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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 1/6/2011, 10:03     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Niente di serio, stavolta.


L’INVASIONE DEGLI ULTRAVERMI


Fino ad allora, era stata una giornata come tante altre, in cui si era tenuta una riunione come tantissime altre. Seduti attorno al tavolo, Gandal, Zuril e Hydargos avevano dovuto serrare le zanne mentre il loro riverito sire sbottava sul fatto che Goldrake fosse ancora vivo ed intero, e che nessuno avesse provveduto ad affettarlo, o spiaccicarlo sul terreno come una decalcomania, o insomma, eliminarlo in qualsivoglia maniera.
Lividi in viso e con gli acidi gastrici a forza sette, i tre comandanti dovettero pure sopportare l’aria di superiorità dell’odioso Dantus, che forte della sua posizione di cocco di Re Vega aveva assunto un’espressione compunta da primo della classe. Cinque occhi lo fissarono con odio: se gli sguardi avessero potuto uccidere, di Dantus non sarebbe rimasta che qualche sparuta molecola.
Tutto accadde all’improvviso: qualche rumore soffocato dentro i canali d’areazione, poi s’intravide una massa oscura premere con forza contro la grata. Attraverso le maglie metalliche, piovve nella stanza un qualcosa di biancastro, lungo, sottile e viscido, avvolto in un liquido sanguigno ed appiccicaticcio.
Re Vega storse l’imperiale naso: «Ma che cos’è quel... quella cosa?», esclamò, col tono di chi allude a qualcosa di provenienza gastro-intestinale.
Un coro di versi disgustati fece eco all’apparizione del vermiciattolo colloso; su tutti, svettò il commento di Zuril: «Sembra un ossiuro».
«Un che cosa?», chiese Gandal.
«Un verme», spiegò lo scienziato. «Per la precisione, un tipo di verme liscio a sezione rotonda».
«Ossiuro…!», sbottò Dantus, schifato. «Non potevi semplicemente dire “verme”? Ma già, se il nostro signor scienziato non usa i paroloni…»
«Gran parte degli ossiuri sono vermi intestinali», rispose impassibile Zuril, fissandolo con insistenza.
«Perchè parli di vermi intestinali guardando me?», sbottò Dantus, che cominciava a sentirsi scaldare le acuminate orecchie.
«Già, perché mai?», ghignò Hydargos, dandosi di gomito con Gandal.
«Zuril non dovrebbe fare certe cose», aggiunse Gandal, in un tono deprecatorio che puzzava parecchio di falso.
«Qualcuno potrebbe offendersi», rincarò Hydargos.
«I vermi, soprattutto», completò Gandal.
«Sire! Avete sentito come mi stanno trattando?», sbottò Dantus, e mancava poco che si mettesse a pestare i piedi per terra.
«Bravo, vai a dire quanto siamo cattivi con te», sghignazzò Gandal.
«Non mi prendete sul serio!», ululò Dantus, la voce che stava salendo di qualche ottava.
Zuril lo guardò con aria molto, ma molto addolorata: «Come puoi pensare una cosa simile?»
«E insistete!», ormai la voce di Dantus era sull’isterico stabile. «Maestà! Come potete permettere che mi trattino così?»
«Credete che abbiamo esagerato?», ghignò Hydargos.
«Manca poco che si metta a piangere», aggiunse Gandal.
«Qualcuno ha un fazzoletto?» concluse Zuril.
Sua Maestà non stava affatto badando loro, nonostante il suo Ministro della Difesa, Comandante, generale eccetera stesse tirandolo per l’imperiale mantello di porpora. Disgustato, il sire continuava a fissare la piccola, ributtante creatura che si torceva per terra in un immondo liquame rossiccio. Proprio allora, dalla grata piovve un secondo vermiciattolo, poi un terzo…
«Ma quanti ce ne sono?», sbottò Re Vega, sempre più nauseato.
In quel momento, con uno schianto la grata cedette sotto il peso di una massa enorme che piovve nella stanza: era un mucchio, un immondo groviglio di vermi, viscidi, pulsanti e schifosamente vitali. L’intero canale d’aerazione brulicava di quei mostri.
Sbalordito, Re Vega rimase a fissare quei piccoli, stomachevoli esseri che continuavano a piovere nella stanza… continuavano… continuavano…
«Sire!», gridò Zuril «Toglietevi da lì sotto!»
Uomini d’azione, Gandal e Hydargos agirono assieme: balzarono in avanti, afferrarono il sovrano e lo tirarono indietro, allontanandolo dalla viscida massa semovente… e come fu come non fu, Dantus, che si trovava nelle immediate vicinanze, scivolò accidentalmente in avanti proprio mentre i suoi colleghi gli passavano accanto per mettere in salvo il sire, e con un urlo disperato finì nel groviglio. I vermiciattoli si avvolsero subito attorno a lui.
«…Dantus…!», esclamò il sovrano, che dal consueto colorito aranciato era divenuto giallo limone.
«È stato un incidente!», disse, un po’ troppo in fretta, Hydargos.
«O voi, o lui», aggiunse Gandal.
Re Vega guardò l’immondo groviglio pulsante; da giallo limone si fece verde passato di piselli: «Oh… capisco».
«Povero Dantus, che fine orrenda», aggiunse Hydargos, la voce che era tutta un alleluia.
«Non possiamo abbandonarlo a quei mostri!», esclamò il sire. «Fate qualcosa!»
Gandal e Hydargos scambiarono un’occhiata con Zuril, che si strinse nelle spalle. Se proprio ci teneva…
«Vabbé, vediamo di salvarlo», assentì Gandal, estraendo lentamente dalla fondina la pistola laser.
«Purché non sia troppo tardi… » aggiunse Hydargos, speranzoso.
Puntate – con accuratezza, precisione e soprattutto calma – le pistole, i due fecero fuoco, mentre Zuril spingeva Sua Maestà indietro, lontano dal pericolo. Purtroppo la grata, e soprattutto la massa verminosa, si trovava troppo vicino alla porta: uscire dalla stanza o far entrare aiuti era fuori discussione.
Sotto effetto del laser, tenuto al minimo (“Non dovremo ammazzarlo, vero?” “No, stavolta no”), la massa verminosa parve dividersi. Una parte ricadde in avanti, mentre il resto, rimasto sul posto, lasciava intravedere un qualcosa che si agitava pazzamente al suo interno. Un altro paio di colpi, e Dantus riemerse ululando dal groviglio.
«Presto, tiratelo fuori di lì!», gridò il sire; obbedienti, i suoi due comandanti afferrarono il collega per le braccia traendolo fuori dal mucchio, e sparando nel contempo contro i vermi più ostinati che continuavano a trattenere la loro vittima, avviluppandoglisi addosso.
«…Aiuto…!», gemette Dantus, sputacchiando alcuni vermi, pardon, ossiuri, che gli erano finiti in bocca.
Un altro paio di colpi laser, e finalmente Gandal e Hydargos la ebbero vinta anche sulle bestiacce più pervicaci; spintonato lontano dalla massa, Dantus ricadde contro una parete e s’afflosciò sul pavimento. Aveva ancora i rimasugli di varie bestiacce avviluppate addosso, un verme gli penzolava giù da una narice, altri erano appesi a mo’ di festone sulle sue orecchie, ed era interamente cosparso di liquame rossastro ed appiccicoso.
«…Disgustoso…!», esclamò lady Gandal, facendo improvvisamente la sua comparsa; in quel momento, echeggiò una parolaccia di genere strettamente gergale proveniente da Hydargos. «Ma insomma! Sono cose da dire in presenza di una signora? …Oh, capperi!», sì, disse proprio “capperi”, il massimo di volgarità che era disposta a concedersi; del resto, la situazione lo richiedeva.
Infatti, se metà della massa verminosa era stata schiantata durante il salvataggio di Dantus, il resto era ancora perfettamente vivo e vitale, e d’indole decisamente battagliera: raccolti su sé stessi in modo da formare una sorta di colonna, i vermi stavano disponendosi al contrattacco, pronti a balzare addosso ai loro avversari.
«Credo… credo di star per svenire…», gemette lady Gandal, rivelando ancora una volta la squisita sensibilità della sua indole.
«Eh, no!», intervenne prontamente il marito, recuperando il controllo della situazione e disponendosi a fare fuoco contro i mostri; ai suoi fianchi si posero Hydargos e Zuril, armi spianate e facce feroci. Alle loro spalle, con un barrito d’orrore il sire balzava sulla tavola di riunione, tenendo alti i lembi del mantello viola; abbarbicato al tavolo su cui non poteva salire causa mancanza di spazio, Dantus era in preda ad una nuova crisi isterica.
«Fatemi salire!», ululò il Ministro della Difesa di Vega. «Vi prego, fatemi salire! Arrivano...!»
Re Vega non lo ascoltava nemmeno, troppo occupato com’era a tenere d’occhio la massa pulsante che sembrava avvicinarsi pericolosamente al tavolo. Un nuovo tentativo d’attacco riportò le bestiacce fin troppo vicino al sire, che lanciò un urlo. Rialzò maggiormente i lembi del mantello mentre eseguiva una sorta di frenetico tip tap sul tavolo; Dantus tentò d’inerpicarsi a sua volta accanto al sovrano, ma questi gli calpestò una mano, strappandogli un ululato e facendolo crollare a terra. Agghiacciato, Dantus s’aggrappò ad una zampa del tavolo, gli occhi che stavano assumendo ormai le proporzioni d’una lama rotante. I mostri erano vicinissimi, ormai...
I vermi si slanciarono in avanti, i tre comandanti di Vega li accolsero con una scarica di raggi energetici; i vermi continuarono ad attaccare, tentarono una finta, un nuovo attacco, un assalto sui due fronti a tenaglia… i tre comandanti tennero loro testa.
La battaglia fu terribile, ma alla fine i mostriciattoli ebbero la peggio. Sul pavimento era sparso uno spesso strato appiccicaticcio, bianchiccio e rossastro, di vermi defunti. Qualche singolo esemplare ancora si contorceva, qualche groviglio dava vaghi segni di vita; ma era tutto.
Era finita.
Ancora in piedi sul tavolo, i lembi del mantello tenuti alti, Re Vega sì azzardò a sporgersi per dare un’occhiata: «Sono… morti?»
«Tutti, Maestà», Gandal ripose la pistola e rivolse al sire un impeccabile saluto militare. «Nulla più minaccia la vostra sicurezza, mio sire».
«Ma che roba erano?», brontolò il sovrano, facendo l’atto di voler scendere; subito Zuril e Hydargos gli tesero le mani per aiutarlo, dando nel contempo un aiuto a rialzarsi pure a Dantus, rimasto aggrappato alla zampa del tavolo – ma forse più che un aiuto fu un calcio nel fondoschiena. Per ciascuno.
Zuril s’avvicinò al mucchio e l’osservò con scientifica curiosità: «Sembrerebbe il risultato di un qualche esperimento».
«Opera tua?», esclamò Re Vega, che sentendo calare la fifa stava recuperando il ringhio delle grandi occasioni.
Zuril guardò il sire in viso: «Maestà, vi assicuro che non so nulla di queste... cose».
«Potrebbe essere il genere di porcherie con cui pasticci tu», insisté il sovrano.
«Non ne sono responsabile!», Zuril alzò la mano e mancò poco che facesse giurin giuretta. «Maestà, avete la mia parola!»
Davanti a tale manifestazione d’onore offeso, il sovrano si rabbonì: «Va bene, Zuril. Ti credo. Ma chi altri può essere stato?»
Un silenzio pesante cadde nella sala. Per un attimo, tutti ebbero la sensazione che Gandal avesse qualcosa da dire... o forse l’impressione fu data dal fatto che stranamente lady Gandal per una volta taceva... Zuril alzò le spalle con fare noncurante: «Stabiliremo più tardi chi sia il responsabile di quei mostri, Maestà. Se permettete, ne preleverò un campione da analizzare».
«Ma certo» Re Vega continuava a guardare il canale d’areazione da cui piovevano ancora sparuti vermiciattoli: «Sono arrivati da lì... Dove porta quel canale?»
«Mah... un po’ dappertutto», rispose Hydargos. «Quello è il condotto principale, che passa vicino ai nostri alloggi, all’appartamento reale, alla sala del trono, alle cucine, al labor... ehm» s’interruppe, tossicchiò.
«Continua», ordinò il sire.
Hydargos esitò, scambiando un’occhiata con i colleghi; Gandal assunse un’aria molto indifferente, e Zuril apparve artisticamente dispiaciuto: «Sire, nessuno di noi naturalmente può pensare che...»
«Lo so che non potete pensare», sbottò la graziosa Maestà «Vuoi dirmi una buona volta dove passa quello stramaledetto condotto?»
«Ehm... vicino al laboratorio...»
«Il tuo?»
«No, il mio si trova nel sotterraneo... tutt’altro condotto d’aria, mio signore».
«E allora, di che dannato laboratorio stai parlando?»
Zuril sembrava un coccodrillo dalla lacrima imminente: «Di quello di Dantus, Maestà».
«Ah!», ruggì Re Vega, voltandosi di scatto verso l’interessato, rimasto fino ad allora in attonito silenzio.
«Eeeh?», ululò questi, inorridito: «Maestà, ma io vi giuro... Non sono responsabile! Non avete visto che sono stato aggredito? Vi assicuro...»
«Ma certo, certo», intervenne Zuril, e tutti ebbero l’impressione di vedere un’aureola al neon scintillare sulle sue aguzze orecchie «Nessuno pensa che sia tu il colpevole...»
«Ah, no?», s’intromise Hydargos, deluso.
«Certo che no!» esclamò con forza Zuril. «Non può essere stato lui...»
«Meno male», brontolò Dantus.
«...perchè chi ha creato quei cosi dev’essere un genio», completò soavemente Zuril.
«...!!!», fu tutto ciò che riuscì ad esprimere Dantus.
«A proposito», sempre con quella suo insopportabile fare soave, Zuril s’avvicinò al collega «Permetti? Ne avevi ancora uno addosso» e gli sfilò un lungo, disgustoso vermicello che faceva capolino dallo scollo della tuta di Dantus.
Se mai il Ministro della Difesa aveva voluto dire qualcosa, il vedere quel minuscolo mostro estratto dal proprio decolleté fu troppo. Dantus fissò il vermiciattolo, mentre il suo viso grigio e nero virava verso il biancastro-bigetto. Un istante dopo, l’infelice uscì di corsa, con l’urgenza di chi sente che il proprio stomaco sta per trasformarsi in geyser.
Re Vega si rivolse a Zuril: «Davvero credi che non sia stato lui?»
«Vi ho dato quest’impressione?»
«Avevi detto... che solo un genio può... »
Zuril scosse il capo: «Ahimé, Maestà, sapete che prendere in giro Dantus è una mia debolezza... in realtà, anche se mi diverto a denigrarlo, sono convinto dell’altissimo valore scientifico del nostro Ministro».
«In parole povere, pensi che sia stato lui, sì o no? », chiese il sire, che amava i discorsi chiari e netti.
Zuril si fece molto indulgente: «Anche i migliori possono sbagliare».
«Ma questa volta, lo sbaglio ha rischiato di costare la vita a me!»
«Ma noi vi abbiamo salvato, sire. Siate clemente. Vi prego, non punitelo... non troppo».
Re Vega s’avvolse nel purpureo mantello: «Ci penserò».
Le porte si chiusero dietro di lui.
«Per un attimo» disse Hydargos «ho creduto che tu stessi difendendo quel...!»
«Ma lo stavo facendo» rispose Zuril «Non avessi fatto così, il nostro beneamato sovrano l’avrebbe fatto trucidare seduta stante; e sarebbe stato un peccato».
«Saremmo rimasti senza divertimento, capisco», ridacchiò Hydargos; fece per uscire, ma s’arrestò sulla porta: «Spero però che non vorrai fargliela passare liscia».
«Vogliamo scherzare?»
«Ah, meno male», rassicurato, Hydargos uscì a sua volta.
Nella stanza, rimasero solo Gandal e Zuril... o meglio, lady Gandal e Zuril, perché non appena le porte si furono chiuse dietro ad Hydargos lei fu rapidissima a fare la sua comparsa.
«Dantus...?», chiese.
«Dantus», confermò Zuril, annotandosi mentalmente di recarsi poi dal sire, deprecare in tono addolorato la leggerezza del collega, ventilare la possibilità di una punizione e lasciar poi cadere come per caso il discorso che era da troppo tempo che non venivano spalati via gli escrementi dalla gabbia del King Gori. Con un po’ di fortuna, il sire avrebbe fatto due più due. «Perchè non potrebbe essere colpa sua? Io, so di non essere stato».
«No, certo che no» ammise in fretta la signora.
«Chi altri vuoi che si occupi di esperimenti scientifici?», continuò Zuril. «Hydargos? Tuo marito? Deve essere stato Dantus».
Lady Gandal si morse un labbro: «Sì, ma... voglio dire...» prese fiato e infine esplose: «Zuril, sai benissimo che quel condotto da sulle cucine!»
«Infatti».
«E allora, io... io dovrei dire...»
«Non dire niente, e lascia le cose come stanno», tagliò corto Zuril. «Non parlerò nemmeno io... se mi giurerai che non proverai più a cucinare quei dannati spaghetti al pomodoro».
Lady Gandal alzò una mano nella perfetta imitazione di un boy-scout: «Mai più! Giuro!»



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view post Posted on 24/9/2011, 22:38     +1   -1
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Nuovo capitolo della saga sulla civilizzazione di Tetsuya. Impresa disperata, ma Jun non demorde.



IGIENE MOLTO PERSONALE

A suo tempo, il professor Kabuto aveva assegnato a Jun e Tetsuya due alloggi pressochè identici per forma e dimensioni (soggiorno con angolo cottura – camera – bagno), e aveva lasciato loro ampia facoltà di scelta circa l’arredamento.
Piena d’entusiasmo, Jun aveva ammobiliato le proprie stanze con amore e gusto, ottenendo dei locali piacevoli ed accoglienti; Tetsuya... beh, naturalmente Tetsuya aveva idee completamente diverse su quello che doveva essere l’alloggio di un vero uomo. La sua casa era divenuta un fedelissimo specchio del proprietario – e proprio qui stava il problema.
Non che fosse sporca: Tetsuya era una persona amante dell’igiene. E soprattutto, aveva una donna che veniva a fare i lavori.
Non era nemmeno disordinata: avrebbero dovuto esserci degli oggetti, per avere del disordine.
Il punto era proprio questo: non c’erano oggetti, e non stiamo a parlare di soprammobili e ninnoli.
I mobili erano molto pochi, tutti squadrati e razionali e tutti scelti basandosi su criteri di praticità e comodità, non certo di estetica; il risultato era stato uno stile diciamo eterogeneo.
Del resto, Tetsuya amava le cose semplici: non era certo un tirchio, ma a parer suo, una volta che ci fossero stati gli indispensabili mobili di cucina, un letto, un tavolo e una sedia, mettiamo pure persino un armadio, il resto era tutto superfluo. Già convincerlo ad acquistare quattro sedie invece di una era stata dura (“Perchè quattro? Quando c’è quella per me, c’è tutto”); persuaderlo poi a riempire un angolo desolatamente vuoto con un divano, un tavolino e un paio di poltrone aveva richiesto tutta la capacità diplomatica di Jun, che l’aveva spuntata dopo una lotta da far impallidire qualsiasi scontro con i Mikenes. Tetsuya aveva infine ceduto, impuntandosi poi contro qualunque successiva intromissione. Il risultato era stato un appartamento luminosissimo, pulito, e totalmente privo di quadri, fotografie, soprammobili, tappeti, o qualsiasi altro oggetto ritenuto superfluo, comprese le tende alle finestre (“Tende? Magari con i pizzetti? M’hai preso per una femminuccia?”).
Jun non poteva entrare nell’antro del compagno senza provare un certo disagio; al contrario, lui si muoveva in tutta disinvoltura nei suoi ampi spazi vuoti.
La situazione rimase così in stallo per mesi e mesi, finchè un giorno Jun, seduta su una delle angolose scranne nella cucina di Tetsuya per bere uno dei suoi tristemente noti caffè, non notò qualcosa di davvero sgradevole: «Tetsuya! Da quanto tempo non ti tagli le unghie?»
Lui si guardò gli artigli, lo sguardo divenuto improvvisamente vacuo: «Trovi che siano troppo lunghe?»
«No, se decidi di assomigliare a Wolverine», rispose Jun, asciutta.
Persino Tetsuya colse il sarcasmo che sfrigolava nella voce di lei; borbottando in modo da far capire che cedeva solo per compiacerla, s’alzò, frugò in un cassetto cavandone un paio di forbici da cucina e sedutosi nuovamente al tavolo prese a tranciarsi in tutta tranquillità il primo artiglio. Un pezzaccio di unghia volò per la stanza.
«...Tetsuya...!», esclamò Jun, non appena fu nuovamente in grado di parlare.
Lui alzò gli occhi dal suo lavoro, mentre un altro unghione spiccava il volo: «Sì?»
«Ma... ma che stai facendo? Ti tagli le unghie in cucina?»
«Mi pare poco educato lasciarti sola per andare in bagno», rispose soavemente lui. E poi lei lo accusava di essere uno zotico insensibile!
«Ma... », boccheggiò lei, «Ma stai usando le forbici di cucina!»
«Sono molto comode» , sorrise lo sciagurato. «Molto più del coltello che usavo una volta».
«Il...? Ma possibile che tu non abbia delle forbici da unghie?», ululò lei, la voce che saliva man mano di ottava in ottava.
«No, perché?», chiese lui, pacifico.
Un urlo strozzato di Jun lo fece ammutolire; rimase in perfetto silenzio, mentre lei impiegava svariate migliaia di parole per spiegargli alcuni punti essenziali, tra cui il fatto che lui fosse uno sciamannato irrecuperabile, uno zotico e un bruto, e che tentare di civilizzarlo fosse ormai un’impresa impossibile (e qui lui s’astenne saggiamente dal pregarla di non provarci neppure, grazie). Infine, ripreso fiato dopo la tirata, Jun si fiondò nel bagno per vedere con i suoi occhi quale fosse la reale entità del problema. Tetsuya depose le forbici sul tavolo e rimase in timorosa attesa, dicendosi che aveva fatto bene a non raccontarle di quando si era troncato le durissime unghie dei piedi con le cesoie da giardino.
Il bagno appariva esattamente come il resto della casa: lustro e pulito, ma vuoto e deserto. Un solo grande asciugamano era appeso ad un chiodo: Tetsuya avrebbe trovato assurdo usarne diversi, questo Jun lo comprese da sola. Ovviamente, non v’era ombra di tappetini: nudi piedi sul nudo pavimento, anche in pieno inverno. Così vive il vero uomo.
In un angolo, in un semplice secchio aperto era stata gettata la biancheria sporca.
Sul lavandino, da una parte un bicchiere sbeccato conteneva un vetusto, esausto spazzolino e un tubetto di dentifricio ormai spremuto all’inverosimile; dall’altra, un toccaccio di sapone da bucato – senza portasapone, ovviamente.
Sulla mensola non si vedeva alcun pettine, confermando così i sospetti di Jun che il compagno usasse acconciarsi le chiome con le dita.
La giovane donna prese fiato: aveva affrontato gli orrendi mostri inviati dalla Marchesa Yanus e dal Generale Nero, aveva rischiato infinite volte la propria vita combattendo per la salvezza della Terra... poteva anche affrontare l’armadietto del bagno di Tetsuya.
Aprì l’anta con un sol gesto.
In un angolo, giaceva un rasoio decrepito (“Non è decrepito, solo un filo arrugginito, ma funziona benissimo”). In un altro, una bottiglietta di alcool puro (“Meglio di qualsiasi dopobarba”). In fondo, un bastoncino di allume di rocca per porre rimedio a qualsiasi incidente di rasatura. Nessuna traccia di schiuma da barba, ovviamente. O di colonia, di lavanda, di qualsivoglia deodorante; fortuna che d’abitudine Tetsuya faceva la doccia tutti i giorni, altrimenti la vicinanza con lui avrebbe potuto essere davvero difficile.
Per il resto, il più totale deserto, se si escludono un ragno mummificato ed un minuscolo flaconcino di shampoo neutro.
«Quello me l’hanno regalato al supermercato, era un campione omaggio», si premurò d’informarla Tetsuya, «Ma penso di buttarlo. Non uso certe cose, io».
«E come ti lavi i capelli, di grazia?», chiese lei, in un tono amabile molto sospetto.
«Quando faccio la doccia, con il sapone», e accennò al saponaccio da bucato.
Jun guardò le chiome ribelli e cespugliose del compagno e sbuffò dalle narici: «Me l’immaginavo».
«Beh, non c’è niente che non vada, immagino», buttò là lo sciagurato. «Ho tutto quel che serve, no?»
«Ma vuoi scherzare? Vivi peggio d’un selvaggio! Ma possibile che tu sia così... così...», cercò disperatamente una parola adatta a definirlo, ma non ne trovò nessuna di sufficientemente efficace, per cui ripiegò su un: «Che tu sia COSI’, ecco!»
Tetsuya ammutolì: per esperienza, sapeva che quando Jun era veramente lanciata era meglio tacere e subire.
«Mi meraviglia solo una cosa, che trovo davvero fuori posto in questo bagno!», continuò lei, che quando era veramente furiosa diventava sarcastica, «E cioè, quella!»
«La carta igienica?», si stupì lui.
«Sì! Un tipo come te dovrebbe usare il giornale vecchio!»
Lui si tiracchiò con fare distratto uno dei basettoni: «A dire il vero ci avevo pensato, ma ho preferito lasciar perdere».
«Ooooh. E come mai?»
Tetsuya sorrise, serafico: «Jun... io non leggo i giornali. Non ho tempo. Ascolto le notizie alla radio, e naturalmente non posso usare una radio per... oh», tacque, mentre lei gli ruggiva in faccia quale uso avrebbe potuto fare della sua radio, e soprattutto in qual loco riporla.
Finì come solo poteva finire: resa totale di Tetsuya, che guardò in sofferente silenzio Jun gettar via rasoio rugginoso, spazzolino spelacchiato, dentifricio esaurito, bicchiere crepato e saponaccio da bucato. Quindi lei partì di gran carriera in direzione della civiltà, e soprattutto di un buon negozio di profumeria.
Nemmeno un’ora dopo, Jun depose un paio di enormi sacchetti colmi sul tavolo di Tetsuya.
«Ecco», esclamò.
Tetsuya non ebbe il coraggio di replicare: conosceva troppo bene quel tono di voce. Era quello delle grandi occasioni. L’unico modo per uscirne vivi ed interi era cedere su tutta la linea, lo sapeva per sofferta esperienza personale.
Aprì un sacchetto e ne estrasse un nuovo bicchiere per lo spazzolino da denti e un portasapone coordinato: entrambi azzurri, lisci e lineari. Ok.
Seguirono spazzolino e dentifricio, un pettine, forbici e lima per unghie: ok anche qui.
L’oggetto che estrasse successivamente gli fece inarcare i sopracciglioni: era una saponetta alla lavanda, del regolamentare color viola pallido. «Non vorrai che mi lavi con un sapone rosa!»
«Non è rosa, è lilla», esclamò Jun, e lui ebbe la netta impressione di vedere delle scintille uscirle dalle narici. «Anche l’alcool è rosa, e mi sembra che la cosa non ti abbia dato problemi!»
Uno a zero. Tetsuya ammutolì e mise la saponetta con gli oggetti approvati.
Un oggetto misterioso: «E questo?»
«Un bastoncino di deodorante», sbuffò lei.
«Ma io non puzzo!»
«Non dopo un allenamento».
Due a zero. Zitto.
Altro oggetto strano: «Cos’è?»
«Crema per le mani. Le hai ruvide come raspe».
«Se credi che io sia un effemminato che usa le cremine...!»
«E’ una crema ideata per i pescatori di aringhe dei mari del nord. Credi che siano femminucce?»
«No... no, ma...»
«Prova TU a farti smanazzare e palpeggiare da un uomo che ha carta vetrata al posto delle mani, e dimmi quanto è piacevole!»
«Da un uomo? Io? Ma...»
«Mettiamola così: niente crema, niente sesso. Spero sia chiaro».
Il tubetto incriminato volò sul mucchio degli oggetti approvati.
Seguì poi un’enorme confezione di rasoi (“Sono usa-e-getta, Tetsuya. Cerca di capire questo concetto”). Una bomboletta di schiuma da barba (“Ma mi sono sempre rasato senza” “Certo. Tagliandoti regolarmente” “Dici che con la schiuma non succede? Ma guarda...”). Un dopobarba (“Ma l’alcool andava così bene...” “Ma brucia!” “Ma no, è meglio della tintura di jodio che usavo una volta”). Un paio di shampodoccia al pino silvestre e al muschio (“Ma sei sicura che questa roba lavi sul serio? Il sapone da bucato andava così bene...”). Un’acqua di profumo al sandalo (“Eppure continuo a pensare che non ho mai puzzato... non troppo”). Una colonia e una lavanda (“E ancora!”).
L’ultimo oggetto estratto dai sacchetti fu uno spray al timo per le calzature.
«Adesso puzzano anche le mie scarpe», brontolò Tetsuya.
«Le scarpe, no» rispose Jun. «I tuoi piedi, sì. Quando ti togli gli stivali, bisogna stare in apnea».
Vero. Trentadue a zero. Zitto.
Tetsuya gettò uno sguardo sconsolato al monte di bottiglie e tubetti che stavano per infestare il suo bagno: «Devo usare davvero tutto questo?»
«Tutto, sempre» asserì Jun, cominciando a sistemare nel bagno balocchi e profumi. «Guarda che quel che ti ho comprato è il minimo, per avere un aspetto civile! Vediamo se finalmente riuscirai ad avere un’aria un po’ più presentabile!»


Ci volle tutta la buona volontà di Tetsuya per incominciare la sua nuova vita: era infinitamente più semplice l’uso del sapone da bucato, saponette e shampodoccia all’inizio lo confusero non poco.
Per non parlare poi del dopobarba, della colonia e del profumo, altre cause di caos.
Ci fu anche la volta in cui si spruzzò sotto le ascelle lo spray al timo per le scarpe, o quando usò l’allume di rocca sotto alle ascelle al posto del bastoncino di deodorante; il massimo lo ottenne il giorno in cui si passò distrattamente tra le chiome le mani ancora unte della crema per pescatori d’aringhe. A parte questi piccoli incidenti, bisogna dire che Tetsuya fu bravissimo e s’impegnò sul serio – anche perché Jun gli aveva rinnovato l’aut-aut: no creme e profumi, no sex-party.
Bisogna dire che il giovane aveva acquisito un aspetto decisamente migliore: i capelli erano molto meno cespugliosi, il viso appariva più luminoso e privo di tutti quei tagli da rasoio che avevano sempre offuscato la maschia bellezza della linea della mascella, un lieve sentore di sandalo e lavanda, molto virile, avvolgeva la sua persona, le unghie erano regolarmente tagliate e pulite, i piedi olezzavano come verbene. Pareva un altro uomo.
Jun era letteralmente radiosa, e continuava a rimirarselo con aria incredula; anche quel giorno, seduta al tavolo nel soggiorno di lui a sorseggiare un tè freddo alquanto improbabile, Jun continuava a rimirarsi il compagno, rapita da tanta meraviglia... e improvvisamente, lui prese ad agitarsi sulla sua sedia, con l’aria di chi ha qualcosa in bocca che lo tormenta.
«Mi s’è incastrato un pezzo di semino di limone tra i denti», rispose Tetsuya alla premurosa domanda di Jun. «Adesso ci penso io».
Frugò in un cassetto del tavolo di cucina. Estrasse la lima per unghie liberandola dai denti del pettine in cui s’era impigliata, e cominciò ad armeggiare tra i molari in modo da rimuovere il corpo estraneo.
Jun lanciò un ululato. E pianse.



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Fratello di Trinità e Bambino

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Dato che si riparla del Guttler, riesumo questo racconto: è il primo che ho scritto sull'argomento. All'epoca era stato lanciato un concorso, lasciando noi autori totalmente liberi circa genere, ambientazione eccetera. Io avevo partecipato con questo lavoro... profondamente drammatico. :asd:

Note tecniche: il paese di Caprino esiste realmente, e davvero si tiene in estate una grande festa cui partecipano centinaia di persone... tra cui pure io.^^

CHI BEN COMINCIA…

– Professoressa… permette una domanda?
– Ma certo, Anna – Silvia alzò il viso dai fogli che stava esaminando.
– Ecco… mi chiedevo… ci occorre un pilota per il robot, ma… perché proprio lui?
Silvia esitò un solo istante: – È stato la scelta migliore.
– Ma, scusi – intervenne Rizzo, il suo assistente – non è stato anche l’unico a presentarsi per quel compito?
Silvia si tolse gli occhiali, li ripulì accuratamente e li rimise, prima di dardeggiare sul suo giovane sottoposto l’occhiata laser per cui era famosa – Già, l’unico. Per questo è anche stato la nostra scelta migliore. Altre domande?
Rizzo ed Anna si guardarono prima di rispondere in coro che no-o, non ne avevano più. Silvia allora sedette al suo tavolo e si mise al lavoro.
Anna, ventotto anni e un placido, gallinaceo cervellino celato sotto una massa riccioluta di capelli castani, si voltò verso Rizzo: – Ma perché credi che non si sia presentato nessun altro pilota per il nostro robot?
– Semplice – lui si passò una mano sulla zucca pettinata alla Kojak – Quanti conosci che siano disposti a far volare un robot che si chiama Guttler-X?
Qualcosa parve risvegliarsi nei neuroni di Anna: – Oh, ah. Certo, Gutta…
Guttler! – corresse seccamente Silvia, dalla sua scrivania – Si chiama Guttler, ricorda. Qualsiasi commento su quel nome…
– Via, professoressa – Rizzo sorrise, disarmante – Non è colpa nostra se lo hanno chiamato così.
– Infatti – convenne Silvia – Noi abbiamo dovuto accettare le cose come stanno, visto che il robot è stato progettato e finanziato da altri, mentre il nostro compito è solo renderlo operativo. Per cui, niente ovvie battute di genere gastro-intestinale. Siamo intesi?
– Certo – Rizzo ammiccò ad Anna: la leonessa s’era ammansita, erano salvi – Chi si lascia scappare anche una sola parola di troppo sul Guttal… Guttler, paga il caffé a tutti.
– Perfetto – Silvia tornò al suo lavoro, ma non riuscì a concentrarsi.
Aveva quarantacinque anni, era una bella donna alta e bruna, era un brillante scienziato, occupava un posto di prestigio come responsabile di quel Centro di Ricerche nel nord Italia, aveva davanti a sé una carriera sfolgorante… e le era piombato addosso l’ingrato compito di dedicarsi ad un robot finanziato da una grande multinazionale farmaceutica famosa per i suoi prodotti anti stipsi.
Cosa avevano detto…? Il primo robot italiano, su modello di quelli giapponesi… anche noi avremo il nostro difensore… un gran momento per l’Italia…
Silvia guardò sullo schermo l’immagine del Gutta… Guttler (maledizione!). Ma perché era toccato proprio a lei? Aveva ricevuto congratulazioni ed incoraggiamenti: il suo nome sarebbe stato scritto con quelli degli scienziati più celebri, Umon, Kabuto, Saotome e Silvia Rossi. Il loro pilota si sarebbe coperto di gloria come Tetsuya Tsurugi e Koji Kabuto.
Rivide improvvisamente l’uomo in questione, l’unico che avesse accettato quel compito.
Silvia Rossi era una fredda, efficiente scienziata, abituata a controllare perfettamente le proprie emozioni.
Questo fu l’unico motivo per cui non pianse.


Trent’anni portati con festosa incoscienza, un’ampia camicia stampata a fenicotteri dai colori chiassosi, il giovane entrò a vele spiegate nella sala centrale dell’osservatorio travolgendo nel suo passaggio una pila di carte sulla scrivania di Anna.
– Scusa, tesoro! Li raccolgo io! – si chinò bruscamente, e le sue vastità inferiori entrarono in collisione con il bicchiere di succo di frutta di Rizzo (quel giorno, banane biologiche coltivate in Burkina Faso) – Ooops!
Un’esclamazione di genere escrementizio esplose dalla strozza di Rizzo, e Silvia lo fulminò con un’occhiata: – Bene, Rizzo, oggi il caffè lo offri tu.
– Ma professoressa, non stavamo parlando del Gutta… Guttler, voglio dire!
– Non voglio sentire nulla di argomento gastro-intestinale, lo sai – e lei tornò alle sue carte.
Il colpevole di tanto disastro era mortificato: – Mi spiace… adesso ti pulisco la scrivania…
– No, non preoccuparti! – lo arginò subito Rizzo – Il succo non è caduto lì!
L’altro si rasserenò: – Ah, meno male.
– È sgocciolato sulla tastiera… – gemette l’infelice; ma sottovoce. Non voleva rischiare d’essere aiutato.
Il nuovo venuto si guardò allegramente intorno: ci voleva ben altro che due sciocchi incidenti a togliergli il buon umore! Non per nulla, la sua gioiosa, inarrestabile vitalità gli era valso da tutti il nomignolo di Panzer, con cui era universalmente conosciuto. Questo secondo lui. Che l’origine di detto soprannome andasse ricercato invece nella prorompente vastità che gli debordava da sopra la cinghia dei pantaloni era invece la versione del resto del mondo.
– Allora, capo? Oggi è il gran giorno! – esclamò Panzer, fregandosi le mani e dedicando a Silvia una delle sue occhiate assassine, da vero acchiappafemmine quale lui si fregiava di essere. C’era poco da fare, quella bella donna alta e austera lo faceva impazzire. Anche se in quel momento lo stava guardando come se fosse stato un bacherozzo caduto nella sua insalata.
Gli occhiali di Silvia balenarono, funesti: – Panzer, ti ho già detto più volte di chiamarmi dottoressa, signora, professoressa, ma non capo.
– Va bene, prof.
– Siamo a scuola, adesso – bisbigliò Rizzo ad Anna, la voce abbastanza alta perché fosse perfettamente udibile.
Silvia inspirò, e i suoi assistenti avrebbero giurato in seguito d’averle visto sbuffare scintille dalle narici; poi, mostrando una calma ammirevole riuscì ad esprimersi con un tono di voce ancora abbastanza amabile: – Vai a prepararti, Panzer. Cominceremo l’esercitazione al più presto.
Lui le dedicò uno sguardo adorante: – Certo, prof.
– Ti abbiamo preparato una tuta e un casco nuovi, li troverai nello spogliatoio – continuò lei, sforzandosi d’ignorare quegli occhi da triglia bollita che non la lasciavano un istante – Oggi farai la prima esercitazione all’esterno del laboratorio. Vogliamo vedere come si comporta il Gutt… ler sul terreno accidentato. Dovrai far muovere il robot su prato, per cui andrai sui pascoli a mezza quota; poi proverai a fargli fare qualche salita.
– Certo, prof. Nella dotazione ci sono ramponi e piccozza? – chiese Panzer, che aveva un fine senso dell’umorismo.
Altra occhiata inceneritrice: – Non scherzare. Quest’esercitazione è molto importante, il Guttler potrebbe dover affrontare un nemico in un combattimento a terra. Dobbiamo valutarne la stabilità e la capacità di muoversi su qualsiasi terreno.
– Facciamo anche una prova delle armi? – chiese Panzer, impaziente di sparacchiare raggi e lanciare lame.
– No, non sono state ancora collaudate a dovere.
– Appunto, allora non sarebbe il caso di cominciare a farlo?
– Non oggi! – gli occhiali di lei emisero i sinistri bagliori delle grandi occasioni: – Ascoltami bene, Panzer: non userai le armi. In particolare, non devi PER NESSUN MOTIVO anche solo sfiorare il pulsante dei raggi GX.
Panzer pensò a quell’invitante tasto rosso che campeggiava nel bel mezzo della consolle, e sospirò: – Come vuoi, prof.
– Al tuo ritorno, preparerai un rapporto dettagliato sull’esercitazione.
– Sì, e poi ne parleremo insieme! – colse la palla al balzo lui – Conosco un ristorantino…
– Panzer – il tono di lei non ammetteva repliche – vai a prepararti.
– Subito, prof! Per stasera, come mi vuoi: elegante, casual, o preferisci qualcosa di più…
– Ssst! – Silvia si guardò rapidamente attorno e vide che Anna e Rizzo stavano lavorando alacremente alle loro postazioni, il che significava che non stavano perdendosi una parola; non volendo arrischiarsi ad andare fuori in corridoio e restare a tu per tu con Panzer, Silvia abbassò la voce riducendola ad un sibilo glaciale: – Non ho nessuna intenzione di uscire con te, né oggi né mai. Casomai non l’avessi notato, tu hai trent’anni, e io qua… qualcuno di più.
– Ma prof, a me piacciono le donne più vecchie – rispose candidamente lui.
Silvia era Silvia, e incassò quel complimento così fine: – Resta il fatto che sei rozzo, goffo, insopportabile, cialtrone e…
– Sexy? – chiese lui, speranzoso. Vide che lei aveva preso a guardarsi attorno in cerca di qualcosa di possibilmente grosso, pesante e spigoloso da scaraventargli sulla testa e pensò di rimandare a più tardi il corteggiamento – Vado, prof. – sgattaiolò verso la porta, voltandosi un attimo prima di uscire: – Riprenderemo il discorso stasera, a cena.
Sparì, mentre Silvia esplodeva in un termine che generalmente non è contemplato nel vocabolario della vera signora. Ripresasi, affrontò gli sguardi allibiti dei suoi assistenti: – Va bene, ho capito. Domani il caffè lo offrirò io.


La vasta epa fasciata dalla tuta rossa e bianca, un casco dagli stessi colori che gli proteggeva la pur dura cervice, Panzer sedeva trionfalmente nella cabina di pilotaggio del più straordinario robot che avesse mai calcato con le sue enormi fette il suolo veronese. Con la disinvoltura del vero esperto, Panzer faceva scorrazzare Guttler sui pascoli portando lo scompiglio tra le mucche, che fuggivano in un gran risuonare di campanacci.
– Che ne dici, prof? – gongolò Panzer – Funziona benissimo!
Rizzo guardò sullo schermo il Guttler saltabeccare di fratta in fratta e diede di gomito ad Anna: – Non ti pare che somigli ad Heidi?
– Ridi, ridi! – gridò Panzer – Resta il fatto che questo gioiellino va che è un piacere!
– È ancora presto per dirlo, l’esercitazione è appena cominciata – gli tarpò le ali Silvia.
Panzer eseguì una rapida giravolta, accennò un passo di danza e concluse con una piroetta: – Che ne dici, prof? Ti pare che il Guttler sia sufficientemente stabile?
Anna e Rizzo si scambiarono un’occhiata: buffone o meno, Panzer stava rivelandosi un pilota più in gamba del previsto.
Persino la gelida Silvia dovette ammettere che sì, l’esame stava andando veramente bene: – D’accordo, Panzer, la prova su prato possiamo considerarla superata. Adesso vorrei vedere il Guttler su un terreno ondulato.
– Ai tuoi ordini, prof! – Panzer si guardò rapidamente in giro. Alla sua sinistra il prato formava una salita, dolce prima e piuttosto ripida poi, andando a finire in una zona rocciosa: – Adesso faccio salire il Guttler e poi provo a scalare la montagna.
– Non esagerare – disse Silvia.
– Potrei scavalcare il monte e arrivare fino al lago – continuò l’incosciente.
Silvia sussultò, quasi avesse ricevuto un pugno nel pancreas. Il lago di Garda era dall’altro versante… ed era il culmine della stagione turistica…!
– Tu non farai niente di simile! – esclamò, decisa.
– Hai paura che non ci riesca, e che possa farmi del male? – giubilò lui – Sei così preoccupata per me che…
– Non sono preoccupata per te! – omise all’ultimo istante il “bestia” che le sarebbe venuto spontaneo – Non devi andare al lago perché c’è pieno di gente, laggiù!
– Bene, così facciamo un po’ di pubblicità al Guttler!
– Panzer! – esclamò lei, il tono che non ammetteva repliche – NO!
Era un “no” da non ignorare, anzi, da far scattare sull’attenti, questo persino Panzer lo comprese: – Va bene, prof, se proprio ci tieni non porto il Guttler al lago a fare il pediluvio. Sarà per un’altra volta. Adesso provo a salire.
Silvia riprese a respirare: per un attimo, aveva davvero temuto che quel pazzo… beh, questo era un problema che né il professor Umon né gli altri suoi illustri colleghi avevano: un pilota deficiente che fa pure il cascamorto.
Guttler cominciò a salire con insospettata agilità: era evidente che i suoi piedi facevano bene presa sull’erba, e che anche sul terreno accidentato il robot si mostrava stabile. Panzer guidava senza la minima difficoltà, sembrava che avessero progettato il robot proprio per lui… un uomo, una macchina… proprio come i suoi illustri colleghi, Daisuke Umon, Tetsuya Tsurugi, Koji Kabuto. Già si vedeva ammesso al loro olimpo, parlar loro da pari a pari, rispondendo con la naturale modestia che lo contraddistingueva.
“Sei in gamba, davvero.”
“Grazie, Tetsuya. Anche tu sei forte.”
“Posso stringerti la mano?”
“Ma certo, Koji.”
“Sarebbe per me un onore considerarti mio amico.”
“Per carità, Daisuke, l’onore è mio.”
Naturalmente (e qui gli occhi di Panzer ebbero un luccichio pericolosamente libertino), oltre che i piloti maschi avrebbe potuto avere una conoscenza ravvicinata, possibilmente mooolto ravvicinata, anche con le gentili signore: Venusia, Maria, Sayaka, Jun… si vide, coperto di gloria, circondato dalle quattro meravigliose fanciulle adoranti che facevano a gara per disputarselo, mentre in un angolo Silvia si sarebbe macerata cuore, fegato e pure milza dalla gelosia.
– Panzer! – la voce di Silvia lo fece precipitare dalle sue rosee nuvolette – Fai attenzione, la salita sta diventando piuttosto ripida.
– Niente paura, prof – Panzer rallentò la velocità e il robot s’inerpicò agilmente su per il pendio.
Dall’alto della montagna, il panorama era stupendo: sterminate distese di prati, boschi che spiccavano d’un verde più scuro, qualche malga che biancheggiava qua e là. Giù a valle, si stendeva il ridente paese di Caprino, quel giorno affollatissimo per la cerimonia che segnava l’inizio della Festa d’Agosto. Centinaia di persone si erano riversate laggiù; su un palco, un sindaco dalla pancia fasciata col tricolore avrebbe tenuto il suo discorso, alcuni notabili, tra cui una dignitosa nobildonna e un roseo monsignore, avrebbero onorato la sagra della loro presenza, una banda avrebbe suonato festosamente.
Panzer considerò il paese quasi con tenerezza: ma sì, festeggiate, divertitevi. Ci penseremo il Guttler ed io a proteggervi.
Mancavano pochi passi, e sarebbe stato alla sommità del pascolo, dove l’erba cedeva il posto alla roccia… e là era in attesa il Fato, sotto forma della vacca Bettina.


Bianca e nera, quadrupede. A prima vista, pareva una mucca esattamente come tante altre.
Così almeno apparve agli occhi di Panzer, che in lei vide solo un animale presumibilmente dotato di scarsa intelligenza e ancor più scarso coraggio, una bestia tanto idiota da non essersela data a zoccoli levati alla prima apparizione del terribile Guttler. Non s’accorse dello sguardo bieco che scintillava negli occhi del nobile animale.
Bettina vide invece in quello che era il suo pascolo un intruso prepotente, che aveva scacciato le sue amiche.
– Qualche problema? – chiese Silvia, vedendo Guttler arrestare la sua salita.
– Ma no, prof. È solo una mucca. Le altre se ne sono andate, ma questa qui sembra troppo idiota per scappare.
– Lasciala perdere, il collaudo che abbiamo fatto oggi è più che sufficiente.
– Voglio solo arrivare in cima, tutto qui – Panzer calcolò rapidamente le distanze: vide che la mucca era abbastanza lontana da non rischiare di venir schiacciata, e salì.
Bettina non perse tempo, e abbassata la testa attaccò con tutta la forza datale dal suo peso.
Guttler era un robot progettato per reggere ad urti ben peggiori di quelli causati dalla carica d’una mucca inferocita; disgraziatamente, una cornata assestata quando si è in equilibrio instabile può dare effetti inaspettati. Questo per spiegare perché il robot venisse sbilanciato all’indietro, aprisse le braccia nel vano tentativo di restare in piedi e infine rovinasse giù dal pendio insaccandosi vari metri più sotto.
– Panzer! Tutto bene? – esclamò Silvia, allarmata, mentre Rizzo ed Anna scattavano in piedi dalle loro postazioni.
– Tutto… anf… bene – rantolò Panzer – Ho solo battuto la testa.
– Poco danno, allora – commentò Rizzo, facendo ridacchiare Anna.
Faticosamente, il Guttler si rimise in piedi; voltatosi per valutare l’entità della caduta, Panzer vide la mucca scendere verso di lui, il campanaccio che mandava lugubri rintocchi.
Quella stupida bestia l’aveva fatto cadere! Ma adesso ci avrebbe pensato lui!
Guttler si mosse minacciosamente verso Bettina; per nulla intimorita, la mucca abbassò la testa e partì a tutta velocità, decisissima a farla pagare cara a quello spilungone che aveva invaso il suo territorio.
Qualche decina di metri separava il Guttler dalla sua avversaria. Panzer caricò a sua volta: la bestiaccia si sarebbe spaventata, che diamine!
Ma Bettina era Bettina. Continuò a correre a testa bassa incontro al nemico, che la schivò per un pelo e girò su sé stesso; Panzer vide che la mucca s’era rifugiata dall’altra parte di uno di quei laghetti che fungono da abbeveratoio, e ripartì di corsa. Guidò il Guttler verso la vacca, mise un piede nel laghetto deciso ad attraversarlo…
In genere, quei laghetti sono tutti poco profondi: uno, due metri al massimo.
Tutti, ovviamente, tranne quello.
Guttler affondò nell’acqua fino al ginocchio, cadde in avanti e scrosciò a terra mancando per un pelo Bettina, che con un aggraziato balzo si sottrasse all’appiattimento; Panzer venne sbattuto violentemente in avanti, e la sua testa ebbe un brusco impatto con la consolle… in particolare, con un certo tasto rosso e quadrato che per nessun motivo avrebbe dovuto venir premuto.
Gli occhi di Guttler s’accesero, ne scaturì un raggio brunastro che percorse pascoli e valloncelli andando infine ad investire il ridente paese di Caprino, con il suo sindaco, le sue autorità e la sua banda. Un istante dopo, qualche migliaio di persone venne irreparabilmente colpito dalle tremende radiazioni Gutta-X.
Silvia lanciò una serie d’esclamazioni, e i suoi assistenti seppero che almeno per i successivi sei mesi avrebbero bevuto il caffè gratis.


– Una vacca, una semplice vacca! – gemette il Presidente della multinazionale farmaceutica nemica della stipsi.
– In battaglia possono venire colpiti degli innocenti – osservò Silvia, ostentando una calma che non provava affatto.
– Ma questa era solo un’esercitazione, ed è costata tremilaquattrocentoventitrè vittime! Tremilaquattrocentoventitrè, tra cui un sindaco, un monsignore e una contessa! Un disastro!
– Non proprio – gli fece osservare Silvia, che sapeva sempre cogliere il lato utile delle cose – Adesso sappiamo che le armi di nuova generazione progettate da voi sono efficaci.
– Sì, con tremilaquattrocentoventitrè disgraziati che l’hanno testata di persona!
– Guardiamo le cose come stanno – tagliò corto Silvia – Voi avete inventato le radiazioni Gutta-X, armi non cruente che hanno lo scopo di mettere fuori combattimento il nemico senza ucciderlo… perché si presume che, quando è troppo occupato a diciamo concimare il terreno, anche il più agguerrito dei nemici sia costretto a calmarsi. Adesso siamo sicuri che le radiazioni funzionino perfettamente.
– Ne siamo sicuri tremilaquattrocentoventitrè volte!
– Infatti, adesso lo sanno anche tutti quei signori. La stipsi è un disturbo ostinato e comunissimo; pensate a quanti di loro si saranno sentiti finalmente liberati. Probabilmente molti potrebbero essere interessati alle radiazioni Gutta-X .
Il presidente aveva dentro di sé una percezione quasi extrasensoriale per gli affari. Guardò Silvia, poi parve riflettere febbrilmente… una buona campagna pubblicitaria… qualche slogan, “Gutta-X, scarichiamo i nostri problemi interiori”… legioni d’infelici cui finalmente avrebbe arriso un futuro di liberazione… e fiumi di denaro che avrebbero impinguato le casse dell’azienda.
– Un presidente abile può trasformare una sconfitta nella più fulgida delle vittorie – affermò infine. Pareva un uomo nuovo.
– Dovremo però modificare le radiazioni – osservò Silvia – Non credo che i clienti gradiscano un effetto così rapido.
Il presidente ripensò a quanto era successo laggiù in paese, dove tremilaquattrocentoventitrè persone erano state colte tutte insieme da un immediato, irrefrenabile ed incontenibile moto interiore, ed annuì gravemente: – Ci lavoreremo.
Si alzò, fece per uscire dall’ufficio di Silvia; poi si volse per un’ultima domanda: – A proposito, che ne è stato del pilota? Non ha subito gli effetti delle radiazioni, mi sembra.
– Oh, no, naturalmente lui non ne ha sofferto – purtroppo, aggiunse mentalmente Silvia – Comunque, non è qui. È stato richiamato ad altri incarichi.


Puzza, puzza, puzza.
Ovunque, maleodoranti montagnole. Ognuna di loro segnalava il posto esatto in cui s’era trovata una vittima al momento del disastro.
Scopa e paletta in mano, Panzer ne raccolse una e la versò nel bidone.
Duecentocinquantasei.


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Coraggio.
Ne mancavano solo tremilacentosessantasette.
 
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L'altra storia del Guttler.

Il tutto è nato a causa di Godzy: un giorno mi contatta e mi chiede di scrivergli un racconto su uno scontro personale tra Panzer e Tetsuya. All'epoca era già cominciato l'assemblaggio di varie parti dei vari Guttler, Panzer aveva ricevuto un nome proprio (Jan) e una compagna di disavventure (Mima). Lo scontro doveva avvenire proprio con Tetsuya, doveva essere presente Boss, bisognava che Panzer si vantasse d'avere il poster del Guttler, e ovviamente Tez non l'aveva del GM, e poi bisognava citare il Guttler che scorrazza come Heidi, doveva esserci Bettina... insomma, potevo scrivere tutto questo? Ah, dovevo iniziare il tutto con Panzer che urla di potersi arrangiare da solo... non era difficile, vero?

Superata la leggera vertigine che m'aveva colto, mi sono data da fare - era venuta l'idea, altrimenti non avrei potuto combinar nulla.
Il risultato, è quello che potete leggere qua sotto.

Ovviamente, il tutto è dedicato al Godzy, senza il quale questo immortale scontro non avrebbe mai visto la luce.^^


PANZER VS. TETSUYA

– TI AVEVO DETTO CHE CE LA POTEVO FARE BENISSIMO DA SOLO!
La porta si spalancò, andando a sbattere violentemente contro il muro. Tetsuya si girò di scatto, deciso ad affrontare qualsiasi cosa fosse apparsa su quella soglia. Era pronto a tutto, pronto come può esserlo solo un vero guerriero perfettamente addestrato… solo che anche un vero guerriero perfettamente addestrato può, in casi del tutto eccezionali s’intende, rimanere momentaneamente spiazzato davanti a qualcosa di particolarmente orrendo. Questo fu ciò che accadde a Tetsuya quando i suoi occhi si posarono sulla vasta, chiassosissima camicia del nuovo venuto, i cui colori arancio e fucsia fluo erano un vero e proprio schiaffo al buongusto.
Ritto sulla soglia, Jan, meglio conosciuto come Panzer, si guardò attorno rapidamente, abbassando infine lo sguardo su Tetsuya, che lo stava considerando con scarsissima simpatia.
– Sarebbe quello lì? – esclamò seccamente, indicandolo con la banana che stava sbocconcellando e rivolgendosi a Mima che sembrava sparire alle sue spalle.
– Per piacere! – sibilò lei, che inutilmente aveva cercato di trattenerlo.
– Non vorrai dirmi che quel fringuellino è Tetsuya Tsurugi! – le mani sui fianchi, dall’alto della sua statura (e della sua stazza) Panzer scrutò da capo a piedi quello che ormai era un suo nemico mortale – Non è possibile! Non…
– Panzer! – tagliò corto Silvia; era un tono inequivocabile di comando, il tono di una donna abituata a farsi obbedire. Tanto bastò perché lui le rivolgesse un ampio sorriso che Tetsuya tra sé definì “ebete”.
– Ai tuoi ordini, prof – esclamò giulivo, e dando nel frattempo a Tetsuya un’occhiata “questa-qui-è-mia-non-si-tocca”. Quindi ingollò in un paio di bocconi quel che restava della banana.
Se gli occhiali di Silvia avessero avuto il potere di disgregare in molecole, di Panzer non sarebbe rimasto che un mucchietto di sparuti atomi: – Panzer, nessuno qui penserebbe che tu sia stato educato ad Oxford!
– Ma prof – osservò lui, masticando a tutta bocca – io non sono mai andato ad Oxford…
Ce ne siamo accorti!
Panzer ammutolì. Messaggio pervenuto.
Scoccatagli un’ultima occhiata-laser, Silvia si fece avanti rivolgendosi con cortesia ai suoi ospiti che, Panzer li notò solo allora, erano rimasti in agghiacciato silenzio. Oltre al pivello, c’erano un tizio che somigliava dannatamente ad uno scienziato e un altro tipo grande e grosso non meglio classificabile.
– Vi prego di scusare l’intemperanza di questo… individuo – Silvia pronunciò “individuo” come se avesse avuto un calzino usato sotto al naso – Purtroppo, Jan è noto per la sua abilità di pilota. Non certo per le buone maniere.
– Non fa nulla – si affrettò a dire gentilmente il professore, rivolgendole un educato cenno col capo.
Rapida ed efficiente come sempre, Silvia procedette con le presentazioni; fu così che Panzer apprese che il tipo grande e grosso rispondeva al nome di Boss, e che lo scricciolo era per l’appunto il famosissimo Tetsuya Tsurugi. Da non credere.
Da perfetta padrona di casa qual’era Silvia, dopo aver trapassato con lo sguardo Panzer che aveva tentato di gettare a terra la buccia della banana, chiese al professore se avrebbe gradito una bibita; quindi, dopo essersi assicurata che tutti i presenti avessero ricevuto di che dissetarsi, sedette accanto al collega e cominciò con lui una serrata discussione.
Boss, che da quando era entrata non aveva avuto occhi che per Mima, si fece avanti sfoderando il suo galante savoir-faire da vero uomo di mondo, o così almeno lui pensava; contrariamente al solito, quella volta andava però sul sicuro. Lei, ancora sotto shock per il comportamento del suo collega, non ebbe la consueta reazione di raccapriccio di cui lo gratificavano normalmente le ragazze, anzi. Ringalluzzito dal successo che pareva arridergli, Boss si lanciò in una lunga chiacchierata, sicuro che quell’appetitosa biondina fosse ormai vittima del suo fascino predatore.
In un angolo, Panzer e Tetsuya si guardavano come due uomini pronti per cominciare.
L’uno di fronte all’altro, nella classica posa “lasciamo cantare le nostre colt”, il giovane dai vestiti impeccabili e l’uomo in camicia colorata, vecchi calzoni sformati e sandali, continuavano a lanciarsi occhiate al vetriolo, ciascuno preso dai propri motivi di rancore.
Panzer aveva davanti a sé una vera delusione. Aveva sempre seguito con ammirazione le imprese di Tetsuya Tsurugi, l’aveva venerato come il più puro tra gli eroi… l’aveva immaginato come un uomo alto, muscoloso e maturo… e ora si trovava davanti una specie di azzimato giovanottello coi basettoni, un marmocchio, un moscardino che avrebbe potuto far volare via con una semplice manata. Va bene, osservandolo meglio non era poi così piccolo come gli era parso all’inizio, anzi, ma comunque era ben lontano dal possedere quel fisico alla Schwarzenegger che lui gli aveva sempre mentalmente attribuito.
Senza contare poi che il ragazzino lo stava guardando con un’insopportabile aria di superiorità… ma chi si credeva di essere?
Da parte sua, Tetsuya considerava con crescente disgusto l’uomo che aveva di fronte. Alto, vasto, esuberante, insopportabilmente cialtrone. Non c’era in lui il minimo accenno di disciplina, di rigore. Nulla del guerriero perfettamente addestrato, nulla che desse l’idea di capacità, affidabilità, bravura.
E io dovrei collaborare con un simile ciarlatano?


– E così, tu saresti il famoso Tetsuya Tsurugi – buttò là Panzer, rigirandosi tra le mani la buccia della banana e guardandosi attorno nella vana ricerca di un cestino.
– Infatti – rispose asciutto il giovane.
– Beh, ti facevo diverso – Panzer valutò se gettare la buccia dietro un tavolo; sentì lo sguardo di Silvia conficcarglisi tra le scapole e preferì soprassedere – Voglio dire, ti pensavo più… più grande, ecco.
– Anch’io ti immaginavo diverso – disse Tetsuya, pronto – Mi ero aspettato di conoscere un vero guerriero.
– Pensi che non sappia battermi? – sbottò Panzer, punto sul vivo.
– Penso che uno come te non sappia nemmeno cosa significhi pilotare un robot da battaglia – sibilò Tetsuya – Penso che tu non abbia la minima idea di cosa siano dedizione, sacrificio…
– Ragazzino, ho sulle spalle un fior d’addestramento!
– Non ne dubito – ovviamente, il tono di Tetsuya era quello di chi i suoi sacrosanti dubbi li ha, eccome.
Panzer torse tra le mani la buccia di banana: – Mi stai dando del bugiardo?
– Dello spaccone, per l’esattezza.
– Ma si può sapere cosa mi rimproveri?
– Ti accontento subito – rispose Tetsuya, scandendo bene le parole per essere sicuro che il suo avversario non ne perdesse nemmeno una – Sei un odioso cialtrone, un ciarlatano maleducato, chiassoso, screanzato, villano, zotico, buzzurro, incivile e bifolco!
– Sì, ma parte questo?
Tetsuya strinse i denti e i pugni. Avesse potuto stringere anche il collo di Panzer, sarebbe stato più felice.
– Vedo che state facendo conoscenza – intervenne Silvia, che pur impegnata in una discussione con il professore non li aveva persi d’occhio un attimo.
– La prego di scusarmi, professoressa – disse subito Tetsuya – Non avrei dovuto essere scortese.
– Non ha nulla di che scusarsi – rispose Silvia, i cui occhiali dardeggiavano su Panzer lampi ustori – Non lei, signor Tsurugi.
– Prof, stai dicendo che ho fatto qualcosa che non va? – trasecolò Panzer.
– Io sto dicendo che non c’è nulla di quel che hai fatto che sia minimamente accettabile – puntualizzò Silvia, che amava essere precisa.
Panzer grufolò un qualcosa che avrebbe potuto anche passare per una vaga richiesta di scuse; con un ultimo sinistro bagliore d’avvertimento, gli occhiali di Silvia lo lasciarono per tornare a dedicarsi al professore.
Dall’altra parte della stanza giunse una risatina divertita. Abituata alle intemperanze del suo compagno, per Mima Boss era un piacevole diversivo, un simpaticone dotato di finezza e cortesia.
Panzer tornò a voltarsi verso Tetsuya, che lo stava guardando come avrebbe guardato qualcosa che avesse offeso gravemente il suo senso estetico.
Deciso a mostrarsi amichevole, Panzer accennò col capo verso Silvia e rivolse al proprio accipigliato interlocutore un’occhiatina “Sì, fa così ma in realtà è pazza di me”.
Tetsuya guardò Panzer, guardò Silvia (con un certo compiacimento, bisogna dire) e poi ancora, molto a lungo, tornò a fissare Panzer. Quale fosse la sua opinione in merito, anche un lattante l’avrebbe compreso benissimo.
Altro scoppio di risa di Mima. Panzer si voltò di scatto verso di lei e s’oscurò in viso vedendola ridere fino alle lacrime ad una spiritosaggine di Boss.
– Ma che ci trova, in quello…! – sbottò, seccato.
– A te che importa? – rispose subito Tetsuya – Non hai la tua professoressa?
Panzer, che effettivamente ambiva Silvia ma che non avrebbe affatto disprezzato Mima se lei gliene avesse dato l’occasione, diede un’altra ritorta alla buccia di banana, tentando inutilmente di farvi un nodo.
– Non provarti a scherzare sulla professoressa! – esclamò.
– Io non scherzo affatto – Tetsuya dedicò un’altra occhiata a Silvia: un po’ attempata, si disse, ma decisamente interessante – È davvero una bella donna – aggiunse, perfido.
Panzer sbatté su un tavolo la buccia di banana, e lo fece con tanta violenza da farla rimbalzare e cadere a terra.
– Ti avverto, moccioso…!
Tu avverti me? – scattò Tetsuya, ponendosi sulla difensiva.
– Da quando sono arrivato, non hai fatto che provocarmi! – continuò Panzer.
– Io? Io ti avrei provocato?
– Solo perché piloti quel coso, quel Mazinga, non puoi fare tanto il superiore! Pensi che qui siamo tutti imbecilli?
– Non tutti! – ringhiò Tetsuya – Solo uno!
– ALLUDI A ME? – ululò Panzer.
– Bravo. Ci sei arrivato da solo, complimenti.
SDENG!
– Ma come ti permetti…!!!
– PANZER!!! – il ruggito di Silvia fece capire a tutti che la leonessa era vigile e pronta al balzo – Smettila immediatamente! Ma cosa ti è preso?
– È colpa sua – rispose lui, petulante – Mi ha insultato, mi ha dato dell’imbecille!
– Non è un insulto – sibilò lei – è una definizione.
Tetsuya ghignò, il che naturalmente mandò in bestia il suo già imbufalito avversario.
– Quel tuo coso, quel Mazinga… che poi, diciamocelo… – aggiunse, con ineffabile faccia tosta – …in fondo, quel tuo robot non è poi un granché. – vide gli occhi di Tetsuya assumere rapidamente le dimensioni di due piattini da dessert e aggiunse: – Devi ammettere che è un po’ superato. Quanto all’equipaggiamento…
– Vuoi dire… – Tetsuya annaspò, tentando di rimettere al suo consueto alloggiamento la mascella che gli era crollata – Vuoi insinuare che secondo te il Guttler… il Guttler, dico… è più perfezionato del mio Mazinga?
– Naturale.
– Tu sei pazzo… pazzo da ricovero!
SDENG!
– Ah, io sarei pazzo? Secondo te, il tuo Mazinga è molto più equipaggiato del mio Guttler?
– Si capisce!
– Ma piantala! Scommetto che tu non hai… non hai… – annaspò, cercando disperatamente qualcosa, qualsiasi cosa che il Guttler possedesse a dispetto del Grande Mazinga. Passò mentalmente in rassegna tutte le armi del Mazinga (non si è sognato per anni di pilotare un mezzo senza conoscerne poi a menadito gli armamenti!), ma non riuscì a trovare nulla che gli mancasse rispetto al Guttler. Pensò allora ai dettagli del mecha, agli accessori, ai più infinitesimi particolari… e finalmente trovò quel che cercava.
Tetsuya lo considerava col tranquillo sussiego dell’uomo superiore, un lieve ghigno che gl’increspava le labbra; ma ora Panzer gli avrebbe fatto rimangiare quella sua aria saputella.
– Ecco qua! – si frugò in tasca e ne cavò fuori una carta piuttosto spiegazzata – QUESTO so che non ce l’hai!
– E cosa sarà mai? – s’informò Tetsuya.
– Il poster del Guttler! TIÉ!!!
Tetsuya strinse i pugni e contò mentalmente fino a duecentotredici. Non voleva uccidere quel tizio, ma sentiva ad ogni secondo che passava un bisogno sempre più forte di sangue, manco fosse stato il conte Dracula. Potessi dargli un gnocco sul naso! Uno solo!!!
SDENG!
– Ma che succede? – solo allora Tetsuya s’accorse di quello strano clangore. Sembrava venisse dall’esterno… andò alla portafinestra e guardò fuori.
Prati, dolci declivi, monti sullo sfondo; più in giù, il ridente paese di Caprino illuminato dal sole.
A poche decine di metri dal laboratorio, l’enorme, imponente massa del Grande Mazinga, immobile come una silenziosa sentinella. Tutt’attorno, i campi che avevano visto il Guttler muovere i suoi primi timidi passi, saltellando tra i fiori con l’agilità di una novella Heidi.
Tetsuya continuò a cercare la fonte del rumore, ma non vedeva nulla che potesse causarla… c’erano fiori, un lontano gregge di pecorelle, una placida mucca bianca e nera che…
Non tanto placida.
Fu allora che capitò qualcosa di orrendo, qualcosa che fece agghiacciare a Tetsuya il sangue nelle vene.
La mucca si allontanò trotterellando; poi, abbassata la testa e presa accuratamente la mira, caricò a tutta forza il tallone metallico di quello che, a suo parere, non era altro che un indesiderabile intruso.
Un’esclamazione in nipponico purissimo esplose dalle labbra di Tetsuya; il professore e Boss trasalirono, e persino Silvia, che conosceva piuttosto bene quella lingua, sobbalzò vivamente.
– Ma che succede? – esclamò Mima, che non parlava il giapponese – Che cosa sta dicendo?
– Ehm… – Boss arrossì penosamente – Te lo spiego più tardi…
– Ha detto “per la miseria” – disse seccamente Silvia, optando per una traduzione libera. Molto libera.
Anche Panzer si era affrettato alla portafinestra: lo spettacolo gli fece allargare il cuore.
Conosceva quella mucca, la conosceva molto bene… si chiamava Bettina. La migliore, e più caparbia in assoluto, vacca da latte dell’intero circondario.
– Beh, non prendertela – sghignazzò, mentre Tetsuya masticava ulteriori termini in giapponese stretto – Quella è Bettina. Non c’è niente da fare, non sopporta i robot.
– Niente da fare? – ringhiò Tetsuya, armeggiando per aprire la portafinestra – Bisogna fermarla, altro che!
– Oh, poverino, hai paura che la brutta mucca cattiva ti danneggi la tua caffettiera? – ridacchiò Panzer.
SDENG! Nuova cornata.
Tetsuya spalancò la portafinestra e si fiondò fuori. Panzer lo afferrò per un braccio, trattenendolo e ritirandolo dentro al laboratorio: – Ehi, cos’hai intenzione di fare?
– Farmi uno scendiletto con quella vacca, se proprio vuoi saperlo! E ora lasciami!
– Mi spiace, ragazzo, ma quella vacca non si tocca.
– È una tua amichetta, vedo – ringhiò Tetsuya.
Panzer si fece d’un bel cremisi intenso: – Questa me la paghi! Adesso ti strappo le basette e te le faccio ingoiare!
Tetsuya era un uomo d’azione: vedendo Panzer perdere tempo in chiacchiere, preferì passare all’attacco, mollandogli un gancio sull’orecchio destro.
– Ehi! – ruggì Panzer, furioso; impressionatissimo, Tetsuya gli allungò un pugno anche sull’orecchio sinistro, così, tanto per non fare differenze.
Silvia li guardò con palese disgusto: meglio che se la vedessero da soli e si sfogassero, si disse saggiamente. Mima e il professore si tennero pure loro in disparte; unico tra tutti, Boss la pensava diversamente. A suo parere, Tetsuya era stato ingiustamente aggredito da quell’energumeno urlante; ora lui, il suo più fedele amico, avrebbe rappacificato gli animi.
Deciso a fare qualcosa, anche se non sapeva bene cosa, afferrò una sedia e l’alzò sulla testa, avvicinandosi ai due che stavano intanto scazzottandosi come se non avessero desiderato altro dalla vita. Forse voleva scaraventare la sedia sulla zucca di Panzer, forse voleva solo minacciarlo… le sue reali intenzioni non si seppero mai. Proprio in quel momento, Panzer vibrò all’avversario un diretto che avrebbe dovuto schiantargli il pancreas; Tetsuya fu rapidissimo ad abbassarsi, e il colpo centrò Boss esattamente nel bel mezzo della ventina di chili di “buoni muscoli” che aveva all’altezza dell’ombelico. Con un urlo strozzato, Boss rovinò a terra, venendo testé incoronato dalla sedia.
Panzer ghignò, soddisfatto; deciso a vendicare l’amico, Tetsuya scattò in avanti, sferrandogli un diretto al fegato di quelli, per intenderci, da frantumare all’istante qualsiasi calcolo alla cistifellea… ma il Fato, sotto forma della dimenticata buccia di banana, era in agguato.
Tetsuya vi mise un piede sopra, scivolò e cadde in avanti, col risultato che il suo pugno colpì Panzer una trentina di centimetri più in basso dell’obiettivo, in piena don’t touch zone.
Con un ululato, Panzer crollò con tutto il suo peso sul nemico, travolgendolo e ponendo finalmente fine alla contesa.
Silenzio.
Dal prato, Bettina guardò olimpica i tre umani che giacevano a terra in un mugolante mucchio scomposto. Dilatò le narici e sbuffò lievemente, esprimendo con quel gesto tutto il suo aristocratico disprezzo.
Quindi, voltatasi con grazia s’allontanò con l’incedere di una duchessa, facendo dondolare elegantemente il suo campanaccio.



 
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view post Posted on 12/2/2012, 19:53     +1   -1
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Tempo di S. Valentino, la prima parte di un racconto (dolorosamente autobiografico) con Tetsuya e Jun... dedicato a tutti gli innamorati che avrebbero qualcosa da dire al loro partner.


NOI DUE SOLI


– Non andiamo mai da nessuna parte! – esclamò Jun.
Tetsuya alzò gli occhi dal suo giornale: – In che senso?
– Nel senso che siamo sempre qui, in questo laboratorio! – sbottò lei, aprendo le braccia come per comprendere tutto ciò che li circondava, computers, consolle, scrivanie e professori vari – Possibile che la nostra vita debba essere solo tutto questo?
Tetsuya considerò seriamente la cosa: – Perché? Che altro dovrebbe esserci?
Jun si sforzò di reprimere i ruggiti che le sarebbero venuti spontanei: – Insomma, Tetsuya, possibile che noi due non si possa avere una piccola vacanza? Non pretendo tanto, sai! Solo un fine settimana da qualche parte! Non senti il bisogno di cambiare aria, di staccare? Non ti piacerebbe che ce ne andassimo via, noi due soli?
Loro due soli...? Beh, questo sì che avrebbe potuto essere allettante! In effetti, ultimamente la loro vita aveva preso un andazzo poco piacevole di routine. Jun aveva ragione, avevano bisogno di un po’ di tempo solo per loro.
– Dove ti piacerebbe andare? – s’informò, mettendo finalmente da parte il giornale.
– In montagna, magari – esclamò Jun, incredula nel vedere il suo compagno tanto accondiscendente – Vorrei pattinare sul ghiaccio, fare qualche passeggiata in un bosco innevato...
Tetsuya storse il naso: – Non vorrai finire in uno di quei paesi alla moda per ricconi, pieno d’alberghi sciccosi con sauna e piscina, dove paghi anche l’aria che respiri, spero!
– Io pensavo a un alberghetto piccolo in un paesino carino – rispose in fretta lei: Tetsuya in un posto alla moda pieno di gente ricca e spocchiosa? Avrebbe dovuto essere una vacanza, non una zuffa continua che sarebbe terminata al Pronto Soccorso o al commissariato! O in entrambi.
– Un paesetto piccolo? – ripeté lui. L’idea cominciava davvero a piacergli – Va bene, Jun. Avrai la tua vacanza!
– Ma dove vai? – chiese lei, vedendolo balzare in piedi e infilarsi il giaccone.
– A cercare dove passeremo il fine settimana. ...No, vado solo io: sarà una sorpresa. Tu pensa ai bagagli, io mi occuperò del resto.
– Ti prego, Tetsuya! – Jun lo guardò con grandi occhi, le mani giunte – Che sia un posto carino! Per una volta tanto che andiamo via assieme...
Lui si fermò proprio sulla porta: – Promesso! Cercherò qualcosa di davvero... romantico, come vuoi tu.
Uscì di corsa, lasciando dietro di sé una Jun piuttosto preoccupata.
Romantico...? Tetsuya aveva detto proprio così?
Speriamo che non mi porti in un igloo, concluse, andando a tirar fuori le valigie dall’armadio.


Tetsuya tornò qualche ora dopo, con la faccia del gatto che si è pappato l’intera voliera di canarini. Jun tentò di strappargli qualche informazione ma non ci fu verso: sarebbe stata una sorpresa, per cui lui non avrebbe parlato nemmeno sotto tortura. Del resto, venerdì mattina sarebbero partiti e quindi lei avrebbe visto... e comunque, sicuramente lei sarebbe stata contenta di quel che lui aveva scelto.
Contenta...? Jun represse i funerei pensieri che le erano venuti spontanei e s’impose di comportarsi normalmente. Forse sbagliava ad aspettarsi il peggio da Tetsuya... era troppo malfidente. Sicuramente, lui aveva prenotato una camera in un grazioso alberghetto in un qualche delizioso paesino.
Fu così che la mattina del venerdì, caricate le valigie di Jun e l’unica sacca sportiva di Tetsuya in macchina, i due si misero finalmente in viaggio, dirigendosi verso... no, nemmeno allora il giovane svelò la loro meta. Puntò verso le montagne, e Jun dovette tenersi per sé tutti i suoi interrogativi.
Varie ore dopo (ma dove accidenti aveva prenotato, quel pazzo? Al Circolo Polare Artico?), la loro macchina arrancava faticosamente su per una salita talmente erta che, come ebbe a notare la terrorizzata Jun, mancava poco che si dovessero attaccare i ramponi ai pneumatici.
– Macchè ramponi! – esclamò allegramente quell’incosciente di Tetsuya – Non vedi che la strada è sgombra dalla neve?
– Per forza! E’ talmente ripida che la neve è scivolata giù a fondovalle! Ma quanto manca, ancora?
– Siamo praticamente arrivati! – e Tetsuya svoltò bruscamente in una stradicciola sulla destra, una sorta di cunicolo in mezzo a due altissime pareti di neve.
– Qui? – Jun si guardò in giro: neve e ancora neve, e più lontano si vedevano solo alti pini, a loro volta completamente ricoperti di neve. – Ma dov’è il paese?
– Quale paese? – Tetsuya fermò l’auto: davanti a loro spuntavano dalla neve dei pali, che come Jun comprese poi facevano parte di una recinzione sommersa per una buona metà. Due grandi mucchi di neve si alzavano a destra e a sinistra, e in fondo, proprio contro un gruppo di pini, s’intravedeva una casetta di legno semisepolta nel bianco.
Jun s’aggrappò alla portiera: – Ma come? Non è un albergo?
– E’ una casetta solo per noi! – esclamò festante il suo sciagurato compagno – L’ho affittata per l’intero fine settimana! Vuoi mettere?
– Ma... ma... Io credevo che saremmo stati in un paese, con i negozi, un ristorante...
– Forse è un po’ solitario – ammise Tetsuya – ma così avremo la nostra libertà!
– Libertà? Mi toccherà cucinare e pulire, come al solito!
– Ma no, ci arrangeremo! E poi, costa una miseria – aggiunse, da uomo economo qual era. – Ho tirato un poco sul prezzo, e l’ho avuta per pochissimo.
– Se insistevi un poco, magari ti pagavano, persino – rabbrividì lei, che cominciava ad avere idee fosche sull’immediato futuro.
Tetsuya afferrò un paio di bagagli e s’incamminò verso l’ingresso della casetta; Jun inghiottì gli ululati che le erano venuti spontanei, si caricò a sua volta di valigie e lo seguì. La neve era fresca, per cui affondò fin oltre il ginocchio; con fatica raggiunse Tetsuya, che armatosi di una pala previdentemente lasciata a fianco della porta di legno, aveva preso a liberare l’ingresso dal mucchio di neve che l’ostruiva.
– Scommetto che qui dentro c’è un orso in letargo – gemette Jun.
– Non ci sono orsi, da queste parti – e Tetsuya infilò la chiave nella toppa.
– Allora, una tigre siberiana – insisté lei.
La porta si spalancò, rivelando finalmente le meraviglie che la casetta celava al suo interno.
Pareti di nuda pietra. Pavimento grigiastro in legno. Un gran caminetto annerito sul fondo. Un tavolo grezzo con quattro sedie. Una rustica – e orrenda – credenza di legno dipinta in un osceno tono bluette. In un angolo, un acquaio di pietra, un frigorifero rugginoso (e rumoroso) e un’antiquata cucina. Una porta dava su una camera da letto, completa di tutti i comfort (leggi: grossa stufa a legna, tappetini scivolosissimi in vera pelle di capra e vaso da notte sotto al letto); un’altra dava su una toilette, provvista di doccia (niente il bagno caldo e rilassante che lei aveva sognato), sanitari sbreccati, un’antica stufetta a resistenza e un gabinetto che da troppo tempo non aveva rinnovato la sua amicizia con un buon disincrostante.
Niente TV, niente radio, niente lavatrice o lavastoviglie. In compenso, c’erano un decrepito ferro da stiro col filo riparato col cerotto e un vetusto scaldabagno dall’aria poco raccomandabile.
– Bello, vero? – esclamò Tetsuya, fregandosi allegramente le mani – Staremo benissimo!
– Ma è una topaia! – ululò Jun, guardando un termometro appeso alla parete – E si gela! Ci sono due gradi!
– Adesso accendiamo il fuoco – Tetsuya tolse della legna da un cesto accanto al camino e cominciò a disporla.
– Non c’è il riscaldamento?
– Jun, questa è una casa di una volta, in cui si vive come una volta! Stufe e camini, come si riscaldavano i nostri nonni! Non è romantico?
Per un attimo, lei fu sul punto di scaraventargli sulla zucca le valigie; si trattenne, era pur sempre una gentile donzella, che diamine!, e passò oltre, puntando verso la siberia... pardon, la camera da letto. Ne uscì subito rabbrividendo (forse l’igloo sarebbe stato meglio), e andò a controllare il bagno. Orribili piastrelle verdoline, asciugamani puliti ma ruvidi come carta vetrata, e talmente rigidi... ma forse erano solo congelati. Un odore piuttosto forte di fogna stagnava nell’ambiente.
Jun guardò meglio le piastrelle, allungò una mano per toccarle...
– Tetsuya, questa casa trasuda umidità! – esclamò.
– E’ solo fredda – rispose lui, che dopo aver acceso il camino era andato in camera ad occuparsi della stufa.
– E’ umida, ti dico! Ho passato le mani sulle piastrelle del bagno, e me le sono inzuppate!
– Puoi insaponarle e ripassarle sulle piastrelle, così ti sei già lavata le mani – osservò amabilmente lui.
Jun crollò a sedere sul coperchio del gabinetto; un sinistro scricchiolio la fece alzare di colpo, costringendola ad accasciarsi sul bidè per poter finalmente dar sfogo alle sue lacrime.
Tetsuya intanto non era rimasto inoperoso: dopo averla vuotata dalla cenere, accese anche la stufa di terracotta usando la legna e le pigne che aveva trovato in un gran cesto. Quindi si era recato all’esterno, in una piccola legnaia, per far rifornimento di legna e a gettar via la cenere; il che significò che quando finalmente Jun uscì dal bagno trovò il pavimento sporco di cenere, corteccia e aghi di pino, senza contare la neve semisciolta che era caduta dalle suole di Tetsuya.
Jun era una donna forte, e non batté la testa contro il muro.
Nemmeno quella di Tetsuya.
Ripulito che ebbe il disastro, Jun controllò la temperatura: quasi cinque gradi.
– La casa si sta scaldando, vedi? – esclamò allegramente il suo incosciente compagno.
– Ma certo, presto dovrò mettermi qualcosa di più leggero – osservò velenosamente lei – Peccato che abbia lasciato a casa il mio prendisole!
– Guarda cos’ho trovato! – Tetsuya alzò due borse dell’acqua calda – Prima di andare a dormire le riempiamo e le mettiamo sotto le coperte, così non troviamo il letto freddo! Che ne dici?
Jun non ebbe la forza di rispondere: in quel momento stava pensando con angoscia alla sottile camicia da notte tutta pizzi che si era portata via, in previsione di romantici momenti... avrebbe dovuto portarsi il pigiamone di pile a triplo strato, altroché!
Tenendosi addosso il giaccone (sette gradi, la temperatura saliva), Jun cominciò a guardarsi attorno per la cena; aprì la credenza, venendo investita da un’ondata di aria gelida. Guardò dentro, e trovò un assortimento di padelle dall’antiaderente ormai disgregato, e antiche pentole di smalto, di quelle per capirci in cui il cibo attacca in un batter d’occhio.
C’erano anche provviste: un assortimento di scatolame, in particolar modo fagioli, sgombri, pesche sciroppate e latte condensato. Una bottiglia di olio congelato, dei crackers abbondantemente scaduti, formaggini pietrificati, zucchero indurito, sale ammollato e infine delle bustine di tè su cui ormai non era più possibile leggere la data di scadenza. In un angolo, incredibile ma vero, un vaso di cioccolata da spalmare. Provando un irrefrenabile bisogno di consolarsi con qualche centinaio di calorie, Jun l’aprì: la cioccolata aveva trasudato un liquido oleoso rossiccio, e appariva biancastra e pietrosa. Nessun cucchiaio sembrò capace di scalfirne la superficie.
Andò anche ad aprire l’antiquato frigorifero; come ebbe toccato la maniglia, prese una scossa potente che la lasciò senza fiato.
– Tetsuya! – urlò, disperata – Non possiamo usare il frigorifero, si prende la scossa solo a toccarlo...!
– E che importa? – osservò placidamente lui – Col freddo che c’è, il frigorifero non ci serve!
Jun era una ragazza buona, paziente, gentile e d’animo dolce: questo fu l’unico motivo per cui non trucidò seduta stante il compagno.
Prese fiato, trattenne le centinaia di parole che le sarebbero venute spontanee, e andò a mettere un bricco d’acqua sui fornelli: almeno, avrebbe bevuto un tè caldo, visto che le stanze continuavano a restare su temperature bassine (nove gradi e mezzo). Come ebbe acceso il fuoco, un raspare improvviso provenne dal forno: un gatto intrappolato...?
Jun aprì lo sportello: una pantegana balzò fuori, seguita subito dalla consorte e da una decina di piccoli. Tetsuya avrebbe riferito poi che lo strillo di Jun aveva fatto sussultare i vetri nelle finestre.
Ci volle qualche tempo per convincere babbo pantegana a trasferirsi nella legnaia con tutta la sua famigliola; del resto, se Tetsuya non aveva alcun problema a ridurre in atomi i mostri Mikenes, ne aveva parecchi a far del male a degli animali. Mai e poi mai avrebbe ucciso quella famigliola di roditori; nella legnaia sarebbero stati benissimo. Sì, avrebbe pensato lui a prendere la legna. No, Jun non avrebbe mai messo piede in quella legnaia, certamente.
Dovette controllare l’intera casa, mobile per mobile, prima che Jun si decidesse a scendere dal tavolo su cui era balzata, e naturalmente fu lui a riaccendere il fuoco sotto al bricco dell’acqua.
Fu una cena decisamente frugale, a base di sgombri in scatola, fagioli freddi, crackers stantii e formaggini pietrosi, il tutto accompagnato da un tè che puzzava parecchio di fieno vecchio. Come non bastasse, il camino aveva preso ad emanare un certo odore di fumo.
– Tira male – disse Jun.
– Ma no, è solo l’odore del fuoco di legna cui non siamo abituati – rispose Tetsuya.
– Non mi fido. Spegnilo, non vorrei che ci avvelenassimo.
– Se lo spengo, domani mattina la casa sarà gelida – osservò Tetsuya; tuttavia acconsentì, e quando Jun ebbe finito di lavare i piatti con l’acqua ghiacciata (lo scaldabagno aveva fatto chiaramente capire di non voler collaborare), spense il camino, seminando ovviamente vari etti di cenere tutt’attorno.
Jun andò in camera a prendere la sua famosa camicia da notte tutta pizzi: beh, la stufa di terracotta stava facendo il suo dovere, cominciava ad essere meno freddo... quasi quattordici gradi. Però. Meno male che avrebbero trovato il letto tiepido, visto che Tetsuya aveva infilato le borse dell’acqua calda tra le lenzuola.
Passò la mano sotto alle coperte: la gomma delle borse era vecchia, ed evidentemente crepata. Il calore dell’acqua aveva dilatato le crepe, e ora vari litri d’acqua avevano inzuppato materassi, piumino e lenzuola.
Fortunatamente, nell’armadio c’era un cambio completo di coperte e lenzuola; quanto ai materassi, Tetsuya ebbe l’idea di asciugarli usando l’antiquato ferro da stiro. Non c’era da far storie, no? Tutto si rimedia, basta volerlo!
Due ore dopo, una Jun ormai esausta andò finalmente in bagno a darsi una ripulita: per fortuna lo stanzino era piccolo, e la stufetta a resistenza aveva fatto il suo dovere, per cui la temperatura era quasi accettabile. Fece scorrere l’acqua, e subito un sinistro gorgoglio provenne dal piatto doccia.
Guardò: niente. Aprì ancora l’acqua: di nuovo il rumore, e sempre quel forte puzzo... ma nient’altro. Mah.
Jun si pettinò, si lavò i denti, si pulì come poté usando un bricco d’acqua che aveva messo sul fuoco; infilò rabbrividendo la camicia da notte, fece un passo indietro per controllare il risultato nello specchio...
Lanciò un ululato selvaggio: s’era dimenticata della stufetta a resistenza, e la sua gamba era entrata in contatto con la grata protettiva, ovviamente rovente.
Poco dopo, mentre le spalmava premurosamente la crema sull’ustione, Tetsuya osservò che il suo era il cosciotto alla griglia più sexy che gli fosse mai capitato di vedere.
Jun sorrise, acida; e come fu come non fu, gli diede un bacetto sulla fronte, gli augurò la buona notte e gli voltò la schiena, lasciandolo a chiedersi come mai, dopo aver tanto desiderato una vacanza loro due soli, lei avesse improvvisamente optato per la più ristretta castità.
Misteri dell’animo femminile.

Fine prima parte


link per graditissimi commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=735#lastpost
 
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Notte di S. Valentino... Seconda ed ultima parte del romanticissimo week end di Tetsuya e Jun.

l primo pensiero che Jun ebbe la mattina successiva fu per la spaventosa emicrania che l’aveva colta. Aprire gli occhi, tentare d’alzarsi e capire che al peggio non c’è mai fine fu un tutt’uno. Si sentiva come se fosse stata reduce da una sbornia, e che sbornia! Peccato che la sera precedente lei avesse bevuto solo un’acqua puzzolente di fieno vecchio che nessuno avrebbe mai potuto definire “té”.
– Come ti senti? – chiese Tetsuya, arrivando con un vassoio.
Colazione a letto... Jun si mise seduta sul letto, e subito un capogiro la colse, mentre in contemporanea si rendeva improvvisamente conto del gelo spaventoso che regnava in quella stanza.
– Ma che succede? – domandò, mentre Tetsuya le metteva un giaccone sulle spalle – C’è un freddo tremendo! Si è spenta la stufa?
– Non esattamente – lui sedette sul letto – Ho dovuto arieggiare la stanza, ecco perché c’è un po’ fresco.
– Un po’ fresco? Mancano solo gli orsi polari! Ho un freddo...
– Appunto, fai colazione, ti sentirai meglio.
Jun guardò il contenuto del vassoio: una tazza di brodaglia puzzolente che forse era solo té, una ciotola di latte condensato giallastro, un paio di pallide pesche che sguazzavano nello sciroppo e un piatto colmo d’immondi crackers. L’appetito, se mai c’era stato, sparì in un baleno.
Prese la tazza: aveva bisogno di qualcosa di caldo, fosse anche quell’immonda brodaglia... – Ma è gelida!
– Ah, sì – rispose lui, svagato – E’ finito il gas nella bombola.
Jun si sentì mancare: – Vuoi dire che non potremo avere nulla di caldo?
– Possiamo sempre usare il camino, se proprio vogliamo... e comunque, il tonno e lo sgombro in scatola non vanno scaldati, no?
Ancora una volta lei trattenne acrimonia e ruggiti, e deposta la tazza di brodaglia gelida prese in mano la ciotola di latte condensato.
– Hai tanto mal di testa? – s’informò Tetsuya, mentre lei si sforzava d’inghiottire il latte.
– Sì, e... come sai che ho mal di testa?
– Perché ce l’ho anch’io. Stanotte mi sono svegliato, mi sono sentito poco bene e ho capito che la colpa era della stufa. Tira malissimo.
– Vuoi dire...?
– Monossido di carbonio – spiegò serafico lui – Ho controllato che tu stessi bene, ho aperto la finestra e spento la stufa. Tutto a posto.
– Tutto a posto? – ululò Jun – Avremmo potuto morire!
– Beh, non siamo morti – rispose lui, con ineccepibile logica.
Jun si sentì soffocare; improvvisamente, il suo stomaco prese vita e cominciò a darle forti segnali d’attività imminente. D’un balzo lei fu fuori dal letto, attraversò il soggiorno, entrò in bagno...
Non vide il liquame marrone che stagnava a terra; in compenso se ne accorse subito quando, dopo essere scivolata, si ritrovò seduta sul pavimento immersa in una puzzolente melma brunastra che aveva preso ad uscire dal piatto doccia. Sembrava... no, era proprio...
– Sì, è proprio quella cosa – commentò Tetsuya, che aveva udito l’urlo a carattere escrementizio esploso da Jun – Temevo qualcosa di simile... mi ero accorto che la fossa biologica doveva essere piuttosto piena. La puzza e quei rumori, sai. Doveva essere al limite, e quando mi sono alzato stanotte ho trovato un rubinetto aperto; probabilmente aveva la guarnizione rotta, dovrò controllare. Comunque è andata giù un bel po’ d’acqua, e la fossa si è riempita del tutto.
– Ma Tetsuya! – singhiozzò Jun, talmente disperata da non essere nemmeno riuscita a rialzarsi – Abbiamo la casa invasa di...!
– Certo, la fossa è tracimata – rispose lui, calmissimo – Adesso andrò ad aprire il pozzo e vedrò di spalare fuori un po’ di schifezza. ...Pensi di continuare a star seduta in quella... fanghiglia, chiamiamola così?
Jun avrebbe potuto dire molte, moltissime cose; donna prudente, preferì tacere.
Anche perché sapeva benissimo che il suo compagno non avrebbe capito nulla di quel che avrebbe voluto dirgli.
Si rialzò, andò al lavandino, controllò la stufetta dalla resistenza bruciante (era stata spenta, ecco perché c’era quel gelo), si tolse la camicia da notte tutta pizzi rosa corallo ora a chiazze marrone, si lavò con l’acqua gelida, infilò i vestiti, ovviamente freddissimi; quindi cominciò a ripulire il pavimento dalla porcheria, che ovviamente aveva schizzato anche le pareti. Era furibonda, ma si consolò pensando che Tetsuya, fuori, nella neve, stava spalando chili e chili di sottoprodotti intestinali. Che vacanza romantica.
Fu una Jun decisamente tesa quella che infine tornò in camera da letto: il bagno era completamente pulito, tutto in ordine, tutto splendente. Adesso lei si sentiva le mani inaridite dal freddo, per cui andò alla valigia per prendere il tubo della crema.
Che vacanza infernale! Avrebbe fatto molto meglio a insistere per un posto alla moda, almeno Tetsuya si sarebbe azzuffato subito con qualcuno, sarebbe finito in ospedale o in galera, e lei avrebbe potuto godersi in tutta tranquillità l’albergo di lusso, la SPA, i negozi... Decisamente, la prossima volta avrebbe fatto lei le prenotazioni.
Uno scricchiolio proveniente dalla stufa la fece trasalire. Dannato aggeggio, che aveva ancora? Non le era bastato essere stata sul punto di ucciderli, la notte prima?
Stizzita, Jun si voltò a guardare: dal grosso tubo stava colando un liquido bruno ed appiccicaticcio, molto grasso. Ecco perché tirava male, il tubo doveva essere pieno... completamente intasato...
Fu un attimo, e accadde tutto sotto gli occhi dell’inorridita Jun: il tubo, evidentemente malfermo, si staccò dalla caminella e piombò a terra, accompagnato da svariati chili di fuliggine, nera e densa; altra fuliggine eruppe dalla caminella, un’autentica cascata di polvere grassa e nera che piombò dritta su ciò che si trovava sotto... cioè la sedia su cui Jun aveva lasciato la sua valigia.
Ovviamente, aperta.
E piena.
E fu mentre Jun singhiozzava disperatamente vedendo affiorare nel nerume la sua biancheria a merletti, il maglione di vaporosa lana candida e le pantofoline bordate di pelliccia, che l’ignaro Tetsuya rientrò in casa col buonumore di chi è in pace con sé stesso e con il mondo, e disse l’unica frase che avrebbe fatto infinitamente meglio a non dire:
– Ah, che meraviglia! Come si sta bene, qua!
Jun smise di piangere.
Guardò, molto intensamente, le pesanti molle per il fuoco appoggiate contro la stufa.
Non poté più resistere, e fece finalmente quel che dal giorno prima avrebbe tanto desiderato fare.


Mentre si recava in ospedale a trovare Tetsuya (trauma cranico, venti punti di sutura, prognosi ancora riservata ma medici molto ottimisti), Jun sospirò lievemente tra sé.
La prossima volta sarebbe davvero valsa la pena andare in un posto sciccoso pieno di ricconi spocchiosi: tanto, in un modo o nell’altro era evidentemente destino che Tetsuya finisse il weekend al pronto soccorso.



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Dopo quella che Iso definirebbe, giustamente, una gestazione da cetaceo, ecco il what if cui sto lavorando da un certo tempo.

Qui sotto spiego il perchè abbia sentito il bisogno di scriverlo: se non ve ne importa nulla di saperlo, e sono la prima a darvi ragione, potete saltare il tutto senza problemi.^^


Questo what if nasce principalmente da due gravi insoddisfazioni: la prima causata dal signor Go Nagai (o chi per esso), la seconda da me.
Come molti, ho trovato squallido e semplicistico il finale della serie: Actarus e Maria, trasformati in due improponibili Adamo ed Eva su un pianeta che dell’Eden ha decisamente pochino, e i veghiani completamente distrutti, nessuno escluso – il che, oltretutto, fa di Duke Fleed un genocida. Pensiero molesto, almeno per me.
Il secondo motivo d’insoddisfazione me lo sono causato da me stessa col racconto Il tempo perduto, quello su Naida, per capirci: proprio quando la poverina, che per tutta la storia è stata manovrata, sballottata, condizionata e chi più ne ha più ne metta, proprio quando lei riesce a fare un po’ d’ordine nelle idee e capisce di trovarsi al bivio tra Actarus e Hydargos, muore.
Certo che muore: nella puntata, a quel punto doveva morire.
E se invece non fosse morta? Se si fosse salvata, se avesse potuto scegliere...?
E se la storia che tutti conosciamo avesse preso una piega ben diversa?
E se, insomma, mi fossi riscritta un finale soddisfacente, almeno per me?

Ecco com’è nato questo racconto: da idee vecchie di parecchi anni fa, e che già avevo buttato in computer, e da aggiunte decisamente più recenti. Spero solo di non deludere chi avrà la pazienza di leggere: io davvero avrei preferito questo come finale.


Ricomincio perciò esattamente da dove era finita la storia di Naida; se allora il tempo era perduto, in questo what if viene finalmente conquistato.

Buona lettura a tutti.


Dedicato alle mie meravigliose amiche Kojimaniaca, Isotta e Runkirya, e a Joe, scrittore, disegnatore e articolista: che sarebbe il forum senza di loro? A tutti e quattro, con grandissimi affetto e stima.

IL TEMPO CONQUISTATO

1.


– Signore, quel mezzo sta puntando dritto sul mostro! – esclamò il primo ufficiale.
– Usano contro di noi la nostra stessa nave – Hydargos si appoggiò allo schienale della sua poltrona. – Dev’esserci quell’Alcor, ai comandi. Avrei preferito catturarlo vivo, ma temo che non ci lascerà molta scelta.
– Dobbiamo abbatterlo?
– Non subito. Mettetevi in contatto con lui e ordinategli di arrendersi. Ditegli che avrà salva la vita.
– Non possiamo farlo, signore – disse dopo un attimo l’addetto alle comunicazioni – Hanno chiuso tutti i canali.
– Lo attacchiamo? – chiese il primo ufficiale.
– Probabilmente Alcor non sa che quella nave ha le armi al minimo – rispose Hydargos – Lasciamogli la prima mossa. Quando vedrà che potrà fare ben poco contro di noi, magari accetterà di arrendersi; altrimenti, lo abbatteremo.


– È come temevo! – ringhiò Zuril.
– Di cosa stai parlando? – sbottò Gandal.
– Guarda: quella nave sta puntando dritta sul mostro!
– Non preoccuparti, Dari Dari non sarà nemmeno scalfito dal suo attacco.
– Proprio non capisci! – Zuril si voltò di scatto verso di lui – Quella nave non si limiterà a sparare con i suoi miseri cannoni laser… questo è un attacco suicida! Guarda, gli sta puntando proprio addosso!
– Cosa? – Gandal osservò meglio l’immagine sullo schermo: la piccola nave stata dirigendosi direttamente contro l’enorme mostro, senza la minima esitazione – Non è possibile, Alcor non è tipo da…
– Non Alcor… Naida.
Stavolta lo stupore di Gandal fu tale da lasciarlo letteralmente senza parole. Esterrefatto, si voltò a guardare il collega che riprese, la voce sorda: – Sono pronto a scommettere quello che vuoi che è Naida a pilotare quella nave. Si getterà contro Dari Dari.
Gandal aprì il canale di comunicazione col mostro, ruggendo l’ordine di ripiegare.
– Sono praticamente sicuro che Naida abbia con sé le bombe che le sono rimaste – continuò Zuril, con collera repressa – Una sappiamo che è esplosa, ma le altre, messe assieme, provocheranno un disastro che distruggerà mostro, dischi, tutto. – si volse verso Gandal che continuava a dare l’ordine di ripiego: – È troppo tardi, la nave di Naida è troppo vicina. Se anche venisse distrutta, mostro e dischi resteranno coinvolti nello scoppio.
Gandal cambiò rapidamente canale, si mise in comunicazione con l’astronave di Hydargos, che rimasta indietro seguiva il gruppo ad una certa distanza: – Ripiegare immediatamente!
– Cosa? – sul monitor apparve il viso stupefatto di Hydargos.
– È un ordine! – esclamò Gandal, in tono che non ammetteva repliche – Ritirati subito! Su quella nave c’è Naida che sta tentando un attacco suicida!
– Naida?! – talmente sbalordito da restare senza fiato, Hydargos si volse a guardare attraverso il proprio schermo la nave che puntava dritta sul mostro; fu proprio allora che vide anche qualcos’altro apparire tra le nuvole: – Goldrake… ma come…?
– Ritirati! – ripeté Gandal, reciso; e Hydargos, quasi senza rendersene conto, fece cenno al suo primo ufficiale di obbedire.
Il grande disco violaceo decelerò virando bruscamente: una manovra azzardata che solo la perizia dei piloti portò felicemente a termine. Totalmente incapace di reagire, Hydargos continuava a fissare la piccola nave che s’avvicinava al mostro… s’avvicinava sempre più…
Naida, non farlo… NON FARLO!


– Naida! No! – Actarus spinse la velocità del robot al massimo consentitogli, ma era ancora distante, troppo distante… e la piccola nave era troppo vicina – Naida, ti prego, no!!!


– Naida, no! Naida!
La voce di Duke… era là, sul suo robot… dunque, si era ripreso! Stava bene!
Oh, Duke… allora sei tornato a combattere!
Naida sentì lacrime di gioia scenderle giù dalle guance, mentre continuava a dirigere la sua nave contro il mostro. Davanti a lei, una attaccata al vetro e le altre nel loro alloggiamento, le bombe attendevano, immobili e minacciose. Al primo impatto sarebbero esplose.
– Naida, ti prego, non farlo!
Naida spense la radio. Perdonami, Duke…
Guardò davanti a sé. Oltre il mostro ora scorgeva un’altra nave che riconobbe subito: era stato con quella che era giunta su Skarmoon… la nave di Hydargos. Dunque, anche lui era lì, anche lui stava vedendo ogni cosa. Con sollievo, constatò che era troppo distante per restare coinvolto nell’esplosione. Il pensiero che lui non sarebbe morto le diede un’irragionevole felicità: eppure, era un comandante nemico… ma era anche il padre di… del bambino…
La verità era sempre stata davanti ai suoi occhi; solo in quel momento la vide.
Amo anche lui!, realizzò improvvisamente. Ma come…?
Duke… Hydargos…
BASTA!!!
Con un singhiozzo, Naida si gettò sulle cloches spingendole con tutta la sua forza; l’astronave fece un brusco balzo in avanti.
Un boato, e il mondo scomparve in una vampata incandescente.


– Naida! Naida! – Actarus urlò disperatamente, continuando a ripetere quel nome, quasi avesse potuto richiamare a sé quella donna che fino a pochi istanti era stata viva… quella donna che aveva perduto, aveva ritrovato ed ora aveva perso per sempre. Non sarebbe mai tornata, stavolta.
Balzò in piedi, battendo disperatamente i pugni contro il vetro della cabina di pilotaggio, gli occhi fissi sulla massa infuocata che stava precipitando a terra. Si strappò di testa l’elmo e lo gettò di lato, incurante delle lacrime che gli scorrevano per il viso.
Lei si era sacrificata per lui, per sottrarlo alla morte; l’avrebbe ripagata combattendo contro quei mostri di Vega, respingendo i loro attacchi, non dando loro tregua. Solo così avrebbe potuto dare un senso al sacrificio di lei, che pagando il più alto dei prezzi gli aveva donato la salvezza.
Sapeva che sarebbe stato giusto così… che Naida stessa avrebbe voluto questo…
In quel momento, non poteva fare altro che piangere.


L’esplosione illuminò improvvisamente il grande schermo della sala comando; poi non rimase che una scia di fuoco che piombava sulla Terra.
Se Duke Fleed aveva avuto gli occhi colmi di lacrime, quelli asciutti di Hydargos avevano però notato un qualcosa che forse… forse…
D’un balzo, il comandante di Vega raggiunse la postazione del pilota dell’astronave e lo spinse via, puntando verso quel qualcosa che solo lui aveva potuto vedere in mezzo al fuoco e al fumo.
Diresse la nave verso Terra, ossessionato da un unico pensiero.
Purché sia viva. Purché sia viva…


Nonostante la vergogna l’avesse spinta a cercare la morte, in Naida il bisogno di vivere era stato ancora una volta il più forte. Pochi istanti prima dello schianto, senza neanche rendersene conto, aveva premuto il pulsante d’espulsione: era stata sparata via un paio di secondi prima che avvenisse lo scoppio. Legata al suo sedile, con addosso solo la sua tunica leggera (niente casco, guanti, tuta protettiva), Naida era caduta da un’altezza vertiginosa.
Hydargos conosceva bene la volontà di vivere di Naida, e dentro di sé aveva sperato fino all’ultimo… nemmeno lui sapeva cos’avesse sperato. Vedere quel qualcosa venir proiettato via dall’astronave un attimo prima dell’esplosione l’aveva subito messo in allarme. Senza perdere un istante, afferrati i comandi aveva pilotato la sua astronave giù, verso la superficie terrestre, alla disperata ricerca di Naida.
Non per nulla, Hydargos era conosciuto per essere un uomo tenace, incapace di arrendersi.


Ritrovarono Naida svenuta, orrendamente ustionata, le membra a pezzi; ma era ancora viva. Hydargos fece raccogliere con cura quel corpo che gli aveva dato tanto piacere e che ora era irriconoscibile, e lo trasportò su Skarmoon.
Con la consueta franchezza, la dottoressa Koyra, la primaria responsabile del Centro Medico di Skarmoon, non nascose le sue perplessità. Allontanò con un cenno i suoi infermieri e prese da parte Hydargos.
– Trauma cranico, fratture multiple, gravi ustioni su quasi il novanta per cento del corpo – brontolò, scuotendo la testa.
– Pensi di non poterla salvare? – trepidò Hydargos.
Un lampo passò negli occhi grigi di lei.
– Non dico questo. Fortunatamente non ha subito danni interni, per cui ci sono buone possibilità di guarigione. Però è una schiava, e per gli schiavi non sono previste cure mediche gratuite, lo sai anche tu.
– Pagherò io, naturalmente.
Koyra si passò le mani tra i corti capelli violacei, scompigliandoli ulteriormente: – Sono costretta a dirti che ti costerebbe molto meno comprarti un’altra ragazza.
– Non m’interessa. Questa è docile e obbediente, non mi ha mai contrariato.
Koyra si strofinò gli occhi; lavorava troppo, ed era in un perenne stato di stanchezza: – Virtù rare, per una schiava.
– Appunto. Puoi procedere.
– Un’altra cosa… – lei parlò stando a testa bassa, le mani infilate nelle tasche del camice, un atteggiamento che le era tipico: – È possibile che guarisca perfettamente; però non posso fare alcuna ipotesi sulla sua condizione mentale. Ha subito dei traumi… eccessivi, direi. Sarà necessario un trattamento psichico.
– Va bene. Procedi.
– Non garantisco il risultato. Potresti spendere tanto denaro per niente.
Hydargos la fulminò con un’occhiata: – Procedi!
– Come vuoi. Era mio dovere avvertirti – e ai suoi infermieri: – Preparatela e mettetela nel bozzolo.
Naida venne portata via, un misero mucchietto di carne, sangue e ossa infrante. Con grande cura, venne posta in una scatola di plastica trasparente, l’equivalente di un’incubatrice per neonati, il “bozzolo”, appunto, come lo chiamavano abitualmente i medici. Sarebbe rimasta in animazione sospesa a tempo indeterminato, immersa in un liquido rigenerante e con le funzioni vitali garantite da sonde. Imbottita di dermostimolanti, grazie al coma indotto Naida non avrebbe sofferto per le ferite ricevute e avrebbe potuto dedicare tutte le sue energie alla guarigione.

- continua -

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Seconda puntata.

2.

Hydargos uscì di scatto dalla sala comando, mentre le porte si chiudevano alle sue spalle.
Destituito. Era stato messo da parte.
Gandal non era mai stato uomo da lunghi discorsi, e non aveva impiegato molto per dirgli quelle che erano le nuove disposizioni di Re Vega: lui, Hydargos, si era dimostrato un incapace, per cui era stato rimosso dal comando delle forze d’invasione. Sarebbe rimasto a disposizione, però, pronto a venir utilizzato per qualsiasi missione i suoi capi avessero deciso di affidargli.
Anche Gandal si era mostrato piuttosto cupo: la destituzione di Hydargos significava anche l’arrivo di un nuovo comandante, il Ministro delle Scienze Zuril. “Lo conosco. Un dannato cervellone, uno di quegli scienziati che credono che il saper pasticciare con provette e componenti chimici possa renderli anche buoni ufficiali. Quando mai uno di quei sapientoni ha dimostrato di conoscere un minimo di tattica militare…!” Così aveva sbottato il Comandante Supremo di Vega.
Hydargos aveva lasciato Gandal al suo malumore e s’era allontanato volentieri dalla sala comando. Conosceva personalmente Zuril, e aveva idea che tra lui e Gandal sarebbero state scintille… tantopiù che fino ad allora Gandal aveva avuto a che fare con lui, Hydargos, un sottoposto; Zuril sarebbe stato un suo pari grado.
Quanto a lui, sarebbe rimasto seduto in prima fila a godersi lo spettacolo.


Nei giorni successivi, mentre Gandal e Zuril erano impegnati a prendersi reciprocamente le misure, Hydargos continuò il suo lavoro come nulla fosse, cupo e impassibile com’era sua abitudine; quando finalmente poteva lasciare la sala comando, si dirigeva al centro medico per verificare le condizioni di Naida – “voglio vedere se quei dottori fanno il loro lavoro”.
Lei fluttuava nel liquido azzurrino rigenerante in cui era stata posta. Le sue condizioni apparivano spaventose: completamente priva di capelli, il corpo orrendamente scorticato, il bellissimo viso del tutto irriconoscibile… pure, Koyra gli aveva assicurato che sarebbe guarita, e la dottoressa non era donna da parlare se non a ragion veduta. Hydargos doveva solo avere pazienza, perché i tempi sarebbero stati lunghi, molto lunghi.
Hydargos era un uomo che sapeva aspettare; e attese.
Ogni giorno, controllava sul monitor le condizioni di lei: stazionarie.
– Ridotta com’è, che sia stazionaria è già un risultato positivo – gli disse la dottoressa, col consueto fare brusco.
– Ma guarirà? – chiese Hydargos.
– Certamente… se continui a pagarle le cure che le prestiamo – rispose lei, che non amava certo i giri di parole.
Hydargos assentì, gli occhi fissi sul viso devastato di Naida coperto dalla maschera. Sapeva che Koyra non era certo mossa dall’avidità, e che stava parlando solo spinta dal suo senso pratico.
Nonostante le condizioni di Naida rimanessero immutate e critiche, Hydargos non mancò una sola volta di venire a vederla. Se qualcuno gli avesse fatto osservazione, avrebbe risposto di voler controllare come venivano spesi i suoi soldi; e naturalmente, era davvero convinto che le cose stessero così. Se gli fosse stato insinuato che fosse un altro il motivo del suo interessamento,


Ridotta a poco più che uno scheletro, priva di pelle, i muscoli consumati, Naida stava tuttavia cominciando lentamente il processo di guarigione.
Pianissimo, senza quasi darne segno, il suo corpo fluttuante nel liquido stava reagendo alle cure. Le ossa, posizionate pazientemente dal miglior chirurgo ortopedico del centro, stavano saldandosi. Innestate sulla carne bruciata di Naida, nuove cellule stavano cominciando la loro opera di ricostruzione. Massaggiate delicatamente e in modo continuo dal liquido, le giunture di Naida non perdevano la loro flessibilità. Ogni giorno, poi, Yorad, lo psicoterapeuta telepate proveniente da Ruby, sedeva accanto a Naida ed entrava in contatto con la sua mente addormentata, per prepararla poco a poco al traumatico momento del risveglio.
Per settimane Hydargos non notò nessun cambiamento in lei. Arrivava, leggeva i dati sul monitor e poi sedeva in silenzio accanto al bozzolo, guardando quel corpo straziato che fluttuava nel liquido.
Fu così che un giorno si accorse che le gambe di lei apparivano meno sottili: fino ad allora erano sembrate due stecchi bruciati, ma ora... possibile...?
– Le cellule innestate stanno iniziando a riformare i muscoli – confermò Koyra. – Adesso comincerai a vedere i risultati di quello che stiamo facendo su di lei.
Nei giorni successivi, Hydargos poté notare che le gambe stavano lentamente riacquistando forma... lo stesso poteva vederlo sulle braccia. Su un piede, poi, notò che i tessuti apparivano diversi... lucidi...
– Il derma sta ricominciando a formarsi – spiegò Koyra, che aveva l’abitudine di venire anche lei a controllare lo stato di salute di Naida durante la visita di Hydargos. – Come ti ho detto, sono sicura che col tempo lei guarirà perfettamente... il problema è un altro.
– La sua mente – quella di Hydargos non era stata una domanda.
Koyra assentì, grave: – In poco tempo, Naida ha subito una serie di traumi spaventosi: il condizionamento mentale, l’aborto... poi, il ritorno alla realtà, che i terrestri hanno reso brusco e senza la dovuta preparazione psichica. Senza contare il fatto che poi è quasi morta. Quando si risveglierà, questa poveretta dovrà affrontare fin troppi orrori.
– Cosa conti di fare? – chiese lui, che era un uomo pratico.
– Tenerla in animazione sospesa il più possibile – Koyra incrociò le braccia, fissando Naida di sotto in su – Poi, le daremo dei farmaci che le impediscano di ricordare, in modo che Yorad possa aiutarla ad affrontare i suoi traumi a livello inconscio. Le toglieremo i farmaci solo quando lui riterrà che lei sia abbastanza forte da superare lo shock; allora ricorderà tutto, e vedremo come reagirà.
Hydargos represse un brivido: – Va bene.
Per quanto Koyra fosse un tipo ruvido, la sua voce risuonò insolitamente dolce: – Yorad dice che Naida è una donna forte. Ce la farà.
Hydargos annuì, incapace di spiccicar parola.


Nei giorni successivi, i miglioramenti si fecero sempre più evidenti. Il corpo stava riacquistando poco a poco le sue forme, e sulla carne viva ora si poteva notare uno strato più consistente di pelle.
Nascosto dalla maschera, solo il viso non rivelava nulla: Hydargos lo ricordava totalmente sfigurato, e ora non poteva vedere se i tessuti si fossero riformati. Vero che sulla testa la pelle stava facendosi più consistente, ma…
Incredulo, Hydargos tornò a fissare la testa.
Una lieve peluria dorata…
Gli tornarono in mente i capelli di Naida, lunghissimi e luminosi: ne era sempre stato affascinato, gli piaceva immensamente sentirseli scorrere tra le dita… vedere quei peluzzi lo scosse nel profondo.
Fu lieto che Koyra non fosse con lui in quel momento.


La guerra proseguiva, anche se Hydargos ormai aveva ben poco interesse in essa: degradato, ridotto più che altro a dover controllare che venissero eseguiti gli ordini altrui, lui lavorava nascondendo i propri sentimenti dietro un viso impenetrabile. Vedeva Gandal costretto a inghiottire bocconi amari su bocconi amari, ma provava ben poca pena per lui: tutto ciò che l’interessava giaceva al Centro Medico, in una vasca colma di liquido rigenerante.
Fino ad allora, Zuril si era limitato a studiare Goldrake. Fu poco prima che sferrasse il suo primo attacco che Gandal a sorpresa decise di colpire direttamente il laboratorio di Procton: era una mossa dettata dalla disperazione, era evidente che Gandal voleva dimostrare a tutti, Re Vega per primo, di potersela cavare da solo, senza essere affiancato da alcun collega.
L’assalto al laboratorio cominciò come un successo, ma finì in disastro: Gandal era riuscito a cogliere di sorpresa Procton, catturarlo e torturarlo per farlo parlare, ma la sua fortuna terminò qui. Duke Fleed, che fino ad allora non aveva potuto intervenire a causa d’un guasto al suo mezzo, era riuscito a riparare Goldrake, piombando poi all’improvviso contro i dischi e il mostro di Vega.
A quel punto, Hydargos non aveva avuto dubbi sull’esito dello scontro: una sconfitta, aveva troppa esperienza di combattimenti con Duke Fleed per non saperlo.
Com’era prevedibile, dischi e mostro furono distrutti; Gandal stesso, al comando di quella che un tempo era stata l’astronave personale di Hydargos, riuscì a mettersi in salvo a malapena, rientrando con il viso e la parte superiore del corpo orribilmente ustionati. Ora il Comandante Supremo di Vega giaceva in una stanza del Centro Medico, sottoposto a irradiazioni dolorosissime ma che avrebbero permesso una rapida ricrescita della pelle: del resto, era stato lui stesso a chiedere quel trattamento, molto più veloce della normale immersione nel liquido rigenerante. Aveva fretta di tornare a combattere, fretta di lottare contro Duke Fleed: aveva troppa paura che Zuril riuscisse a compiere ciò che lui non aveva mai ottenuto.
Zuril avrebbe ucciso il loro nemico...? Un tempo, quel pensiero l’avrebbe riempito di una collera furiosa, visto che aveva sempre pensato di dover essere lui, e lui solo, a uccidere Duke Fleed; ora, Hydargos accolse quel pensiero con una certa indifferenza.
La verità era che non gliene importava più nulla.


Yorad, lo psicoterapeuta telepate di Ruby, sedeva a gambe incrociate presso il bozzolo in cui Naida continuava a fluttuare. Gli occhi chiusi, il viso concentrato e teso, il corpo perfettamente immobile, l’uomo sembrava del tutto ignaro di quel che gli avveniva intorno.
Hydargos lo guardò con una certa stizza e batté il pugno contro una parete, prima di uscire dalla stanza di rianimazione e raggiungere la dottoressa nel suo studio.
– Ha ancora bisogno dello strizzacervelli? – brontolò Hydargos.
Gli occhi di Koyra baluginarono: – Sentimi bene: questa donna ha visto distruggere il suo pianeta, il che, se permetti, è di per sé un trauma notevole. È stata venduta come schiava, e per quanto tu l’abbia trattata bene non è stata certo lei a scegliere di venire a letto con te. È stata torturata in modo da condizionarle il cervello, e ha talmente sofferto da abortire il bambino che non sapeva nemmeno di aspettare. La sua mente è stata completamente sconvolta in modo da costringerla a tentare d’uccidere Duke Fleed. Come non bastasse, si è risvegliata, ha capito d’essere stata sul punto di assassinare l’uomo che amava e ha tentato di suicidarsi. E dopo tutto questo, vuoi che non abbia bisogno di aiuto psichico?
Hydargos alzò le mani in gesto di resa: – Va bene, va bene... è solo che non mi piace l’idea che qualcuno manipoli la sua mente, tutto qui.
– Con quel che ha già passato – sbuffò Koyra, – quel che le farà Yorad sarà acqua fresca.
– Sì, certo, io... hm... forse ho detto una sciocchezza – ammise lui.
– “Forse”?
Ho detto una sciocchezza – borbottò Hydargos.


Gandal era ormai guarito: le irradiazioni avevano compiuto il miracolo, facendogli ricrescere velocemente la pelle distrutta dalle ustioni. Praticamente, il viso bluastro del Comandante Supremo non mostrava più la minima traccia di quanto era accaduto... però qualcosa era cambiato, e molto, in lui.
Se ne accorse l’intera base Skarmoon la prima volta in cui rifece la sua comparsa lady Gandal: con grande sorpresa di tutti, invece della minuscola donnina dai lunghi, scarmigliati capelli rossi, c’era un viso bianco dagli occhi obliqui e dai capelli color rame. Una donna più pacata e riflessiva ma altrettanto lucida e razionale. Se Gandal, più quadrato e impulsivo, era entrato in contrasto con Zuril, lei scoprì nello scienziato una mente logica affine alla propria; fu quindi lei ad evitare che tra i due comandanti gli scontri si facessero distruttivi, lei a riportare alla calma il proprio esasperato consorte. Da parte sua, Zuril continuava il suo lavoro, tentando nuove forme d’attacco contro Duke Fleed e traendo un insegnamento da ogni sconfitta. Sapeva che prima o poi avrebbe trovato il modo giusto d’affrontare e sconfiggere il nemico.
Quanto a Hydargos, aveva sempre ben altro cui pensare.

- continua -

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Edited by H. Aster - 23/4/2012, 22:37
 
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E tre. Il seguito lo posterò verso il due maggio, vado via per qualche giorno e non posso far nulla col cel.


3.

Azzurro chiaro e bianco.
La giovane donna si guardò attorno, cercando di capire, ricordare… tutt’attorno a lei, silenzio e colori chiari, bianco, azzurro.
Era in un letto. Era in una stanza.
Un ospedale?
Era stata male…?
Tentò di muoversi, e sentì le membra pesantissime. Alzò lentamente le mani, le osservò: erano snelle, le dita lunghe, eleganti, e la pelle stranamente lucida… sembrava sottile…
Ma che cosa le era successo?
Intorpidita, voltò lentamente la testa: sul comodino accanto al letto era stato posato un piatto colmo di… frutta, doveva essere… ma lei non riusciva a riconoscerla. Piccoli chicchi tondi d’un brillante arancione. Frutti sferici rossi e verdi. Un paio di allungati frutti violacei, un grappolo di minuscole sferette gialle. La giovane donna rimase a guardare quei colori scintillanti: qualcuno glieli aveva portati… un dono? Allora, c’era qualcuno che s’interessava di lei? Era un pensiero confortante…
Sospirò e ricadde nel sonno senza accorgersene.


Non seppe quanto tempo era passato: semplicemente si svegliò, e stavolta si guardò meglio in giro cercando una finestra per vedere se fosse giorno o notte.
Non c’erano finestre.
Ma dove sono? Questo è un ospedale… cosa mi è successo?
– Andiamo meglio, mi sembra.
Lei si voltò verso quella voce: una donna alta e magra, dalla pelle biancastra e dagli arruffati capelli viola cupo era entrata e la scrutava con aria professionale: un’infermiera, forse?
La donna si chinò su di lei, le passò un sensore sul corpo e controllò i dati sul display; soddisfatta, tornò a rivolgersi alla sua paziente: – Come ti senti?
– Sei… un dottore?
– Il primario, per la precisione. Mi chiamo Koyra. Non ricordi nulla di quello che ti è successo?
– Nemmeno il mio nome – disse in un soffio.
– Ti chiami Naida. Bello, vero? – Koyra sedette sul bordo del letto e le passò il sensore sulla testa. – La memoria tornerà. È solo un effetto collaterale dei farmaci che ti abbiamo dato.
Naida. Io sono Naida…?
– Sono stata malata? – chiese, titubante.
– Hai avuto un incidente. – Koyra le esaminò gli occhi – Non ricordi proprio nulla? Chi sei, dove abiti…?
– Niente. È… normale?
– Certo. Hai fame?
Naida scosse il capo: – Chi è che mi ha mandato la frutta?
Koyra parve incerta sulle parole: – Una persona che tiene molto a te. Ti senti di vederlo?
– Chi è? Mio marito?
– Non esattamente – Koyra si alzò: – Se non desideri vederlo, gli dirò di tornare un’altra volta.
– No, no. Adesso.
– Molto bene. Però dev’essere una visita breve. – Koyra controllò un braccialetto elettronico che Naida portava al polso, e di cui lei non si era mai resa conto fino ad allora: – I tuoi dati sono buoni. Presto starai meglio… e cerca di mangiare. Quella frutta dev’essere squisita. – uscì, e per qualche minuto Naida rimase sola nel suo letto bianco, in quella camera dalle pareti azzurro chiaro. Poi le porte s’aprirono ancora, lasciando passare un uomo alto e magro, dal lungo viso bluastro.
Qualcosa parve risvegliarsi nel cervello di Naida, che fissò il nuovo venuto, gli occhi dilatati dalla paura… c’era stato qualcosa di orribile collegato a lui, anche se non aveva la sensazione che quell’uomo l’avesse trattata male…
– Come stai? – lui prese una sedia e vi si pose a cavalcioni – Ti vedo meglio, oggi.
– Oggi…? – Naida aggrottò la fronte cercando di capire – Sei già venuto qui?
– Parecchie volte – i lunghi occhi obliqui di lui non la lasciavano un istante – Ma tu non puoi ricordartene.
– Io non ricordo niente – mormorò lei.
L’uomo parve sorpreso: – Niente? Nemmeno me?
Naida lo guardò con aria supplichevole: – Sei… mio marito…?
Lui scosse il capo: – Mi chiamo Hydargos. E sono il tuo padrone.
– Il mio…? – Naida batté le palpebre – Io sono una… una serva?
– La mia schiava – Hydargos le prese una mano – Non ricordi proprio nulla?
Lei ricadde sul cuscino. Schiava… Hydargos… qualcosa parve tornare al suo posto. Lui l’aveva trattata bene, non era stato un padrone crudele, di questo era certa.
Un pensiero improvviso la colse: lui, il suo padrone, sembrava molto premuroso con lei, evidentemente i loro rapporti dovevano essere stati piuttosto stretti. Arrossì e lo guardò di sfuggita: dunque, lei doveva aver conosciuto quel corpo alto e asciutto, doveva aver provato i suoi baci. Possibile che non ricordasse niente di niente?
– Dovresti mangiare – Hydargos prese un chicco arancione – Perché non li assaggi? Sono dolci.
– Li hai portati tu? – Naida aprì la bocca, e lui le infilò tra le labbra il minuscolo frutto.
– Io te li ho portati – lui le porse un altro frutto – Io ti ho raccolta e fatta curare, io ho badato a te tutto questo tempo. Non hai altri che me.
In silenzio, lei masticò il piccolo, delizioso frutto arancio di cui vagamente ricordava il sapore… Schiava? Lui l’aveva fatta curare…? Non doveva essere stato un padrone crudele… ma perché lei non aveva altri che lui?
– La mia famiglia…? – ma già dentro di sé intuiva la risposta – Sono… morti?
– Ne parliamo un’altra volta – le mise in bocca una pallina gialla, piacevolmente fresca ed asprigna.
Spossata, Naida chiuse gli occhi. Anche mangiare era così faticoso… sentì un movimento accanto a sé e vedendo Hydargos, quell’orribile uomo dal viso bluastro che era il suo proprietario, alzarsi per andarsene, provò un senso d’angoscia . Allora doveva essere vero, lei era stata affezionata a lui, nonostante tutto.
– Vai già via? – a fatica, gli tese una mano che lui, dopo un attimo d’esitazione, prese delicatamente tra le sue.
– Non devo affaticarti. Ma tornerò – rimase in piedi davanti a lei, impacciato come se non avesse saputo esattamente come comportarsi; poi le depose la mano sulla coperta, sempre con precauzione, quasi avesse temuto di farle del male. Lei era dunque così fragile…? Ma che cosa le era successo?
– Che cos’ho avuto? – chiese.
– Un incidente – rispose Hydargos, evasivo – Ne parleremo quando starai meglio. – si voltò e fece per uscire.
– Signore – lo vide girarsi – Torna presto.
Un’ombra di sorriso passò sul viso severo di lui: – Se lo desideri.


Nei giorni successivi, Hydargos tornò regolarmente a visitare Naida, che pareva animarsi vedendolo arrivare. I ricordi ancora non le tornavano alla mente, ma dentro di sé lei sapeva di potersi fidare di quell’uomo cupo e ombroso. Troppo debole per chiacchierare a lungo, lei passava gran parte del tempo della visita di lui in silenzio, quel silenzio tranquillo che può esistere solo tra due persone in armonia tra di loro. Sapeva di dovergli la vita, e gli era grata; quanto a lui, continuava a fissarla, incredulo di vederla rifiorire poco a poco.
Era ancora molto pallida e magra, aveva il viso scavato e gli occhi fondi; i capelli ormai le coprivano tutta la testa, e così corti le davano un’aria da ragazzino spaurito. Rispetto allo scheletro scarnificato che era stata qualche mese prima, appariva bellissima.
Pian piano, le forze ripresero a scorrere nel corpo straziato di Naida. Lei ormai poteva sedersi nel letto; quando poté farsi trovare alzata, seduta in poltrona, Naida vide Hydargos illuminarsi per un istante, tornando però subito dopo alla consueta espressione chiusa. Non era certo un uomo espansivo; ma lei non aveva bisogno di grandi manifestazioni di gioia, per sapere che lui era felice.


Man mano che il corpo di Naida sembrava rafforzarsi, Koyra fece ridurre progressivamente le dosi dei farmaci che le venivano somministrati per mantenerla in uno stato di calma.
Lentamente, quasi stessero riemergendo da uno stagno oscuro, i ricordi di lei presero a riaffiorarle alla memoria. Orrori dimenticati riaffioravano uno alla volta: la distruzione di Fleed, la sua cattura, le violenze subite... Naida accettava tutti quei ricordi con rassegnazione, come se fossero rimasti fino ad allora appena sotto la superficie della sua coscienza, e rammentarli lucidamente non fosse per lei altro che un recuperare frammenti di sé stessa che erano stati perduti. Durante i loro contatti mentali, Yorad le aveva insegnato a non sfuggire da sé stessa, e aveva lavorato bene.
Ormai, l’uomo che veniva a trovarla tutti i giorni per Naida aveva riacquistato un nome e un’identità. Lo ricordava come il suo padrone, un padrone che aveva avuto per lei attenzioni e, soprattutto negli ultimi tempi, rispetto; rammentò come avesse tentato di difenderla davanti a Re Vega, arrossì ricordando l’ultima notte che avevano trascorso assieme... ripensò poi alle cure che aveva sempre avuto per lei, e provò un forte senso di gratitudine nei suoi confronti.
Quando lo vide arrivare per la consueta visita, gli rivolse un sorriso stanco, ma luminoso, spontaneo.
Era veramente contenta di vederlo.


Un passo, due... le gambe vacillarono lievemente, ma tennero. Un altro... Naida si voltò verso Hydargos, che non la perdeva di vista un secondo, per rivolgergli un sorriso, ma il mondo prese a vorticare rapidamente attorno a lei.
Naida vacillò, allargò le braccia per mantenersi in equilibrio; le ginocchia le cedettero e lei cadde in avanti. Rapidissimo, Hydargos l’afferrò al volo, impedendole di rovinare a terra.
Sbalordita, lei sbarrò gli occhi, fissando le braccia di lui che ancora la stringevano...
...altre braccia verdastre che la sorreggevano... luci, suoni, una voce malefica che le parlava velenosamente all’orecchio... poi dolore, dolore spaventoso... sangue... poi...
– Il... il mio bambino...! – la voce le uscì a scatti dalle labbra.
Si è ricordata, pensò Hydargos, sentendosi gelare.
S’era aspettato urla, pianti, un’autentica scenata: Naida invece rimaneva immobile, scossa da un tremito violento, lo sguardo perso, le lacrime che le scorrevano per le guance... e solo un filo di voce proveniva dalle sue labbra: – Il mio piccolo... il mio bambino...
Hydargos non era mai stato un codardo, ma quel dolore intensissimo e silenzioso lo sconvolse. Si guardò in giro nel corridoio, intercettando lo sguardo di un’infermiera; mentre la donna accorreva, lui prese in braccio Naida, che continuava a tremare e piangere silenziosamente, e la riportò nella sua camera.
La depose sul letto, la chiamò, ma lei parve non accorgersi nemmeno di lui: scossa da brividi sempre più violenti, gli occhi fissi in un punto indefinito, Naida continuava a versare lacrime silenziose, persa nell’orrore del ricordo.
Vista la situazione, l’infermiera chiamò un medico; Naida venne sedata, e sprofondò in un sonno profondo, le mani contratte sul lenzuolo e le ciglia ancora umide di lacrime.
– Non c’è da meravigliarsene – osservò Koyra, venuta a controllare la sua paziente. – Perdere un figlio è di per sé uno shock spaventoso; se pensiamo a cosa ha passato questa poveretta, c’è da meravigliarsi che non sia impazzita.
– Credevo che il vostro telepate l’avrebbe aiutata – brontolò cupamente Hydargos.
Gli occhi grigi della dottoressa ebbero un bagliore: – Yorad è il miglior psicoterapeuta che io abbia mai conosciuto. Lavora ogni giorno con lei, ma ovviamente non può fare miracoli. Semplicemente, questa donna ha vissuto troppi orrori. Ci vuole tempo – gli scoccò un’occhiata: – Dovrai avere molta pazienza, con lei.
– Perché, finora non ne ho avuta? – brontolò lui.


Naida giaceva nel suo letto, gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a sé.
Accanto a lei, Hydargos sedeva in silenzio, il viso di pietra: aveva appena ascoltato il racconto di Naida, le torture che aveva subito per venire condizionata, la paura, l’orrore quando aveva cominciato a sanguinare... aveva perso un figlio quando ancora non sapeva di essere incinta. Intontita dai sedativi, Naida aveva raccontato ogni cosa con una voce remota che aveva agghiacciato Hydargos: incapace di dirle qualcosa per consolarla – lui stesso non trovava nulla che lenisse il proprio dolore – le aveva preso una mano tra le proprie ed era rimasto in silenzio.
Naida sospirò: non aveva più lacrime, ormai. Guardò Hydargos: non avrebbe pensato che lui fosse così addolorato per la perdita del bambino... i veghiani amavano i loro figli, allora?
– Signore – mormorò.
Lui volse impercettibilmente la testa per guardarla.
– Potremo... quando starò meglio... averne un altro, vero?
Tentò di risponderle, ma aveva la gola serrata e le parole non gli vennero.
– Voglio dire – insisté lei, che non riusciva ad interpretare il suo silenzio – La dottoressa Koyra mi ha garantito che non ho subito danni, che potrò avere figli... non è così?
L’avevano garantito anche a lui... ma il problema non era certo lei. Anni d’esposizione all’inquinamento avevano calato moltissimo la fertilità del popolo di Vega. Lui aveva avuto la sua occasione d’avere un figlio: che speranze aveva d’averne ancora? Meglio non farsi illusioni.
Incrociò gli occhi supplichevoli di lei, e non ebbe il coraggio di dirle la verità: – Prima, guarisci – disse, mascherando il suo dolore dietro il tono burbero – Poi ci ripenseremo.


Fu una donna pallida e magra, ma dagli occhi luminosi come stelle quella che Hydargos poté finalmente riportarsi a casa dopo mesi e mesi di ricovero al Centro Medico. Da tempo, lui aveva chiesto che lei venisse finalmente dimessa, ma Koyra era stata irremovibile: a parer suo, Naida era ancora troppo delicata per riprendere una vita normale. Naida stessa era stata contenta di restare al Centro: per quanto desiderasse ritornare in quella che ormai ricordava come casa sua, si sentiva troppo debole per affrontare la quotidianità senza l’aiuto delle infermiere, che ormai considerava delle care amiche. Anche solo vestirsi ed occuparsi della propria igiene personale le costava uno sforzo che la lasciava senza fiato; in più – e questo non aveva il coraggio di dirlo – aveva il timore che una volta rientrata a casa Hydargos avrebbe preteso di far valere i propri diritti, e lei si sentiva ancora troppo spossata per affrontare i suoi abbracci.
Il giorno in cui Koyra, dopo un’accurata visita, le diede il permesso di tornare a casa, Naida si sentì in preda a sentimenti contradditori: se da un lato era stanca di restare in quella camera d’ospedale, dall’altro... ma Hydargos era a dir poco esultante all’idea di riaverla con sé, e lei non poteva certo dirgli di no. Aiutata da una delle infermiere mise le sue cose in una robovaligia che Hydargos le aveva portato, controllò di non aver dimenticato nulla, salutò tutto il personale medico che in quegli ultimi mesi per lei era stato praticamente come una famiglia e, dopo aver promesso solennemente a Koyra di fare ogni giorno gli esercizi che le avevano insegnato ed essersi date appuntamento per la successiva visita, Naida finalmente seguì Hydargos fuori dal Centro.
Il tragitto era lungo, ma tra ascensori e monorotaie Naida ebbe fortunatamente ben poco da camminare; tuttavia, quando rientrò nell’alloggio, era talmente stanca che dovette lasciarsi cadere sul divano.
Si guardò attorno: tutto era come lo ricordava, e allo stesso tempo le sembrava nuovo, diverso, come sempre succede quando non si vede a lungo un ambiente familiare. Cercò con lo sguardo le sue piante: c’erano ancora, non erano morte come aveva temuto! Ma apparivano pallide, deperite.
– Ho fatto quel che ho potuto – brontolò Hydargos.
Lei si alzò, avvicinandosi alle piante. Ecco la sua favorita, la prima che lui le aveva regalato: era un bulbo, e stava germogliando. Le altre apparivano stentate, ma in complesso vitali... come lei, insomma.
Si voltò verso Hydargos e gli sorrise: – Ti sei occupato di loro. Grazie.
Lui bofonchiò qualcosa; sembrava seccato, ma lei lo conosceva abbastanza da capire che era solo imbarazzato. Non era proprio cambiato nulla...
Invece qualcosa era cambiato, e Naida se ne rese conto quella sera stessa. In genere, lei e Hydargos trascorrevano le serate ascoltando musica o vedendo un olospettacolo, e alla fine lui la conduceva praticamente subito in camera da letto – tranne quando preferiva concludere restando sul divano, il che non era così raro. Naida aveva temuto molto quel momento, il corpo ancora le doleva, e lei temeva che si sarebbe spezzata tra le braccia di Hydargos; invece, lui non la toccò nemmeno. Sbalordita, una volta a letto lei si trovò a fissarlo mentre lui era sprofondato nel sonno, sdraiato al suo fianco. Con suo enorme stupore, lui evitò di toccarla anche il giorno dopo e il successivo; se da un lato lei ne era sollevata, dall’altro cominciò a temere che Hydargos si fosse stancato di lei. E se non l’avesse più voluta, che sarebbe successo? L’avrebbe venduta? Assurdo: se non aveva più interesse per lei, perché l’aveva fatta curare, allora?
Il giorno dopo, fu Hydargos stesso a svelarle il mistero.
Mentre sedevano a sentire musica, lei gli si accostò, come sua abitudine, e gli mise la testa sulla spalla; lui non si mosse. Quando Naida tentò di abbracciarlo, Hydargos si tirò indietro: – No.
Lei si sentì crollare il mondo addosso: – ...Perchè?
Rimasto impassibile, lui serrò le labbra e non rispose.
– Cosa succede? – mormorò Naida, spaventata – Non ti piaccio più?
Lui scosse la testa.
– Io... io non capisco...! Hai tanto insistito perché io tornassi a casa, credevo che... invece...
Aspettò che lui parlasse, ma Hydargos rimase in silenzio a lungo, come se spiegarsi gli costasse uno sforzo immane; alla fine, riuscì a dire due parole che lei non si sarebbe mai aspettata: – Ho paura.
Naida sbarrò gli occhi, stupefatta.
– Ho visto com’eri ridotta – continuò lui – Ho visto giorno per giorno cosa ti è successo.
– Capisco... ero orribile. Non puoi dimenticartene.
– No – ammise lui.
– Ti faccio orrore, insomma – mormorò lei. Quante volte, in passato, aveva rimpianto che la sua bellezza lo attirasse tanto? E ora, era dispiaciuta che lui non la volesse più!
Hydargos si volse di scatto verso di lei: – Non mi fai affatto orrore! Mi piaci moltissimo, e lo sai! Ho solo paura di farti male!
– Ma io sono guarita! – esclamò impulsivamente Naida.
Stavolta, a sorprendersi fu lui. Aveva creduto che in passato Naida avesse solo voluto compiacerlo, e che adesso sarebbe stata ben contenta se lui si fosse tenuto distante per un po’ di tempo; però ora non sembrava che fosse così. Si voltò a guardarla, e si stupì nello scorgere il desiderio negli occhi di lei; allungò istintivamente una mano, le toccò un braccio... era sottile, tanto sottile. Troppo.
Per Hydargos, fu come fare una doccia fredda.
– No – disse, reciso – No, finchè non sarai più forte.
Era preoccupato per lei! Ecco la verità!
Naida sentì un nodo stringerle la gola: – Grazie...

- continua -

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Come avevo anticipato, cambiamo obiettivo. La guerra continua.


4.

Da subito, il ministro Zuril dimostrò di essere un uomo capace di ragionare con la propria testa. Pur avendo evidentemente seguito i precedenti scontri tra Goldrake e le armate di Vega, Zuril studiò scrupolosamente ogni battaglia, analizzando quanto avvenuto, quali armi fossero state impiegate e soprattutto quali fossero stati i fattori che avevano portato alla vittoria di Duke Fleed. Con gran rabbia di Gandal, che avrebbe voluto proseguire con gli assalti, il Ministro delle Scienze impose un periodo di pausa: dopo tanti fallimenti, attaccare ancora senza prima aver ponderato le proprie mosse sarebbe stato molto stupido, così si espresse Zuril guardando insistentemente il collega.
Mentre Gandal masticava termini poco regolamentari, lady Gandal intervenne chiedendo spiegazioni: la risposta che ottenne fu che sarebbe stato necessario studiare meglio il robot, in modo da programmare con maggior cura la tattica da adottare.
Donna logica e razionale, la signora non trovò nulla da ridire, soffocando anche le proteste del marito, e Zuril poté completare i propri studi.
I successivi attacchi furono tutti sostanzialmente diversi l’uno dall’altro, e tutti volti a cercar di conoscere meglio il nemico: Zuril impiegò minuscoli organismi che agivano in gruppo, animali robotizzati, piogge di meteoriti. Tentò anche metodi più subdoli, utilizzando un proiettore olografico di propria invenzione per far confondere Duke con l’improvvisa comparsa di immagini del pianeta Fleed. Tocco sottilmente perfido, per quella missione Zuril scelse un suo ufficiale, il comandante Mariene, una sosia perfetta della defunta madre di Duke; ma il risultato fu il medesimo. Tentò assalti da sottoterra e dagli abissi marini, ma non ottenne alcun successo: un po’ grazie alla propria abilità, un po’ grazie all’aiuto dei propri alleati terrestri – e anche grazie ad una buona dose di fortuna – Duke Fleed risultò sempre il vincitore.
Re Vega prese a spazientirsi: inviando Zuril su Skarmoon si era illuso che lo scienziato trovasse il modo di conseguire una vittoria sfolgorante e soprattutto rapida, ma così non era stato. Deluso, il sire incaricò altri comandanti di sconfiggere il nemico, ma né Zigra, alto ufficiale delle Guardie Reali, né Gauss, il principe del pianeta Upuaut, riuscirono nel loro intento. Zuril, che aveva taciuto vedendosi scavalcato, riprese a testa alta il suo posto: Re Vega ormai aveva capito che il loro nemico era un vero osso duro, e che una vittoria veloce era una faccenda fuori discussione.
Il sovrano era a dir poco furibondo. Sicuramente avrebbe dato l’ordine di concludere la guerra bombardando col vegatron la Terra, se notizie allarmanti non fossero giunte da Vega: dopo secoli di sfruttamento selvaggio, inquinato oltre ogni possibile limite, il loro mondo originario stava collassando. Ottenere la Terra era diventata ormai una priorità: se prima si era trattato di conquistare un nuovo trofeo, ora quel pianeta era divenuto la chiave della sopravvivenza dei superstiti di Vega.
Zuril esaminava ad ogni momento libero i dati che gli giungevano: sfruttato all’eccesso, inquinato da scorie atomiche che nessun sovrano si era mai preoccupato di far trattare, il loro pianeta era divenuto una sorta di enorme bomba pronta ad esplodere.
Lo scienziato serrò i denti, scorrendo rabbiosamente colonne di dati: da quanto tempo lui e altri suoi colleghi di Zuul avevano tentato di mettere in guardia Re Vega circa la pericolosissima politica di sfruttamento selvaggio che aveva adottato? Da troppi secoli i sovrani di Vega consideravano il loro mondo come un’inesauribile miniera di risorse; gli scienziati non erano mai stati ascoltati, ovviamente, e purtroppo ora i fatti stavano per dar ragione ai loro allarmismi.
Zuril rilesse per l’ennesima volta una relazione che aveva ricevuto, e che gli annunciava esattamente ciò che lui aveva previsto sarebbe successo.
Odio quando ho così ragione, si disse, appallottolando nervosamente la relazione.
Vega era ormai un mondo morto; solo che il sovrano non lo sapeva, e non intendeva saperlo.
Oltre a Zuril, l’unico che in quell’occasione tentò di far ragionare il sovrano fu il Ministro della Difesa Dantus: non era uno scienziato di Zuul, e non era nemmeno un cervello della stessa levatura di Zuril, ma era un uomo intelligente e capace, e il sovrano aveva molta stima del suo parere.
Zuril e Dantus si erano sempre mal sopportati; quella volta si fecero ricevere assieme e parlarono entrambi al sovrano dicendogli le medesime cose, prospettandogli le stesse angosciose prospettive. Bisognava interrompere lo sfruttamento di vegatron, e subito. Occorreva mettere in sicurezza le scorie. Queste erano le due priorità assolute, cui s’aggiungeva la necessità di una depurazione dell’atmosfera, che...
Re Vega troncò bruscamente quei discorsi: rinunciare al vegatron, la base del loro armamento, era follia pura. Mettere in sicurezza le scorie presupponeva una spesa eccessiva che lui non intendeva compiere, e quanto all’atmosfera, da che ricordava non era mai stata depurata, e non ne vedeva la necessità di farlo proprio ora. Non erano ormai abituati all’aria inquinata? Non si erano forse attrezzati, racchiudendo le loro città sotto cupole protettive? Sarebbe stato assurdo spendere per dei depuratori, sottraendo preziose risorse agli armamenti, così necessari per poter vincere finalmente quella guerra.
I due ministri tentarono ancora di replicare, ma il sire rimase arroccato nel suo rifiuto.
La catastrofe, entrambi lo sapevano bene, era ormai inevitabile. Zuril fu costretto a tornare su Skarmoon, da dove avrebbe ripreso la sua lotta personale contro Goldrake.
La fine giunse inaspettata – inaspettata per il sovrano, cioè. Uno dei satelliti di Vega, su cui si trovavano svariate miniere di Vegatron, esplose all’improvviso, facendo piovere polveri radioattive, ceneri e detriti tossici su Vega. Nemmeno le cupole protettive erano in grado di schermare la popolazione dalle radiazioni: molti rimasero contagiati e morirono quasi subito, gli altri furono costretti a ripararsi nei rifugi scavati nel sottosuolo. Tutti però sapevano che si sarebbe trattato di una soluzione di ripiego: non sarebbe stato possibile rimanere a lungo in quei cunicoli, occorreva mettere in salvo la popolazione, e occorreva farlo al più presto.
Re Vega ascoltò distrattamente la voce concitata di Dantus, non volle nemmeno sentire Zuril che da Skarmoon si era messo in comunicazione con lui: era inferocito perché la situazione stava sfuggendogli tra le dita (a lui! All’Imperatore della Nebulosa!), ed era ancora più furibondo perché sapeva benissimo di non potersela prendere con altri che con sé stesso, che aveva sottovalutato il pericolo.
– Recriminare è inutile! – scattò, furibondo – Voglio un chiaro quadro della situazione! – Dantus si morse le labbra; il sovrano si volse verso lo schermo, in cui campeggiava il viso tirato del suo Ministro delle Scienze: – Zuril...?
Un attimo per prender fiato prima di parlare: – Maestà, abbiamo forti motivi per temere che il peggio non sia ancora avvenuto. Siamo praticamente sicuri che le polveri radioattive nell’atmosfera siano sul punto d’innescare una reazione a catena con le scorie nel terreno.
Gli occhi del sovrano si strinsero in due fessure oscure: – E questo cosa significherebbe, esattamente?
– Che l’intero pianeta diventerà una bomba – rispose Zuril, lui stesso incredulo di quanto si trovava costretto a dire – e che voi ci state sopra.
Re Vega non mosse un muscolo, rimanendo perfettamente inespressivo: – Cosa possiamo fare per evitare l’esplosione?
– È troppo tardi, ormai – Zuril dovette usare tutto il suo autocontrollo per non far tremare la voce – Sire, fate evacuare il pianeta. È l’unica soluzione possibile.
Il sovrano si volse verso Dantus: – Confermi anche tu quel che dice Zuril?
– Sì, Maestà. Non esistono altre possibilità. Ho già fatto preparare la vostra nave.
– Il grosso della nostra flotta si trova nel quadrante di Galar, per dare manforte al Comandante Markus contro i ribelli – osservò il sovrano – Di quanti mezzi possiamo disporre?
– Sono sufficienti per mettere in salvo l’intero esercito, Maestà – rispose Dantus, pronto.
Zuril si sentì soffocare: – ...E la popolazione...?
– Non è possibile – tagliò corto Dantus – Non ci sono abbastanza navi.
– Volete abbandonarli? – in preda a un violento capogiro, Zuril dovette aggrapparsi alla sua consolle – Maestà! È la nostra gente, non potete!
– Non è una decisione semplice, Ministro Zuril – rispose Re Vega, stringendosi addosso le ampie pieghe purpuree del mantello in un gesto che, i suoi sottoposti lo sapevano benissimo, indicava sempre la sua ferrea volontà di non cedere – Tuttavia, è assolutamente necessaria. L’esercito ci occorre per affrontare Duke Fleed e vincere la guerra.
– Vi prego di riflettere! Ci sono donne, bambini...
– Appunto: gente inutile, in guerra – il sovrano liquidò con un gesto gli scrupoli del suo ministro – Addirittura, si tratta di un peso. Quando la guerra sarà finita, i nostri soldati ripopoleranno quel nuovo pianeta che ancora non avete conquistato.
Le ultime parole del sovrano vibravano di minaccia, ma Zuril non si lasciò intimidire: – I soldati ripopoleranno...? E come, se non ci saranno donne...
– Donne, ce ne sono anche troppe nelle nostre colonie – sbuffò Re Vega – Quanto ai bambini, lasciamo fare alla natura. Verranno sicuramente, è solo questione di tempo.
Zuril scosse il capo: – Sire, state prendendo una decisione inumana, voi non...
Gli occhi di Re Vega balenarono, minacciosi: il sovrano non era certo abituato a vedersi contraddetto: – Adesso basta, Zuril!
– Il nostro sovrano ha dovuto prendere una decisione dolorosissima, ma assolutamente necessaria – rincarò Dantus, cui non pareva vero di gettar ombra sull’odiato collega – Il nostro compito è agevolarlo, non ostacolarlo con scrupoli inutili. Mi meraviglio molto di te, sei sempre stato una persona razionale.
Zuril fece per replicare, ma la comunicazione venne interrotta. Restò un attimo impietrito, poi si riprese: si manteneva sempre freddo e lucido anche nelle peggiori emergenze, lui. Si mise immediatamente in comunicazione con gli hangar e ordinò a tutte le navi disponibili di far rotta per Vega alla massima velocità: se l’esplosione non fosse stata immediata, almeno avrebbe potuto salvare un poco di gente.
Spense lo schermo: che altro avrebbe potuto fare? Assolutamente niente. Furioso, batté più volte un pugno sul suo tavolo, prima di lasciarsi cadere su una poltroncina, il viso tra le mani.
– Cosa succede? – esclamò alle sue spalle la voce di Gandal, entrato proprio in quel momento – Uno spettacolo unico! Il ministro Zuril ha perso il controllo!
Zuril si voltò di scatto verso il collega. Aprì la bocca per ribattere, poi si rese improvvisamente conto del fatto che Gandal fosse completamente all’oscuro di quanto accaduto. In tono monocorde, lo ragguagliò sugli ultimi eventi, lasciandolo senza fiato.
– Vega... condannato...? – esalò il Comandante Supremo, il volto grigiastro.
– Il pianeta esploderà, è solo questione di tempo – mormorò Zuril, più che altro per convincere sé stesso di quanto stava dicendo – E la popolazione verrà abbandonata.
Gandal crollò a sua volta su una poltrona. Il loro mondo... non avrebbero mai più avuto una patria, una casa cui tornare... e le loro famiglie... i loro amici...
– Zuril...! – esclamò, sconvolto.
– Non possiamo fare niente – rimase impietrito, lo sguardo perso nel vuoto. L’unica cosa che riusciva ancora a pensare era il fatto che le persone a lui più care fossero al sicuro: suo figlio Fritz si trovava con il Comandante Markus nel sistema di Galar, e il suo schiavo Kein... forse sarebbe stato più giusto definirlo “figlio adottivo”... era con lui lì su Skarmoon. L’unica altra persona cui davvero tenesse, la principessa Rubina, si trovava su Ruby, ben lontana da Vega e dalla sua imminente catastrofe.
Respinse bruscamente i pensieri che il ricordo di Rubina gli portavano sempre alla mente. Lei era l’unica figlia del loro sovrano, era l’erede al trono di Vega, ed era una donna giovane e bellissima. Fantasticare su di lei non era solo presunzione, ma follia pura.
La preoccupazione per il loro pianeta condannato, per la gente che sarebbe stata abbandonata al suo destino s’impose alla sua mente, stringendogli il petto in una morsa d’angoscia; poi nel suo dolore sentì serpeggiare in sé un’ira sorda e gelida verso Re Vega.
Un giorno pagherete per tutto quel che avete commesso, sire.


Dantus era uomo capace di muoversi con rapidità ed efficienza: il sovrano venne subito trasferito sulla sua nave, i soldati furono ricoverati a loro volta sugli altri mezzi. La popolazione tentò inutilmente di ribellarsi. Erano civili inermi contro truppe ben addestrate e armate: i pochi scontri che avvennero furono impari. Molti vennero falciati dai raggi dei fucili dei soldati, prima che l’intero esercito completasse l’evacuazione.
Intanto, le polveri cadute su Vega cominciarono a reagire con le scorie atomiche che impregnavano il suolo del pianeta. I poli erano tra le zone maggiormente contaminate: la prima esplosione devastò l’emisfero sud del pianeta, dando così il via alla reazione a catena prevista da Zuril. Fu mentre la sua nave s’allontanava nello spazio, diretta verso la base Skarmoon, che Re Vega vide quello che era stato il suo pianeta scintillare: avvenne prima in un punto, poi in altri tre, poi in moltissimi altri. Ognuna di quelle scariche di scintille, il sovrano lo sapeva bene, era un’esplosione immane che stava distruggendo quel che era stato il suo mondo... quel mondo che aveva ereditato da suo padre, e che non era stato in grado di conservare come avevano fatto i suoi antenati.
Un’ultima esplosione e lo schermo divenne bianco, costringendo il sovrano a coprirsi gli occhi con un braccio; quando osò guardare, dove prima era stato Vega vide solo il nero dello spazio.


Zuril dovette leggere un paio di volte il comunicato, per essere sicuro d’aver compreso bene quelle poche, spietate parole: il pianeta Vega non esisteva più.
Accanto a lui, Gandal ricadde nella sua poltrona, troppo sconvolto per dire o fare qualsiasi cosa; Hydargos, immobile e silenzioso in un angolo, si strinse le braccia attorno al corpo magro, come se avesse avuto un brivido di freddo.
Efficiente anche in un momento simile, Zuril accese il comunicatore e si mise in contatto con il comandante delle astronavi che aveva inviato in soccorso dei civili di Vega.
– Signore...? – la donna appariva fuori di sé, evidentemente la notizia le era già arrivata.
– Tornate indietro – disse Zuril, la voce spenta – La vostra missione è annullata.


- continua -

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Nuova puntata.

5.

Da tempo, ormai, la sua vita aveva ripreso a scorrere abbastanza normalmente: il suo corpo si era irrobustito, le cicatrici erano praticamente scomparse, le visite di controllo nel Centro Medico si erano via via diradate. Hydargos continuava a trattarla con la consueta ruvida gentilezza, e Naida provava per lui una gratitudine profonda. In qualche modo lei, che aveva creduto di essersi inaridita, aveva ricominciato a sentire un certo attaccamento per quell’uomo ombroso che l’aveva salvata. Alle volte si era sentita persino vicina a provare qualche sprazzo di felicità... la speranza in un futuro migliore, che assieme all’attaccamento alla vita era la base stessa della sua esistenza, contribuì non poco a strapparla dall’abisso di disperazione grigia e gelida in cui aveva temuto di sprofondare.
In questo c’era però l’aiuto che le era venuto da Yorad. Naida continuava le sedute con lo psicoterapeuta telepate: senza di lui, difficilmente avrebbe potuto riprendere a vivere. Era stato lui ad impedirle di finire schiacciata dalla disperazione e dai sensi di colpa, lui ad insegnarle ad accettare anche il dolore più atroce, lui a darle la forza di non sfuggire a sé stessa. Se Naida aveva recuperato un certo equilibrio, lo doveva soprattutto a lui.
Hydargos, che aveva sempre guardato con diffidenza agli psicoterapeuti, aveva manifestato da subito la sua perplessità: davvero lei aveva bisogno di quelle sedute?
Naida si era sentita morire: se l’avesse voluto, lui avrebbe potuto impedirle di continuare le terapie: – Vuoi che non ci vada più...?
Persino ad Hydargos fu evidente la disperazione che aveva vibrato nella voce di lei: – La mia era solo una domanda. Se pensi di avere ancora bisogno di Yorad, continua ad andarci.
Nonostante le terapie, Naida si sentiva ancora fragilissima: per quanto avesse cercato di farsi una ragione di quanto aveva subito, alle volte era presa da attacchi di panico – sempre meno frequenti, per fortuna. Spesso doveva prendere gocce per dormire, e incubi vari funestavano il suo sonno. Fortunatamente, Hydargos non mostrava fastidio quando lei si svegliava piangendo e tremando: non era certo uomo capace di confortarla con parole dolci, questo no, ma era pur sempre una presenza paziente e rassicurante.
A parte i medici del centro, l’unico altro veghiano per cui Naida provava una certa simpatia, strano a dirsi, era Zuril. Era stato lui, su ordine di Re Vega, a condizionarla, causando involontariamente la morte del bambino, di cui aveva ignorato l’esistenza; però era anche stato lui a capire cosa stava succedendo e a salvarla dal morire dissanguata. E comunque, l’aveva sempre trattata con cortesia, come se lei fosse stata una donna libera e non una schiava, e per Naida, abituata all’indifferenza della quasi totalità dei veghiani, questo contava, e molto.
Non sapeva quanto ci fosse dell’opera di Yorad in questo suo nuovo modo di vedere e accettare le cose, e quanto fosse un suo personale percorso di maturazione; ma, nonostante quella sua fragilità emotiva che la faceva sentire tanto vulnerabile, Naida percepiva un qualcosa di nuovo, in sé stessa... una forza sconosciuta di cui ancora non conosceva la reale portata.
In qualche modo, Naida era cresciuta.


Il corridoio pareva singolarmente lungo e deserto. In preda a quell’inquietudine che mai l’abbandonava quando era al di fuori delle rassicuranti pareti del suo alloggio, Naida accelerò il passo. Hydargos insisteva perché lei uscisse, non vivesse confinata tra quattro pareti; un po’ per compiacerlo, e un po’ perché effettivamente non ne poteva più di restare rinchiusa, lei aveva obbedito, ricominciando a frequentare la videoteca – soprattutto negli orari in cui era sicura di non trovare troppa gente. Leggeva, visionava filmati, cercava qualsiasi materiale trattasse Fleed e la sua distruzione; aveva anche letto i resoconti di quanto era accaduto mentre lei giaceva al centro medico, in coma. Aveva letto delle battaglie contro Goldrake, le sconfitte subite da Vega; aveva potuto comprendere meglio il suo padrone, il suo essere sempre così ombroso.
Stringendo in mano i dischi che aveva preso in prestito per poterli visionare con comodo a casa, Naida accelerò il passo: non che fosse tardi, Hydargos certo non l’avrebbe rimproverata, ma… ma, aveva paura. Vega la terrorizzava. Nonostante la sua lunghissima permanenza al centro medico le avesse insegnato che esistevano anche veghiani gentili, Naida evitava con cura qualsiasi contatto con quelli che considerava degli oppressori, dei nemici.
Un rumore di passi la fece trasalire: doveva esserci qualcuno, lì vicino. In preda ad un timore irrazionale, Naida affrettò il passo, svoltò nel primo corridoio alla sua destra… e finì tra le braccia di un veghiano alto, dal viso oscuro.
Imbarazzatissima, lei mormorò una scusa e tentò di svincolarsi, ma lui la trattenne, mentre i suoi lunghi occhi gialli l’esaminavano con evidente compiacimento.
– Ma io ti ho già vista! – esclamò infine lui – Fammi pensare… Dove ci siamo incontrati?
– Non credo che ci conosciamo, signore – Naida tentò ancora di liberarsi – Lasciatemi andare, per favore.
Imperturbabile, lui la trattenne osservandone i capelli d’oro verde, la pelle bianca: – Tu non sei di Vega, devi essere di Fleed. A chi appartieni?
Naida alzò la testa: – Sono la schiava del Vicecomandante Hydargos – esclamò, sforzandosi di mostrarsi sicura di sé – Il mio padrone mi aspetta. Lasciatemi andare, o… – pensava di vedere quell’importuno sconosciuto ammutolire al nome di Hydargos, ma rimase allibita vedendolo gettare la testa all’indietro scoppiando in una gran risata.
– La schiava di Hydargos! – esclamò l’uomo, senza mollare la presa – Ma certo! Adesso mi ricordo, ti avevo vista a quella cena con Sua Maestà.
Naida rimase senza fiato: ricordava molto bene, ora, ricordava quel comandante che l’aveva guardata con insistenza, mettendola in imbarazzo… quel comandante Dantus che Hydargos non poteva soffrire. Disperata, gettò uno sguardo attorno a sé in cerca d’aiuto, ma il corridoio era totalmente deserto.
– Ti avevano condizionata per mandarti contro Goldrake – stava intanto continuando Dantus – Dicevano che eri rimasta sfigurata in un’esplosione.
– Infatti, signore – lei tentò ancora, del tutto inutilmente, di liberarsi.
– Sei rimasta ustionata, immagino – Dantus le fece scorrere una mano sul braccio – Ti hanno curata molto bene. Hai la pelle liscia, morbida.
Naida aveva ormai le lacrime agli occhi: – Signore, vi prego…! Il mio padrone…
– Credi che mi preoccupi di Hydargos? – rispose Dantus, sprezzante – Gli sono superiore di grado, non lo sai? Pensi che potrebbe dirmi qualcosa, se m’interesso alla sua schiava?
Ormai atterrita, Naida si dibatté con tutte le sue forze, mentre Dantus rideva e continuava a trattenerla; un rumore di stoffa lacerata, e la sua tunica le penzolò giù dalla spalla, mentre la manica strappata rimaneva nelle mani di lui. Naida afferrò i lembi della scollatura per coprirsi il seno, e Dantus la spinse contro una parete, appoggiando le mani ai lati di lei, intrappolandola.
– Lasciatemi stare! – Naida non riusciva più a controllare il tremito nella sua voce.
– Che ne diresti di cambiare padrone? – lui sembrava spogliarla con lo sguardo; le mise le mani sulle spalle nude, accarezzandola con compiacimento, e la sua voce si fece bassa, sensuale – Come pensavo, hai una pelle bellissima. Ti è rimasta qualche cicatrice?
Incapace di trattenersi, Naida scoppiò in lacrime: – Vi prego, lasciatemi stare…!
Per nulla turbato dal terrore di lei, Dantus la strinse tra le braccia, infilandole le mani sotto la tunica strappata, accarezzandole la schiena: – Sei fin troppo bella per Hydargos. Sei sprecata, per uno come lui. Pensavo di tenerti per qualche tempo, ma invece credo proprio che ti comprerò. Sarà interessante scoprire se ti è rimasto qualche segno, da qualche parte…
– Non potete farlo…! – lei non riusciva più a trattenere i singhiozzi.
– Certo che posso! – Dantus la spinse contro la parete, premendovela contro con il proprio corpo – Hydargos non potrà rifiutarsi, io sono suo superiore. Non ti piacerebbe diventare la mia schiava personale?
– Vi prego, no!
Lui rise: – Sarà meraviglioso farti cambiare idea – chinò la testa su quella di lei e s’impossessò della sua bocca, soffocandole in gola le proteste. Lei tentò un’ultima volta di liberarsi, di allontanarlo da sé inarcandosi all’indietro; i lembi del vestito le scivolarono dalle dita, e lui fu rapidissimo ad insinuarle una mano nella scollatura strappata, mentre continuava a baciarla per impedirle di urlare.
In un secondo, fu libera. Naida vacillò sulle gambe malferme, incredula, mentre Dantus, gli occhi sfavillanti di collera affrontava Zuril che l’aveva strappato alla sua preda.
– Non t’immischiare, Zuril! – esclamò Dantus, minaccioso – Non ti riguarda.
Impassibile, Zuril si pose tra Naida, ancora addossata alla parete metallica, e il suo aggressore: – Lasciala stare.
– Ma per piacere! – Dantus aprì le mani in un gesto che voleva sembrare conciliante – Zuril! Non vorrai litigare per… per una serva che chissà quanti si sono portati a letto!
Zuril gettò un’occhiata a Naida, che lo fissava implorante, supplicandolo con lo sguardo di non abbandonarla, poi tornò ad affrontare il collega, pacato come sempre: – Il problema, Dantus, è che lei non mi sembra proprio d’accordo. Credo che tu non le piaccia.
– Ti metti a fare il paladino delle schiave, adesso? – lo derise Dantus – Fatti gli affari tuoi e vattene.
– Una donna che ha bisogno d’aiuto è un affare che mi riguarda – Zuril appariva calmo, ma era in preda ad una collera gelida – Sparisci!
– Chi ti dice che abbia bisogno d’aiuto? – rise Dantus – Naturalmente lei protesta perché non può fare altrimenti, ma non mi sembrava che le dispiacesse troppo…
– Non è vero! – gridò impulsivamente Naida, raccogliendosi attorno al corpo i lembi della sua tunica – Io non volevo!
Dantus sorrise: – Le donne sono delle gran bugiarde.
– È meglio se ti allontani, e subito – Zuril strinse i pugni.
– Cosa mi faresti, sentiamo – Dantus si fece avanti, strafottente. Attaccò all’improvviso, sferrando un pugno verso la mascella di Zuril; il generale schivò d’un soffio colpendo a sua volta l’avversario con un potente diretto al fegato. Dantus si piegò in due, scosso dai conati di vomito.
Zuril strofinò le nocche contro l’altra mano, sovrastando l’avversario: – La questione è chiusa.
– Me… la… pagherai – Dantus faticava a respirare.
Zuril non lo degnò d’uno sguardo e si rivolse a Naida, prendendola per un gomito: – Vieni. T’accompagno al tuo alloggio.
Stringendosi addosso i pezzi del suo vestito, Naida gli trotterellò a fianco, mentre lui la guidava giù per il corridoio: – Signore, io… grazie. Se non ci foste stato voi…
– …Probabilmente adesso avresti un paio di cose da spiegare ad Hydargos – rispose leggermente lui.
Naida s’incupì: – Spero che mi crederà, io non volevo… ma lui… il comandante Dantus, voglio dire… io non volevo!
– Lo so – Zuril vide quel bel viso angosciato ed aggiunse: – Parlerò io con Hydargos. Sta’ tranquilla.


Che cos’è successo? – Hydargos passò con lo sguardo da Naida, in lacrime e con le vesti a brandelli, a Zuril: – Chi è stato?
– Dantus – rispose Zuril; poi riferì concisamente quanto era accaduto, mentre Hydargos lo ascoltava in silenzio, gli occhi che mandavano lampi.
– Quel bastardo…! – esclamò infine, ricadendo contro lo schienale della sua poltrona. S’accorse d’avere ancora davanti a sé il computer acceso e lo spinse da una parte. Il lavoro avrebbe aspettato.
– Io… io non volevo, signore! – pareva che Naida non fosse capace di dire altro.
In silenzio, Hydargos s’alzò, avvicinandosi alla sua schiava. Tese un braccio verso di lei, e per un attimo Zuril ebbe il timore che volesse schiaffeggiarla; invece Hydargos le passò la mano tra i capelli, in una carezza un po’ ruvida. – Mi dispiace, piccola. Andrò da Dantus e gli dirò il fatto suo. Non devi avere paura di lui.
– Signore, ha detto che vuole comperarmi – balbettò lei.
Hydargos scambiò un’occhiata con Zuril: – Ha detto proprio così?
Naida assentì: – Ha detto che prima voleva chiedermi in prestito, ma poi aveva deciso di comperarmi. Ha detto che può farlo, che non puoi rifiutarti perché lui ti è superiore… ma è vero? Può davvero farlo, signore?
Un’altra occhiata con Zuril: – Non lo farà, sta’ tranquilla. Vai a rivestirti.
– Sì, signore – si voltò verso Zuril – Grazie ancora, signore.
Zuril sorrise, si strofinò la mano con cui aveva colpito Dantus: – È stato un piacere, credimi. – attese che fosse uscita e si rivolse ad Hydargos: – Non è stata colpa sua.
– Credi che non lo sappia? – Hydargos strinse i denti. Naida era molto seria, per nulla provocante; eppure, proprio quel suo atteggiamento riservato poteva essere un richiamo irresistibile, per un uomo. – Pensi che Dantus faccia sul serio? Che la voglia davvero?
– Forse, non la voleva prima che io lo prendessi a pugni – visto che Hydargos era troppo soprappensiero per dirgli d’accomodarsi, Zuril prese posto da sé su una poltrona – Adesso, però, è un’altra faccenda.
– È quel che penso anch’io – Hydargos prese una bottiglia e due bicchieri: – Prendi un goccio?
– Grazie – Zuril fece girare il calice tra le dita, osservando le sfumature verdi del liquore: – Naida è molto spaventata.
– Quel bastardo non poteva prendersela con qualcun’altra? – esplose Hydargos – C’è pieno di donne che sbavano per lui! Possibile che proprio con Naida, che ha paura persino della sua ombra… A proposito, non ti ho ancora ringraziato.
– Niente, niente. Piuttosto, cosa pensi di fare? Se Dantus vorrà comperare Naida, tu non potrai rifiutargliela.
– No, maledizione! – Hydargos sbatté il bicchiere sul tavolo – Se rifiutassi, lui andrebbe a lagnarsi con Re Vega, e allora…
– Cosa vuoi fare? – chiese seccamente Zuril, vedendo che s’avviava verso la porta.
– Andare a dargli il fatto suo – sbottò Hydargos.
– Finiresti nei guai, verresti condannato per aver aggredito un tuo superiore e ti porterebbero via Naida – osservò Zuril, calmissimo, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona.
Hydargos sferrò un pugno alla porta: – E allora, che cosa posso fare?
Zuril congiunse le punte delle dita: – Una cosa sola – fece una breve pausa ed aggiunse: – Ricordati che solo gli schiavi possono essere venduti.
Hydargos spalancò gli occhi: – Vuoi dire… liberarla?
– Perché no? Naida è stata una buona schiava, per te, o sbaglio?
– La migliore che potessi sperare – rispose, a mezza voce.
– Allora, forse è venuto il momento di premiarla. Liberala, e Dantus non potrà più portartela via.
Hydargos s’incupì. Libera, Naida avrebbe potuto andarsene, lasciarlo per sempre, e lui non avrebbe più potuto trattenerla… Non avrebbe avuto più la minima autorità, su di lei…
Zuril l’osservò, parve capire quale fosse il problema, e lasciò cadere, quasi per caso: – Naturalmente, ricorderai anche tu che uno schiavo, prima di essere libero, può trascorrere un periodo di semilibertà, in cui non può comunque essere venduto, né può lasciare il suo padrone. Basterebbe questo a salvare Naida da Dantus.
Il viso cupo di Hydargos si rischiarò immediatamente.
Zuril lo vide, e sorrise.


– Non credo che tu possa renderti pienamente conto dell’importanza del dono che ti viene fatto – Gandal sedette dietro alla propria scrivania – O sbaglio?
– No, signore – mormorò Naida, con un filo di voce.
– Me l’immaginavo. Per questo sei qui – Gandal accennò alle sedie davanti alla sua scrivania: – Accomodati. Anche tu, Hydargos.
Naida prese posto timidamente, tenendo le mani strettamente intrecciate in grembo. Era pallidissima, aveva gli occhi segnati da qualche ombra, i capelli verde dorato erano un po’ opachi, ma sembrava nel complesso in buono stato. Non mostrava alcuna traccia delle spaventose ustioni che l’avevano sfigurata, e si muoveva con scioltezza nonostante le fratture multiple che aveva subito. Koyra aveva fatto miracoli, con lei.
– Mi pare che sia in buona salute – osservò Gandal, rivolto ad Hydargos – Koyra che ne dice?
– Che non si aspettava un simile recupero – rispose lui, le mani intrecciate su un ginocchio.
Nessuno se lo sarebbe aspettato – puntualizzò Gandal; poi tornò a rivolgersi a Naida: – Hydargos ti ha spiegato cosa stiamo per fare?
Naida si schiarì la voce: – Ha parlato di un… cambiamento. Dice che sarò la sua concubina, ma non capisco… sono già la sua concubina, e non so…
– Non è esatto – Gandal intrecciò tra di loro le mani, un gesto che gli era abituale – Una schiava che convive con il suo padrone può essere definita comunemente una concubina, ma non nel linguaggio giuridico. Per la legge, schiava e concubina sono due figure completamente diverse.
Naida chinò la testa, non osava guardare negli occhi quell’uomo: – Non ne so nulla, signore.
– Siamo qui per questo – disse Hydargos, con la sua voce profonda.
– Una schiava – cominciò Gandal, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona – non ha diritti. È un oggetto. Il suo padrone può venderla, scambiarla, cederla, torturarla e ucciderla. Questo, e il fatto che il servizio sanitario non sia gratuito, spiega perché gli schiavi abbiano generalmente una vita molto breve. È chiaro fin qui?
Naida sentì le lacrime d’umiliazione bruciarle gli occhi: – Sì, signore.
– Il dono che il tuo padrone intende farti è renderti giuridicamente una concubina. Si tratta di un vero atto di generosità da parte sua – ignorò il moto d’imbarazzo di Hydargos – perché nel farti questo regalo lui non acquista nulla, anzi, ha solo da perderci. Una concubina gode di uno stato di semilibertà, e questo stato è trasmesso automaticamente ai suoi figli; il che vuol dire che se ne avrai, non saranno schiavi. Questo è sicuramente il punto più importante.
– Oh – Naida alzò la testa, guardò furtivamente Hydargos e poi tornò a chinare il capo, le guance rosse: – È un grande dono.
– Puoi dirlo – Gandal prese ad elencare i vantaggi, contandoli sulle dita: – Una concubina non può essere venduta o ceduta temporaneamente senza il suo assenso. Mai e per nessun motivo può essere separata dai suoi figli, per cui se verrai venduta, il tuo nuovo padrone dovrà mantenere anche loro assieme a te. Una concubina ha diritto all’alloggio, al cibo e ai vestiti. Una concubina è sottoposta alla legge di Vega, per cui non può essere torturata e uccisa dal suo padrone. Una concubina può avere delle proprietà, che però vengono amministrate dal padrone; la concubina può comprare e vendere le sue proprietà, e può fare testamento. …Ecco, mi pare sia tutto circa i diritti che acquisirai.
Naida era senza fiato: quello che su Fleed sarebbe stato considerato il minimo dei diritti umani, per Vega era un dono straordinario. A parte l’irritazione che provava, sentì un moto di sincera gratitudine per Hydargos: – Io… io… padrone, grazie, io…
– Veniamo ai doveri – tagliò corto Gandal, che provava imbarazzo nell’assistere a scene sentimentali – L’obbligo di fedeltà e obbedienza permane. Una concubina disobbediente e ingrata, o che scappa dalla casa del suo padrone viene punita molto severamente dalla legge. Una concubina che poi tradisce il suo padrone con un altro uomo viene messa a morte: tienilo bene a mente. Ho visto tante volte delle schiave che divenute concubine si sono insuperbite, si sono sentite autorizzate a seguire il loro capriccio e hanno pagato con la vita; per cui, stai molto attenta a non montarti la testa. – Gandal tolse da un cassetto un fascicolo che tese a Naida: – Prendi. Queste sono le leggi che riguardano il tuo nuovo stato. Troverai per esteso tutti i tuoi diritti e doveri.
Senza alzare gli occhi, Naida prese il fascicolo: – Grazie, signore.
Gandal porse ad Hydargos un paio di fogli: – Ecco l’atto, completo in ogni sua parte. Mancano solo le vostre firme.
Hydargos lo scorse velocemente: – Mi pare che sia a posto – appose la sua firma in calce all’atto, e fece segno a Naida di fare altrettanto. Gandal poi passò il documento nello scanner perché venisse registrato; quindi lo restituì ad Hydargos.
– Eccoti qui, e buona fortuna – disse, in tono non troppo convinto. Non era sicuro che donare diritti ad una schiava fosse una buona idea.
Hydargos porse solennemente il foglio a Naida: – Questo è tuo.
Lei arrossì: – Signore, io…
– Capisci cosa significa? – chiese lui, sempre un po’ ruvido – Non posso venderti. Non posso cederti. Dantus non potrà mai portarti via.
Naida sbarrò gli occhi, mentre a poco a poco il viso le s’illuminava: – Vuoi dire…?
– Sei salva. Lui non può farti niente.
– A meno che non sia tu a volerlo – intervenne Gandal, sarcastico; ma Naida non l’ascoltò. Pazza di gioia, guardò alternativamente Hydargos e quel foglio prezioso che le assicurava la salvezza.
– Signore, io… io non so come ringraziarti…
– Sono sicuro che troverai il modo – osservò Gandal, spegnendo lo scanner; vide Naida baciare appassionatamente Hydargos, e sogghignò: – Appunto. Sapevo che l’avresti trovato.


Al sicuro nel loro alloggio, Naida lesse e rilesse il foglio che le aveva dato Gandal. Chinandosi sulla sua spalla, Hydargos guardò le parole che stava leggendo e brontolò: – Non l’hai ancora imparato a memoria?
– Scusami, signore – lei gli rivolse un sorriso radioso.
– Hydargos – disse lui, burbero.
Naida batté le palpebre: – Scusa, signore…?
– Non sei più una schiava – lui evitava di guardarla, quasi avesse temuto di mostrare i suoi veri sentimenti – Sei una concubina. Non devi più chiamarmi “signore”, ma puoi usare il mio nome.
Lei lo guardò, improvvisamente seria; poi articolò, quasi con precauzione: – Vuoi dire… Hydargos?
Era bello, sentire la voce di lei pronunciare il suo nome; ma questo, lui non poteva certo dirglielo. – Certo, Hydargos. È così che mi chiamo, no?
Naida s’alzò, si avvicinò a lui e gli pose una mano sul braccio. Sorpreso, Hydargos si voltò a guardarla; lei s’alzò sulla punta dei piedi e lo baciò dolcemente sulle labbra.
Più tardi, mentre giaceva a letto con Naida che dormiva tra le sue braccia, Hydargos rimase a lungo sveglio, gli occhi fissi nel buio.
Lei era stata la donna amata da Duke Fleed. Lui aveva ignorato questo fatto fino al giorno in cui non aveva dovuto cederla a Sua Maestà perché la usasse come arma contro il loro nemico; e solo allora aveva capito quanto Naida fosse importante per lui. Se da subito lui avesse saputo chi era veramente Naida, come si sarebbe comportato? L’avrebbe trattata bene come aveva fatto fino ad allora? O l’avrebbe forse umiliata, maltrattata, sfogando su di lei il rancore che provava per Duke Fleed?
Guardò il viso dolce di lei, gli occhi chiusi dalle lunghe ciglia, i capelli d’oro verde che le scendevano giù per le spalle… no, se lui avesse saputo subito la vera identità della sua schiava, le cose sarebbero state ben diverse. Hydargos si conosceva bene, non si faceva illusioni sul proprio conto, ed era sicuro che si sarebbe vendicato facendo scontare a Naida l’amore che Duke Fleed aveva nutrito per lei… e adesso lei non sarebbe stata lì, addormentata serenamente tra le sue braccia…
Si sentì stringere il cuore al pensiero di quel che avrebbe potuto essere, e fortunatamente non era accaduto.
Alle volte, l’ignoranza non è il peggiore dei mali.


- continua -

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La guerra continua.


6.

Da che era arrivato su Skarmoon, Dantus non aveva fatto che irritare i suoi colleghi. Gli bastavano uno sguardo ironico, una mezza parola lasciata cadere come per caso, per ottenere tensione e nervosismo; naturalmente, lui non si lasciava scappare l’occasione per far intendere che la fortuna era ormai dalla sua parte, e che lui, non più loro, era l’uomo che aveva la completa fiducia di Re Vega.
Quanto al sire, non aveva occhi che per il suo Ministro della Difesa: nello sfacelo che era stata la fine di Vega, Dantus aveva condotto le operazioni in maniera inappuntabile, questo anche i suoi colleghi erano costretti a riconoscerlo. Efficientissimo, Dantus aveva portato in salvo il sovrano, la sua guardia personale e l’esercito, il tutto dimostrando una perfetta capacità organizzativa – e una lucida spietatezza, visto che non aveva esitato ad abbandonare al loro destino i civili, considerati una sorta di peso inutile; ma agendo in quella maniera lui aveva obbedito agli ordini di Sua Maestà.
Rimaneva comunque il fatto che ora Re Vega non aveva attenzione che per lui, teneva in grandissima considerazione ogni sua parola, lo consultava per qualunque decisione, rifiutando allo stesso tempo qualsiasi parere provenisse invece da Gandal o da Zuril. In particolare ce l’aveva con quest’ultimo, cui non aveva perdonato l’aperta disapprovazione in occasione della distruzione di Vega, e nemmeno il fatto d’aver tentato di salvare dei civili inviando delle navi in loro soccorso. Le navi non erano giunte in tempo, ed era stata una fortuna: che avrebbero potuto farsene di quelle inutili persone? Quella volta, Zuril non aveva certo dimostrato buon senso, di questo Re Vega era più che certo.
Hydargos, saggiamente, si teneva sempre in disparte.
Non contento del favore accordatogli dal sovrano, Dantus si divertiva a tormentare i colleghi. Giocava crudelmente con loro, facendo capire che era solo questione di tempo: prima o poi, quando più gli fosse piaciuto, lui, Dantus, avrebbe sferrato loro l’attacco decisivo che li avrebbe fatti crollare miseramente.
Sottoposto a continue provocazioni, Gandal fremeva di rabbia; persino lady Gandal si faceva vedere pochissimo, in modo da prestarsi il meno possibile come bersaglio. Quanto a Zuril, nascose nervosismo e preoccupazione dietro una facciata impenetrabile; e nel frattempo, continuava a studiare il suo nemico, raccogliendo qualsiasi dato, anche il più insignificante, su di lui.
Prima o poi, avrebbe avuto la sua occasione.


– Non mi piace – nonostante il suo ferreo autocontrollo, la voce di Zuril tradiva un profondo nervosismo – Ultimamente, Dantus tende a fare allusioni sui figli di padri importanti, e pure sugli schiavi liberati, e non si tratta di frecciate sarcastiche. Temo sia qualcosa di peggio.
– Credi che stia meditando un brutto tiro ai danni dei tuoi ragazzi? – chiese Hydargos.
– Sai che ho fatto di tutto per tenerli lontani da questa guerra! Fritz è alle dipendenze del Comandante Markus e si trova da tutt’altra parte rispetto questo dannato sistema; quanto a Kein, sto tenendolo distante da qualsiasi cosa somigli ad un incarico militare. Il ragazzo ha la stoffa del comandante, ma se lo inviassero contro Duke Fleed...
– ...Non avrebbe speranze – completò Hydargos, che non era uomo da girare attorno alle questioni. – Al tuo posto avrei fatto altrettanto. Pensi che Dantus non potendo colpire direttamente te voglia prendersela con loro?
Zuril, che fino ad allora aveva camminato su e giù per la stanza, si lasciò cadere su una sedia: – È capace di farlo.
Hydargos annuì e si servì un’altra tazza di ween – da tempo non beveva più alcun alcolico, ormai.
Zuril si era fatto un nemico personale quando aveva preso le difese di Naida contro Dantus, e soprattutto gli aveva impedito di portarsela via. Hydargos conosceva bene la natura vendicativa del Ministro della Difesa, per cui i timori di Zuril non gli apparivano certo infondati: – Sarebbe come se ti pugnalasse alle spalle, e lo farà senz’altro... a meno che non sia tu a pugnalare lui. Alle spalle.
Zuril alzò la testa e lo guardò in viso.
– Non sto parlando in termini figurati – aggiunse Hydargos.
Lo scienziato rimase immobile, il viso impassibile.
Poi, lentamente, chinò la testa in segno d’assenso.


Uccidere non gli piaceva, e se poteva evitarlo non aveva esitazioni: era divenuto uno scienziato perché amava la natura, e sopprimere una vita, anche se la vita in questione era quella di un nemico detestabile, gli era sempre sembrato uno spreco.
Il fatto che Dantus avesse preso di mira i suoi ragazzi gli fece abbandonare qualsiasi scrupolo: Hydargos aveva ragione, doveva essere lui a colpire per primo. Ne andava di mezzo della vita stessa dei suoi figli.
Quasi ogni giorno lui e Dantus erano costretti a lavorare gomito a gomito, e quando erano soli il collega non perdeva l’occasione di punzecchiarlo con qualche allusione poco velata a Fritz e Kein; Zuril rimaneva impassibile e non rispondeva mai alle provocazioni, ma dentro di sé aveva già deciso l’eliminazione del collega. Bastava solo aspettare l’occasione adatta.
L’occasione giunse, e fu lo stesso Dantus a fornirgliela. Dopo aver creato King Gori, un mostro di nuova generazione molto più potente dei precedenti modelli, Dantus aveva avuto la soddisfazione di infliggere a Goldrake la prima sconfitta dall’inizio della guerra. Mentre Dantus cantava vittoria, Re Vega non aveva perso tempo a rimarcarne il successo, con gran dispetto di Gandal che si era sentito mancare il terreno sotto ai piedi. Se Dantus fosse riuscito a sconfiggere definitivamente Duke Fleed, sicuramente Re Vega gli avrebbe dato a lui il titolo di Comandante Supremo delle forze di Vega; questo, Gandal, che si era sudato i suoi gradi, non poteva sopportarlo, non dopo anni e anni di fedele servizio alla corona.
L’occasione era troppo allettante per non essere colta: a Zuril bastò tenere calmo il collega e convincerlo a colpire in maniera indiretta, sfruttando il potenziale bellico dei loro avversari. Fu così che mentre Dantus si spingeva all’attacco dei nemici, Gandal e Zuril ebbero cura di lasciarlo completamente solo, allontanando da lui qualsiasi rinforzo; come prevedibile, il ministro della Difesa venne sconfitto, il suo disco abbattuto. Saliti sul relitto, i due comandanti di Vega ebbero la sgradita sorpresa di trovare ancora vivo, anche se ferito, il loro collega; fu così che, mentre Zuril distruggeva i comandi del King Gori, Gandal eliminava lo stesso Dantus conficcandogli un pugnale nella schiena.
Poco dopo il disco esplose, provvidenzialmente bisogna dire, visto che così venne cancellata ogni traccia dell’accaduto... o forse, più che di fortuna sarebbe meglio parlare di prudente accortezza da parte dei due comandanti. Ma questo punto non fu mai chiarito, perché la guerra continuava e nessuno ebbe il tempo o la voglia di far luce sulla morte di Dantus.


La perdita del Ministro della Difesa non segnò grandi cambiamenti su Skarmoon: semplicemente le cose ripresero com’erano state prima del suo arrivo. Gandal e Zuril avevano ricominciato a progettare i loro attacchi e Re Vega di tanto in tanto sbottava perché ancora non si era giunti alla vittoria. Lo stesso sovrano però aveva ormai compreso che vincere fosse un traguardo lontano e difficilmente raggiungibile: quella che tutti avevano immaginato come una guerra-lampo stava avviandosi al suo terzo anno.
Mutamenti importanti erano invece percepibili all’interno dell’Impero.
Fino ad allora, i pianeti conquistati da Vega erano sempre caduti dopo un assalto generalmente breve; il fatto che un mondo arretrato come la Terra, un mondo che avrebbe dovuto venir conquistato al primo assalto, stesse resistendo da anni, fu un avvenimento che fece una grandissima impressione anche nei più remoti angoli dell’Impero. Inutilmente Re Vega aveva tentato di nascondere prima, e filtrare poi, le notizie, inutilmente una volta che si era risaputa la verità ci si era premurati di far sapere che chi in realtà contrastava Vega era quell’invincibile macchina da guerra che rispondeva al nome di Goldrake: per tutti, l’esercito di Vega non era più il mostro invincibile che era sempre stato. Si cominciò a pensare che il tiranno aveva qualche punto debole, e che poteva essere sconfitto. Ondate di ribellione, in sordina ma perfettamente percepibili, cominciarono a serpeggiare tra i popoli oppressi.
In più, il continuo stato di guerra e il disastro di Vega avevano indebolito, e parecchio, il sistema economico dell’Impero: svariate popolazioni si trovavano ridotte alla fame. La disperazione fomentò le prime rivolte, che scoppiarono proprio nei luoghi in cui le condizioni degli schiavi erano più disumane. Ruby fu uno dei primi pianeti in cui si cominciò a respirare aria di ribellione: gli schiavi, affamati e abbrutiti dalla fatica e dai maltrattamenti, cominciarono a rifiutarsi di lavorare, creando disordini. I soldati massacrarono parecchi di loro, nonostante la reggente, la principessa Rubina, avesse dato ordine di non sparare sulle folle.
La giovane principessa ebbe in quell’occasione la riprova di ciò che aveva sempre sospettato: su Ruby, lei era reggente solo di nome, chi comandava veramente era sempre suo padre. Anni prima, quando l’aveva strappata al suo promesso sposo Duke Fleed, Re Vega l’aveva inviata là col compito di mantenere l’ordine: in realtà, Rubina aveva capito subito di non aver alcun potere, non le era permesso discostarsi dalla linea spietata che aveva imposto suo padre. Se mai lei avesse tentato di fare di testa sua, d’imporsi, non sarebbe stata obbedita: tutto quel che aveva potuto fare in quegli anni era stato cercar di mitigare il più possibile la crudeltà con cui erano trattati gli schiavi.
Ora, vedendoli iniziare a ribellarsi, Rubina entrò in deciso contrasto con la linea paterna: ordinò ai suoi soldati di non sparare sui rivoltosi, e venne disobbedita.
Fu un massacro. Disperata, la principessa tentò più volte di parlare col padre, ma naturalmente non venne ascoltata.
– Sono schiavi – sibilò Re Vega, furioso, guardando con disprezzo la figlia che gli parlava attraverso lo schermo – Il loro compito è lavorare. Se si rifiutano di farlo, sono dei ribelli, e come tale vanno trattati. Non c’è altro da aggiungere.
– Ma sono disperati! – tentò di farlo ragionare lei – Hanno turni di lavoro troppo lunghi e troppo duri, cibo insufficiente, pessime condizioni igieniche... basterebbe trattarli un poco meglio, e potremmo sedare questa rivolta senza fare una strage. Se noi...
– Quella gente deve lavorare per procurarci le materie prime che ci occorrono... l’akton, lo shulkon e le altre leghe che ci servono per costruire le astronavi. Lo sai perfettamente! Il tuo compito è molto semplice, Rubina: farci avere il materiale senza avere problemi. Se quella gente si rifiuta di lavorare, è un problema che va risolto, e subito!
– E fare una strage è il modo di risolverlo? – esclamò lei, la voce che le tremava d’indignazione – Se solo tu mi avessi ascoltata ancora tempo fa, quando t’avevo chiesto di poter migliorare le loro condizioni! Adesso è tardi, quella gente è esasperata, ma se noi...
– Tu vorresti trattare bene dei sudici ribelli che non fanno il loro lavoro – Re Vega la guardò con immenso disgusto – Ho sempre pensato che non sei adatta per succedermi!
Gli occhi azzurri di Rubina sostennero quelli nerissimi del padre: – Se per diventare Regina di Vega devo sterminare migliaia d’innocenti, se devo massacrare dei poveretti che sono stati privati di tutto... hai ragione, io non sono proprio adatta a prendere il tuo posto.
Re Vega fece per replicare, furibondo; poi cambiò idea e spense rabbiosamente lo schermo. Non voleva più vedere sua figlia, non finché la collera non gli fosse sbollita.
Inferocito, contattò il comandante delle forze di Vega su Ruby: era lui il suo vero sostituto, Rubina non era che un’inutile marionetta. Comunicò i suoi ordini, secchi e precisi; il giorno dopo i soldati trucidarono qualche migliaio di schiavi, spingendo gli altri a lavorare in turni di lavoro ancora più massacranti.
Rubina si chiuse nel proprio alloggio e pianse tutta la sua disperazione: non solo non poteva fare nulla per aiutare quegli sventurati, ma ai loro occhi sarebbe stata proprio lei la responsabile di quei morti... era più di quanto lei potesse sopportare.
L’eco degli avvenimenti su Ruby fu un monito terribile per gli altri mondi: l’aria di ribellione era stata repressa, ma la rivolta covava negli animi, pronta a scoppiare in tutta la sua violenza.
Su Skarmoon, Zuril seguì attentamente gli eventi di Ruby: aveva tentato, inutilmente, di far ragionare il sovrano, e aveva dovuto rinunciare. Anche lui era dell’idea che sarebbe stato più saggio, oltre che umano, concedere qualcosa a quella gente esasperata; purtroppo, Re Vega non era né saggio né umano, e se nemmeno sua figlia Rubina era riuscita a farlo riflettere...
In preda a una certa agitazione, Zuril prese a camminare in su e in giù nel proprio studio. Da sempre, provava un forte turbamento al solo vedere, o addirittura immaginare, Rubina. Proprio lui, che a parte la sua Shaya non aveva praticamente avuto altri amori, si confondeva come un ragazzino davanti a quella giovane donna che avrebbe potuto essere sua figlia... la cosa l’irritava, e non poco. Detestava non avere il pieno controllo su di sé, detestava provare sentimenti così assurdi e irrazionali, detestava soprattutto che l’oggetto della sua passione fosse una persona che per rango ed età sarebbe stata sempre e comunque fuori della sua portata.
Comunque il pensiero di Rubina, costretta in quell’orribile situazione, lo agitava non poco. Per reazione, Zuril si tuffò nel suo lavoro, dedicandosi corpo ed anima ad un progetto cui stava lavorando da tanto tempo: la costruzione d’una base sottomarina, da cui avrebbe sferrato un attacco mortale a Goldrake, fortemente svantaggiato nel combattimento subacqueo.
La base fu un vero capolavoro d’ingegneria: Zuril l’aveva ideata con la massima cura, in modo da poter essere costruita e resa operativa nel minor tempo possibile. Studiate in ogni particolare, le varie fasi della messa in opera furono ultimate senza il minimo problema. In quell’occasione, Zuril decise di dare un ruolo attivo a Kein, il giovane fleediano che un tempo aveva acquistato come schiavo e che ora, libero e trattato come un figlio, era divenuto a tutti gli effetti il suo luogotenente; fu così che anche il giovane seguì il Ministro delle Scienze nella base sottomarina.
Com’era sempre successo, il nuovo progetto, che pareva fin dall’inizio tanto promettente, si concluse in un disastro. Sembrò quasi che il nemico avesse intuito che il prossimo attacco sarebbe giunto dal mare, perché in quell’occasione l’elemento imprevedibile che causò la sconfitta di Zuril fu proprio un nuovo mezzo sottomarino di cui Duke Fleed aveva potuto disporre. La base fu attaccata e danneggiata in maniera irreparabile e lo stesso Zuril, ferito, si salvò solo grazie a Kein, che riuscì a trascinarlo su una navetta e a scappare.
La distruzione della base sottomarina segnò l’inizio del peggior periodo che Zuril avesse mai vissuto. Oltre all’amarezza della sconfitta, s’aggiunse anche un dolore atroce: ferito, costretto a ricorrere all’aiuto di Kein nel successivo attacco alla Terra, Zuril vide il giovane scomparire con il suo mezzo in una bufera di neve nel corso d’un attacco contro Duke Fleed e i suoi alleati. Ricevette poi la notizia che il ragazzo era caduto, ma non seppe mai se era stato abbattuto, se era morto combattendo, se era stato giustiziato dai suoi nemici... tutto quel che ebbe di lui fu l’assurda visione della tomba che Duke Fleed gli aveva scavato nella neve; ma come fosse morto e perché fosse stato seppellito, furono due interrogativi che avrebbero tormentato Zuril nei tempi a venire.
La morte di Kein sembrò raggelare il Ministro delle Scienze, che non versò una lacrima, non mostrò il minimo segno di cedimento, ma dentro di sé si sentì morire poco a poco.
Il peggio però non era ancora venuto.
Avuta la notizia della morte di Kein, Fritz, il figlio di Zuril che militava con il Comandante Markus nel sistema di Galar, lontanissimo dal teatro dello scontro con Goldrake, chiese ed ottenne il permesso di raggiungere il padre, rimasto sulla Terra a bordo della sua nave in avaria. Per Zuril fu un’autentica doccia gelata: da sempre aveva tentato di tenere il figlio lontano da quello scontro, trovarselo davanti e temere per la sua vita fu tutt’uno. Inoltre il ragazzo era al comando d’un mostro da combattimento mentre lui, Zuril, era a bordo della propria nave, gravemente danneggiata e impossibilitata a combattere: per Duke Fleed avrebbero costituito un bersaglio irresistibile.
Le cose andarono proprio come Zuril aveva temuto: la sagoma nemica di Goldrake apparve nel cielo, minacciosa, e subito Fritz s’interpose con il suo mostro tra lui e la nave in avaria del padre.
Vedendo suo figlio in pericolo, Zuril si sentì morire. Lo pregò di non combattere, lo supplicò di scappare, di salvarsi, ma il giovane fu inamovibile.
A onore di Duke Fleed, va detto che compresa la situazione si tirò indietro dal combattimento: il coraggio di Fritz l’aveva impressionato, non avrebbe mai voluto far del male a quel ragazzo che stava lottando disperatamente per difendere suo padre. Dichiarò che li avrebbe lasciati andare entrambi, e invitò Fritz a smettere di lottare; purtroppo, il giovane fu di ben altro avviso. Conosceva Duke Fleed come un nemico feroce, un assassino che aveva sterminato senza pietà i soldati di Vega: come avrebbe potuto fidarsi della sua parola? Si gettò contro Goldrake con tutta la potenza del suo mostro, e pur controvoglia Duke Fleed fu costretto ad ucciderlo.
Il mostro esplose in una fiammata incandescente e Zuril, con un urlo strozzato, ricadde come fulminato sulla sua poltroncina di pilotaggio.
Subito un paio di soldati lo afferrarono e lo trascinarono via, mentre un altro si metteva ai comandi della nave, spingendola a tutta velocità lontano da quel nemico spietato, verso Skarmoon.

- continua -

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Capitolo breve ma intenso.


7.

“Vostro figlio si è battuto bene, ministro Zuril”, mormorò Re Vega. Che altro avrebbe potuto dire, a quel padre che aveva appena visto morire la sua creatura?
Zuril piombò in ginocchio a terra, lanciando un urlo viscerale da animale ferito a morte.
Fritz… suo figlio, il suo ragazzo… era morto…
Urlò e urlò, incapace di accettare quello che per lui era il realizzarsi del peggiore dei suoi incubi. Aveva tentato in tutti i modi di proteggere i suoi cari! Invece…
Aveva perduto prima Shaya e poi Kein, e aveva retto coraggiosamente; la morte di Fritz l’aveva spezzato, lasciandolo del tutto indifeso.
Attoniti, Gandal e Hydargos rimasero in silenzio a fissare il loro collega, mentre dallo schermo il loro allibito sovrano faceva altrettanto. Avevano sempre visto Zuril freddo, controllatissimo, padrone di sé anche nei momenti più drammatici: mai l’avrebbero immaginato capace di un dolore così assoluto.
Esitarono, impacciati, guardandosi l’un l’altro incerti sul da farsi; poi conclusero che il loro collega aveva bisogno di restare solo, e si avviarono rapidamente verso la porta, mentre il loro sovrano, evidentemente colto da un pensiero simile, spegneva lo schermo. Nel corridoio si separarono in silenzio, Gandal avviandosi in fretta verso il suo ufficio in modo da seppellirsi nel suo lavoro, mentre Hydargos si dirigeva verso il proprio alloggio, da Naida, che avrebbe compreso e lenito la sua angoscia.
Zuril non se ne accorse nemmeno.
Quando aveva perso Shaya si era sentito inaridire, come se la parte migliore di sé stesso fosse scomparsa con lei. Per Kein non era stato capace di versare una lacrima, congelandosi in una disperazione silenziosa; la morte di Fritz era stato troppo, per lui. In pochissimo tempo, aveva perso entrambi i suoi due ragazzi, e ora urlava tutto il suo dolore di uomo mutilato, distrutto, completamente solo. Shaya… Fritz… Kein… perduti per sempre…
Crollò sul pavimento metallico, incurante del freddo, delle sue ferite doloranti, di qualsiasi cosa non fosse il dolore vivo che lo devastava, e pianse, pianse, pianse come non era mai riuscito a fare in tutta la sua vita.


Lentamente, riprese coscienza di sé stesso, del pavimento duro e gelido contro le proprie costole doloranti; si rialzò piano, le membra che gli tremavano. Si sentiva completamente svuotato, morto; l’unico occhio sembrava divenuto granuloso, e gli bruciava. Si rimise in piedi, vacillando: gli girava la testa, e sentiva il petto oppresso, il respiro affaticato.
Si guardò rapidamente attorno: era ancora nella Sala Comando. L’avevano lasciato solo.
Non provò imbarazzo per quanto era appena avvenuto: era troppo presto, il tempo della vergogna sarebbe giunto più tardi. Per il momento non se ne preoccupò, stava troppo male per pensare a più di una cosa per volta.
Doveva tornare nel suo alloggio, ma per farlo avrebbe dovuto percorrere corridoi, incontrare gente. Si rimise in ordine, assestandosi la tunica e raddrizzando le spalle. Prese fiato, alzò fieramente la testa, e uscì nel corridoio.
Aveva perso ogni nozione di tempo, ma gli fu chiaro che doveva essere tardi: le luci erano state abbassate, i vetri oscurati, nella simulazione della notte. La base appariva deserta e silenziosa. Con un po’ di fortuna, non avrebbe incontrato molta gente.
Cominciò a camminare giù per il corridoio, incespicando lievemente ad ogni passo: gli girava la testa, sentiva lo stomaco pesargli e le ferite avevano ripreso a dolergli, ma continuò ad andare avanti, la testa orgogliosamente eretta. Prese ascensori, percorse corridoi: non incontrò nessuno.
Quando finalmente raggiunse il suo alloggio, vi si chiuse dentro escludendo sia il comunicatore interno che quello portatile. Spense persino lo scanner e il computer; poi si appoggiò con le spalle alla porta chiusa, scosso da ondate di nausea sempre più acute.
Si precipitò in bagno e vomitò liberandosi completamente lo stomaco: furono sforzi violenti che lo lasciarono inginocchiato a terra, piegato in due.
Aspettò fino a quando non fu sicuro di essersi completamente svuotato; poi si puntellò alla parete e si rimise penosamente in piedi, le ginocchia che gli si piegavano. Gli girava la testa, si sentiva debolissimo e aveva un sapore disgustoso in bocca; nonostante questo, capì di stare un poco meglio.
Anche solo rialzarsi, rimettersi dritto, fu uno sforzo non da poco: sentì uno spasmo squassargli ancora lo stomaco, si piegò in due dal dolore ma ormai non aveva più nulla da eliminare.
Si sciacquò la bocca, ma non si fidò ancora a bere; poi si guardò allo specchio. Era grigiastro, l’occhio rosso e gonfio, il viso sfatto; ogni movimento gli costava fatica, e sentiva un sudore diaccio lungo la schiena. Schifato, distolse lo sguardo dalla propria immagine, e s’accorse d’essersi macchiato la tunica.
Si strappò i vestiti di dosso, gettandoli in un angolo: avrebbe pensato poi il robodomestico a fare pulizia. Si tolse anche la medicazione dal petto: le ferite erano ormai rimarginate. Almeno quelle.
Entrò nella doccia e programmò un getto di sola acqua tiepida: niente ultrasuoni, niente massaggio. Acqua. Era un animale acquatico, lui, e in quel momento aveva un bisogno viscerale del suo elemento.
A tradimento, gli tornò in mente l’immagine di Fritz neonato, la prima volta in cui l’aveva tenuto in braccio. Lo rivide piccolino mentre gli trotterellava incontro, ancora incerto sulle sue gambette, e poi altre immagini gli si sovrapposero, e altre ancora… e sempre, sempre loro tre, Shaya, Fritz e Kein…
Alzò la testa, esponendo il viso al getto tiepido, e lasciò che l’acqua gli scorresse addosso, portando via anche le lacrime che continuavano a colargli giù per il viso.


Rimase chiuso nel proprio alloggio per tre giorni, rifiutando qualsiasi comunicazione con il mondo esterno. Dormì pochissimo, non mangiò praticamente mai, non fece altro che vivere e rivivere il proprio dolore, cercandolo, immergendovisi dentro, accettandolo infine.
Ormai si sentiva meglio. Si lavò, indossò una tunica pulita e ordinò un pasto leggero. Si nutrì con una certa cautela, timoroso che il suo stomaco si ribellasse, cosa che fortunatamente non avvenne.
Prese in mano le immagini dei suoi ragazzi: adesso Kein giaceva tra le rocce di una montagna terrestre, ma Fritz, il solare Fritz, era esploso con il suo mostro nell’atmosfera terrestre.
Amava volare, pensò Zuril riponendo con un sospiro l’immagine del figlio. Adesso è parte dell’aria della Terra. Libero. Non avrei potuto trovargli tomba migliore.
Doveva affrontare di nuovo il mondo esterno.
Controllò il suo aspetto: appariva smagrito, il viso incavato, ma era in ordine. Poteva andare.
Uscì, tenendosi orgogliosamente eretto in tutta la sua statura: provava vergogna per essersi lasciato andare, ma se solo qualcuno avesse osato alludere…!
Incrociò un gruppo di soldati: venne salutato con calore. Rispose al saluto, sorpreso: s’era aspettato derisione e disprezzo, adesso si rendeva conto che quegli uomini sembravano davvero contenti di vederlo.
Procedette verso la sala comando, sempre salutato da tecnici e soldati; un ufficiale osò chiedergli se si sentiva bene. Zuril assentì in silenzio, sapeva di non potersi fidare della propria voce.
Fino ad allora, non aveva mai creduto che i suoi uomini potessero essergli affezionati; a dire il vero, non aveva mai immaginato che nessuno potesse tenere a lui, eccettuati naturalmente… no, non voleva pensare a loro.
Prese fiato prima d’entrare in sala comando: i soldati erano un conto, i suoi colleghi e Re Vega erano un altro.
Gandal parve decisamente stupito nel vederlo, Hydargos gli batté su una spalla: – Stai bene?
– Adesso sì – rispose Zuril, voltandosi verso il grande schermo su cui stava apparendo l’immagine del loro sovrano – Vostra Maestà, sono pronto a riprendere servizio.

- continua -

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Finalmente la storia cambia, e niente sarà più come lo conosciamo.

8.

Che la situazione stesse degenerando, era un fatto che tutti sapevano ma di cui nessuno osava parlare.
Mai come allora il potere di Vega era stato ridotto al minimo. L’esercito era decimato dalla guerra contro Goldrake, il morale delle truppe era bassissimo, i rifornimenti tardavano o non arrivavano del tutto; nonostante il silenzio imposto dal terrore, era evidente che tutti i veghiani, fino all’ultimo abitante di Skarmoon, sapevano di essere ormai alla fine. Dagli altri mondi che costituivano l’Impero di Vega arrivavano notizie pessime: ovunque tumulti, disordini, tentativi d’insurrezione.
Da tutt’altra parte della galassia giunse inaspettato Markus, colui che un tempo era stato il principe di Moru ed ora, dopo il condizionamento mentale impostogli da Re Vega, era divenuto ormai un comandante di straordinaria levatura, una leggenda vivente. Il sovrano l’inviò subito contro Duke Fleed: Markus, l’eroe di mille battaglie, avrebbe finalmente sconfitto quel nemico, o così almeno il sire s’era illuso. Le cose andarono in tutt’altra maniera: il giovane si liberò inaspettatamente del condizionamento e resosi conto d’essere stato per anni il burattino del suo peggior nemico, attaccò le armate di Vega, lui solo, cadendo da quel valoroso che era sempre stato.
Vedere Markus, l’eroe, scagliarsi contro il suo sovrano fu un evento la cui portata giunse a conseguenze inimmaginabili. Il potere di Re Vega improvvisamente non sembrò più così assoluto, la morsa d’acciaio con cui il sovrano aveva stretto mondi e sistemi non parve più così invincibile.
I primi a reagire furono proprio i soldati che erano stati sottoposti a Markus, e che per suo ordine erano rimasti a presidiare il sistema di Galar: visto sconfitto il loro comandante, cui erano sinceramente affezionati, decisero di disertare in blocco, alleandosi proprio con quegli stessi ribelli contro cui avevano fino ad allora combattuto. Non intendevano battersi e morire per un sovrano che aveva fatto trucidare sui due piedi il più valoroso dei suoi ufficiali.
La rivoluzione, che tutti ormai sapevano imminente, scoppiò su Ruby, ed ebbe ripercussioni devastanti.
Su quel pianeta-lager, la situazione era sempre più tesa. Fino ad allora, i tentativi di rivolta erano sempre stati soffocati nel sangue; ormai, si era superato un confine invisibile oltre il quale non era più possibile tornare. I maltrattamenti subiti spinsero gli schiavi alla totale disperazione. La notizia che Vega stesse perdendo la guerra, e soprattutto che il nemico vittorioso fosse Duke Fleed, da tutti ritenuto morto, innescò la rivolta: orde di schiavi disgraziati che nulla più avevano da perdere affrontarono a mani nude file di soldati armati, che spaesati a loro volta nella stragrande maggioranza dei casi s’unirono spontaneamente ai ribelli.
La figlia di Re Vega, Rubina, fu la prima a comprendere l’inutilità della repressione: invece di tentar di domare la rivolta chiese e ottenne di parlare con il capo degli schiavi. Quindi tornò dal padre, su Skarmoon, portandogli le lamentele del popolo: la rivolta sarebbe cessata solo se le loro richieste di libertà fossero state accettate.
Per Re Vega la figlia era sempre stata una delusione: femmina quando lui avrebbe voluto un maschio, buona e pacifista invece di essere una bellicosa guerriera. Il fatto che si fosse rifiutata di spegnere la rivolta in un bagno di sangue fu per il sovrano l’ennesima conferma ai suoi sospetti: mai e poi mai Rubina avrebbe potuto sostituirlo degnamente sul trono di Vega.
– È troppo debole! – esplose il sovrano – Non ha il polso fermo che ci vuole per governare! Non avrà il mio trono.
Zuril, l’unico presente a quell’inconsueto sfogo del sire, non credette alle proprie orecchie: – Maestà, ma è vostra figlia! Volete diseredarla...?
– No! – Re Vega strinse le mani sui braccioli del trono facendo sbiancare le nocche – Voglio solo toglierle ogni possibilità di danneggiare il mio Impero. Mia figlia è una sciocca sentimentale che non dovrà mai avere il potere. Darò disposizioni in proposito: sarà suo marito a governare, non lei.
Suo marito... Rubina si sarebbe sposata? Zuril sentì l’inquietudine attanagliargli le viscere.
– Sarai tu – continuò Re Vega.
Stavolta, l’impassibile Zuril non fu affatto impassibile: – ...Io...?
– Mia figlia è l’erede al trono – Re Vega piantò gli occhi in quello del suo ministro – È tua. Prenditela. Sposala. Sarai tu il mio successore... sei l’unico di cui ancora io mi possa fidare.
Nonostante il buonsenso gli suggerisse prudenza, Zuril credette d’impazzire di gioia: Rubina gli era sempre piaciuta infinitamente, mai avrebbe osato sperare... e ora, il più incredibile, assurdo, irrealizzabile dei suoi sogni era davanti a lui, pronto per essere colto.
Ricordava Rubina come una fanciulla gentile, sottomessa al padre che l’aveva usata come pedina per i suoi scopi; ma la giovane donna che era appena giunta su Skarmoon non era più la ragazzina intimorita d’un tempo, e lo dimostrò subito. Discusse animatamente col sovrano, accusandolo d’averle tenuto segreto il fatto che Duke Fleed fosse ancora vivo, e respinse in malo modo Zuril, dichiarando che mai e poi mai avrebbe accettato di sottomettersi ai desideri di suo padre. Anni prima lei era stata promessa proprio a Duke Fleed, ed ora si sentiva ancora vincolata a lui.
Vedendo la navetta della figlia puntare verso la Terra, Re Vega ringhiò a Zuril di seguirla e approfittare della sua presenza per tendere una trappola a Duke Fleed, usando la principessa proprio come esca. A suo parere, si trattava di un’occasione unica, da non perdere assolutamente.
Del tutto ignara, Rubina si era precipitata sulla Terra con l’intento di incontrare finalmente dopo tanti anni l’uomo che amava e che non aveva mai potuto dimenticare; con sé la principessa aveva portato un’analisi sul pianeta Fleed che aveva eseguito personalmente, e da cui risultava che il livello di radiazioni si era talmente abbassato da permetterne il ritorno alla vita. Conoscendo Duke come lo conosceva lei, era sicura che la bella notizia avrebbe spianato la via delle trattative.
Come il sovrano aveva immaginato, fu relativamente semplice catturare Goldrake, visto che Duke Fleed nell’andare a parlare con Rubina non s’era certo aspettato una trappola; ciò che non era stato possibile prevedere, fu il fatto che la principessa si sarebbe messa di mezzo, riuscendo a liberare Goldrake dai raggi energetici che l’avevano bloccato e usando la propria nave come scudo per salvarlo dalle bombe al vegatron che Zuril gli aveva scagliato contro. Il risultato fu un disastro: la nave di Zuril e quella di Rubina si schiantarono al suolo, e Duke Fleed estrasse la principessa dai rottami, perché almeno non morisse in mezzo a lamiere contorte e cavi sfrigolanti.
Poco distante si posarono a terra anche i tre mezzi ausiliari di Alcor, Venusia e Maria, che avevano assistito impotenti alla scena.
Sotto gli occhi costernati dei suoi compagni di squadra, Actarus depose Rubina in mezzo ad un prato fiorito, perché nei suoi ultimi istanti lei almeno vedesse erbe, foglie, corolle variopinte, il cielo azzurro.
Con le ultime forze che le rimanevano, la voce ridotta ad un filo, Rubina gli rivelò l’ubicazione di Skarmoon: la faccia nascosta della Luna. Non poteva sopportare l’idea di morire sapendo che lui la credeva una traditrice.
Actarus, la gola stretta, tentò di negare: lei sarebbe sopravvissuta, sarebbe guarita, avrebbero vissuto nuovamente assieme... sarebbero andati su Fleed. Proprio lei, Rubina, gli aveva portato la notizia che il pianeta stava tornando a vivere, dopo il bombardamento massiccio a base di vegatron. Era una sorta di segnale di quel che sarebbe dovuto accadere: loro due sarebbero tornati là... avrebbero...
Rubina scosse il capo, sforzandosi di sorridere: ricordava certi fiori rossi a campana che crescevano su Fleed... lui, Duke, quando fosse tornato sul suo mondo avrebbe potuto dare il suo nome a quei fiori, come ricordo... le si spezzò la voce e tossì, contraendosi negli spasimi dell’agonia, proprio mentre alle loro spalle un’ombra barcollante si faceva strada tra i rottami trascinandosi verso di loro.


Zuril oscillò in avanti, come un ubriaco; troppo perso nel suo dolore, Actarus non se ne accorse, non lo vide, non gli badò nemmeno.
Non gli badò nemmeno Venusia, che vedendo l’uomo che amava stringere tra le braccia quella bellissima principessa morente si era sentita soffocare e si era girata da una parte per nascondere le lacrime che non poteva più trattenere.
Chi lo notò fu invece Alcor, che subito estrasse la pistola puntandola verso quella figura che avanzava zoppicando alle spalle di Actarus. Se solo si fosse fatto ancora avanti, gli avrebbe sparato… se solo…
– Alcor, no! – Maria gli afferrò il polso, trattenendolo – Guarda!
Allibito, Alcor vide Zuril fermarsi alle spalle di Duke Fleed; ma non stava guardando il giovane, e la mano che stringeva la pistola pendeva lungo il suo fianco. L’unico occhio di Zuril era fisso sulla figura riversa di Rubina, e sembrava totalmente incapace di staccarsene.
– Maria, è armato! – sibilò Alcor; ma lei non cedette.
– Non ha sparato, e non sparerà – rispose, decisa.
Come a darle ragione, proprio in quell’istante Zuril aprì le dita, lasciando cadere a terra la sua arma.
Rubina era morta. I suoi ragazzi erano morti. Lui aveva perduto tutto. Combattere, uccidere… che senso aveva, ormai? Era finito. Era tutto finito.
Rimase immobile, in piedi accanto ad Actarus, continuando a guardare la donna che avrebbe dovuto diventare sua moglie, e che ormai era persa per sempre.


- continua -

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view post Posted on 15/5/2012, 20:40     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Actarus e Zuril l'uno di fronte all'altro, finalmente.


9.

S’era aspettato di venire ucciso, più o meno sbrigativamente; con suo grande stupore venne condotto al Centro Spaziale e, debitamente sorvegliato, fu affidato ad un medico che gli curò le ferite. Nel complesso era stato molto fortunato: aveva più che altro lividi e un paio di ustioni, abbastanza estese, molto dolorose ma per nulla gravi.
Non che lui fosse preoccupato: a dire il vero, non gli importava più nulla di niente. Non sentiva più niente. Sperava solo che lo spacciassero in fretta, e che fosse finalmente finita.
Dall’ambulatorio, venne trasferito in una stanza – non una cella. Sembrava più una sala per riunioni: un tavolo, sedie, grandi finestre che davano su una pineta. Oltre, i profili delle montagne. Nonostante l’apatia che l’aveva colto, Zuril rimase incantato a guardare il panorama: per certi versi gli ricordava Zuul, il suo mondo lontano e che non avrebbe mai più rivisto.
Era sempre sorvegliato da un paio di uomini ai lati della porta, ma non era stato legato in alcuna maniera, per cui quando Procton entrò nella stanza, Zuril si voltò e rimase in silenzio, in attesa.
– Vi sentite meglio? – chiese il professore.
Zuril assentì: – È un’usanza terrestre curare i prigionieri?
– Né mio figlio né io potevamo permettere che rimaneste in quelle condizioni – Procton parlava con gran naturalezza, come se l’alieno davanti a lui fosse stato un ospite gradito.
– Spero che non contiate sull’idea di mercanteggiare con Vega la mia liberazione – disse Zuril – Il mio sovrano non è uomo da scendere a patti. Questo, penso che lo sappiate già.
Procton scosse il capo: – Non abbiamo mai pensato di poter ottenere qualcosa in questa maniera.
– Allora, avreste fatto meglio ad uccidermi subito.
Il professore parve sinceramente stupito: – Non abbiamo nessuna intenzione di uccidervi!
Zuril si obbligò a restare perfettamente impassibile: – Davvero?
– Ma certo, noi... oh, ecco Actarus – e il professore si girò verso il giovane apparso sulla porta – Credo che sia meglio che io vada e vi lasci soli.
– Grazie, padre – rispose Duke, gli occhi fissi sull’uomo di Vega.
La porta si chiuse dietro il professore e i due uomini. Actarus depose sul tavolo il casco. Era ancora in tuta da combattimento, aveva il viso pallidissimo e tirato, gli occhi due lame di ghiaccio: – Era proprio necessario uccidere Rubina?
Zuril fece per rispondere, ma gli mancarono le parole. Chinò la testa, sconfitto: – È l’ultima cosa che avrei voluto.
Il principe di Fleed ammutolì.
Se il suo rivale avesse gridato, se avesse accampato scuse, se si fosse giustificato in qualsiasi maniera, Actarus non avrebbe provato altro che odio e disprezzo; quella semplice, amara ammissione lo colpì. Non era necessario essere sensitivi per percepire il dolore dell’altro: era autentico, vibrante e sconfinato, proprio come il dolore che lui stesso stava provando.
No, meglio non parlare più di Rubina, almeno per il momento.
Actarus prese una sedia e fece segno a Zuril di fare altrettanto. Per qualche istante, cadde tra loro un silenzio piuttosto teso.
– Il tuo sovrano è sempre dell’idea di continuare a combattere? – cominciò Actarus, brusco.
– Re Vega non è uomo da arrendersi.
– Ormai dovrebbe aver capito anche lui che questa guerra è una follia! – esplose il giovane, balzando in piedi e camminando in su e in giù per la stanza – Il vostro popolo non ha subito abbastanza perdite?
– Re Vega ha perso sua figlia – osservò Zuril.
Actarus si voltò di scatto: – Oh, certo, Re Vega ha perso sua figlia. Lo so bene. C’ero anch’io.
Il volto di Zuril parve raggelarsi: – C’eravamo entrambi.
– Non ho dimenticato – esclamò il giovane – Non ho dimenticato Rubina… come non ho dimenticato mia madre, mio padre, la mia famiglia, il mio popolo, tutta la gente morta a causa della follia del vostro sovrano! Non ho dimenticato nessuno!
Zuril tacque, in attesa che quello scoppio emotivo si calmasse.
Actarus respirò profondamente, quasi stesse facendo fatica; recuperato il controllo su di sé, riprese con voce secca: – E ora tu vieni a dire a me che anche Re Vega ha avuto una perdita!
– Una grave perdita – mormorò Zuril.
Rubina, pensò Actarus.
– Tutti noi abbiamo avuto lutti tra le persone che ci erano care – continuò Zuril.
– Scusa se non mi commuovo!
– Ho perso due figli, in questa guerra – e la donna che amavo e che avrei dovuto sposare. Ma questo non te lo dirò nemmeno sotto tortura.
– …Due…? – Actarus si voltò a guardarlo – Ho conosciuto Fritz…
Una fitta al petto: – Mi fa piacere che ti ricordi di lui.
Actarus tacque, improvvisamente imbarazzato. Non amava ripensare al combattimento con Fritz: non avrebbe voluto essere stato costretto ad uccidere quel ragazzo e aveva tentato di impedirgli di combattere, ma non c’era stato verso di convincerlo. Il ricordo era un tormento... uno dei tanti che l’accompagnava in ogni istante.
Si voltò verso Zuril, aprì la bocca ma le parole gli morirono sulle labbra: cos’avrebbe potuto dire a quel padre cui aveva ucciso il figlio? – Fritz era… un ragazzo coraggioso. Io… – la voce gli si spezzò.
Stranamente, fu proprio Zuril ad allentare la tensione: – Non ti serbo rancore, Duke Fleed. Tu e mio figlio eravate in guerra. Non potevate fare diversamente.
Sbalordito, il giovane guardò con stupore quel padre che gli stava parlando con tanta calma.
– Sono veghiano – gli ricordò Zuril in tono ragionevole. – Siamo un popolo di guerrieri. Capiamo certe cose.
Actarus annuì, rimanendo in silenzio; poi un pensiero molesto s’insinuò in lui: – Hai parlato di due figli.
– Oh, sì. Sì – Zuril voltò da una parte il viso – Kein.
Kein...? Ma... vuoi dire... Quel Kein?
Zuril assentì, il viso impassibile: – Era uno schiavo, ma è come se l’avessi adottato. Per Fritz era un fratello... di fatto, sì, posso dire che è stato mio figlio.
Actarus assentì: – Questo spiega molte cose.
– Non ho mai potuto sapere come sia morto – continuò Zuril, la voce perfettamente controllata – L’hai ucciso tu?
– No. Lui... ha abbattuto la Trivella Spaziale. Aveva tentato di... eliminare mia sorella che era ai comandi, ma l’ha riconosciuta: da bambini erano inseparabili, giocavano sempre assieme. Allora si è sparato.
– Kein... suicidato?
– Adesso che mi dici che l’avevi accolto come un figlio, capisco il suo gesto. Provava vergogna. Dev’essersi sentito un traditore.
– Probabile – Zuril si strinse le braccia attorno al corpo e rimase in silenzio, perfettamente immobile; Actarus fece per continuare, percepì il momentaneo cedimento dell’altro e attese che si riprendesse. Guardò le montagne senza vederle, mentre una gran stanchezza calava su di lui: Kein... Rubina... Fritz.
Sentì un lieve movimento dietro di sé: Zuril si era drizzato nella persona, pronto a riprendere il dialogo. Actarus tornò a sedersi davanti a lui.
– Hai sentito mio padre – disse il giovane – Non ti ha detto una bugia: è vero, io non voglio ucciderti.
– Perché? – chiese Zuril, nascondendo la sua incredulità dietro la consueta maschera imperturbabile.
– Sarebbe assurdo farlo. Tu vuoi la fine di questa guerra quanto me: possiamo trovare un accordo.
– Cosa ti fa pensare di poterti fidare di me? In fondo, fino a poche ore fa ci siamo battuti l’uno contro l’altro.
Actarus piantò gli occhi in quello di Zuril; impassibile, il ministro sostenne quello sguardo azzurro. S’era aspettato una sorta di prova di forza; ma con suo grande stupore, il ministro di Vega non percepì ostilità nel principe di Fleed, solo una muta domanda – posso avere fiducia in te?
, fu la spontanea risposta di Zuril; e immediatamente, ogni tensione cadde tra di loro. In qualche modo si erano incontrati, e si erano compresi.
Dopo anni di guerra spietata, un uomo di Fleed e uno di Vega avevano trovato finalmente un punto d’intesa.
Actarus rimase un attimo in silenzio, cercando le parole più adatte; poi decise impulsivamente di lasciar perdere i preamboli. Zuril era un uomo lucido e razionale, con lui era meglio essere diretti ed espliciti.
– So dove si trova la vostra base. Cosa m’impedisce di venire a distruggerla?
– Sarebbe la tua fine – rispose Zuril, col tono di chi fa un’osservazione ovvia – I nostri sistemi difensivi sono piuttosto validi.
– Probabilmente hai ragione, io morirei – ammise Actarus, perfettamente calmo – Però, se dovessi scagliarvi contro Goldrake distruggerei la vostra base. Moriremmo tutti, Zuril. Pensi che tutto questo abbia senso?
Zuril drizzò la testa e guardò meglio il giovane che aveva davanti: non era certo un ragazzo, era un uomo. Un uomo capace di fare esattamente quello che aveva detto.
Se fino ad allora l’aveva ascoltato perché non aveva altro da fare, stavolta in Zuril s’accese una scintilla di vero interesse: – Cos’hai in mente, Duke Fleed?
Actarus glielo disse.


Finalmente, il giovane di Fleed e l’uomo di Vega parlarono: altre volte avevano comunicato, ma mai senza intendersi veramente, come successe allora. Actarus espose le sue idee, parlando con un fervore che parve trasmettersi anche a Zuril, che dapprima si limitò ad ascoltare, poi, quasi con timidezza, fece qualche osservazione e infine prese a discutere animatamente. Si ritrovarono a parlare di mondi inquinati, di decontaminazione, purificazione delle acque, arricchimento del terreno. Actarus, più giovane ed entusiasta, azzardava ipotesi che Zuril più maturo e riflessivo, vagliava attentamente, esponendo le difficoltà tecniche e proponendo a sua volta delle soluzioni.
Continuarono a parlare per un pomeriggio intero, discussero ogni possibilità, valutando pro e contro di qualunque soluzione: non erano più due nemici che mercanteggiano la pace, erano divenuti due compagni di squadra che lavorano insieme per un obiettivo comune.
Alla fine tacquero, stremati dalla lunga discussione ma allo stesso tempo soddisfatti del risultato ottenuto; ed entrambi avevano ormai un gran rispetto l’uno dell’altro.


Restava un unico problema: come avrebbe fatto Zuril a tornare su Skarmoon? Actarus non poteva certo accompagnarlo con Goldrake – a meno di non voler scatenare un attacco disperato, il che non era precisamente quello che il giovane desiderasse. Con i mezzi del laboratorio, non avrebbero potuto contattare la base di Vega: il lato nascosto della Luna era fuori portata dei loro strumenti. E allora...?
– Semplice – disse Zuril – Basterà collegare il mio computer oculare al vostro sistema, e potrete comunicare con Skarmoon.
Pur con qualche perplessità, Actarus andò a bussare alla porta dello studio privato del padre.
Procton si mostrò irremovibile: – È troppo rischioso. Invece di contattare la base, Zuril potrebbe danneggiare irreparabilmente il nostro sistema. No.
– Non credo che lo farebbe – obiettò Actarus – Padre, anche lui vuole che questa guerra finisca. Non ci danneggerà, ne sono sicuro.
Procton lo guardò con stupore: – Actarus, fino a poco fa lo consideravi un nemico mortale; adesso, ti comporti come se fosse un alleato. Che cosa ti ha fatto cambiare idea a questo punto?
– Intuito femminile...? – il giovane si strinse nelle spalle: – Non so che dirti, padre. Però io gli credo.
Il professore scosse ancora il capo. Non aveva le certezze di suo figlio, lui, aveva solo l’esperienza di anni e anni di guerra; e quest’esperienza gli diceva di non fidarsi completamente di un veghiano. C’erano troppe cose in gioco, troppi rischi, troppa responsabilità...
Un bussare frenetico alla porta del suo ufficio lo riscosse dai suoi pensieri.
– Professore! – gridò la voce concitata di Yamada (Yamada! Concitato! Proprio lui, sempre calmo e impassibile!).
Procton spalancò la porta: – Che succede?
– Una comunicazione dalla base di Vega! – dietro le lenti rettangolari, gli occhi di Yamada sembravano schizzare dalle orbite – Una certa lady Gandal vuole parlare con voi!
Sullo schermo, il viso biancastro della moglie di Gandal appariva impassibile come sempre, ma la voce profonda, da contralto, tradiva un certo nervosismo: – Professore, sono la moglie del comandante Gandal. Sono qui per parlare di pace.
Actarus e Procton si scambiarono un’occhiata; lady Gandal sembrò restare in sospeso, tesissima. Per comunicare impunemente con la Terra, aveva dovuto mettere fuori combattimento Gandal usando un neutralizzatore neurale. Mai suo marito le avrebbe permesso di parlamentare per la pace, mai... l’avrebbe uccisa, piuttosto. Praticamente, con quel colloquio lei stava giocandosi la sua unica possibilità di sopravvivenza.
– È strano che dopo tanto tempo voi veghiani desideriate la pace – osservò Procton, guardingo.
– Molti di noi la desiderano – rispose la donna – Purtroppo, chi ci comanda non ascolta la voce di chi vuol terminare questa guerra. Sono successe troppe cose, professore.
– Da quando in qua il popolo di Vega vuole la pace? – esclamò Actarus, che non poteva più tacere – Se questa guerra è cominciata, non è certo perché il vostro è un popolo pacifico!
Un’ombra passò sul viso di lady Gandal: – Questo è vero, ma abbiamo subito anche noi molte perdite, Duke Fleed: gran parte del nostro popolo, il nostro stesso mondo... adesso, anche la principessa ereditaria e il nostro Ministro delle Scienze... alcuni di noi, pochi, intendono morire combattendo, ma tanti altri vogliono vivere, in pace.
Actarus guardò lady Gandal quasi valutandola; poi disse, lentamente: – Non avete perso il vostro Ministro delle Scienze; è vivo, ed è qui con noi.
Lady Gandal sembrò trattenere il fiato: – Pensate di proporci uno scambio?
– Il ministro Zuril non è prigioniero – tagliò corto Actarus, prendendo a spiegare rapidamente quanto avvenuto tra lui e lo scienziato. Allibita, lady Gandal lo ascoltava in silenzio: aveva affrontato quel colloquio aspettandosi ostilità ed insulti, e trovava invece la strada spianata. Aveva sfondato una porta spalancata, insomma.
– Tu... intendi lasciar tornare Zuril su Skarmoon – ripeté infine lei, che non era certa d’aver capito bene – Perché fai una cosa simile?
– Perché anch’io voglio che questa guerra finisca! – esclamò il giovane – Perché non voglio distruggervi! Perché ci sono stati fin troppi morti! Perché è ora che smettiamo di combattere e cominciamo finalmente a vivere! È una risposta sufficiente?
Lentamente, lady Gandal assentì: – Io... farò quanto in mio potere per appoggiare Zuril. Hai la mia parola, Duke Fleed.
– Puoi cominciare mandando un disco che venga a prenderlo – Actarus percepì un movimento alle sue spalle e si girò: Zuril era sulla porta, incerto se farsi avanti o meno. – Ecco, come puoi vedere Zuril è vivo e sta bene. Avrei potuto ucciderlo. Potrei venire a distruggere la vostra base, e nessuno di voi sopravvivrebbe. Potrei; ma non voglio farlo. Lo capisci, questo?
– Certo – lady Gandal lo guardò dritto negli occhi: – Dimmi come e quando vuoi che io mandi a prendere Zuril.

- continua -

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