempre più a loro agio l’uno in compagnia dell’altro.
Quando Zuril li raggiunse, un po’ di tempo dopo, li trovò che chiacchieravano come se fossero stati amici da sempre.


Fritz rientrò nelle camerate per recuperare le sue cose: anche se l’orario di lezione non era terminato, sarebbe partito subito con suo padre e con Kein. L’anno scolastico era finito, era solo questione di poche ore.
Kein sedette timorosamente sul letto del suo nuovo amico, mentre Fritz controllava d’aver raccolto tutta la sua roba in una robovaligia simile a quella di Zuril.
Quella era una delle camere per gli studenti… un’ampia stanza con quattro letti e un piccolo bagno annesso. Una sistemazione che gli parve strana, visto che su Fleed c’era l’abitudine di destinare una camera individuale a ciascuno. Praticamente, a parte le coppie di coniugi, Kein non aveva mai visto nessuno dividere la propria stanza con qualcuno. Davvero, quella scuola gli sembrava sempre più strana.
Fritz ultimò in fretta il suo bagaglio: non aveva alcun desiderio di fermarsi là più del necessario. S’affacciò solo sulla porta della sua aula per salutare i compagni, prima di dirigersi con il padre e l’amico verso la navetta che li avrebbe finalmente riportati su Zuul.


Il giorno dopo, mentre facevano colazione Fritz chiese a Kein se quel giorno gli sarebbe piaciuto fare una passeggiata; il ragazzo accettò, tantopiù che non aveva avuto occasione di esplorare i dintorni.
«In tutto questo tempo, non sei mai stato al ruscello?», si stupì Fritz.
«Mai», rispose timidamente Kein. «Io... hm... non sono stato molto bene», preferì non far presente che, essendo uno schiavo, forse il suo padrone non avrebbe avuto piacere di vederlo andare tanto in giro; però aveva detto la verità, nei giorni scorsi le sue condizioni non gli avrebbero permesso di compiere escursioni. «Adesso però sono guarito», pensò bene d’aggiungere.
«Allora, devi venire a vederlo», esclamò Fritz.
Kein guardò Zuril, titubante: «Posso...?»
Lo scienziato vuotò la sua tazza di ween: «Ma certo».
Il ragazzo sentì un forte senso di gratitudine per quel suo padrone, così comprensivo; un attimo dopo si disse che in quel modo Zuril si liberava in un colpo solo di due elementi di disturbo e si assicurava così ore e ore di lavoro tranquillo, e la sua gratitudine ebbe una certa scossa. Comunque, avrebbe potuto andare a passeggiare con Fritz, e questo era l’importante.
Non molto dopo i due ragazzi, muniti entrambi d’uno zaino contenente il necessario per un sostanzioso pasto, imboccarono un sentiero tra gli alberi che li portava oltre la zona abitata.
Kein si voltò a guardare la casa: completamente immersa nel verde, risultava quasi invisibile, esattamente come le altre abitazioni. Era difficile pensare che quello fosse un centro abitato; ma Zuril gli aveva spiegato che su Zuul la popolazione era scarsa, e che i più grossi agglomerati urbani non superavano le poche migliaia d’abitanti... distribuiti in una superficie vasta e densa di vegetazione, poi.
Il sentiero si snodava tra i tronchi altissimi degli alberi; Kein, incantato, non faceva che guardarsi attorno. Era sorpreso poi della libertà che era loro concessa: tutto sommato, erano abbastanza distanti da casa, e si meravigliò che Zuril li avesse lasciati tanto liberi.
«Su Vega, non ce lo permetterebbe», spiegò Fritz a d una precisa domanda del compagno. «Là puoi incontrare di tutto, bisogna stare attenti; ma qui è diverso. È molto difficile imbattersi in qualcuno, siamo troppo pochi; e comunque, qui su Zuul praticamente non esiste criminalità».
«Qui è... è molto diverso da Vega», Kein annaspò, cercando le parole adatte a formulare la domanda che aveva in mente. «Non capisco... voglio dire, Zuul è incontaminato, mentre gli altri pianeti di Vega... voglio dire... »
«Vuoi sapere perché Zuul non è stato devastato dall’inquinamento come gli altri mondi», completò Fritz, che doveva aver ereditato la perspicacia del padre. «Zuul ha due grandi fortune, Kein: è un pianeta piccolo, e dal punto di vista minerario è decisamente povero. Agli occhi del nostro sovrano, è un mondo che non vale nulla».
Un mondo talmente meraviglioso... non valere nulla? Kein rivide nella propria mente l’immagine del tiranno di Vega, e sentì stringerglisi il cuore: con tutto il suo potere, quel mostro non era in grado di capire cosa fosse realmente importante. Suo malgrado, il ragazzo provò un senso di pena davanti ad una simile cecità.
Gli alberi si aprirono all’improvviso, rivelando un ruscello che scorreva tra le rocce; grandi piante a foglia larga spuntavano tra le radici messe a nudo dall’acqua.
«È bellissimo!», esclamò Kein, convinto.
«Ero sicuro che ti sarebbe piaciuto», Fritz si liberò in fretta dello zaino e delle scarpe; scalzo, entrò nell’acqua cristallina. Kein esitò un attimo prima d’imitarlo: l’acqua era gradevolmente fresca, e il fondo del torrente era costituito principalmente da una ghiaia finissima, piacevole da calpestare. Il ruscello non era troppo fondo, al massimo ci si poteva immergere fino a mezza gamba: non era possibile nuotare, ma ci si poteva rinfrescare. Era una giornata molto calda; i vestiti vennero gettati sulla riva, e i ragazzi presero a schizzarsi l’un l’altro, con grandi scoppi di risa. Poi sedettero nell’acqua, lasciandosi carezzare dalla corrente; Fritz indicò al compagno alcuni gamberetti, poi Kein vide un pesce, oblungo ed argenteo, nuotare pigramente a breve distanza da loro.
«Sarebbe bello poter pescare», osservò il ragazzo, mentre il pesce s’allontanava con fare dignitoso.
«C’è di meglio di quel pesce». Fritz frugò nel suo zaino e ne estrasse un contenitore con coperchio. Rovistò tra alcuni ciottoli, e poi tese a Kein la mano, mostrandogli un paio di creature, tondeggianti e gelatinose, grosse come la punta delle sue dita.
«Cosa sono?», Kein era troppo educato per osservare che quei molluschi non avevano un aspetto molto invitante.
«Plee-mph. Non sono molto belli; ma fritti, sono una squisitezza». Fritz gettò i due animaletti nel contenitore e riprese a frugare tra i ciottoli; Kein cominciò ad aiutarlo, per gentilezza all’inizio e appassionandosi sul serio successivamente. I plee-mph erano animali molto comuni (“Sono molto prolifici, hanno covate da migliaia e migliaia di uova”, spiegò Fritz, usando inavvertitamente lo stesso tono che avrebbe utilizzato suo padre per spiegare qualcosa); tra alcune rocce, Kein ne scoprì un banco enorme. I due ragazzi li afferrarono senza problemi: pigri e poco intelligenti, i plee-mph si lasciavano afferrare, l’idea di scappare non li sfiorava nemmeno. Quando i ragazzi ebbero riempito il contenitore, le rocce brulicavano ancora di animaletti: sembrava quasi che non ne fossero stati sottratti al banco.
«Peccato non avere un altro contenitore», disse Kein, guardando con rimpianto i plee-mph che luccicavano argentei alla luce del sole.
«Perchè?», si stupì Fritz. «Ne abbiamo a sufficienza per la cena. Se ti piaceranno, verremo a prenderne altri. Meglio mangiarli freschi».
Seduti all’ombra degli alberi, i due ragazzi divorarono allegramente le provviste che si erano portati; poi Fritz indicò a Kein un alberello carico di bacche rosso cupo. Erano squisite, dolci e lievemente asprigne, molto profumate; quando i ragazzi si sentirono sazi, ben pochi frutti pendevano dai rami.
Satolli, troppo stanchi per continuare a giocare o per esplorare in giro, i due si sdraiarono nell’erba, chiacchierando. Il momento delle confidenze era arrivato.
«Mio padre non dice mai niente», mormorò Fritz, assorto. Steso sulla riva del ruscello, con un bastoncino sembrava creare disegni fantastici sul pelo dell’acqua. «So comunque di essere per lui una gran delusione».
«Ma perché, scusa?»
Fritz fece un sorriso triste: «Papà è uno scienziato», rifletté, poi si corresse: «Anzi, un grande scienziato. Anche la mamma lo era. Era ovvio che ci si aspettasse altrettanto da me, ma io... beh...»
«Non è la tua strada», l’aiutò Kein.
«Proprio no», mormorò Fritz. «Ovviamente, papà non dice nulla, ma io so che è molto deluso per questo».
«Ma tuo padre sembra una persona ragionevole...»
«Lo è».
«Allora, deve capire che tu non puoi essere uguale a lui!»
Ancora il sorriso triste di Fritz: «Ma lo capisce. Solo che non dice niente. Questo è il punto; capisci, Kein? Lui non dice mai niente...»
Un attimo di silenzio; poi Kein provò ad affrontare l’argomento da un’altra parte: «Ma tu cos’è che desideri fare?»
Gli occhi di Fritz s’illuminarono: «Il pilota. So di potercela fare: sono il migliore del mio corso».
«Sei il migliore...? Ma allora tuo padre sarà orgogliosissimo di te!», esclamò Kein, sinceramente ammirato.
«Sì...? Forse, chissà. Ma è difficile saperlo con sicurezza. Mio padre non mi parla». Rialzò la testa, si guardò in giro come se solo allora si fosse ricordato del posto in cui si trovava: «Comincia ad essere tardi. Andiamo verso casa?»
Raccolsero ogni cosa, controllando di non aver dimenticato nulla. Vedendo come Fritz s’assicurava di non aver lasciato rifiuti in giro, Kein provò un forte senso di familiarità: anche su Fleed ci si preoccupava molto di queste cose... in fretta, respinse il pensiero di Fleed tra le memorie da non ricordare mai.
Ripercorsero il sentiero verso casa, continuando a chiacchierare spensieratamente. Svoltato attorno ad un albero secolare, dal tronco particolarmente grosso, i due ragazzi quasi andarono a sbattere contro Zuril, che stava evidentemente venendo loro incontro.
«È andato tutto bene?», chiese lo scienziato, senza rivolgersi a nessuno in particolare... o forse, ad entrambi senza distinzione.
«Benissimo!» Fritz tese verso di lui il contenitore zeppo di plee-mph: «Guarda cos’abbiamo raccolto, Kein e io!»
«Questo vuol dire che stasera dobbiamo fare la frittura?», chiese suo padre, serissimo. Per un attimo, Kein pensò che si sarebbe arrabbiato; poi vide il lampo d’umorismo che gli faceva scintillare l’occhio, e comprese.
«Kein non li ha mai assaggiati», disse Fritz, che sapeva d’averla spuntata... tantopiù che i plee-mph fritti piacevano moltissimo anche a suo padre.
Quella sera, mentre faceva sparire la propria abbondante porzione di frittura, Kein ammise in tutta sincerità di non aver mai mangiato nulla di così squisito.


A quell’ora di sera, il giardino era completamente immerso nell’ombra: i due satelliti, Hojel e Linder, non erano ancora spuntati, e le stelle scintillavano come diamanti.
«Non hai sonno?», allungato nella sua poltrona preferita, Zuril alzò lo sguardo sul figlio.
«Kein dorme già da un pezzo, beato lui», Fritz sedette a sua volta accanto al padre. «Io faccio sempre fatica ad abituarmi, quando cambio letto… anche se si tratta del mio, a casa mia».
Zuril assentì: le notti insonni non erano certo una novità, per lui. Dopo mesi e mesi di lavoro frenetico, poter stare comodamente sdraiato nel suo patio a contemplare il giardino e le stelle era per lui un autentico balsamo.
«Kein ha un forte spirito d’adattamento», e prende le sue gocce ogni sera, aggiunse mentalmente. Zuril si voltò verso il tavolino al suo fianco e si versò dalla caraffa termica un bicchiere di bibita: «Ne vuoi anche tu?»
«Grazie». Fritz sorseggiò la sua bevanda: asprigna e fresca, l’ideale per una notte leggermente afosa. «Come mai ti è venuto in mente di comperare Kein?»
«Ti dispiace che l’abbia fatto?», chiese di rimando suo padre.
«Oh, no, per niente!», esclamò Fritz, con calore. «Sono molto contento, invece!»
«Mi pare che stiate facendo amicizia».
«Kein è un tipo in gamba», Fritz si rigirò il bicchiere tra le mani; poi aggiunse, quasi in un sussurro: «Sai che mi sarebbe piaciuto avere un fratello».
Una lieve esitazione prima di rispondere: «Non è stato possibile».
«Lo so… la malattia della mamma… e poi…» la sua morte, avrebbe voluto dire. Ancora, dopo tutti quegli anni faticava a pronunciare quelle parole riferite a sua madre.
Zuril non rispose: avrebbe avuto fin troppo da dire… preferì tacere, come sempre.
È sempre così chiuso, si disse Fritz. Come tante altre volte avrebbe voluto parlare, aprirsi a quel suo padre premuroso ma tanto remoto, tanto distante… tacque, come aveva sempre fatto.
Sulle loro teste, la volta celeste scintillava. Hojel spuntò oltre le chiome degli alberi.

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