Finalmente ce l'ho fatta, ho finito il racconto (leggi: malloppone) su Kein, di cui qui sotto vi posto il prologo e il primo capitolo.
Ma... c'è un ma: per contenuti e temi trattati, è una FF decisamente più "adulta" di quel che generalmente viene letto su queste pagine. Ho cercato di tenere la mano il più possibile leggera, ma la storia è quel che è.
Mi sento perciò in dovere di avvertire che in particolar modo il primo capitolo, gli altri sono più "tranquilli", può urtare la sensibilità di qualcuno. Se lo desiderate, potete saltare questo primo capitolo, di cui metto sotto spoiler il riassunto, e leggere i successivi.
A tutti, buona lettura.
Prologo: Zuril osserva la superficie di Fleed, devastato dal bombardamento al vegatron, e si dice che distruggere un simile pianeta sia stato uno spreco imperdonabile.
Capitolo 1: Nel corso dell'invasione di Fleed, i soldati devastano la casa dell'undicenne Kein e gli uccidono il padre. La madre viene violentata da un gruppo di soldati proprio sotto agli occhi del figlio, che a sua volta viene brutalizzato. Il ragazzo viene poi gettato in un magazzino assieme ad altri ragazzini, tutti sofferenti quanto lui. Dopo alcuni giorni di prigionia da incubo, in cui Kein ha tentato inutilmente di soccorrere una bambina in stato catatonico per lo shock, i ragazzi vengono fatti uscire dalla prigione per venir trasferiti su un'astronave di Vega. Kein ha un'idea fissa: scappare. La bambina e altri piccoli troppo malridotti per venire usati come schiavi vengono uccisi dai soldati.
Se volete commentare:
https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=555#lastpostA PICCOLI PASSI PrologoIdiozia pura, si disse Zuril, l’unico occhio fisso sull’enorme immagine che torreggiava sopra di lui.
Sul megaschermo, il pianeta Fleed appariva avvolto da una densa coltre di nuvole d’un malsano giallastro: il bombardamento a tappeto a suon di ordigni al vegatron aveva compiuto la sua opera nefasta. Fleed era un mondo morto.
Zuril serrò le mascelle, stringendo convulsamente i pugni: mesi trascorsi nel vano tentativo di far ragionare Sua Maestà, di convincerlo a conquistare quel mondo fertile senza distruggerlo... infinite ore di lavoro per progettare un attacco che ne avrebbe eliminato la popolazione senza danneggiarne il delicato ecosistema... e poi tutto il tempo trascorso a raccogliere il materiale che suffragava la sua tesi circa il disastro ecologico che incombeva sul pianeta Vega. Da anni si era sforzato di chiedere la riduzione dell’uso del vegatron, così potente, così radioattivo... non era stato ascoltato, anzi, era stato persino deriso. “Zuril, tu e le tue idee ecologiste! Tu non capisci il progresso, la crescita economica...”
Per anni era stato trattato come un profeta di sventura da far tacere; ora, lui sapeva che presto, molto presto Vega avrebbe collassato, stroncato dallo sfruttamento eccessivo. Avere la possibilità di conquistare un mondo fertile ed incontaminato gli era parsa una sorta di ancora di salvezza, e l’aveva fatto presente al sire.
Aveva persino tentato di tirare dalla propria parte il ministro della difesa, Dantus: tra loro non erano mai intercorsi buoni rapporti, ma Zuril aveva sperato che gli interessi comuni avrebbero avuto la meglio sulle loro divergenze. Dantus, per quanto detestabile, non era un imbecille, doveva immaginarsi anche lui che un disastro incombeva sul loro pianeta; e infatti, pur a denti stretti Dantus aveva ammesso di temere qualcosa di simile, ed aveva accettato di parlarne con lui al sovrano.
Disgraziatamente, conquistare Fleed senza danneggiarlo avrebbe richiesto molto tempo; troppo secondo Sua Maestà, che aveva fretta di sterminare gli odiosi fleediani ed aggiungere la conquista di quel pianeta all’elenco dei suoi successi. In questo aveva avuto l’entusiastico sostegno del generale Barendos, comandante in capo delle forze d’invasione del pianeta Fleed. Barendos non era certo uomo da porsi troppi problemi per il futuro: a suo parere i timori di Zuril erano solo teoria campata in aria. Quel che contava veramente era conquistare, dare una prova di forza, annientare totalmente il nemico.
Vista la mala parata, Dantus s’era ben guardato dall’appoggiare Zuril, che si era ritrovato da solo a tentar di convincere Re Vega... un’impresa disperata fin dall’inizio. Il sire non era certo un uomo ragionevole.
Le ragioni della vanità avevano avuto la meglio sul buon senso, e Fleed era stato inesorabilmente distrutto.
Zuril girò di scatto le spalle allo schermo e si allontanò senza voltarsi indietro, il viso fosco.
Un errore enorme, si disse. So già che lo pagheremo caro. Molto caro.
1. La fine di un mondo
Dolore, dolore, dolore.
In quel momento sembrava non potesse esistere altro.
Non avrebbe voluto ripensare a quel che era accaduto, – quando? Secoli prima, o solo pochi giorni? – ma non poteva impedirselo.
Ancora, come in un incubo spaventoso da cui non è possibile risvegliarsi, ripercorse quel che gli era successo negli ultimi tempi… e per l’ennesima volta, rivide la sua vita sconvolta, distrutta. Niente sarebbe mai più potuto essere come prima.
Venne trascinato nel salone e scaraventato in avanti; Kein s’insaccò contro il divano e scivolò sul pavimento, senza fiato.
Il ragazzo sbarrò gli occhi, fissando un qualcosa gettato in un angolo: un mucchio di stracci, sangue… una mano…
Con orrore, si rese conto che quelli che aveva preso per stracci assomigliavano fin troppo ai vestiti che quel mattino aveva visto addosso a suo padre… ma allora…?
Un grido lo strappò da quella mostruosità, gettandolo in un orrore anche peggiore.
Si girò a guardare: un gruppo di soldati che trascinava sua madre.
Kein aveva sempre visto la mamma in perfetto ordine, elegante, mai un capello fuori di posto: quella creatura scarmigliata e dagli abiti stracciati non poteva essere lei! E cosa volevano quei mostri che la circondavano, e che ridevano, ridevano… Voci volgari, che parlavano in un modo osceno che il ragazzo non aveva mai udito prima d’allora.
«…Abbiamo tutto il tempo che vogliamo!»
«Allora possiamo spassarcela!»
«Forza! Chi è il primo?»
Incredulo, Kein vide sua madre venire gettata a terra. I suoi abiti furono strappati, uno di quei mostri si gettò su di lei mentre gli altri li attorniavano, ridendo ed applaudendo. Lei si morse le labbra per non urlare, gli occhi persi in quelli inorriditi del figlio; e mentre Kein si chiedeva disperatamente che stava succedendo, che cosa quegli assassini stessero facendo alla sua mamma, una mano d’acciaio l’afferrò per il collo, lo sollevò da terra gettandolo contro il divano. Kein udì sua madre urlare, guardando qualcosa alle sue spalle che lui non poteva vedere; sentì un corpo gravare su di lui, un colpo forte alla testa, e per un istante fu tutto oscuro. Poi fu un dolore orribile, impensabile, a richiamarlo dalle tenebre.
Urlò e continuò ad urlare, gli occhi persi in quelli morenti di sua madre.
Ancora una volta, fu il dolore a farlo tornare indietro dall’oscurità.
Voci confuse attorno a lui, qualche risata; aprì con fatica gli occhi e si guardò attorno.
Giaceva sul pavimento di… ma era il salotto di casa sua? Con quei mobili rovesciati, le vetrate infrante, le tende strappate? L’immacolato salotto cui la mamma teneva tanto…
La mamma…!
Nonostante il forte dolore alla testa, Kein si sforzò di guardarsi in giro: schizzi rossi sulle pareti, un mucchio informe in un angolo, dove già l’aveva visto… (papà…?) Un sottile corpo bianco chiazzato di rosso, orribilmente contorto… immobile, troppo immobile… (mamma…?)
Kein si rialzò di scatto su un gomito: subito, una coltellata di dolore lo trafisse nelle viscere, facendolo spasimare. Con orrore, il ragazzo s’accorse d’avere le gambe lorde di sangue. Ma cosa gli avevano fatto…?
Ancora quelle voci volgari, quelle risate. Vide quei mostri di Vega che avevano invaso e violato la sua casa, li vide distruggere i mobili per strapparne via gli oggetti più preziosi. Cose che conosceva da sempre distrutte o rubate da quella gentaglia… in preda al furore, Kein fece per rialzarsi ma una nuova spaventosa fitta lo fece cadere al suolo, gemendo per il dolore.
Rimase lì, dimenticato da tutti, per un tempo che gli parve interminabile: nel frattempo, quelle bestie andavano e venivano, razziando e distruggendo quella che era stata la sua casa.
Poi qualcuno si chinò su di lui, sentì un osceno scroscio di risa; il soldato l’afferrò e lo rivoltò sulla schiena, strappandogli un nuovo gemito di dolore.
«Questo qui è ancora vivo».
«Fatti da parte, ci penso io» e uno dei suoi compagni spianò il fucile, puntandolo su Kein.
«Lascia stare, non è così malridotto. Può ancora servire» il primo soldato l’afferrò e se lo gettò in spalla come avrebbe fatto con un pacco; Kein strinse i denti per non urlare, e ancora una volta la tenebra l’avvolse, pietosa, impedendogli di vedere oltre.
Duro, freddo.
Rabbrividendo, Kein riaprì faticosamente gli occhi: nella semioscurità che lo circondava, intravide altre sagome, altri corpi… dove l’avevano portato?
Si rialzò sui gomiti, mosse le gambe e subito un dolore spaventoso lo trafisse, costringendolo a serrare i denti per non gridare. In un flash rivide la sua casa devastata, suo padre… sua madre… i soldati, risentì il dolore rosso che lo devastava, la vergogna, la rabbia, l’umiliazione…
In genere, ci si risveglia con sollievo dai propri brutti sogni; destarsi in un incubo era un qualcosa che Kein non aveva mai provato prima. Era successo davvero, era stato tutto vero…
Non piangere. Non ora.
Kein trasse dei lunghi respiri, sforzandosi di calmarsi: c’erano altri vicino a lui, e non voleva assolutamente farsi vedere piegato dal dolore. Avrebbe resistito.
Seppellì dentro di sé i propri incubi: non voleva pensarci. L’avrebbe fatto un’altra volta, quando ne avesse avuto la forza
Conta il presente.
Quando finalmente si sentì di farlo, si guardò attorno.
Attorno a lui, decine e decine di ragazzi, anche bambini più piccoli di lui; molti giacevano a terra come era costretto a fare lui, che riconobbe in loro il suo stesso dolore, la sua stessa vergogna.
Degli altri, molti piangevano sommessamente, altri tacevano, gli occhi sbarrati nel vuoto; in un angolo, una ragazzina urlava e urlava, isterica, mentre altri la guardavano incapaci di intervenire, di darle soccorso.
Si sforzò di alzarsi puntellandosi sui gomiti, ed ignorando le fitte spaventose che gli attraversavano le viscere: erano stati rinchiusi in un ambiente molto grande... un magazzino, o qualcosa del genere. Alcune finestre, altissime e irraggiungibili, fornivano loro aria e luce; per il resto, là dentro non c’era assolutamente nulla, solo creature dalla vita spezzata.
Kein sentì un’onda di disperazione crescere prepotentemente in lui; non voleva abbandonarsi al dolore. Si guardò attorno, cercando una qualsiasi cosa che potesse distrarlo da sé stesso.
A pochi metri da lui sedeva una ragazzina, praticamente una bimba; aveva i vestiti strappati, il viso tumefatto, le cosce esili macchiate di sangue. Tremava violentemente, incapace di emettere un qualsiasi suono.
Kein si trascinò sulle braccia fino a lei, la strinse a sé; la bambina emise un sospiro e continuò a tremare, lo sguardo fisso, completamente persa in un mondo tutto suo, come se non avesse nemmeno percepito la presenza di lui.
Kein riemerse faticosamente dai suoi ricordi, sperando di non doverli rivivere ancora e ancora.
Accanto a lui, persa in sé stessa, la ragazzina giaceva a terra, gli occhi fissi nel vuoto, totalmente incurante di lui, che continuava a stringerla tra le braccia per farle coraggio – e anche per trarre da lei la forza di andare avanti, di non farsi abbattere.
Ce la farò, continuava a ripetersi, come un ritornello ossessivo. Ce la farò. Ce la farò…
Per quattro giorni, i ragazzi rimasero prigionieri in quel magazzino. Di tanto in tanto venivano soldati a portar loro da mangiare e da bere: ma, come Kein ebbe subito modo di verificare, si trattava sempre di una disgustosa brodaglia ricavata da chissà quali avanzi di cibo, e le porzioni erano molto ridotte. Anche l’acqua, scarsa, era sporca, e ovviamente non ce n’era abbastanza per pulire le ferite, figuriamoci per l’igiene personale. Nonostante le finestre aperte, il puzzo era nauseabondo: escrementi, sudore, corpi non lavati e, sopra tutto, l’odore pungente della paura.
Kein strinse i denti, mentre si sforzava d’inghiottire quel pasto che, nonostante la gran fame, sentiva come immangiabile. Vide che la bambina di cui si era preso cura non aveva mosso un dito verso il recipiente con il cibo: troppo persa in sé stessa, non sentiva forse nemmeno i morsi della fame, chissà... Kein non era riuscito a farla parlare, nemmeno aveva saputo come si chiamasse; occuparsi di lei era diventato per lui un bisogno primario, almeno in quel modo non avrebbe dovuto pensare al proprio personale orrore.
Vide un paio di ragazzini occhieggiare il pasto della bambina, e li cacciò via. Finì d’inghiottire gli ultimi bocconi e cominciò ad imboccare la ragazzina, che teneva i denti serrati. Riuscì faticosamente a cacciarle in bocca qualche cucchiaiata di brodaglia, accertandosi ogni volta che lei deglutisse; nemmeno allora lei lo degnò d’uno sguardo.
Infine, stravolto, sedette accanto alla sua silenziosa compagna, che non batté ciglio.
Prima o poi dovranno farci uscire di qui, e allora troverò il modo di scappare.
Guardò la ragazzina, sempre immobile, e si sentì in colpa: non avrebbe potuto far fuggire anche lei, così totalmente inerte... Passò lo sguardo sugli altri: erano tutti come inebetiti, incapaci di reagire. Da loro non avrebbe avuto nessun aiuto.
Dovrò tentare da solo.
Questo fu il pensiero che continuò ad accompagnarlo per tutto il periodo della sua prigionia in quel magazzino: scappare, scappare, scappare.
Il quinto giorno, i soldati gridarono loro di alzarsi in piedi; tra le urla e gli insulti, spintonati in malo modo, i ragazzi vennero incolonnati e scortati all’esterno, pronti per essere fatti salire su una delle astronavi di Vega.
Mentre usciva da quella che era stata la sua prigione, Kein si voltò rapidamente a guardare: alcuni di loro erano rimasti a terra, chi ferito, chi malato, chi semplicemente ormai troppo lontano da tutto e da tutti, come la bambina di cui in quei giorni lui aveva avuto cura e che nonostante tutti i suoi tentativi non aveva voluto saperne di rialzarsi.
Un paio di soldati entrarono nel magazzino, i fucili spianati; le porte vennero chiuse, i ragazzi fatti allontanare, ma questo non impedì loro di udire il rumore secco degli spari.
Secondo e terzo capitolo. Qui non ci sono particolari problemi, per cui non metto spoiler o altro. Buona lettura.
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2.ZurilScortati da quattro soldati, stretti l’uno all’altro e tenendosi per mano i bambini andavano incontro ad un futuro che era facile immaginare mostruoso. Stavano per venire condotti nel ventre dell’astronave, in una prigione da cui sarebbero usciti solo per finire come cavie umane, o come minatori nei campi di lavoro, o peggio.
Zuril alzò la testa dal display del suo computer portatile e li guardò: un centinaio di marmocchi tra gli zero e i dodici anni, chi agghiacciato dal terrore, chi piangendo apertamente, senza vergogna. I più grandi portavano in braccio i più piccoli, gli altri si stringevano tra di loro in cerca di un conforto impossibile da trovare; tutti erano terrorizzati fin nel più profondo del loro animo.
Fleediani, pensò Zuril. Esseri educati all’emotività, alla bontà, alla generosità... alla debolezza.
Scosse il capo, guardando quelle creature tremanti e piangenti: non avevano torto ad essere così spaventati, il loro destino sarebbe stato sicuramente tremendo. Era raro, rarissimo che una coppia decidesse di prendere un bambino per allevarlo: per quanto il pesante inquinamento avesse diffuso la sterilità su Vega, ben difficilmente la scelta di un figlio adottivo sarebbe caduta su un rampollo di una razza notoriamente debole come quella di Fleed. I veghiani erano guerrieri, erano predatori: l’intimo pacifismo di Fleed ai loro occhi non era altro che intollerabile mancanza di forza di carattere. Un figlio rammollito e privo di spirito guerresco sarebbe stata una vergogna.
Zuril rimase assorto ad osservare quelle creature che andavano incontro al loro destino senza reagire, senza combattere: eppure dovevano sapere che li aspettava un futuro come cavie di laboratorio, come trastullo per qualche ufficiale o come lavorante in una qualche miniera radioattiva; e nonostante questa consapevolezza, niente. Nessuna reazione, nessuna ribellione.
Inerti, fiacchi, deboli fin nel midollo.
Molti di quei bambini erano veramente belli, come tutti gli abitanti di Fleed: peccato che a tanta grazia fossero associate viltà e debolezza... Ma evidentemente, rifletté Zuril, fa parte del loro essere. Non si può andare contro il proprio dna.
E se non fosse così?, si trovò a chiedersi poi. Se fosse un problema d’educazione? Che succederebbe, se si prendesse uno di questi bambini e lo si crescesse come un vero guerriero? Sarebbe interessante scoprirlo...
Un urlo seguito da un trambusto riscosse lo scienziato, che riemerse frettolosamente dai propri pensieri.
Un bambino s’era ribellato ed era sfuggito ai propri carcerieri; tre dei soldati tenevano a bada gli altri piccoli prigionieri, che si erano risvegliati dal loro torpore e stavano seguendo la prodezza del loro compagno, inseguito senza troppo successo dal quarto milite.
Il ragazzino era magro e svelto, tutto gomiti e ginocchia; grande e grosso, il soldato faticava a tenergli dietro mentre gli sfuggiva correndo a zig zag tra i compagni e gli altri tre carcerieri.
Improvvisamente, il piccolo si rivoltò contro il soldato che era sul punto di agguantarlo e gli sferrò un potente calcio in un ginocchio, sfuggendo così alla cattura.
Non male, pensò Zuril. Abilità o fortuna?
Pur dolorante, il soldato riuscì ad acchiappare il ragazzo per un braccio; subito il bambino si rivoltò e gli colpì il polso col taglio dell’altra mano. Con un grido strozzato il soldato fu costretto a mollare la presa.
Abilità, decise Zuril.
Un fremito passò tra i bambini, che vedendo il loro compagno vittorioso si erano improvvisamente animati; subito i tre militi li sospinsero verso la porta. Non era bene che quei prigionieri vedessero il loro compagno farsi beffe di un soldato di Vega.
Incuriosito, Zuril osservò attentamente il ragazzo: appariva teso, concentrato, perfettamente presente a sé stesso. Gli occhi che fissava sul soldato erano seri, attenti e scrutatori: non c’era traccia di paura in lui, solo fredda determinazione. L’impressione era che si sarebbe lasciato ammazzare piuttosto che cedere.
Il soldato si fece avanti per ghermirlo; il ragazzino fu rapido a cacciargli due dita negli occhi e, in rapidissima successione, a sferrargli un pugno in piena faccia.
L’urlo del soldato fu spaventoso; sul cappuccio si allargò una macchia rossa e densa.
Naso fratturato, pensò Zuril.
Uno degli altri militi lasciò i prigionieri e si fece avanti, ma il soldato ferito gli urlò di non immischiarsi: era una faccenda personale, ormai.
Zuril trattenne il fiato: il soldato era imbestialito, c’era il rischio che uccidesse il ragazzo ottenendo così il duplice scopo di vendicarsi e dare agli altri bambini un esempio di cosa succede a chi si ribella. Era prassi comune ammazzare un prigioniero per ottenere la terrorizzata obbedienza degli altri. Fece per intervenire, ma un’occhiata al viso determinato del giovane fleediano lo trattenne: curioso di vedere come avrebbe reagito, attese.
Il soldato fece l’atto di attaccare: rapido, il ragazzo si gettò di lato per schivare l’assalto, accorgendosi un istante troppo tardi che si era trattato di una finta. Con un ruggito di trionfo il soldato afferrò per la collottola la sua vittima, scuotendola come una bambola di pezza.
Intontito ma deciso a non cedere, il ragazzino gli allentò un poderoso calcio in uno stinco; il soldato reagì con un manrovescio che lo lasciò stordito.
«Fermo!» disse Zuril, ma il soldato era troppo inferocito per ascoltarlo.
«Hai finito di fare il furbo, vero?», il soldato gli appioppò un altro schiaffo, e continuò a colpirlo, scandendo con i ceffoni la propria collera: «Questo è perché ti sei ribellato... Questo per i calci... Questo perché impari chi è che comanda qui... Questo...»
«Basta così!», esclamò con forza Zuril, mettendosi in mezzo.
Il soldato s’arrestò con la mano a mezz’aria: «Come dite, signore?»
«Ho detto basta!», Zuril gli afferrò il polso. «Così lo ammazzi!»
«È quel che si merita! Questo bastardo mi ha...»
«Ho visto tutto, soldato», Zuril non mollò la presa. «Però non voglio che tu gli faccia ancora del male. Basta».
«Ma signore...!»
«Ha dimostrato d’avere coraggio e cervello. Merita qualcosa di più che venir massacrato di botte. Lascialo».
«Ma...»
L’unico occhio di Zuril ebbe un bagliore metallico: «Mi hai sentito, soldato?»
Rimasto fino ad allora inerte come un corpo morto, il ragazzo si riprese e agì all’improvviso mordendo rabbiosamente il polso del suo carnefice, e sferrandogli nel contempo un potente calcio. Aveva mirato all’inguine, lo colpì invece all’interno della coscia; furioso, prima che Zuril potesse impedirglielo il soldato scaraventò la sua vittima contro la parete. Il ragazzo batté la testa e s’afflosciò a terra senza un grido.
«Maledetto idiota!» Zuril lo scostò rabbiosamente e si chinò sul ragazzo. Lo rigirò con delicatezza sulla schiena, gli tastò il petto: il cuore batteva. Gli sollevò una palpebra, verificò il respiro: era solo svenuto.
Zuril prese il suo scanner scientifico e lo passò sul corpo esanime del ragazzo: non aveva la precisione di un analizzatore medico, ma per un primo test era più che sufficiente.
Esaminò la testa: non c’era commozione cerebrale. Controllò il resto del corpo: nessuna frattura, solo ematomi. Meglio così.
Zuril si rialzò e si girò verso il soldato: «Buon per te che non l’hai ucciso. Lo prendo io. Fatemi portare i documenti, così regolarizziamo l’acquisto».
I soldati esitarono solo un attimo: quegli schiavi avevano già una loro destinazione... comunque, nessuno avrebbe badato ad un bambino in meno, e loro non volevano assolutamente inimicarsi il potente ministro Zuril.
«Va bene, signore», rispose il soldato, tamponandosi il naso fratturato; con la mano dal polso insanguinato per il morso accennò al ragazzo inerte: «Dove volete che ve lo portiamo?»
«Penso io a lui», Zuril ripose lo scanner. «Voi procuratemi i documenti necessari, verserò il denaro e sarà fatta; e tu va’ a farti medicare».
«Grazie, signore», tenendosi la mano premuta sul viso, il soldato fece cenno agli altri di andare. Inorriditi, i bambini videro il loro compagno in potere di quello spaventoso veghiano... poi ordini vennero urlati, i piccoli prigionieri furono spintonati e condotti via.
Zuril si chinò sul suo nuovo schiavo e lo esaminò rapidamente: undici-dodici anni, magro e nervoso, un gran ciuffo di capelli tra il verde e l’azzurro.
Sarebbe stato interessante scoprire se aveva investito bene il suo denaro.
Lo raccolse con precauzione da terra: non pesava molto. Sogghignò pensando che un affarino da nulla come lui aveva spaccato la faccia ad un feroce soldato di Vega.
Aveva idea che quel ragazzo sarebbe stato un’interessante fonte di sorprese.
3.PattoMorbido.
Aprire gli occhi fu una fatica indicibile. Ci volle qualche istante perché le immagini sfuocate si facessero nitide ed acquisissero un senso.
Soffitto. Pareti. L’impressione di soffice sotto di sé. Doveva essere sdraiato su un letto, o qualcosa del genere.
Come mosse il capo, una fitta lancinante gli tolse il respiro. Si premette la mano contro la fronte ma il dolore continuò, martellante.
Altro dolore… la schiena, le spalle, il petto, il viso, tutto gli doleva… oltre al dolore segreto alle viscere che non l’abbandonava da giorni.
Improvvisamente ricordò il soldato che l’aveva riempito di botte, e comprese.
Sono prigioniero di Vega, si disse, mentre un misto di rabbia e angoscia montava rapidamente in lui.
I ricordi presero a scorrere nella sua mente: la cattura, la deportazione, i suoi compagni di sventura… quell’orrendo veghiano che aveva cercato di fermare il soldato che lo stava massacrando…
Con fatica, si rialzò su un gomito; la testa sembrava dovesse spaccarglisi dal dolore.
Si guardò attorno: pareti, mobili metallici e lineari.
Aveva creduto di risvegliarsi sul pavimento d’una cella e si ritrovava invece sul divano di uno studio.
Solo allora s’accorse d’un lieve ronzio che proveniva da un angolo: un uomo era seduto a una scrivania, intento a lavorare al suo computer. Kein poteva vederlo solo di spalle, ma non ebbe esitazioni nel riconoscere in lui il veghiano che s’era opposto al soldato.
Assorto nel suo lavoro, l’uomo non s’era accorto che lui, Kein, s’era risvegliato. Proprio sulla parete opposta a quel veghiano s’apriva una porta: se lui fosse riuscito a raggiungerla…
Ignorando la fitta lacerante alle viscere, s’alzò. Occhieggiò l’uomo: nessuna reazione.
Un primo cauto passo verso la salvezza… un altro…
«Se esci da quella porta diventi uno schiavo fuggiasco», Zuril parlò con calma, senza nemmeno voltarsi. «Credimi sulla parola se ti dico che non ti piacerebbe sapere quel che si fa agli schiavi fuggiaschi».
Il ragazzo s’arrestò immediatamente, guardando con palese antipatia l’uomo che aveva davanti. Non aveva certo intenzione di mostrarsi intimorito, anzi! Strinse i pugni e urlò tutta la sua sfida: «Non potete tenermi qui! Io... io troverò il modo di scappare!»
Zuril fece ruotare la sua poltroncina girevole e considerò con attenzione il ragazzino magro e pallidissimo che lo stava affrontando: un mocciosetto capace di rivolgersi a lui con spavalderia nonostante fosse chiaramente spaventato e sofferente. Stava in piedi a malapena e parlava con una simile arroganza... fantastico.
«Ammiro il tuo coraggio», disse infine Zuril, «anche se dimostri una deplorevole mancanza di buon senso. Rassegnati: sei prigioniero, e non hai più nessun posto in cui scappare».
Kein si sforzò d’ignorare le fitte spaventose alla testa: «Tornerò su Fleed! Troveremo il modo di combattervi... noi... »
Zuril scosse il capo, guardandolo con sincero compatimento: «Mi spiace, ragazzo. Temo che non sarà proprio possibile».
«Riuscirò ad andarmene, vedrete!», insisté Kein ostentando una baldanza che non provava affatto. «Scapperò, troverò il modo di tornare su Fleed!»
«Sono sicuro che ci proverai», rispose calmissimo Zuril. «Si tratterà però di un viaggio piuttosto lungo, perché abbiamo lasciato l’orbita di Fleed da parecchio tempo… per la precisione, da due ore, trentasei minuti e diciassette secondi».
«…Cosa…?»
«Se anche tu riuscissi a scappare, evitare di essere ripreso, impadronirti d’un mezzo qualsiasi, pilotarlo fino a Fleed ed atterrare… se tu riuscissi a fare tutto questo, cosa di cui dubito… non sopravvivresti a lungo. Fleed è stato bombardato pesantemente col vegatron, le radiazioni non ti darebbero scampo».
Kein sbarrò gli occhi: «Non ci credo!»
Senza una parola, Zuril digitò qualcosa sulla sua tastiera; un’immagine apparve sullo schermo del monitor. Kein allungò il collo per vedere meglio e Zuril si scostò facendogli cenno d’avvicinarsi.
Fleed, inconfondibile… avvolto in una nuvola d’un malsano giallastro.
«È una nube radioattiva», spiegò Zuril. «Per qualche anno, scendere su Fleed sarà un autentico suicidio».
Kein deglutì, sentendosi la bocca improvvisamente arida. Vacillò, fece un paio di passi indietro, mentre pian piano prendeva coscienza dell’orrore accaduto al suo pianeta: contaminato, distrutto... morto.
«In più, siamo ormai molto distanti», Zuril parlava senza cattiveria: non voleva ferire il ragazzo, solo fargli comprendere la situazione. «Non credo tu sia in grado di pilotare un’astronave e compiere un viaggio interstellare; moriresti stupidamente nello spazio nel tentativo inutile di raggiungere un pianeta morto».
Nello spazio… via da Fleed… Fleed, devastato dalle radiazioni…
Kein non era mai stato così lontano da casa – una casa che nemmeno più esisteva, ormai. Lo assalì uno spaventoso senso di perdita irrimediabile, e il ragazzo sentì cedergli le ginocchia. Un capogiro lo colse, e Kein si ritrovò seduto sul divano, scosso dalle vertigini e con la testa che gli pulsava dolorosamente.
Le lacrime gli bruciavano gli occhi, ma non avrebbe mai pianto davanti a quel veghiano. Sarebbe morto, piuttosto.
Zuril strinse l’occhio, osservandolo; quel che vide dovette allarmarlo parecchio perché si alzò, lo raggiunse in due falcate e passò nuovamente lo scanner su di lui. Rassicurato, Zuril porse al ragazzo un bicchiere d’acqua e due pastiglie bianche e tonde: «Prendile. Ti sentirai subito meglio».
Kein guardò le pastiglie, poi l’uomo, poi ancora le pastiglie, senza accennare di volerle toccare.
«Puoi fidarti», aggiunse Zuril. «Non è veleno. Se avessi voluto ucciderti l’avrei fatto prima, mentre eri svenuto».
Giusto, pensò Kein. La testa gli pulsava sempre più dolorosamente, come se un artiglio d’acciaio stesse conficcandoglisi nel cervello… prese le pillole e le inghiottì, bevendo fino all’ultima goccia d’acqua. Non s’era accorto d’avere così tanta sete.
Accennò timidamente al bicchiere vuoto: «Posso… averne ancora?»
Zuril glielo tolse di mano, lo infilò in una nicchia nella parete e digitò un codice sul display di fianco. Poi gli rese il bicchiere, colmo d’acqua fresca.
Kein lo sorseggiò pian piano, guardandosi attorno. In quel momento, qualsiasi cosa l’avrebbe incuriosito, qualsiasi… pur di non dover pensare a Fleed. A casa sua.
Pareti e pavimenti metallici. Mobili in metallo e plastica. Lieve odore di detergenti chimici… Vega, insomma.
Zuril prese la propria poltroncina e sedette davanti a lui: «Ti senti meglio?»
Con suo grande stupore, Kein s’accorse che il dolore alla testa era quasi completamente scomparso, lasciandogli solo il collo indolenzito e un lieve senso d’intontimento.
«È… passato» mormorò, incredulo.
Zuril aprì un documento, lo scorse: «Ti chiami Kein, non è vero?»
«S-sì», rispose il ragazzo, a disagio.
«Bene». Zuril ripiegò la carta. «Ti ho comperato, per cui d’ora in poi i soldati non potranno più farti del male; solo io avrò il potere di punirti».
Kein trasalì: schiavo! Era uno schiavo… Lui! Di quel veghiano.
«Sono il Ministro delle Scienze Zuril, casomai t’interessasse saperlo», continuò quello che ormai era a tutti gli effetti il suo proprietario. «Non mi piace maltrattare i ragazzini, ma non sopporto stupidità e disobbedienza, tanto vale che tu lo sappia subito. Comportati bene, e andremo d’accordo. Hai capito?»
«Sì…»
Zuril lo guardò in tralice: «Sì, cosa?»
Per un paio di secondi che gli parvero eterni, Kein non comprese; poi, all’improvviso capì cosa intendesse Zuril: «Sì, signore. Come volete».
Zuril scosse il capo: «Puoi darmi del tu. Sarebbe ridicolo continuare con le cerimonie, non trovi?»
Già, niente formalismi con uno schiavo... «Come vuoi, signore» .
«Perfetto». Ora che il suo schiavo aveva capito qual era il suo posto, Zuril riprese, discorsivo: «Sarai contento di sapere che non ti manderò a scavare in una miniera, né intendo ammazzarti di fatica in un campo di lavoro».
«Perché mi hai comprato, allora?», chiese bruscamente Kein. «In genere, voi veghiani non usate gli schiavi per i lavori più pesanti e pericolosi?»
«In genere sì», rispose Zuril, imperturbabile. «Ovviamente, possono esserci anche delle eccezioni».
Kein sentì marcargli il fiato: forse...? Inorridito, fissò Zuril con autentico raccapriccio. Sarebbe morto, piuttosto!
«No, oh no», rispose ridendo lo scienziato allargando le mani in un gesto di pace. «Non è quello che pensi. Puoi stare tranquillo». Vide che Kein lo guardava un po’ di traverso ed aggiunse, fissandolo in viso perché comprendesse che gli stava dicendo la verità: «I ragazzini non m’interessano; e poi hai la stessa età di mio figlio».
Kein tacque, sentendosi la bocca improvvisamente arida, e si limitò lanciare al suo interlocutore un’occhiata poco convinta.
«Non ho bisogno di un giocattolo», tagliò corto Zuril. «Ho intenzione di compiere un esperimento scientifico, e tu mi aiuterai».
Terrorizzato, Kein s’addossò allo schienale del divano, gli occhi sbarrati.
«Non intendo vivisezionarti, se è questo che ti preoccupa», con un gesto secco, Zuril parve spazzar via quell’atroce eventualità; quindi prese a spiegare rapidamente i suoi dubbi circa l’importanza dell’educazione e del dna per avere un vero guerriero.
Immobile, Kein ascoltava senza comprendere granché: secondo quel suo padrone, l’educazione che veniva impartita su Fleed era errata, il pacifismo, il rispetto dell’avversario erano sbagliati… lui faticava a comprendere.
«Io… credo di non capire», mormorò, confuso. «Tu, signore, mi hai comperato per… per educarmi come un veghiano?»
«Ti ho visto combattere con quel soldato», spiegò Zuril. «Hai dimostrato d’avere coraggio e cervello. È un peccato sprecare queste qualità ammazzandoti di lavoro in qualche cava. Ho deciso di farti istruire come uno dei nostri ragazzi; però voglio dei risultati. Questo dev’esserti chiaro».
«Sissignore», balbettò Kein. L’alternativa dei campi di lavoro lo terrorizzava.
«Voglio vedere cosa diventerà un ragazzo di Fleed addestrato come un guerriero di Vega», continuò Zuril. «Noi diciamo di voi che siete gente debole, senza spina dorsale; tu potrai dimostrarmi che voi siete forti, sono solo la vostra educazione e filosofia ad essere sbagliate».
«C-certo, signore», Kein si sentiva soffocare. Non capiva perché ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, ma avrebbe fatto di tutto per non deludere Zuril… e per non finire in fondo a qualche miniera.
«Avrai le stesse possibilità di un ragazzo di Vega». Zuril gli posò le mani sulle spalle e lo guardò dritto negli occhi: «Voglio vedere cosa riusciremo a cavare, da te. Dimostrami il tuo valore, e hai la mia parola che saprò ricompensarti come nemmeno t’immagini».
Edited by H. Aster - 12/11/2016, 22:15