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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 18/5/2012, 16:23     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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E dopo aver affrontato Actarus, Zuril se la vede con re Vega...

10.

Le porte si aprirono; attraverso l’enorme vetrata a tutta parete, davanti a lui l’universo risplendeva in miriadi di gocce scintillanti.
Seduto sul suo trono, immobile, Re Vega fissava senza vederli gli innumerevoli puntolini luminosi; davanti all’immensità dello spazio, il gigantesco sovrano perdeva molta della sua imponenza.
Zuril si fece avanti: – Maestà…
Re Vega non rispose, non si mosse, non diede nemmeno segno d’aver percepito la sua presenza.
Zuril andò a porsi di fianco al sire: appariva grigiastro, i lineamenti tirati, gli occhi innaturalmente fissi. Tutta una vita sembrava essergli piombata addosso. Malgrado non provasse certo affetto per il suo re, Zuril sentì un brivido gelido scorrergli giù per la colonna vertebrale.
– A cos’è servito? – la voce di Re Vega era poco più che un soffio.
– Mio signore…?
– Anni di guerre, di sogni, di conquiste… popoli sconfitti, sterminati, ridotti in schiavitù… e per cosa? – Re Vega parlava senza quasi muovere le labbra, la voce ridotta un sussurro. – Cos’abbiamo ottenuto? Il nostro pianeta è distrutto. Il nostro popolo non esiste più… e ora… – un singhiozzo gli troncò la voce – Ora, questo.
Zuril voltò il viso da un’altra parte.
– Rubina – disse Re Vega, e la parola uscì a gran fatica dalle sue labbra – Mia figlia… è morta.
Zuril strinse le labbra e assentì. Sì.
– E io ho combattuto, conquistato pianeti, distrutto nemici, rovesciato sovrani… per questo? Per rinforzare un impero che non potrò lasciare a nessuno, ora che mia figlia non c’è più? – Re Vega strinse i braccioli del trono fino a scheggiarsi le unghie contro il metallo.
Voltato da una parte, Zuril fu lieto che il suo sovrano non potesse vederlo in viso.
Ho perso anch’io mio figlio, Maestà. E ho perso Kein, che è come fosse stato anche lui figlio mio. E Rubina… me l’avevate offerta come un premio, ma io l’amavo. L’amavo. Ed è morta.
Zuril respinse dentro di sé quelle parole che gli bruciavano ma che non avrebbe mai e poi mai detto al suo sovrano. Provò un subitaneo moto di collera nei confronti di Re Vega – ma perché, poi? Possibile che lui, il logico e razionale Ministro delle Scienze, fosse colto da un insensato attacco d’ira?
Si sforzò di calmarsi, di riacquistare la consueta lucidità.
Non sei in te, sei sconvolto, registrò quella parte di lui che rimaneva fredda anche durante le peggiori tempeste. Quella parte capace sempre, in qualsiasi momento, di analizzare qualunque situazione… anche quando aveva rischiato la vita, anche quando era stato sul punto di morire, sempre aveva risuonato in lui quella voce ragionevole che l’aveva riportato ogni volta alla calma, all’obiettività.
Zuril inspirò, s’impose di restare freddo. Un tumulto di sentimenti non era mai servito a nulla, solo a crear danni.
– Avete un popolo, sire – disse, la voce perfettamente controllata.
Re Vega scosse il capo: – Il mio popolo è distrutto. L’ho abbandonato su Vega, a morire.
Un’altra ondata gelida di collera… ma non era certo quello il momento di rinvangare il passato, di colpevolizzare per le scelte non condivise.
– Maestà, in quell’occasione avete preso la decisione che vi era parsa più giusta – disse, un po’ troppo in fretta. – Adesso dovete pensare al popolo che vi resta, e che ancora ha bisogno di voi.
– Tutto quel che rimane di Vega è in questa base – Re Vega crollò il capo – Ho avuto le notizie dalle nostre colonie: rivoluzioni, sommosse dovunque. Il nostro Impero… ho perduto l’Impero, Zuril!
– Volete perdere anche quel che rimane del popolo di Vega? – esplose Zuril, riprendendosi subito. Alzare la voce non sarebbe servito a nulla, Re Vega sembrava rattrappirsi sempre di più su sé stesso.
Il sire ricadde contro lo schienale del trono e chiuse gli occhi: – Abbiamo perso la guerra.
Il ministro rimase in silenzio qualche minuto. Meglio, lo capiva perfettamente, meglio che il sovrano prendesse coscienza di quello che finalmente aveva avuto il coraggio di dire: la guerra era completamente, irrimediabilmente perduta.
– Ordinerò un attacco – la voce di Re Vega risuonava stanca, remota. – Sarà l’ultimo, e che sia finita.
– Ci sono alternative, alla morte – disse subito Zuril.
– Quali? Continuare a restare su questa base? – Re Vega scosse lentamente il capo – Non è vivere.
– No – ammise Zuril.
– Poi, Duke Fleed ci cercherà per distruggerci. Preferisco essere io ad attaccarlo, piuttosto che aspettare che venga a sterminarci tutti.
Zuril scosse il capo: – Non intende farlo.
Per la prima volta in quel dialogo, Re Vega si voltò a guardare in viso il suo ministro.
– Ho parlato con Duke Fleed – continuò Zuril. – Anche lui vuole finire questa guerra.
Il sovrano strinse gli occhi: – Come lo sai?
– Quando la mia nave è precipitata sulla Terra, sono stato catturato – disse Zuril, conscio d’aver intrapreso una strada senza ritorno – Credevo mi avrebbero ucciso; invece, Duke Fleed ha voluto parlarmi. È un uomo ragionevole. I suoi compagni avrebbero voluto eliminarmi, ma lui ha preferito lasciarmi libero.
– Sembra che tu lo ammiri.
– È un avversario leale – rispose con semplicità Zuril. – Abbiamo discusso della situazione; io sono qui per portarvi la sua proposta.
– Ti sei messo d’accordo con lui! – scattò il sovrano.
– Non sono un traditore! – esclamò con forza Zuril. – Se lo fossi, mi sarei accordato in segreto con Duke Fleed, e non sarei certo venuto qui, a rischiare la vita, per parlarvene! Io sto solo cercando di salvare quel poco che ci è rimasto.
– Oh – nonostante la grande stanchezza che ne falsava il tono, nella voce del sovrano risuonò una nota sarcastica – E cosa ci propone, questo nostro nemico così leale? Cosa vuole? La mia testa, la mia corona o tutte e due le cose?
– Vuole la pace – tagliò corto Zuril.
– La pace! – con un ampio gesto sprezzante della mano, Re Vega sembrò liquidare quella parola.
– Era ciò che voleva anche la principessa Rubina – aggiunse Zuril, che si era tenuto in serbo quella stilettata velenosa – L’ha voluto fino alla fine. È morta per questo.
Re Vega parve impietrirsi: – E… poi…?
– Troncheremo subito qualsiasi ostilità, e firmeremo un trattato – continuò Zuril.
– Poi?
– Duke Fleed ha saputo che il suo mondo non è più contaminato dalle radiazioni, ed intende tornarvi, in modo da raccogliere tutti i superstiti del suo popolo.
– Noi dovremo restare a marcire in questa base, suppongo.
– No. C’è quel piccolo pianeta, Moru. Non è sopravvissuto nessuno di quel popolo, e le radiazioni sono praticamente scomparse. Noi potremo trasferirci là.
– Nient’altro?
– I prigionieri. Li vuole tutti, tutti quelli ancora in vita, di qualunque razza siano. Intende portarli su Fleed per ripopolarlo.
– E noi? – chiese il sovrano.
– Staremo su Moru. Liberi.
Re Vega ebbe un gesto di stupore: – Anch’io?
Zuril assentì: – È quel che avrebbe voluto vostra figlia. Duke Fleed ha detto che se accetterete la pace non agirà contro di voi per amore di Rubina.
Il sovrano ricadde contro lo schienale.
Liberi… erano rimasti in pochi, qualche centinaio di superstiti di quello che era stato il più formidabile popolo guerriero della galassia. Sconfitti, battuti da un uomo che era poco più di un ragazzo…
Riaprì gli occhi, li fissò sul ministro, rimasto in silenzio accanto a lui: – Tu, credi che manterrà quel che ha promesso?
– Sì – rispose Zuril, senza esitazione.
Re Vega non rispose, e già il fatto che non avesse respinto con rabbia l’ipotesi della pace per Zuril fu un ottimo segno.
– La pace – ripeté il sire. Quella parola sembrava convincerlo poco. – Mia figlia non parlava d’altro.
Cadde un silenzio pesante. Per Re Vega, pace era sempre stato sinonimo di debolezza, di poco carattere. Che onore c’è nel trovare un accordo, quando si potrebbe imporre la propria volontà all’altro?
Ma non era stato possibile imporsi a Duke Fleed. Ci sarebbe stato ben poco onore anche nel venire sconfitti…
Re Vega tornò a guardare Zuril, una muta domanda nello sguardo.
– Maestà, la nostra gente è stanca – disse Zuril, in tono quasi di scusa. – Abbiamo sopportato anni e anni di guerra, di privazioni, di disagi. Il nostro popolo è stato più che decimato, non c’è nessuno di noi che non abbia subito lutti e perdite. Stiamo risparmiando l’energia, stiamo esaurendo le materie prime; ogni nuovo attacco per noi è un costo sempre più insostenibile. La gente, i nostri stessi soldati… non ne possono più.
Re Vega tornò ad allungarsi contro lo schienale, gli occhi chiusi: – Un assalto, e tutto sarebbe finito.
Zuril serrò le mascelle. Sapeva che stava per giocarsi il tutto per tutto, ma non aveva altra scelta: – Maestà, il nostro popolo è esasperato da questa guerra. Credete davvero che la gente accetterebbe un attacco suicida quando c’è la possibilità di sopravvivere?
Gli occhi di Re Vega scintillarono, e per un attimo Zuril ebbe di nuovo davanti a sé lo stesso sovrano che aveva ordinato guerre, stragi, stermini; un sovrano che non avrebbe avuto nessuna esitazione nel comandare la distruzione totale del proprio popolo.
Ma fu appunto un attimo.
Il bagliore metallico si spense, lo sguardo tornò remoto, nebbioso. L’antico Re Vega era definitivamente scomparso, sostituito da un uomo ormai insicuro, incapace di decidere: – Io... devo parlarne con gli altri. Convoca il consiglio al completo.


L’Alto Consiglio di Vega non era mai stato composto da molti membri; quella riunione però fu ancora più scarna del consueto, visto che attorno al tavolo di riunione erano presenti solo il sovrano, Zuril, Gandal ed Hydargos. Tutti gli altri erano morti da tempo.
In genere, le riunioni avevano tutte un’impronta molto simile, visto che il Consiglio aveva solo il compito di consigliare, appunto: la decisione finale era sempre e solo di Re Vega.
Generalmente, il sire, che aveva sempre idee molto chiare su qualunque argomento, esponeva il suo punto di vista, ascoltava le opinioni altrui, tagliando corto quando udiva pareri che non lo soddisfacevano, e infine decideva per conto proprio.
Quella volta, fu evidente da subito che si sarebbe trattato di una riunione totalmente diversa: da subito, Re Vega, con una voce esitante quasi irriconoscibile, passò la parola a Zuril perché esponesse la proposta di Duke Fleed.

- continua -

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view post Posted on 21/5/2012, 18:31     +1   -1
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Continuiamo a stravolgere completamente gli eventi...

11.

– Questo è tradimento! – urlò Gandal.
Zuril lo fulminò con lo sguardo: – Io ho parlato con Duke Fleed. Avrei potuto far finta di niente, restare sulla Terra, fuggire; invece sono venuto qui a riferire la sua proposta. Ti sembro un traditore?
– No, certo che no – intervenne subito lady Gandal.
Suo marito non si diede per vinto: – Arrendersi dopo tutti questi anni!
– Non è una resa – puntualizzò Zuril – Duke Fleed ci ha proposto la pace.
Gandal scosse il capo: – Io voto contro. Preferisco morire, che venire a patti con quel... quel...
– Tu sei contrario – tagliò corto Zuril, il viso totalmente inespressivo – Vostra Maestà?
Re Vega fece un cenno con la mano. Contrario anche lui.
– Lady Gandal...?
– Io sono per la pace – rispose subito la donna.
Gandal masticò un insulto, lei lo zittì con energia.
Due voti contro due voti. Restava solo Hydargos, che rimaneva un’incognita: Zuril non aveva assolutamente idea di cosa potesse votare. Un tempo, sicuramente avrebbe preferito morire combattendo contro Duke Fleed, e come Gandal avrebbe trovato disonorevole la pace con la Terra; ora... beh, c’era un solo modo per saperlo.
– Hydargos...? – chiese Zuril, con un tono calmo che non tradiva minimamente la sua tensione.
Il Comandante di Vega si guardò rapidamente attorno, prima di sostenere il suo sguardo: – Sono d’accordo. Pace.
– Pace, allora – disse Zuril, coprendo con la sua voce il mormorio di protesta di Gandal. – Contatterò Duke Fleed, e gli comunicherò la nostra decisione.
– Non è possibile! – sbottò Gandal, che nemmeno la sua energica consorte avrebbe ormai potuto zittire – Mi rifiuto! Venire a patti con quel Duke Fleed...!
– Sua Maestà in persona ci ha detto di votare – osservò Zuril – Abbiamo votato. Tutto regolare.
– No! – Gandal batté il pugno sul tavolo e si girò verso Hydargos, astioso: – Come hai potuto? Tu odiavi Duke Fleed!
– Tuttora lo detesto – fu la risposta che ottenne – Però riconosco che ha praticamente vinto. Ci ha messi in ginocchio. Continuare, significa morire tutti.
– Non ci siamo mai ritirati da una guerra, finora! – urlò Gandal.
– Non abbiamo mai perso il nostro mondo, finora! – rispose Hydargos, secco.
Il Comandante Supremo di Vega vacillò, e Hydargos ne approfittò per continuare il suo attacco. Guerriero nell’anima, non era persona da lasciarsi sfuggire la possibilità di sfruttare un vantaggio.
– Cosa potremmo fare? Attaccare in massa Goldrake? E che garanzie avremmo di riuscire a sconfiggerlo? I nostri mostri sono andati distrutti, abbiamo pochissime materie prime, la nostra gente è ormai sfiduciata, i soldati sono totalmente demoralizzati; in queste condizioni, che fine gloriosa pensi che potremmo fare?
Gandal serrò le mascelle: Hydargos aveva ragione, e lui lo sapeva. Attaccare in massa avrebbe significato solo venire sterminati, non certo avere la garanzia di distruggere il nemico. Però l’idea della pace con Duke Fleed gli era insopportabile.
Si guardò in giro: conosceva fin troppo bene i pensieri di sua moglie, naturalmente, per cui fissò i colleghi, che sostennero il suo sguardo, e poi il suo sovrano; ma questi non volle guardarlo in viso, e chinò la testa.
Re Vega sconfitto, indebolito... e Duke Fleed che aveva vinto ancora una volta. Non poteva essere...
Gandal era trasecolato, incredulo: – Noi... dovremmo... smettere di combattere...?
Zuril assentì: – Il nostro popolo ha sofferto anche troppo.
Gandal si voltò verso il sovrano: – Sire! Non è possibile! Non possiamo ritirarci dal combattimento! Dopo tutti questi anni, i sacrifici, le perdite...
– Appunto! – gli tagliò la parola Zuril, e il suo sguardo d’acciaio parve inchiodare il collega. – Lo dirai tu alla nostra gente che dopo anni di guerra, di dolore, di privazioni... dopo che hanno perso le loro case, le loro famiglie, il loro mondo... che hanno perso tutto... glielo dirai tu che dovranno anche morire? Glielo dirai tu?
Gandal ricadde contro lo schienale della sua sedia, gli occhi bassi. Poi, lentamente, scosse il capo. No.
Zuril alzò il mento e si guardò rapidamente in giro. – Molto bene. Con questo, penso che l’argomento sia chiuso.
Un silenzio pesante piombò tra di loro.
Mentre Re Vega continuava a fissare lo spazio davanti a sé senza vederlo, Gandal dapprima scoccò un’occhiata fulminante ad Hydargos, che lo ripagò in egual moneta; poi cedette il posto alla moglie. Sia Hydargos che Zuril si erano aspettati che lei prendesse la parola; contrariamente al suo solito, la signora tacque, imbarazzata pure lei. Quello doveva evidentemente essere il giorno delle sorprese.
La tensione sembrò aumentare sensibilmente. Mentre il sovrano appariva sempre più remoto, i tre comandanti continuarono a scambiarsi occhiate: era evidente che tutti e tre desideravano che qualcosa venisse ad interrompere quell’odioso silenzio, ed era altrettanto evidente che nessuno di loro sembrava intenzionato a farlo.
Alla fine, fu Zuril a decidersi. Si schiarì la voce, mentre rimetteva a posto davanti a sé il suo scanner, che era già perfettamente allineato con la consolle: – Credo che sarà il caso di dare comunicazione al popolo di quanto è stato deciso.
Un mormorio d’assenso giunse sia da Hydargos che da lady Gandal.
Re Vega non batté ciglio.
Altra occhiata imbarazzata tra i tre comandanti.
– Maestà – mormorò Zuril.
Re Vega parve lentamente riscuotersi.
– Maestà, dovete parlare al popolo – insisté Zuril.
Il sovrano si strinse le braccia attorno al corpo, quasi avesse sentito un brivido lungo la schiena: – No.
– Sire, abbiamo deciso di non combattere più – disse pazientemente Zuril – Il popolo deve essere avvertito. Siete il sovrano, dovete parlare alla vostra gente, dovete dire quali sono le vostre intenzioni.
La voce di Re Vega era poco più che un sussurro: – Non io... tu.
– Maestà...? – disse Zuril, che non era sicuro d’aver capito bene.
Il sovrano parlava a fatica, gli occhi fissi su un punto indefinito: – Io... t’avevo affidato mia figlia. Rubina. Pensavo che avresti regnato tu con lei... Rubina non c’è più – trattenne il fiato, le labbra strette – Tu sai cosa fare. Pensaci tu.
Un silenzio attonito cadde sulla tavola. Il più sbalordito di tutti era Zuril, per una volta il suo viso non era affatto impassibile.
Fu lady Gandal a riprendersi per prima: – Vostra Maestà, state dicendo... sembra che abbiate detto che lasciate decidere a Zuril...
Un colpo secco della mano, e la corona cadde dalla testa di Re Vega, rotolando sul tavolo. Attoniti, tutti rimasero a fissarla, incapaci di staccare gli occhi da quella calotta di metallo.
– È tua, Zuril – mormorò Re Vega, la voce remota – Dovevi sposare Rubina. È tua.
Nessuno, Zuril per primo, ebbe il coraggio di toccare la corona. Stupefatto, il ministro si voltò a guardare Re Vega: – Sire...!
Re Vega scosse il capo, di nuovo perso nelle sue nebbie, e si strinse ancora le braccia attorno al corpo, in un gesto che gli era divenuto abituale: – Rubina è morta.
Tacque, lo sguardo fisso davanti a sé, come fin troppe volte l’avevano ormai visto fare.
Yabarn, il Grande Vega, era scomparso per sempre.


Naida sbarrò gli occhi, si scostò nervosamente una ciocca di capelli dal viso: – ...Pace...?
– La guerra è finita – assentì Hydargos.
Senza fiato, Naida gli gettò le braccia al collo e rimase contro di lui, assorbendo lentamente la notizia; a sua volta, Hydargos la strinse a sé, muto, fosco, pieno d’interrogativi per il futuro.
– Continueremo a vivere in questa base? – chiese Naida. Evidentemente, avevano entrambi gli stessi pensieri.
– Zuril dice che ci trasferiremo su Moru. Pare che le radiazioni siano calate; comunque, potremo sempre decontaminarlo.
– Potremo vivere...!
– Certo – ma tu, continuerai a voler vivere con me? O preferirai tornare dal tuo popolo?
Naida si sciolse dalle sue braccia, si scostò, si aggiustò i capelli.
E io, pensò ancora lui guardandola di sottecchi, io, potrei impedirti di andartene?


Ancora non poteva crederci.
La guerra finita... Re Vega messo in disparte... Zuril nuovo sovrano... la pace con la Terra... pace! Non era possibile.
Furioso, incredulo, Gandal pretese di essere lui a dare la comunicazione ufficiale di quanto era avvenuto: voleva essere lui a informare la folla, lui ad infiammarne la reazione, lui a guidare i veghiani in modo da ristabilire lo status quo. Lui, l’ultimo fedele rimasto a Yabarn, il vero Re di Vega.
Ora, in piedi davanti al grande schermo, Gandal sapeva che era giunto il suo momento; poco più in là, Zuril attendeva che fosse dato l’annuncio per poi parlare a sua volta alla folla... il suo primo discorso da sovrano, figuriamoci!
Controllò rapidamente d’essere collegato con l’intera base, quindi prese a parlare.
Quello di Zuril sarebbe stato il regno più rapido della storia di Vega.


Sentiva ancora sua moglie ridere.
Chiuso in sé stesso, totalmente sconvolto, Gandal era incapace di distogliersi dal pensiero di quanto era appena accaduto.
Non poteva crederci... il suo annuncio circa la fine della guerra, invece di scatenare rabbia ed indignazione era stato accolto da urli e battimani. L’abdicazione di Re Vega aveva scatenato autentiche scene di gioia isterica, costringendolo ad interrompere il suo annuncio in attesa che la folla si calmasse. Il nome del nuovo sovrano era stato accolto da un boato di gioia.
A quel punto Zuril si era fatto avanti mentre lui, annientato, si era messo in disparte.
Il discorso del nuovo re di Vega era stato rapido e semplice: dopo aver riassunto brevemente la situazione, glissando sulle enormi responsabilità del suo predecessore, Zuril aveva annunciato la decisione di porre fine delle ostilità – e qui aveva dovuto tacere, in modo da permettere alla gente di manifestare tutto il suo giubilo.
Nessun veghiano sarebbe più stato falciato da Goldrake, nessuno sarebbe più stato costretto ad andare in guerra contro Duke Fleed e la sua macchina mortale. Non avrebbe potuto esistere notizia migliore, per i pochi superstiti di quello che un tempo era stato il popolo più bellicoso della galassia.
Ripresa la parola, Zuril aveva prospettato la possibilità di un trasferimento di massa su Moru, spiegando le difficoltà cui si sarebbe andati incontro, ma sottolineando il fatto che non avrebbero più dovuto vivere al chiuso di una base.
Era seguita un’autentica ovazione.
Gandal era un uomo forte, poco incline a lasciarsi andare: ma vedere la fine di tutto, vedersi crollare addosso il suo universo personale, era stato davvero troppo. Scomparso il popolo guerriero di Vega, sfumata la possibilità di una fine gloriosa piuttosto che cedere al compromesso, finito anche il regno di Yabarn, ultimo Grande Vega, cosa restava?
Niente...
Rimase inerte, in silenzio, cedendo completamente il controllo a sua moglie, che con l’efficienza che le era propria stava invece dandosi da fare per organizzare l’evacuazione di Skarmoon.
Se la vita non era più attacco e conquista, ma solo colonizzazione e pacifica convivenza, bene: lui non aveva più motivi per vivere.
Non in quel mondo nuovo ed estraneo con cui non voleva più aver nulla a che fare.


Le porte scivolarono chiudendosi alle sue spalle, e lui le bloccò in modo che nessuno potesse entrare; poi spense il comunicatore. Aveva bisogno assoluto di solitudine e silenzio, per poter raccogliere meglio le idee.
Era ancora incredulo per quanto era accaduto. In pochissimo tempo, la situazione disperata in cui si erano trovati si era completamente rovesciata: invece di morte certa, il popolo di Vega aveva di fronte a sé un futuro difficilissimo, ma sicuro.
Sono re, dovette ripetersi Zuril, e la parola suonò strana alla sua stessa mente. Sovrano! Lui!
Sentì l’enormità del compito che l’attendeva. La gente gli si era affidata urlandogli tutta la sua disperazione, praticamente Vega si era aggrappata a lui come all’unica possibilità di salvezza; il peso di quella responsabilità ora gli gravava sulle spalle, togliendogli il fiato.
Era il re. Non vide il potere, la gloria, i privilegi, i vantaggi: sentì pesargli addosso responsabilità e doveri. Quel popolo disperato e sconfitto si era affidato a lui: non avrebbe mai potuto deluderlo.
In quel momento, le sue responsabilità come Ministro delle Scienze gli parvero ben poca cosa di fronte all’enormità che l’attendeva: un compito immane, che avrebbe dovuto portare a termine da solo. Nessuno avrebbe potuto alleviargli quel peso.
Improvvisamente si sentì solo, solo come non era mai stato: nemmeno la perdita della sua adorata moglie, nemmeno la morte dei suoi figli avevano lasciato in lui un simile senso di vuoto. Si prese la testa tra le mani e crollò a sedere sul suo letto, totalmente in preda allo sconforto.
Nella nebbia che aveva improvvisamente offuscato il suo sguardo (Lacrime? Possibile?), intravide il ritratto di Shaya che teneva sempre nella propria camera. L’afferrò, guardando per l’ennesima volta quei lineamenti di cui ormai conosceva ogni più minuscolo particolare.
Se solo tu fossi ancora con me, pensò mentre un singhiozzo violento gli squassava il petto spezzandogli il respiro, se solo tu potessi aiutarmi a portare questo peso...!
Ma Shaya non c’era più, e lui era rimasto completamente solo.

- continua -

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Per la serie "abbiamo fiducia..."^^ E arriva finalmente anche Venusia.


12.

L’insediamento di Zuril quale nuovo sovrano avvenne in sordina e senza incidenti. Poco amante delle cerimonie, oltretutto fuori luogo in un simile momento d’emergenza, l’interessato si era limitato a dare un breve annuncio e comportarsi come se fosse stato da sempre un re, apparendo in pubblico con la corona in testa, e la popolazione, che ormai lo considerava colui che li avrebbe salvati dall’essere falcidiati da Goldrake, l’aveva acclamato gridando tutto il suo entusiasmo. Nessuno sembrò rimpiangere il vecchio sovrano, che ormai viveva ritirato nelle sue stanze, o il comandante Gandal, scomparso per sempre. Ed era stato tutto.
La prima cosa che Zuril aveva fatto era stato contattare nuovamente Actarus per annunciargli l’avvenuto cambiamento al vertice. Il sollievo del giovane era stato evidente: dover trattare con Zuril piuttosto che con Re Vega era di per sé una garanzia. Allo stesso tempo, il nuovo rango di Zuril era anche un ostacolo, visto che Actarus aveva sperato che loro due avrebbero potuto incontrarsi sulla Terra per discutere della pace. Come sovrano, Zuril avrebbe potuto lasciare il suo popolo per qualche giorno?


Lady Gandal guardò Zuril, combattuta tra collera ed ammirazione: – Non pensi d’aver esagerato?
– Non avevo altra scelta – spiegò lui, chiudendo il suo computer su cui aveva lavorato fino a poco prima – Duke Fleed si fida di me. Ecco tutto. Parto, vado da Duke Fleed, resto ospite da lui qualche giorno e tratto con lui la pace.
– Molto logico – rispose lei, un po’ aspra – Cosa ti fa pensare che in tua assenza qualcun altro non prenderà il potere sacrificando il nostro valoroso nuovo sovrano…?
– E cosa ti fa pensare che il vostro valoroso nuovo sovrano non abbia inserito nel computer centrale di Skarmoon un virus che infetterà irrimediabilmente tutto il sistema se non verrà disattivato diciamo entro un paio di settimane? Tutto il sistema inservibile. Pensaci.
Il sorriso le gelò sulle labbra: – Stai scherzando…!
– Se ti fa piacere crederlo… – Zuril infilò il computer nella sua custodia, sistemandolo con cura.
– Zuril, non puoi aver fatto una cosa simile!
– Di che ti preoccupi? Quando tornerò su Skarmoon, eliminerò io stesso il virus… a meno che nel frattempo tu non abbia trovato qualcuno in grado di farlo.
– Sai benissimo che oltre te nessuno potrebbe… ma, Zuril, non è possibile che tu l’abbia fatto! – improvvisamente lady Gandal si rasserenò – Hai scherzato! Non puoi aver creato un virus ed averlo inserito in quel poco tempo che…
– Forse il virus era già pronto – rispose dolcemente Zuril – Immetterlo sulla rete principale può essere affare di pochi secondi.
– No. Non ci credo. Non ci voglio credere.
– Perdonami, lady Gandal, ma voglio essere sicuro di poter far ritorno su Skarmoon. Puoi far ricercare il virus, naturalmente…
– O potrei costringerti a neutralizzarlo – scattò lei, la voce sorda.
– Libera di provarci – Zuril si mise a tracolla la custodia del computer: – Allora? Mi fai torturare o posso partire per la Terra?
Lady Gandal serrò i pugni: – Devi partire, naturalmente.
– Molto bene. Dai tu l’annuncio alla base? Io vado a prepararmi il bagaglio – si avviò verso l’uscita, fermandosi sulla porta: – Se fossi in te, io non parlerei del virus. Hydargos potrebbe pensare che l’ho inserito proprio sotto al tuo naso, e potrebbe prendersela con te.
Ancora una volta, lady Gandal non capì se era più in collera o più ammirata: – Che bastardo sei, Zuril.
Non era certo il modo adeguato per rivolgersi al proprio sovrano, ma lui non parve dar peso alla cosa, e anzi le sorrise: – Sarà il nostro segreto. – e uscì.


– Zuril? Qui? – Venusia era trasecolata – Vuoi dire che verrà a vivere qui… alla fattoria? Con noi? Ma non è possibile!
– Invece sarà proprio così – rispose Actarus – Viene a trattare la pace, e viene a farlo in segreto. Non possiamo ospitarlo al laboratorio, c’è sempre via vai di militari e giornalisti. Pensa se si sapesse che il capo dei veghiani si trova da noi, al centro! Interverrebbero le forze armate, pretenderebbero di prenderlo prigioniero, e io gli ho dato la mia parola che sarà trattato come un ospite. Non posso permetterlo. Dobbiamo tenerlo in un posto dove non possa essere visto; qui alla fattoria sarà al sicuro.
– Non avresti dovuto accettare! – Venusia si guardò attorno nella cucina, quasi a chiamare pentole ed elettrodomestici a testimone di quanto stava accadendo – Non possiamo vivere con… con un… alieno!
Io sono un alieno – sorrise Actarus – e vivo qui da diversi anni, ormai.
Venusia scosse il capo: – Non è la stessa cosa! Lui è un… un veghiano. Sai benissimo cosa voglio dire – insisté, seguendolo mentre lui si avviava verso la porta – Sono anni che li combattiamo, sono crudeli, infidi… Non puoi portarmi in casa uno di loro! Pensa a Mizar, a papà…
– Mi fido di Zuril – rispose semplicemente Actarus – Penso che potremmo dargli la camera degli ospiti. Non è grande, ma è comoda.
Tu ti fidi di Zuril, ma io no! Non vorrai lasciarci soli con lui!
– Finchè resterà alla fattoria, rimarremo anche Alcor, Maria ed io. Non resterete soli.
– Beh, io non intendo avere per casa un veghiano! – sbottò Venusia, esasperata, seguendolo in cortile.
Actarus, che stava per sparire nel garage a prendere la jeep, si fermò e finalmente guardò Venusia, mettendole le mani sulle spalle e parlandole con estrema gentilezza: – Non devi essere preoccupata. Ti assicuro che non c’è nessun pericolo, né per te, né per tuo padre o Mizar.
– Ho paura – mormorò lei, evitando di guardarlo.
– Ti capisco. Sono anni che combattiamo con loro; questa soluzione non piace neanche a me, ma purtroppo non ne esistono altre. Non vorrai che portiamo Zuril… dove? In casa di qualcun altro?
– È vero – ammise infine lei, riluttante.
– Brava – Actarus le sfiorò la guancia con una rapida carezza, prima di scomparire nel garage.
Venusia si riscosse, lo seguì di corsa: – Ma dove stai andando?
Actarus fece uscire la jeep dal garage, prima di sporgersi verso di lei: – A prendere Zuril.
– Vuoi dire che verrà qui… ORA?
– Esattamente. Ciao, Venusia, tornerò presto! – pigiò sull’acceleratore e la jeep partì in una nuvola di polvere, mentre Venusia la rincorreva inutilmente.
– Aspetta, Actarus! Non puoi… Non devi… – si fermò, tossendo, e rimase a guardare la jeep che si allontanava rapidamente… quella stessa jeep che sarebbe tornata portandole un ospite extraterrestre.
Un ospite, pensò.
Allora, il senso pratico prevalse sulla collera: – Oh, al diavolo! Cosa mangerà un veghiano?


Il disco planò dolcemente, posandosi nella radura tra i pini.
In piedi accanto alla jeep, Actarus attendeva in silenzio, calmo in apparenza ma in realtà teso fino allo spasimo. Da anni, mai si era trovato così vicino ad un disco di Vega senza dover combattere: osservò con curiosità la manovra d’atterraggio, silenziosissima, e suo malgrado si trovò costretto ad ammirare la scienza dei suoi nemici. Possibile che simili esseri progrediti dovessero rivelarsi degli spietati assassini…!
Un portello si aprì su un fianco del disco, una passerella fu calata; poi, senza fasci di luce od altri effetti drammatici, l’alta figura di Zuril apparve nell’apertura. Actarus istintivamente si drizzò nella persona, squadrando le spalle.
Zuril scese con calma, seguito dalla sua fedele robovaligia, e si diresse verso di lui; alcuni soldati smontarono a loro volta, fermandosi però ai piedi della passerella. Erano disarmati, e parevano piuttosto a disagio.
Actarus lanciò in fretta un’occhiata verso il cielo, dove Alcor stava roteando con Goldrake 2; poi finalmente Zuril fu davanti a lui.
Era un incontro tra due sovrani, per cui entrambi istintivamente si tennero sul formale.
– Duke Fleed – disse Zuril, esaminando in fretta i suoi abiti terrestri. Se era sorpreso nel vedere il principe di Fleed vestito come un contadino qualsiasi, non lo diede a vedere.
– Maestà – Actarus gli rivolse un educato cenno col capo, mentre i soldati parevano sempre più a disagio.
– Come vedete, ho mantenuto la mia parola – Zuril si volse verso i suoi uomini: – Potete andare, adesso.
I soldati si guardarono, nervosamente: erano uomini fedeli, e non erano certo lieti di lasciare il loro sovrano in balia del loro più acerrimo nemico.
– Maestà, noi… – cominciò uno di loro, il più anziano.
– Va bene così – assicurò Zuril – Andate, ora.
– Fate sapere – aggiunse Actarus – che il vostro re sarà trattato con ogni riguardo.
Zuril fece un sorrisetto: – Non ne ho mai dubitato, Duke Fleed.
Riluttanti, i soldati obbedirono. Actarus e Zuril rimasero a guardare il disco sollevarsi silenziosamente dal prato e salire in cielo, dove Goldrake 2 lo attendeva per scortarlo fino al limite dell’atmosfera. Lo seguirono con gli occhi finché non fu scomparso oltre le cime dei pini; poi come se si fossero accordati, l’atmosfera di colpo fu molto meno formale.
Actarus accennò alla jeep: – Vogliamo andare?
– Hai avuto difficoltà a trovare un posto dove sistemarmi? – Zuril si fece avanti, e subito la robovaligia lo seguì, ubbidiente.
Actarus scosse il capo: – Sulla Terra non esistono valigie che camminano da sole.
– Capisco – Zuril la disattivò e la sollevò come un normale bagaglio. Actarus l’aiutò a caricarla sulla jeep prima di mettersi al volante. Il veghiano rimase in silenzio ad osservare lo strano mezzo con cui avrebbe viaggiato, prima di montare a sua volta. Guardò con curiosità Actarus avviare il motore e manovrare la jeep, e per un poco entrambi tacquero, piuttosto imbarazzato il primo e assorto nelle sue osservazioni il secondo.
– Rispondendo alla tua domanda – riprese dopo un poco Actarus, mentre la jeep sfrecciava per una stradina sterrata tra i pini – no, non ho faticato a trovare un posto. Praticamente, non ho avuto da scegliere. Non ci sono molti luoghi in cui posso tenere nascosto un uomo con il tuo aspetto.
– Posso assumere l’aspetto di un terrestre – si affrettò ad assicurare Zuril, che stava osservando il panorama tutt’attorno.
– Non ce ne sarà bisogno. Starai alla fattoria dove abito anch’io, e là tutti sono a conoscenza della tua identità.
– Vuoi dire che vivremo a stretto contatto? – Zuril sorrise – Due nemici come noi! Chi l’avrebbe mai detto!
Suo malgrado, Actarus si ritrovò a sorridere a sua volta. Quel veghiano si stava rivelando ben diverso da quanto si era aspettato.
– Del resto, è giusto che sia così – continuò Zuril – Immagino che vorrai tenermi sotto controllo.
Negare sarebbe stato sciocco: – Infatti... a proposito, adesso sei un sovrano. Come devo chiamarti?
– Zuril. E senza tante cerimonie.
Il giovane rallentò facendo svoltare la macchina su una strada più larga e asfaltata: – Io sono Actarus. E senza tante cerimonie.


La jeep si fermò nell’ampio spiazzo davanti alla casa.
Zuril si guardò attorno con curiosità, posando lo sguardo sui campi recintati, gli alberi, la casa stessa; il suo unico occhio ebbe un lampo d’umorismo vedendo il filo del bucato con la biancheria stesa ad asciugare. Inspirò profondamente quell’aria così diversa dall’atmosfera artificiale di Skarmoon: aria profumata, fresca, tutt’altro che asettica.
Anche tutt’attorno era ben diverso dalle superfici lucide e lisce, pulitissime, cui era abituato: terra che ti sporcava gli stivali. Polvere. Erba. Era tutto così… diverso.
– Qualcosa non va? – chiese Actarus, sorpreso, vedendo il compagno intento a guardarsi attorno.
– Gandal aveva ragione – Zuril parlava quasi tra sé, girando attorno con lo sguardo – È un pianeta magnifico.
– Gandal…? – Actarus batté le palpebre. Mai avrebbe immaginato il ferreo comandante di Vega capace di simili pensieri.
Zuril chinò la testa, sorridendo tra sé, e non rispose. Scaricò la robovaligia e seguì Actarus all’interno della casa.
Nel piccolo ingresso, la porta a destra dava sull’ampio soggiorno, quella a sinistra nella sala da pranzo; una scala (una scala!) portava al piano superiore. Zuril guardò con aria divertita i gradini, ma proprio in quel momento, come su un segnale, la famiglia Makiba si affacciò dalla sala da pranzo.
Davanti a quel nemico alieno, alto ed inquietante, Venusia dovette impiegare tutto il suo coraggio per non arretrare; Mizar si strinse a lei, intimorito, e Rigel pareva avesse i piedi inchiodati al pavimento. Nonostante questo, si riprese: era il padrone di casa, che diamine.
– Buonasera – disse, cerimonioso, cercando di non balbettare troppo – Sono Rigel Makiba, il proprietario del ranch… I miei figli, Venusia e Mizar…
– Onorato – rispose Zuril, cortese.
Quel tono gentile parve compiere un miracolo. Rianimato – s’era aspettato un extraterrestre crudele e sprezzante – Rigel incominciò a farsi più sicuro, pericolosamente troppo sicuro: – Forse lei non lo sa, ma io sono il presidente del gruppo “Amici degli Alieni”, gruppo che, modestamente, io stesso ho fondato… ho sempre sostenuto l’importanza dell’amicizia tra i popoli, e…
Papà! – Venusia si era fatta scarlatta – Non credo sia il caso…!
Rigel fece per ribattere, poi ricordò improvvisamente che quell’ospite alieno in realtà fino a pochissimo prima era stato un nemico mortale. Cominciò a guardarlo con sospetto, occhieggiando soprattutto la strana valigia che aveva posato a terra, e fu allora che intervenne diplomaticamente Actarus: – Adesso che hai conosciuto la famiglia, ti faccio vedere la tua camera. È al piano di sopra.
– Benissimo – e rivolto un educato cenno di saluto ai suoi ospiti, Zuril cominciò a seguire Actarus su per quella buffa scala, senza pensare al suo bagaglio.
Progettata per muoversi soprattutto su piani lisci, la robovaligia impiegò qualche istante per capire come salire i gradini; dopo un paio di tentativi riuscì a coordinare i suoi cuscinetti, mettendosi di lato, rialzandosi su quelli posteriori e facendo ricadere gli anteriori sul gradino, e seguì fedelmente il suo proprietario al piano di sopra. Stupefatto, Mizar lanciò un urlo; Zuril si volse, realizzò d’essersi dimenticato di disattivare la valigia.
– Grande!!! – esclamò Mizar. – Può andare dappertutto?
– Praticamente – Zuril recuperò il bagaglio, lanciò uno sguardo preoccupato verso Actarus; l’allegria di Mizar era stata contagiosa, e il giovane aveva gli occhi che sorridevano. Incidente chiuso.
Actarus aprì la prima porta a sinistra: una camera luminosa, pareti bianche, una finestra, mobili in legno chiaro. Zuril guardò le tendine alle finestre, il copriletto bianco a fiori… era tutto così strano…
– Forse la trovi un po’… femminile – disse Actarus, che si era accorto dell’interesse di Zuril – È la stanza degli ospiti. È stata Venusia ad arredarla.
– Oh – Zuril si guardò in giro. Era tutto completamente diverso da qualsiasi altra camera lui avesse mai avuto. Così vivevano i terrestri? – Venusia non è il pilota del Delfino Spaziale?
– Sì. È una ragazza molto buona e gentile. Te ne accorgerai.
Zuril fece sostare in un angolo la robovaligia: – Sei un uomo fortunato, allora.
Actarus si schermì: – Oh… no, no. Venusia è solo un’amica, per me.
– Ma certo, scusa – ma non vibravano certo richieste di perdono, nella voce di Zuril... se mai, la soddisfazione di chi ha segnato un punto a suo favore. Solo un’amica? Come no...
– Ti faccio vedere il bagno – disse in fretta Actarus – Ne abbiamo due, ma uno è per le ragazze. Il nostro è questo.
Tornato nel corridoio, aprì una porta. Zuril guardò dentro, curioso. Piastrelle azzurre. Buffi sanitari bianchi, di forme così… così… beh, buffi era appunto la parola giusta.
Zuril entrò, passò una mano sotto al rubinetto: niente. Poi girò una manopola. Acqua calda. L’altra, ovvio, per l’acqua fredda. Fantastico.
Passò oltre, puntando verso il gabinetto. Alzò il coperchio, guardò dentro nella tazza.
– Immagino che tutto ti sembrerà strano – disse Actarus, ricordando bene i primi tempi in cui era stato sulla terra – Forse non capisci bene a cosa servano…
– Oh, no – Zuril premette il pulsante dello sciacquone e rimase ad osservare l’acqua scrosciare giù per il water – Direi che il loro uso sia intuibile.
– Ah, bene – Actarus si sentiva stranamente nervoso – Hai bisogno che t’aiuti col bagaglio?
Zuril premette l’interruttore della luce, accese e spense la lampada (accendere le luci a mano!), toccò con curiosità un asciugamano appeso: – Posso farcela da solo, grazie.
– Ti abbiamo messo dei vestiti nell’armadio – Actarus guardò Zuril, più alto e robusto di quanto avessero creduto, chiedendosi se gli abiti gli sarebbero andati bene – Nel caso arrivasse qualcuno alla fattoria, all’improvviso… meglio che tu abbia addosso degli abiti terrestri.
– Ma certo – rispose Zuril, che sembrava stesse divertendosi come non mai – Darei meno nell’occhio, con l’aspetto che ho.
– Non hai torto… però… insomma, sempre meglio che avere addosso degli abiti extraterrestri, no?
– Naturale. Siamo sulla Terra, vivrò come un terrestre.
– Spero che ti stiano… domani comunque provvederemo a portartene altri.
– Sarà meglio che mi cambi, allora – con un ultimo sguardo divertito a quel rudimentale bagno, Zuril tornò nella sua stanza.
– Noi siamo al piano di sotto – annunciò Actarus, e cominciò a scendere le scale.
Un veghiano in casa. Sotto il suo stesso tetto. Lo stesso veghiano che avrebbe voluto sposare la sua fidanzata, Rubina…
È proprio vero che a volte il destino gioca strani scherzi.


Zuril sistemò tutti i suoi effetti personali, riponendo ordinatamente ogni cosa e mettendo infine la valigia stessa in cima all’armadio.
Infilò con un certo scetticismo i vestiti che gli aveva procurato Actarus. I pantaloni erano di un tessuto bluastro, rigido (ma perché farli così scomodi?), tagliati fin troppo aderenti e con una chiusura laboriosa e primitiva (“cerniera a lampo”, gli avrebbe spiegato poi Actarus. Evidentemente sulla terra non esistevano ancora le chiusure a tocco). La maglietta rossa, poi, aveva un’allacciatura sul collo ancora più bislacca (“bottoni”). I terrestri avevano il dono di volersi complicare la vita, era evidente. La cosa che lo divertì maggiormente furono le scarpe, con delle ridicole stringhe da annodare.
Zuril guardò la sua immagine riflessa dallo specchio sullo sportello dell’armadio. Scarpe da tennis, jeans e polo; e all’interno, un veghiano verdastro, monocolo e con due grandi ali da pipistrello ai lati della testa. A quel punto Zuril non resistette e scoppiò in una gran risata.
Prima di scendere, controllò d’aver lasciato tutto in ordine, e poi notò qualcosa che non aveva visto prima. Su uno scaffale, qualcuno aveva posto un vasetto colmo di fiori di campo. Doveva essere stata Venusia.
Zuril toccò lievemente le delicate corolle, ne annusò il profumo; di tutto ciò che aveva visto, quel vasetto l’aveva colpito più di ogni altra cosa. Venusia avrebbe potuto non metterlo; invece, aveva colto quei fiori e glieli aveva fatti trovare. Un modo gentile per dirgli “benvenuto”.

- continua -

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view post Posted on 28/5/2012, 18:04     +1   -1
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13.

– E così è arrivato – le mani in tasca, un po’ piegato in avanti come sempre quando era di cattivo umore, Alcor misurava a grandi passi il soggiorno – Com’è stato? Odioso?
– Per niente – Actarus sedeva in un angolo, pizzicando distrattamente le corde della sua chitarra – È stato molto educato, invece.
– È un veghiano – Alcor scosse il capo – Non c’è da fidarsi, lo sai! Continuo a pensare che tu stia facendo un errore!
– Cos’avrei dovuto fare, allora? Sterminarli tutti? – Actarus sorrise lievemente: – Sarebbe stato un genocidio.
Alcor parve sul punto di replicare; poi ci ripensò e scosse il capo: – No, hai ragione. Non saremmo migliori di loro. Però la cosa continua a non piacermi!
Actarus sorrise ancora: non aveva mai dubitato dell’opinione del suo amico.
– Quanto dovrà restare con noi? – continuò Alcor.
– Qualche giorno, finché non avremo definito ogni cosa – rispose Actarus, fattosi serio.
Alcor gettò un’occhiataccia verso il soffitto di legno: – Al laboratorio non possono proprio tenerselo?
– Ne abbiamo già parlato – intervenne Venusia – Non essere così negativo, Alcor. Zuril sembra molto gentile…
– Io non mi fido di un veghiano! – ribatté il giovane.
– Sciocchezze! – intervenne Rigel – Sai che io capisco le persone al primo sguardo. Questo veghiano è molto simpatico.
– Questo veghiano è uno dei nostri peggiori nemici! – gridò Alcor – Questo veghiano ha progettato mostri che avrebbero potuto distruggerci!
– Questo veghiano è mio ospite! – scattò Rigel – Non tollererò che venga offeso, mi hai capito?
– Va bene, Rigel, non ti arrabbiare – fece marcia indietro Alcor.
– Oh, piantatela tutti e due! – sbottò Venusia, preoccupata – Dovremo vivere insieme per un po’ di tempo; lui sembra molto amichevole. Non possiamo essere da meno.
– Venusia ha ragione – sorrise Actarus.
– Grazie – lei arrossì lievemente – Non so se gli piacerà la cena. Non ho idea di cosa mangi un veghiano…
– Anche se morfologicamente siamo diversi, dal punto di vista biologico le nostre razze sono compatibili – Zuril era improvvisamente apparso sulla porta – Questo significa che io posso mangiare il vostro cibo, qualunque sia.
– Oh – Venusia si riscosse, andò incontro a quello strano ospite che appariva ancora più bizzarro avendo addosso quei vestiti terrestri – Spero che la stanza vi sia piaciuta, comandante... no, siete un sovrano, adesso.
– Mi è piaciuta molto. E ho apprezzato molto i fiori.
Il rossore di Venusia si fece più intenso: – Grazie, Maestà.
– Mi chiamo Zuril. Vi prego tutti di evitare tante cerimonie, con me. Sono Zuril e basta, come ho già detto a Duke… ad Actarus.
Ci fu un certo movimento dalle parti di Alcor: la contrarietà del giovane era talmente evidente da raggelare l’atmosfera nella stanza. Maria, rintanata in un angolo, sembrava stesse fissando un cobra pronto a mordere. Venusia, che stava disperatamente tentando di rasserenare gli animi, si sentì soffocare.
– Allora benvenuto tra noi… Zuril – disse, guardandosi ansiosamente in giro in cerca d’un minimo di solidarietà da parte degli altri. Deciso ad appianare le cose Actarus fece per intervenire, ma Zuril lo prevenne tendendo la mano a Venusia in un inequivocabile gesto di pace.
Lei esitò. Non aveva mai toccato un veghiano, prima d’allora, e avrebbe voluto evitare l’esperienza; ma non poteva comportarsi con scortesia, per cui mise la propria mano bianca in quella verdastra di lui. Era calda e asciutta, e lei se l’era aspettata gelida e viscosa... che assurda sciocchezza!
– Ho fatto qualcosa di sbagliato? – chiese Zuril.
– Oh, no – intervenne istintivamente Maria – Venusia era convinta che voi di Vega foste freddi e viscidi… oh, non dovevo dirlo – mormorò, stramaledicendosi, mentre Venusia si faceva scarlatta. Dannate percezioni extrasensoriali! Aveva captato perfettamente il timore della sua amica, e aveva parlato d’impulso… adesso quel veghiano si sarebbe offeso, e con ragione…
Per una volta, la precognizione di Maria non funzionò affatto: Zuril non solo non si offese, ma rimase un istante attonito. Freddi, viscidi… era così che sulla Terra erano considerati i veghiani? Forse era meglio non dir loro che su Skarmoon tutti erano convinti che i terrestri fossero sporchi e idioti… no, meglio tacere. Ah, i pregiudizi…
Scoppiò a ridere. Venusia, sollevata, gli fece eco, e subito anche gli altri, escluso Alcor, si unirono alla loro ilarità. Un clima decisamente più amichevole aleggiò nella stanza e tutti, ad eccezione dell’immusonito Alcor e della sempre nervosa Maria, cominciarono a rivolgersi più familiarmente a quel nemico mortale che era loro ospite. Si erano aspettati un alieno odioso ed arrogante, e si trovavano un uomo educato, alla mano e dotato d’uno spiccato senso dell’umorismo. Forse la convivenza non sarebbe stata dura come avevano temuto.


Seduto tra Rigel, che mangiava a quattro palmenti, e il piccolo Mizar, Zuril osservava con curiosità il cibo che Venusia gli aveva versato nel piatto. Guardò poi i bastoncini, di cui ignorava l’uso: vide i suoi commensali mangiare senza problemi, e cercò allora d’impugnarli, ma quando provò inutilmente di prendere un boccone, un bastoncino gli cadde sulla tavola.
– Si tiene così, guarda – timidamente, Mizar tese la mano, mostrandogli le dita che stringevano le bacchette. Zuril osservò con attenzione, sistemò i propri bastoncini e riuscì finalmente a prendere un po’ di riso con la carne. Un sapore delizioso, e totalmente nuovo, gli colmò la bocca.
– Ti piace? – chiese ansiosamente Venusia.
– È ottimo – rispose Zuril, ancora assorto su quei nuovi sapori – Completamente diverso dal nostro cibo, però squisito.
– Immagino che la vostra cucina sia molto diversa – osservò Alcor, pungente, guardando in tralice il veghiano.
– Non è cattiva – Zuril raccolse un nuovo bocconcino di riso – Si tratta però di cibi liofilizzati, surgelati e comunque conservati. Skarmoon è un ambiente totalmente artificiale, non dimenticarlo.
– Vuoi dire che su Vega mangiavate cose così? – Alcor era provocatorio, ma Zuril non volle cogliere la sfida e rimase perfettamente calmo.
– C’erano anche alimenti freschi. Si trattava però di cibi completamente diversi.
– Non ne dubito! – Alcor era sempre più insolente, e Actarus lo zittì con un calcio negli stinchi.
Il resto del pasto proseguì senza incidenti, anche perché Alcor s’era chiuso in un silenzio ostile, e Maria, cercando di vincere la repulsione che qualsiasi veghiano le ispirava, aveva preso a chiacchierare con Zuril, chiedendo notizie varie circa la cucina, le abitudini e le usanze di Vega. Non che l’argomento l’interessasse, tutt’altro: ma non voleva lasciare ad Alcor la possibilità di essere ancora sgradevole, e soprattutto voleva tenersi occupata, per non pensare che l’uomo seduto alla sua stessa tavola apparteneva all’identica razza che aveva distrutto il suo mondo, la sua famiglia, il suo passato.
Tutti avevano finito di mangiare. Zuril vide Venusia impilare le stoviglie sporche e raccolse quelle di Rigel e Mizar, alzandosi per portarle via. Subito lei fece per prendergliele di mano, ma lui fu irremovibile: era curioso di vedere una cucina terrestre, per cui prese l’intera pila di piatti e disse a Venusia di fargli strada.
Anche se a disagio (il sovrano di Vega che faceva da cameriere!) Venusia si mostrò all’altezza della situazione. Gli mostrò ogni cosa, elettrodomestici, pentolame, stoviglie; si sorprese accorgendosi che lui sembrava conoscere bene l’argomento, azzardò una domanda...
– Mi piace cucinare – rispose con semplicità lui.
Fu come aver dato il via: presero a parlare fittamente di ricette, ingredienti, tecniche e tempi di cottura, e probabilmente avrebbero continuato per un bel pezzo se dall’altra stanza Rigel non avesse berciato di volere il dolce, e quanto tempo ci mettevano? Volevano farlo morire di fame? Possibile che non avessero nessun riguardo nei suoi confronti?
Venusia avvampò a quella nuova uscita di suo padre – cos’avrebbe pensato quel veghiano? Quel veghiano che era un re, per giunta?
Incrociò lo sguardo del re: vi lesse umorismo, e nessuna cattiveria. Si stava sinceramente divertendo.
Rientrarono in sala da pranzo, lei con il vassoio della torta, lui con una pila di piattini da dessert. Pur essendo per nulla portata per le faccende domestiche, Maria balzò in piedi, andò lei ad aiutare Venusia a servire il dolce; Zuril riprese il suo posto, e subito incrociò lo sguardo corrucciato di Alcor.
Non attacca, amico. Tutta quella bonomia, quella voglia di renderti bene accetto… Non ci casco. Sei solo un dannato veghiano.
Zuril sentì il buonumore scemare rapidamente.
Sapeva che sarebbe stata dura, riportare la pace tra Vega e la Terra... lo aveva sempre saputo.
Sperava solo che non fosse impossibile.


– Adesso che la guerra è finalmente finita, posso farti una domanda? – chiese Actarus, quella stessa sera, sotto al patio.
– Certo – Zuril si allungò sulla sua poltrona – Al limite, evito di rispondere.
– Era proprio necessario attaccare la Terra?
Zuril parve rabbuiarsi: – Vega era irrimediabilmente inquinato. Avevamo bisogno di un mondo in cui vivere.
– Questo lo capisco; però su questo mondo vivono miliardi di terrestri. Miliardi, Zuril.
Il veghiano assentì, rimanendo in silenzio così a lungo che Actarus stava ormai pensando che non gli avrebbe più risposto.
– Hai qualche conoscenza di biologia terrestre? – chiese inaspettatamente Zuril – Conosci quegli animali marini denominati squali?
– Sì, certo – rispose il giovane, riluttante.
– Bene. Se lo squalo provasse pena per i pesci che divora, morirebbe di fame.
– Sì, ma voi non siete… non siete…
– Siamo predatori, Actarus.
– Volevo dire “animali”.
– Gli uomini non sono animali, forse? – sorrise Zuril; poi, serio: – La nostra natura è questa, che ti piaccia o no. Personalmente, non mi è mai andata a genio l’idea di sterminare i terrestri, ma c’era in gioco la sopravvivenza della mia gente. Ero un comandante, Actarus. Avevo doveri verso il mio re e responsabilità nei confronti del mio popolo. Questo dovresti capirlo.
– Io non ho più un mio popolo, Zuril. – rispose amaramente colui che era stato il principe di Fleed.
Zuril chinò il capo, tacque qualche istante; poi parlò, lentamente: – Se tu l’avessi ancora, se tu fossi al mio posto, non pensi che…
– Non potrei mai sterminare degli innocenti!
– L’alternativa era far morire altri innocenti. Il tuo popolo. Come vedi, non avevamo molta scelta. Dovevamo impadronirci della Terra.
– L’avreste avuta, una scelta – nella voce di Actarus vibrava una collera gelida – Non avete più il vostro pianeta perché l’avete sfruttato fino a distruggerlo!
– È vero – rispose gravemente Zuril – Ma di questo disastro vanno incolpati coloro che sono stati prima di noi. La nostra generazione ha dovuto pagare per la dissennatezza dei nostri antenati.
– Va bene. Ma Fleed? Moru? Perché distruggerli? Non solo avete sterminato la popolazione, avete letteralmente ucciso due pianeti! Due pianeti su cui avreste potuto abitare! Questo non posso perdonarvi! Se voi ci aveste massacrati per impadronirvi del nostro mondo… avrei potuto capirlo! Invece, l’avete distrutto!
Zuril chinò la testa. Il suo viso era in ombra, per cui Actarus non poté vederne l’espressione.
Dopo aver inutilmente atteso una risposta che non venne, il giovane insisté: – Perché avete distrutto Fleed? Non sapevate che il vostro mondo era condannato?
– Lo sapevamo – ammise Zuril.
– Ma allora, perché…? In nome del Cielo, perché?
Zuril alzò la testa. L’occhio color acciaio affrontò con fermezza gli occhi azzurri: – Sei libero di non credermi, naturalmente. La verità è che Sua Maestà voleva risultati rapidi, perché temeva che avreste capeggiato una rivolta contro l’Impero di Vega. Era convinto che si dovesse dare a tutti i possibili ribelli un segnale molto forte. L’unico modo per sconfiggervi in fretta era bombardare Fleed e Moru con il vegatron. Io mi ero opposto, avevo chiesto di evitare l’attacco con le radiazioni per salvaguardare i pianeti, ma non sono stato ascoltato. In realtà, il nostro sovrano non aveva mai voluto prendere in considerazione l’idea che Vega fosse ormai un mondo morto.
– Mentre tu lo sapevi...!
– Tutti noi di Zuul lo sapevamo. Ma non siamo mai stati ascoltati... fino a quando Re Vega non ha messo gli occhi sulla Terra. Mi sono battuto ancora una volta perché si evitasse l’attacco con il vegatron; fortunatamente, proprio in quel periodo sono arrivati i primi allarmi circa il collasso di Vega, e mi ha dato retta. Ecco perché la Terra non ha subito la stessa sorte di Fleed e Moru.
Actarus ricadde nella sua poltrona, lo sguardo perso nel vuoto: – Pensare che per colpa di quel pazzo... quel maledetto pazzo...
– Hai usato la parola giusta: pazzo. La morte di sua figlia è stata troppo, per lui. Praticamente, dopo avermi nominato suo successore non ha più parlato.
– Non provo pena, per lui!
Zuril assentì e si volse a guardare la luna, in attesa che il suo compagno recuperasse la calma, traendo dei lunghi respiri.
Tacquero entrambi. Poi fu Actarus il primo a parlare: – I nostri popoli sono talmente diversi! Riusciremo ad essere mai in pace?
– I nostri popoli...? Forse – mormorò Zuril – Spero però che saremo amici tu ed io.
Actarus parve sinceramente sorpreso: – Non avrei mai pensato t’interessasse la mia amicizia…!
– Io ti rispetto – rispose il veghiano, con semplicità – Sei un nemico coraggioso e leale, ma sei anche un uomo di grande valore. Ti ho combattuto con ogni mezzo ma, ora posso dirtelo, ti ho sempre ammirato. Sono stato veramente lieto di conoscerti di persona.
Actarus gli stese la mano: – Forse potremo essere amici, dopotutto.
Zuril gliela strinse senza esitazione, poi aggiunse, con una certa amarezza: – Amici. Ma ognuno dalla sua parte, però.


Entrò nella propria stanza, ricordandosi all’ultimo momento di dover chiudere la porta. Cose che succedono, quando si è abituati alle ante automatiche.
Cominciò a spogliarsi, inceppandosi in ogni bottone. Una profonda stanchezza si stava rapidamente impadronendo di lui, lasciandolo senza forze; rinunciò a combattere con i vestiti terrestri e le loro assurde allacciature e cadde sul letto.
Si rigirò su sé stesso: si trattava praticamente un saccone imbottito, ben diverso – e infinitamente più scomodo – dai materassi ergonomici, scientificamente e tecnologicamente studiati, cui era abituato da sempre. Una delle tante scomodità cui aveva dovuto assoggettarsi.
Ripensò alla serata appena trascorsa: Duke Fleed si era mostrato amichevole e gli aveva indubbiamente reso le cose più semplici, ma il compito che aveva di fronte di semplice aveva ben poco.
Era il re d’un popolo decimato e semidistrutto, un popolo impoverito dalle guerre e universalmente detestato. In quel momento, erano ben poche le risorse su cui Vega poteva fare affidamento: se fossero stati attaccati da qualche nemico, magari una popolazione fino ad allora rimasta loro soggetta, avrebbero dovuto letteralmente lottare per sopravvivere. C’era poco da girarci attorno, la verità era una sola: l’alleanza con Duke Fleed, detentore di Goldrake, sarebbe stata basilare per permettere a Vega di riprendersi.
Zuril serrò le labbra: era un uomo orgoglioso, essere costretto a dipendere dal suo ex nemico l’irritava non poco. Actarus e Venusia l’avevano trattato con estrema gentilezza, ma per tutta la sera aveva dovuto sopportare le frecciatine astiose di Alcor, senza contare il fatto che Maria, quando credeva di non essere vista, lo guardava come avrebbe guardato un rettile velenoso. No, non sarebbe stato facile.
Sospirò, fissando il soffitto e seguendo con lo sguardo la linea sottile d’una crepa nell’intonaco.
Aveva ancora in mente gli sguardi carichi d’angoscia, le urla della gente... la sua gente... che lo supplicava di salvarli. Re Vega li aveva portati alla disperazione, lui si trovava ad essere l’ultima speranza di un popolo moribondo.
No, decisamente non sarebbe stato facile.

- continua -

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14.

Il giorno dopo, Procton arrivò alla fattoria di buon mattino: erano stati tutti d’accordo che fosse meglio mantenere le trattative il più possibile segrete, per cui il ranch era stato considerato una buona copertura. L’unico rischio era costituito da Banta e sua madre, abituati da sempre ad entrare ed uscire come se fosse stata casa loro; per questo, Alcor, Venusia e Maria stazionavano di guardia all’esterno, tutti apparentemente occupati a lavare jeep, stendere bucati e lavorare nell’orto. Non potevano certo permettere che qualche vicino impiccione entrasse in casa sorprendendovi un alieno verdastro!
Da subito, era stato chiaro che qualsiasi accordo sarebbe stato preso tra Fleed e Vega, il che significava tra Actarus e Zuril. Fu proprio quest’ultimo a spazzar via qualsiasi ipotesi di coinvolgimento del popolo terrestre: – Che senso avrebbe? Qui non c’è un governo centrale che rappresenti il pianeta, per cui i vostri capi non farebbero che discutere tra di loro facendoci perdere del tempo prezioso. In ogni caso, che influenza ha avuto la Terra nello scontro? Nessuna. È sempre stata una faccenda tra noi e voi.
– Ma la guerra si è combattuta sul nostro pianeta – obiettò Procton.
– Parliamoci chiaramente, Procton – disse Zuril – Se in questo momento Actarus non ci fosse, io potrei attaccare la Terra con le poche forze che mi restano ed essere sicuro di spazzar via tutti i terrestri in breve tempo, e senza avere praticamente il minimo problema. Non potreste opporci nessuna resistenza. Nel momento in cui noi ce ne andremo da Skarmoon, i terrestri non faranno altro che raccogliere le macerie, ricostruire quel che è stato distrutto e riprendere la vita di prima. Nell’immediato futuro, non hanno la minima influenza su ciò che accade al di fuori del loro mondo. Lasciamoli fuori da tutto questo, e riusciremo a concludere in fretta.
– Non ha torto, padre – osservò Actarus.
– Come possiamo assumerci una simile responsabilità...? – mormorò Procton.
– La responsabilità della guerra ve la siete assunta, mi pare – fece notare Zuril; e Procton non fece più obiezioni. Erano tempi straordinari, era d’obbligo prendere straordinarie misure.
Zuril accese il proprio computer: una delle sue prime azioni come sovrano era stato ordinare un’analisi completa di Fleed e Moru, in particolare per quanto riguardava la contaminazione da vegatron. Actarus aveva già in suo possesso le analisi di Fleed che gli aveva portato Rubina, e confrontandole con quelle di Zuril notò che coincidevano.
– Rimane comunque una certa quantità di radiazioni vegatron – osservò Procton, comparando le analisi – Per dei terrestri sarebbe letale, ma sicuramente non è positiva nemmeno per dei fleediani o dei veghiani.
– Procederemo con una decontaminazione, naturalmente – rispose Zuril, come se si fosse trattata della cosa più ovvia del mondo.
Procton tossicchiò: – Per quel che abbiamo potuto studiare del vegatron, sappiamo che impiega parecchio tempo a decadere...
– Non crederete che noialtri usiamo il vegatron senza sapere anche come neutralizzarlo! – rispose Zuril, l’unico occhio che scintillava d’umorismo – Va bene che ci considerate dei pazzi, ma non lo siamo a quel punto. Possiamo irradiare le zone contaminate con vegatron invertito, che annullerà l’effetto delle radiazioni.
Actarus si portò istintivamente una mano alla spalla, là dove era rimasto un sottile segno bianco in ricordo della ferita che per poco non l’aveva ucciso: – Markus mi ha colpito con raggi per curarmi...
Zuril lo guardò con interesse: – Eri stato ferito da un raggio al vegatron, mi risulta.
– Infatti. Markus mi ha sparato con la sua pistola, e la ferita si è rimarginata. Ora che ci penso, prima di colpirmi aveva regolato il raggio; deve aver usato vegatron invertito, allora.
Il sovrano di Vega assentì: – Una mossa azzardata, ma giusta. Anche noi usiamo decontaminare irradiando con vegatron invertito. – puntò il suo scanner su Actarus, controllò i risultati e assentì, soddisfatto: – A posto. Markus sapeva quel che faceva.
– Vuoi dire che Actarus è completamente guarito? – chiese subito Procton.
– Certo, anche se più avanti vorrei fargli un secondo controllo. Semplice prudenza – aggiunse, vedendo Procton guardare ansiosamente verso il figlio. Capiva perfettamente cosa potesse provare quel terrestre: era stato padre anche lui.
Decisa così la decontaminazione, cominciarono a discutere su quali sarebbero stati i trattamenti immediati cui sottoporre i due mondi, quali fossero le zone al momento più adatte ad essere colonizzate, quali fossero le risorse disponibili, quali possibilità avesse una comunità di qualche migliaio di persone di sopravvivere. Zuril impostò una simulazione di colonizzazione su Fleed e su Moru, considerò assieme a Procton i risultati: sarebbe stato possibile. Riprovarono con una seconda e una terza simulazione, e i dati coincisero con quelli precedenti. Tentarono anche aggiungendo difficoltà, tentando di prevedere l’imprevedibile, e ancora videro che sarebbe stato possibile.
Si ritrovarono alla fine tutti e tre accasciati sulle loro poltrone, sfiniti dalla stanchezza: il tempo era letteralmente volato, avevano discusso per ore saltando completamente il pasto di mezzogiorno. Decisero di comune accordo di smettere e di riprendere l’indomani. Avevano iniziato qualcosa di veramente grande, questo lo sentivano nell’anima tutti e tre; ma, quel che forse più contava di tutto, stavano lavorando assieme, come una squadra ben collaudata.


Nei giorni successivi, quando non era impegnato a discutere con Actarus e Procton, Zuril imparò molte cose. A governare i cavalli, ad esempio (Actarus rimase inebetito a guardarlo mentre ripuliva gli stalli. Un sovrano di Vega che spalava il letame. Sarebbe stato da fotografare). O ad adoperare un lungo, primitivo tubo di gomma per innaffiare l’orto. O a piantare chiodi nel legno per riparare uno steccato. Qualsiasi lavoro pareva affascinarlo, persino i normali compiti domestici lo interessavano molto. Rossa di confusione, Venusia dovette mostrargli come usare lo spazzolone per lavare i pavimenti, come mondare le verdure e come caricare e programmare la lavatrice. Tentò di opporsi quando lui volle provare il disincrostante per il bagno, ma capì subito che non è un compito semplice resistere ad un veghiano. Naturalmente l’ebbe vinta lui, che poté così armeggiare con lo spazzolino e l’anticalcare.
Quando non aveva altre incombenze, Zuril si occupava molto di Mizar. Avevano fatto amicizia, e il bambino era lieto di mostrargli i suoi animali, spiegandogli come andavano nutriti i conigli e le capre, o in quale maniera si mungevano le mucche.
Al ranch il clima si era molto rasserenato. Rigel era sempre più affabile con l’ospite, anche se a tratti si ricordava improvvisamente qualche torto subito da parte dei veghiani e si rabbuiava facendosi scontroso. Actarus lo trattava con cameratismo, Mizar ne era entusiasta, Venusia ormai lo trattava come una persona di casa; anche Maria si sforzava di mostrarsi gentile, ma tendeva a tenersi il più possibile lontana.
Unico tra tutti, Alcor continuava la sua battaglia solitaria contro Zuril, convinto com’era che di un veghiano non si potesse, e non si dovesse, mai fidarsi. Lo faceva segno di battute, assumeva atteggiamenti di sfida, tentava di provocare in ogni maniera; Zuril lo trattava con estrema cortesia, ma evitava accuratamente qualsiasi tentativo di scontro.


– Continuo a pensare che sia pericoloso tenerlo qui! – sbottò Alcor, trotterellando sull’erba dietro ad Actarus.
– E dove suggerisci di portarlo? Al laboratorio? – chiese Actarus, calmo – Ne abbiamo già parlato.
– Non mi piace come si comporta… così gentile, così servizievole! – con un calcio, Alcor fece volar via una pigna – Un veghiano! Non è possibile.
– Allora è un attore molto convincente, non trovi? – Actarus sedette sotto al suo albero preferito, cominciando ad accordare la chitarra.
Alcor rifletté, cercando una nuova linea d’attacco: – Ti rendi conto che è sempre insieme a Mizar? Chissà cosa può dirgli, che cosa può insegnargli…
– Per ora gli ha insegnato a risolvere i problemi di geometria – osservò serafico Actarus.
– Ma Mizar è un bambino! Dobbiamo proteggerlo da… da… da quel…
– Non stai esagerando?
Alcor si piantò davanti ad Actarus: – E Venusia?
Actarus si rabbuiò: – Cos’ha Venusia?
– A parte il fatto che quel tipo la manda in brodo di giuggiole visto che è così premuroso con suo padre e suo fratello, ma… beh, non ti pare che sia un po’ troppo gentile anche con lei?
Actarus serrò le mascelle: – E allora?
– Allora, direi proprio che le stia facendo la corte, e sotto al tuo naso!
Un accordo stridente: – Alcor, Venusia è adulta. Zuril anche. Sapranno loro cosa fare o non fare.
Alcor fece un gesto di rabbia: – Ecco, tu non fai niente! Si capisce, tu fai il superiore… Non ti rendi conto che quel tipo è pericoloso? Se tu mi avessi dato retta, e l’avessi rinchiuso da subito… – s’interruppe perché Zuril era uscito da sotto al patio dirigendosi verso di loro, e doveva aver evidentemente sentito tutto; ma lui era pur sempre Alcor, impulsivo ma testardo. Alzò il mento con aria di sfida e affrontò il veghiano che gli stava di fronte: – Non ritiro nulla. Sai come la penso: avremmo dovuto imprigionarti, e obbligarvi alla resa.
Zuril rimase impassibile, ma il suo occhio aveva uno scintillio argenteo: – Alcor, hai mai pensato che se solo volessi potrei andarmene in qualunque momento, anche se fossi rinchiuso?
Alcor rimase un istante spiazzato, ma poi si riprese: – È un bluff!
– Puoi sempre imprigionarmi e poi restare a vedere. Penso che non molto dopo arriverebbero dei dischi venuti a riprendermi.
Alcor scambiò uno sguardo interrogativo con Actarus, prima di fissare il computer oculare di Zuril: – Ah, per quello... basterebbe disattivarlo!
Il veghiano considerò la cosa con una certa ironia: – Non è così semplice metterlo fuori uso, credimi; e poi, anche se tu lo facessi, da Skarmoon potrebbero identificare ugualmente il posto in cui mi trovo grazie al microchip che mi sono fatto impiantare addosso prima di venire da voi.
– Un microchip! – scattò Alcor – Fortuna che eri venuto in pace...!
– Io sono venuto in pace – rispose Zuril, che sembrava divertirsi immensamente della collera del giovane – Il microchip è stato... diciamo una precauzione, da parte mia? Sono sempre stato un uomo prudente.
– Bene, signor uomo prudente! – esclamò Alcor, mentre alle sue spalle Actarus si voltava da un lato per nascondere un sorriso – Un microchip si può sempre espiantare.
– Certamente – rispose Zuril – Basterebbe sapere dove si trovi.
Alcor si fece paonazzo; diplomatico, Actarus si fece subito avanti: – Sei molto sicuro del tuo popolo. E se qualcuno dei tuoi colleghi preferisse abbandonarti per prendere il tuo posto?
L’occhio di Zuril ebbe un nuovo lampo d’umorismo: – Non credo proprio che rinunceranno a me, Actarus. Fidati.


Su Skarmoon, una furiosa lady Gandal avviava per l’ennesima volta il controllo del sistema, stramaledicendo Zuril, sufficientemente abile da ideare un virus abbastanza progredito da non essere rilevato, e allo stesso tempo abbastanza carogna da averle fatto credere all’esistenza di una minaccia fittizia.


Una delle prime cose che Actarus aveva richiesto a Zuril era stato l’elenco completo dei fleediani ancora vivi e prigionieri di Vega; la sera stessa del suo arrivo, mentre si metteva in contatto con Skarmoon per l’aggiornamento quotidiano, Zuril aveva richiesto la lista di nomi, dando l’ordine che venisse inviata al Centro. Lady Gandal aveva fatto notare che ci sarebbe voluto un poco di tempo per recuperare tutti i nominativi; fu per questo che l’elenco giunse a Procton, e quindi nelle mani di Actarus, una delle ultime sere del soggiorno di Zuril sulla Terra.
Febbrile, il giovane aveva scorso quella lista di nomi: poche centinaia...! Un popolo che era stato numeroso e fiorente, ridotto a...
I nomi sembrarono ballargli davanti agli occhi. Non era possibile...!
Rilesse e rilesse più volte, prima di guardare Zuril con aria interrogativa: – Naida Barsagik...?
– Naida Barsagik – confermò gravemente il veghiano – È proprio lei.
– No – Actarus scosse la testa – È morta. L’ho vista io! Ero là! La sua nave è esplosa... – s’interruppe notando l’espressione con cui Zuril lo stava guardando – Non ci credo...
– È viva, anche se è rimasta a lungo al centro medico. Adesso si è ristabilita completamente.
Incredulo, Actarus rilesse ancora una volta quel nome che mai si sarebbe aspettato di trovare, e solo allora notò qualcos’altro che prima gli era sfuggito: – Qui dice che è la schiava di Hydargos.
– Il termine esatto è “concubina”, dato che...
– Mi stai dicendo – gli tagliò la parola Actarus, che faticava ad accettare quanto aveva appena sentito – che in tutto questo tempo, la mia Naida è vissuta con… con…?
– Sì. Per lei è stata una fortuna, perché Hydargos l’ha trattata molto bene.
Actarus serrò i pugni: – Hydargos…!
– Nonostante ciò che pensi di lui, ha salvato Naida. Dopo l’esplosione lui l’ha cercata, l’ha trovata, l’ha riportata su Vega e l’ha fatta curare. Lei gli deve la vita.
– Come sta? – chiese ansiosamente Actarus – È guarita?
Zuril assentì: – Hydargos le ha assicurato i migliori medici. Ti posso garantire che pochissimi schiavi avrebbero avuto la fortuna di ricevere la metà delle cure che ha avuto Naida. È rimasta un po’ delicata di salute, ma sta nel complesso bene. Ed è ancora bellissima.
– Ed è ancora schiava…! – ringhiò Actarus.
– Non esattamente. È in condizione di semilibertà, e credimi, questo vuole dire moltissimo.
Actarus la guardò quasi con disprezzo: – Sembra che tu stia scusando la schiavitù…!
– Sono sicuro che non pensi realmente quel che dici – rispose con freddezza Zuril – Può non piacere né a te né a me, ma gli schiavi sono sempre esistiti, su Vega, e sono sempre stati trattati malissimo. Ripeto, nella sua sventura Naida ha avuto una grande fortuna, il giorno in cui Hydargos l’ha presa con sé.
– Sì, per violentarla a suo piacimento! – gridò lui, furioso, balzando in piedi.
– Sarebbe successo comunque! – esclamò Zuril, testa alta e sguardo fiammeggiante – Sarebbe stata la preda di qualcun altro, qualcuno che magari l’avrebbe torturata e fatta morire di stenti. Oppure, sarebbe finita come giocattolo per le truppe. Questo, se permetti, sarebbe stato molto peggio.
– Hydargos invece è un santo, non è vero? – Actarus serrò i pugni fino a far crocchiare le nocche.
È geloso, comprese Zuril.
– Non lo è – rispose, in tono gentile – È solo un padrone straordinariamente generoso… e Naida lo sa. E gliene è grata.
– Grata? – Actarus sorrise, ironico.
Zuril lo guardò in viso: – Non è stata condizionata. Hai la mia parola.
– In passato, però…
– In passato. Adesso, non più. Naida è stata curata anche nella mente, non solo nel corpo.
Actarus strinse gli occhi, riflettendo; Zuril sostenne tranquillamente il suo sguardo.
Il giovane chinò la testa. Fece qualche passo, s’arrestò, rimase a lungo immobile e silenzioso; quando si voltò ancora verso Zuril appariva pallido ma calmo.
– E in tutto questo tempo, non ho mai saputo che Naida è ancora viva! – esclamò, amareggiato.
– Per tanto tempo nemmeno noi sapevamo se si sarebbe salvata, e soprattutto se sarebbe stata sana di mente – gli fece notare Zuril.
Actarus serrò le mascelle, duro, determinato.
– E va bene… ma adesso, tutto questo deve finire. Naida deve tornare libera, e subito, e con lei rivoglio gli schiavi di Fleed. Tutti.
– Loro saranno senz’altro felici di venire liberati – rispose Zuril, guardingo – Naida… beh, bisognerà chiederglielo.
– Che vuoi dire? Che vorrebbe continuare a fare il giochino sessuale di Hydargos? – Actarus era indignato, furioso – Naida è mia cugina! Una duchessa di Fleed!
– È anche una donna – rispose Zuril, calmissimo – e non credo che per Hydargos sia solo un “giochino sessuale” come dici tu.
– Non vorrai dire che ama quel… quel…! – adesso era veramente in collera: Naida, che aveva amato lui, Actarus, gli avrebbe preferito un Hydargos?
Zuril si lisciò una piega della sua maglietta nera: – Amarlo, forse no. Ma è sicuramente legata a lui…
– Non è possibile!
– …e lui a lei. Non dimenticarti che vivono insieme da anni. Questo crea un certo affetto.
Actarus escluse con un gesto secco quell’ipotesi: – Voglio parlarle da solo a sola. Mi rifiuto di credere che lei… con Hydargos, poi!
– Molto bene – Zuril s’alzò a sua volta – Parlerò con Naida, e vedrò se accetta d’incontrarti.
– Se non ci sarà questo colloquio – scandì Actarus – anche la pace sarà in forse.
– Ah. E se lei rifiutasse di vederti?
– Naida? Non rifiuterà, vedrai. E se anche lo facesse, io esigo questo colloquio. È la mia ultima parola.
Sei molto più categorico di Hydargos, si disse Zuril, lui non ha mai forzato Naida, mentre tu lo stai facendo proprio ora… ma va bene. Non voglio polemizzare. Se vuoi il colloquio, lo avrai.
– D’accordo, parlerò con Naida – promise.
– Mi accorgerò se l’avrete condizionata.
– Va bene – accondiscese Zuril. – Ragionando per assurdo, Actarus… se Naida ti dicesse che non vuole venire con te, ma ti preferisce Hydargos… la lascerai tornare su Skarmoon?
– Se l’avete condizionata…
– Ti ripeto che non è, e non sarà, condizionata.
– D’accordo. Allora, se lei mi assicurerà di preferire Hydargos, se proprio vorrà tornare da lui… – esitò, incerto.
– Sì? – l’incalzò Zuril.
– Sarà libera di tornare su Vega – concluse Actarus.
– Molto bene. È quel che volevo sentire.


- continua -

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Non molto lungo ma intenso... Joe, tieniti saldo - e per piacere non uccidermi! :via:



15.

Completamente avvolta dal buio, accoccolata sul dondolo nel patio, Venusia piangeva silenziosamente.
Da qualche parte Actarus stava suonando la sua chitarra, ma lei ormai aveva acquisito una speciale sensibilità che le permetteva di capire quando lui voleva stare solo… e quella sera era appunto una di quelle volte. Lui non aveva voluto condividere la sua pena, preferendo sfogarsi nella sua musica; lei allora si era sentita il cuore traboccare d’infelicità, e come tante altre volte si era rannicchiata nell’ombra con il suo dolore.
Un’alta sagoma oscura parve staccarsi dall’oscurità che la circondava. Gli occhi pieni di lacrime, Venusia guardò Zuril che l’osservava senza parlare.
– Io… mi spiace, io… – Venusia s’asciugò in fretta il viso, e subito altre lacrime le scorsero giù per le guance – Scusa, io… io non…
– È da un po’ che ti tengo d’occhio – Zuril le parlava con gentilezza – Posso sedermi, o preferisci che ti lasci sola?
Sola! Com’era sempre stata… – No, non… non andartene, io…
In silenzio, Zuril sedette sul dondolo accanto a lei, mentre Venusia si mordeva nervosamente le labbra. Sciocca, sciocca! Perché gli aveva detto di fermarsi? Lui era un veghiano, un nemico… non poteva farsi vedere debole da lui, non poteva…
Rimasero per un poco in silenzio, lei che si sforzava di calmarsi e lui che aspettava, paziente. Lontana, la chitarra di Actarus continuava la sua triste melodia.
Venusia era ormai riuscita a recuperare la padronanza di sé; guardò quel veghiano accanto a lei, chiedendosi cosa avrebbe potuto dirgli, cosa…
– Non dev’essere facile amare un uomo come Actarus – disse improvvisamente lui.
Venusia si sentì avvampare di vergogna, sentendo quelle parole provenire da un veghiano (un nemico!); pure, la voce di Zuril era dolce. Stava chiedendosi cosa avrebbe potuto rispondergli, quando lui stesso continuò: – Scusa. Non avrei dovuto parlarne.
– No, no – rispose istintivamente lei. Aveva un tal bisogno di confidarsi con qualcuno, sfogare un poco della sua pena, sentire una parola gentile… senza quasi rendersene conto si ritrovò a parlargli di Actarus, di come lei l’avesse amato da subito, di come lui avesse preferito non avere un legame stabile, di quanto quella situazione la facesse soffrire… e Zuril, il veghiano, il nemico, l’ascoltava come né suo padre, né Maria, né nessun altro avevano mai fatto.
Quando lei ebbe finito, Zuril rimase un poco in silenzio, riflettendo. Poi finalmente parlò, e si capiva che aveva scelto con cura le parole: – Credo che con un uomo come Actarus sia controproducente mostrarsi troppo disponibili.
Venusia batté le palpebre, lo guardò con aria interrogativa. Lui sostenne tranquillamente il suo sguardo, e improvvisamente fu come se tra loro fosse scorsa una corrente. Telepatia? Venusia non avrebbe saputo dirlo, però era certa d’aver compreso esattamente cosa lui avesse inteso.
– Posso capirti – aggiunse Zuril, mentre l’immagine di Rubina morta tra le braccia di Actarus aveva ripreso a tormentarlo.
Lei lo guardò con autentico interesse: non aveva mai pensato che un uomo di Vega potesse conoscere il tormento dell’amore non corrisposto. Zuril sembrava così freddo e controllato, ma…
– Ho avuto una moglie – spiegò lui.
Già, aveva avuto anche un figlio… – “Hai avuto”? Lei ti ha lasciato?
– È morta. Sono passati… – fece un rapido calcolo – circa dodici anni terrestri.
– Mi dispiace – disse lei, ed era sincera.
– Non c’è mai stata nessun’altra, come lei – aggiunse Zuril. Era vero: dopo Shaya, nessuna donna gli era parsa più desiderabile, o quantomeno interessante. Shaya era unica… non particolarmente bella, almeno per il metro comune, ma unica, insostituibile. Rubina… Rubina era bellissima, lui l’aveva sinceramente ammirata, era stato felice all’idea d’averla in moglie, aveva sofferto molto per la sua perdita; ma nemmeno lei, ora se ne rendeva conto, avrebbe potuto sostituirla degnamente.
Venusia non rispose: il tranquillo dolore che percepiva nella voce di Zuril ebbe l’effetto d’amplificarle il suo. In quel momento l’infelicità le premeva nel petto, come se il cuore avesse dovuto traboccarle. Sentì le lacrime bruciarle gli occhi e se li strofinò col fazzoletto: – Scusami, io…
– Non devi scusarti – Zuril le mise un braccio attorno alle spalle e chinò la testa su quella di lei, aspettando che la crisi passasse. Venusia si asciugò di nuovo gli occhi, alzò il viso, e le parole le morirono sulle labbra, mentre guardava Zuril – quell’uomo solo come sola era lei – come se non l’avesse mai visto prima d’allora. Vide la pelle verdastra, i tratti alieni di lui, ma vide anche le spalle larghe, la linea ferma della bocca, lo sguardo grigio perso nel suo… e anche lui non vide altro che quel viso dolce, i grandi occhi tristi, le labbra rosee e semiaperte…
Venusia si ritrovò tra le sue braccia, mentre lui, il nemico alieno e sanguinario, la rovesciava contro lo schienale del dondolo baciandola come nessuno aveva fatto mai… un bacio dolce e tenero, cui lei rispose con tutto lo slancio della sua natura sincera e affettuosa.
Improvvisamente, Zuril si tirò indietro, rimanendo in ascolto; confusa, Venusia si rese vagamente conto del fatto che non si sentiva più la chitarra di Actarus… Actarus! Mio Dio! Come aveva potuto, lei, permettere… permettere
Sentendosi soffocare dalla vergogna Venusia fece per respingere Zuril, ma lui la costrinse a restare dov’era, premendosi un dito contro le labbra per intimarle il silenzio. Quasi subito, un fruscio di passi le comunicò l’imminente arrivo di Actarus. Venusia comprese: c’era poco da scegliere, non c’era più il tempo di scostarsi bruscamente da Zuril e far finta di niente. No, meglio restare immobili e silenziosi, protetti dall’ombra, e sperare di passare inosservati.
Actarus spuntò tra i cespugli, un’alta ombra con la chitarra in spalla; passò davanti alla veranda, troppo preso dai suoi pensieri per percepire altre presenze, e puntò dritto verso la porta della casa. Si fermò giusto sulla soglia. Alzò gli occhi verso la luna e rimase a lungo così, immobile, il viso pallido inondato di luce e la mente a chissà quali distanze da Venusia, la sua fedele innamorata che nell’ombra era ancora stretta tra le braccia d’un altro uomo.
Per un tempo che parve un’eternità Actarus continuò a contemplare la luna; poi, finalmente, con un sospiro chinò la testa e rientrò in casa, salendo alla sua camera al piano superiore.
Solo quando ebbe visto spegnersi la luce sulle scale, Venusia riuscì a respirare normalmente. Si alzò, le ginocchia tremanti, e subito Zuril fece altrettanto, rimanendo in piedi davanti a lei.
– Io… non so cosa mi è preso – disse in fretta Venusia, occhi bassi e guance in fiamme – Mi scuso, ma… non so cosa penserai di me…
– Quello che penso anche di me – rispose calmo lui, che aveva già riacquistato il dominio di sé – Siamo tutti e due troppo soli, Venusia.
Lei fece un passo indietro: – Io amo Actarus…!
– Non ne ho mai dubitato – Zuril si appoggiò con la schiena ad uno dei montanti della veranda – Quello di poco fa è stato solo un attimo di debolezza, nient’altro.
– Non avrebbe dovuto accadere. Mi dispiace…
– Oh. È stato così sgradevole?
– No… Mio Dio! – Venusia avvampò, tappandosi la bocca con una mano, mentre lui rideva dolcemente della sua confusione – Io volevo dire… non intendevo…
– Credo di sapere cosa volevi dire – Zuril si fece serio – Non fartene un cruccio, Venusia. È stata solo una sciocchezza, molto piacevole, certo, ma di nessuna importanza.
– Non avrei dovuto perdere il controllo…
– Neanch’io, se è per quello, e me ne dispiace molto. Ma per un attimo è successo.
Venusia si torse nervosamente le mani: – Cosa dirò ad Actarus?
– Occorre parlargliene?
– Non ho mai avuto segreti per lui…
– …Prima d’ora – completò Zuril; la vide incerta e aggiunse: – Puoi sempre dire che ho fatto tutto io. Actarus ti crederà senz’altro.
– Ma io non posso gettarti addosso tutta la colpa…
– Tuttalpiù – continuò Zuril – Actarus si stupirà che, con la fama di predatori che abbiamo noialtri, io mi sia accontentato solo di un bacio.
Venusia scosse il capo: – Hai ragione. Forse è meglio che non gli dica niente… ma…
– Decidi tu cosa preferisci fare – Zuril si staccò dal montante e sovrastò Venusia dall’alto della sua statura – Da me non saprà comunque nulla.
Lei non ebbe esitazioni: – Grazie, Zuril.


Trovando il giorno dopo Actarus totalmente amichevole nei suoi confronti, Zuril ne dedusse che Venusia non gli avesse detto niente; non dubitava però che prima o poi lei non avrebbe resistito, e gli avrebbe raccontato tutto. Le donne come Venusia – e come era stata Shaya – erano limpide e trasparenti, totalmente incapaci di mentire.
Trascorsero il resto della mattina a definire gli ultimi particolari. Zuril aveva ricevuto nuovi dati circa lo stato di Fleed e Moru, e assieme a Procton confermò che la decontaminazione totale non sarebbe stata impossibile. Ogni particolare fu sviscerato, vennero riesaminate le fasi dell’esodo sui due pianeti: tempi, modalità della liberazione dei prigionieri di Fleed, loro trasferimento. Era evidente che per il successo dell’operazione sarebbe stata necessaria la più stretta collaborazione tra i loro popoli: infatti, se Fleed aveva le materie prime fondamentali per trasformare il suolo inaridito in terreno fertile, era Vega ad avere le conoscenze e le attrezzature per ottenere un simile risultato. L’incognita peggiore, per i due sovrani, era proprio data dal fattore umano: dopo essersi combattuti ferocemente, i loro popoli avrebbero accettato di collaborare tra loro, pur sapendo che il prezzo era la loro stessa sopravvivenza?
Ormai, gli accordi erano stati presi, i tempi stabiliti. Non era più il momento di farsi domande, ma quello di cominciare a lavorare, e sperare che tutto andasse per il meglio.


Zuril trovò Venusia in cucina, intenta a riordinare le stoviglie pulite.
– Me ne vado, Venusia. – disse, piano – Torno su Skarmoon.
– Oh – lei depose sul tavolo la pila di piatti; incrociò il suo sguardo e distolse il proprio, imbarazzata: – Così presto…!
– Ormai, Actarus ed io abbiamo definito ogni punto del nostro accordo – rispose lui – Manca solo una cerimonia che dia ufficialità alla cosa, ma la pace tra Vega e la Terra è cosa fatta.
Lei s’illuminò in viso: – La guerra è davvero finita, allora?
– Già. Però io me ne devo andare.
Venusia prese in mano uno strofinaccio, lo torse tra le dita: – Mi dispiace molto che tu parta, Zuril.
Lui sorrise, pensando al sollievo pochissimo mascherato di Alcor e Maria, all’impacciata cortesia di Rigel, che in quei giorni s’era sempre sentito in imbarazzo con quel suo strano ospite… ma Venusia non fingeva, non ne era capace. La sua tristezza era sincera.
– Sei molto gentile, Venusia.
Cadde un silenzio imbarazzante. Venusia appese lo strofinaccio che fino ad allora aveva attorcigliato tra le mani e aprì il frigorifero: – Vuoi mangiare o bere qualcosa, prima di partire?
Lui fece per rifiutare, ma notò una bottiglia dall’etichetta verde e gialla; in quei giorni di gran caldo, aveva imparato ad apprezzare molto il té freddo al limone, per cui non resistette. Non avrebbe avuto tante altre occasioni per gustarlo.
Venusia gliene versò un bicchiere, e lui lo sorseggiò: – È veramente buono.
– Sono contenta che ti piaccia – Venusia si servì a sua volta.
– Mi è piaciuta anche la vita qui – Zuril si voltò a guardare attraverso la finestra di cucina i campi sotto il sole.
– Non avrei mai pensato che un veghiano amasse la vita all’aria aperta.
Zuril la guardò da sopra l’orlo del bicchiere, l’occhio che scintillava di un sorriso: – Probabilmente sono tante le cose di noi che ti stupirebbero. Come ti ho già detto, siamo più simili di quanto tu non possa credere.
Lei distolse lo sguardo: – Voi siete… piuttosto aggressivi.
– E tu, per noi, sei stata una nemica mortale – rispose calmo lui – Eppure, adesso ho conosciuto un’altra Venusia, una ragazza dolce e gentile, persino un po’ timida. Cosa dovrei pensare, io? Che mi stai ingannando e che questa Venusia così graziosa in realtà non esiste?
– Ma no, no, io… Io sono sempre io – disse in fretta – Se ho combattuto, è perché voi mi avete costretta a farlo. Noi non vi abbiamo mai attaccati, Zuril, ci siamo solo difesi.
– È vero – ammise lui, deponendo il proprio bicchiere vuoto.
Ancora silenzio. Non era stato facile vivere assieme, salutarsi era ancora più difficile; ma bisognava farlo.
– Grazie per tutto – Zuril le tese la mano.
– Spero di rivederti – disse lei; e lo pensava veramente.
– Zuril! Sei qui? – Actarus entrò all’improvviso nella cucina, arrestandosi immediatamente, gli occhi fissi sulle due mani ancora strette – Ah, eccoti. È arrivato il disco venuto a prenderti. Sta scendendo sul prato.
– Vengo – e con un ultimo cenno di saluto a Venusia, Zuril lo seguì fuori della casa.

- continua -

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16.

Il disco si posò silenziosamente sul prato, con una manovra perfetta, sotto gli occhi di Actarus e Zuril. Sopra le loro teste, Goldrake 2 e la Trivella Spaziale sfrecciavano in ampi cerchi, controllando che non vi fossero altri mezzi di Vega in avvicinamento. Zuril aveva garantito la massima collaborazione, Actarus gli credeva, ma anni e anni di guerra avevano insegnato la prudenza; uomo logico e ragionevole, il nuovo re di Vega non se la prese per questo, anzi. Al loro posto, avrebbe fatto altrettanto.
Il portello laterale del disco s’aprì, lasciando scendere un uomo alto e asciutto; Actarus, che fino ad un attimo prima era apparso tranquillo e di buon umore, s’incupì subito riconoscendolo. Tra tanti veghiani, proprio lui era venuto a prendere Zuril!
– Privilegi del rango – osservò serafico lo scienziato – Essere re ha i suoi vantaggi... anche quello d’essere scortato nientemeno che dal Comandante Hydargos in persona.
Actarus non rispose, gli occhi divenuti di ghiaccio fissi in quelli color acciaio brunito di Hydargos. Da sempre quel veghiano era per lui più di un semplice avversario: era un nemico personale, un uomo verso cui provava tutto l’odio e l’avversione possibili. Da quando poi era venuto a conoscenza che proprio lui, Hydargos, era il padrone di Naida, Actarus aveva patito l’indicibile. Trovarselo davanti fu davvero troppo.
– Vostra Maestà – salutò Hydargos, sempre fissando Actarus con un’espressione che il giovane non poté decifrare: derisione, trionfo...? Quel maledetto doveva sapere quanto lo facesse soffrire il sapere Naida in suo potere!
– Abbiamo raggiunto un accordo – annunciò diplomaticamente Zuril, cui non era certo sfuggita la tensione tra i due.
– È un’ottima notizia – rispose Hydargos, e Actarus fu sicuro di sentir vibrare ironia, in quella voce profonda. Sapeva che sarebbe stato meglio tacere, che fosse Zuril stesso ad affrontare l’argomento… ma non poté farlo. Vedeva Hydargos davanti a sé, tranquillo e sicuro, e sentiva l’irrefrenabile impulso di ferirlo.
– Un accordo che prevede delle condizioni precise – ringhiò – In caso contrario, non sarà possibile nessuna intesa.
– Quali sono queste condizioni? – nonostante il viso di Hydargos fosse rimasto assolutamente impenetrabile, Actarus percepì il suo nervosismo, e dentro di sé ne provò una sorta di gioia selvaggia. Che stesse male anche lui, finalmente!
– Mi risulta che abbiate prigioniera una donna di Fleed, Naida Barsagik – disse, guardandolo dritto in viso – Dev’essere liberata, assieme a tutti gli altri schiavi.
– No! – scattò Hydargos. Zuril lo fermò con un gesto secco della mano, prima di voltarsi per rispondere ad Actarus.
– La tua è una richiesta legittima, che ci eravamo aspettati – disse con fermezza.
– No! – ripeté Hydargos, furioso.
Zuril lo fulminò con un’occhiata, prima di rivolgersi ancora ad Actarus: – Disporrò senz’altro per la liberazione degli schiavi di Fleed. Quanto a Naida, te la condurrò personalmente, e al più presto. Hai la mia parola. Mi metterò in contatto con te non appena sarò pronto per partire.
– Ma...! – esclamò Hydargos.
– Comandante, converrete con me che Duke Fleed ha il diritto di fare una simile richiesta, e che noi non possiamo rifiutare; non è così?
Il tono di Zuril non ammetteva repliche. Hydargos impallidì, fu sul punto di esclamare qualcosa; poi la ragione e la disciplina ebbero la meglio. Si riprese e chinò la testa: – Sì, Maestà.
Risalirono sul disco, e il portello si chiuse dietro a loro.
Hydargos batté un pugno contro una parete e si girò di scatto verso Zuril, rabbioso: – Perché non hai rifiutato?
– Perché non avrebbe accettato un rifiuto – lo scienziato si passò una mano sulla fronte e strinse le labbra: – Mi spiace, Hydargos. Ma quello che è in gioco è troppo importante. Sicuramente lo capisci anche tu.
– Lo so, lo so! – ringhiò Hydargos – Tanto, a rimetterci sarò solo io!
– Mi rincresce che tu la prenda così – rispose Zuril, sempre calmissimo, mentre sedevano entrambi nei posti dei passeggeri – Comunque, si tratta solo di un colloquio. Non è detto che Naida accetti di tornare da Actarus… voglio dire, tu l’hai sempre trattata molto bene.
– Certo – Hydargos pareva improvvisamente invecchiato. Fece un gesto verso il soldato ai comandi, e il disco s’alzò in verticale sul prato.
– Mi dispiace molto, ma non ho davvero avuto scelta – aggiunse Zuril, battendogli leggermente sulla spalla.
Hydargos assentì, il viso cinereo, e parlò un’ultima volta prima di chiudersi nel più totale mutismo: – Andrò io a dirlo a Naida, se permetti.


– Duke Fleed vuole parlarmi? – Naida appariva insolitamente animata, occhi brillanti e guance rosee per l’eccitazione – Quando?
– Al più presto possibile – rispose cupamente Hydargos – Zuril t’accompagnerà.
– Come! – lei lo guardò, sorpresa – Tu non vieni?
– No. È meglio. Io aspetterò qui. Del resto, lui vuole parlarti da solo a sola.
– Sarà meglio che mi prepari – in Naida, la vergogna aveva ceduto il posto ad altri sentimenti: Duke Fleed, il suo Duke Fleed che tanto aveva amato, voleva assolutamente rivederla!
Si guardò ansiosamente allo specchio: era ancora piuttosto pallida e magra. Aveva il viso affilato, ombre azzurrine attorno agli occhi e i capelli, che le arrivavano poco più giù delle spalle, apparivano opachi, poco vitali. Che avrebbe detto, Duke? L’avrebbe trovata brutta, senza dubbio.
Sospirò, mentre si spazzolava i capelli in modo da farli brillare; andò poi all’armadio, chiedendosi nervosamente quale vestito avrebbe potuto indossare. Aveva una tunica bianco crema che le piaceva, che per taglio ricordava gli abiti leggeri di Fleed; la esaminò con occhio critico, appoggiandosela addosso. Conosceva abbastanza i gusti di Duke da sapere che l’avrebbe apprezzata, e molto.
Si guardò ancora: quella tunica mascherava un poco la sua magrezza, aderiva al punto vita e le addolciva la linea dei fianchi. Le stava bene, certo; ma come l’avrebbe trovata, Duke?
Hydargos rimase in silenzio ad osservarla, sempre più tetro, mentre lei si preparava vestendosi e pettinandosi, euforica come non l’aveva mai vista. Era bastata la semplice possibilità di rivedere quel maledetto Duke Fleed, e lei… lei, eccola lì, occhi brillanti e risatine, intenta a prepararsi per scendere da quel…!
– Naida – mentre lei gli passava accanto, Hydargos l’afferrò per un braccio.
– Sì – lei si fermò e guardò la mano di lui. Quel contatto sembrava infiammarle le carni.
– Lo ami ancora? Dopo tutto questo tempo? – Hydargos la prese per le spalle, le sue dita si posarono sulla pelle nuda di lei, e Naida fremette.
– Io… non lo so – tentò con scarsissima convinzione di liberarsi – Io… dovrei andare. Mi aspettano.
Hydargos l’attirò a sé, gli occhi che bruciavano.
– Dimmi, era così anche con lui, quando ti toccava? – chiese, febbrile, mentre le accarezzava la schiena – Sentivi quello che senti con me?
– Eravamo ragazzi – mormorò Naida, sentendosi mancare il fiato, mentre cercava d’ignorare il desiderio che cresceva rapidamente in lei. Ma perché quel veghiano, quel nemico, aveva un simile potere sul suo corpo?
– Ragazzi? – lui prese a baciarla quasi con furia sulle spalle, sulla nuca – Vuoi dire che non facevate niente di simile?
– Ti prego, Hydargos…! – gemette lei, senza sapere esattamente di cosa lo stesse pregando, se smettere o se continuare. S’afferrò a lui, incapace di resistere, abbandonandosi tra le sue braccia; Hydargos allora s’impossessò della sua bocca, costringendola a schiudere le labbra sotto i suoi baci.
– Lui non ti baciava così! – asserì poi, trionfante: Naida era aggrappata a lui, il respiro affannoso e il corpo illanguidito. La prese in braccio e lei s’abbandonò contro di lui, il viso nascosto contro il suo petto e i capelli che le scendevano in una cascata d’oro verde giù per le spalle. Hydargos la baciò di nuovo, quasi stesse apponendole il suo marchio: – Ricordati di tutto questo, quando incontrerai Duke Fleed.
Naida non disse nulla perché non c’era nulla da dire: le sue reazioni parlavano per lei. Quando Hydargos la depose sul letto stendendosi accanto a lei, nella mente di Naida non vi fu il minimo pensiero per il suo antico amore.


Appena arrivato su Skarmoon, Zuril si recò al Centro Medico per farsi togliere il microchip; quanto all’altra precauzione che aveva preso per assicurarsi il ritorno, gli fu rammentata non appena ebbe messo piede in sala comando.
– Non credi di dover sistemare qualcosa? – chiese asciutta lady Gandal, guardando in tralice il collega... no, era il sovrano, maledizione! Non si sarebbe abituata mai!
– Qualcosa…? – Zuril la fissò con uno stupore troppo marcato per essere autentico e sedette alla sua postazione – Non capisco proprio a cosa tu ti riferisca.
Lei si guardò nervosamente attorno; fulminò con un’occhiata un tecnico che lavorava ad una consolle, in un angolo. Purtroppo, essere nella Sala Comando aveva i suoi svantaggi: c’era spesso gente che vi stazionava, o che andava e veniva.
Lady Gandal sedette accanto a Zuril, che stava tranquillamente digitando sulla sua tastiera, e sibilò, perché non potessero udirla: – Il virus, Zuril. È da quando sei partito che vivo con il terrore che succeda qualcosa al computer centrale. Adesso elimina quello stramaledetto virus.
Zuril si permise un sorrisetto: – Non c’è nessun virus da eliminare.
Lei lo guardò, soffocando gli insulti che le erano venuti spontanei, incerta se essere sollevata o furiosa.
– Allora, non c’era nessun virus! – esclamò infine, ricomponendosi – Bene, bene. Ne ero certa. Sapevo che non avresti fatto una porcheria simile.
– Ma io l’ho fatta – rispose serafico Zuril.
– Ma se hai detto…!
– Ho detto che non c’è nessun virus da eliminare… perché l’ho già eliminato. Tutto qui.
Cosa?!
– L’ho fatto proprio ora, mentre stavamo parlando.
Lady Gandal serrò le mascelle fino a far scricchiolare i denti. Il virus c’era! Lui, quel bastardo, aveva messo a repentaglio tutto il sistema di Skarmoon… aveva osato
– Lo so, sono un disgraziato – disse lui, calmissimo.
– “Disgraziato” è un termine un po’ blando – ringhiò lei.
– È vero. Ma una signora elegante non usa certe parole.
Lady Gandal avrebbe voluto esplodere in un profluvio d’epiteti, spiegargli dettagliatamente di quali tipi di perversione lui si dilettasse, farlo segno d’una serie di parole che non sarebbero stati insulti, ma definizioni… ma non lo fece, per l’ottimo motivo che lui se ne sarebbe divertito troppo.
S’alzò, dignitosissima, e uscì senza dire niente.
Zuril ridacchiò tra sé, e tornò al suo lavoro.


– Ti fidi davvero di Zuril? – chiese Venusia, appoggiandosi alla balaustra della veranda, gli occhi che vagavano sul prato inargentato dalla luna.
– Ho bisogno di lui – rispose Actarus – e lui sa perfettamente d’aver altrettanto bisogno di me. È un uomo intelligente, capisce benissimo che allearsi con me sia tutto a suo vantaggio.
Venusia scosse il capo: – Pensare che fino a pochissimo tempo fa siamo stati nemici mortali...!
– Si può cambiare idea – osservò filosoficamente Actarus, sedendosi sulla balaustra, la schiena appoggiata al montante – Nemmeno io avrei mai pensato di allearmi con Vega; ma la realtà è che loro hanno scienziati, tecnici, attrezzature da laboratorio. Tutte cose che a me mancano, e che sono indispensabili per decontaminare e restituire la fertilità al mio mondo.
Fleed, già... oh, Actarus, in questo periodo non parli proprio d’altro... – E Zuril perché avrebbe bisogno di te?
– Perché io ho Goldrake, e lui ha l’esercito e le astronavi da guerra decimati. In questo momento, se un qualsiasi altro pianeta attaccasse Vega, Zuril potrebbe opporre ben poca resistenza.
– Cosa? – esclamò Venusia – Vuoi dire che tu difenderesti il popolo che ha distrutto il tuo mondo?
Gli occhi di Actarus ebbero uno scintillio azzurro: – Esattamente.
– Ma è assurdo...!
– Certo, assurdo. Ma la realtà è che né noi né Vega siamo in grado di sopravvivere senza l’aiuto dell’altro. Lo so io, e lo sa perfettamente anche Zuril. La fortuna è che la corona di Vega sia passata a lui e non ad un qualche pazzo guerrafondaio.
Venusia scosse il capo: – E cosa ti fa pensare che una volta sbarcati su Moru i veghiani non ricominceranno a costruire armi e astronavi?
Actarus sogghignò: – Moru è un pianeta piccolo e praticamente privo di grandi risorse. Era un importantissimo centro culturale, ma in fatto di materie prime dipendeva in gran parte dagli altri mondi... no, se anche Zuril fosse così stupido da tentare qualcosa del genere, capirà subito di non avere la minima possibilità di farcela. Credimi, i veghiani saranno troppo impegnati a sopravvivere, per pensare di poter attaccare gli altri popoli.
– Avevi pensato anche a questo, quando gli hai offerto Moru...! – esclamò Venusia.
– Certo. E sapevo che Zuril avrebbe capito cosa io gli stessi offrendo. Vega sopravvivrà, ma per un bel po’ di tempo non avrà la minima possibilità di nuocere.
Venusia assentì, ammirata: Actarus aveva dimostrato la sua generosità verso il nemico, ma allo stesso tempo gli aveva strappato gli artigli... improvvisamente lo vide per ciò che lui veramente era, un vero re.
E lei era solo una ragazzina di campagna... provò una stretta al cuore, mentre per l’ennesima volta continuava a tormentarsi: la sua coscienza le imponeva di rivelare quanto era accaduto con Zuril, ma...
– ...una splendida notizia – stava intanto continuando Actarus, che non s’era accorto della tensione della sua compagna – Zuril mi ha detto che Naida è viva. Naturalmente, ho preteso che venga liberata, e subito.
Venusia riemerse rapidamente dai suoi pensieri: – Cosa... Naida?
– Non riuscivo a crederci! – s’accalorò lui – Zuril ha promesso che l’accompagnerà personalmente, e al più presto. Naida viva! Non avrei mai sperato nulla di simile!
Venusia s’aggrappò alla balaustra. Naida viva! E lui che ne parlava con tanto fervore! ...Come aveva potuto lei sperare... sperare... e come avrebbe potuto competere con una donna come Naida? Non solo lei era bellissima, ma rappresentava Fleed; per Actarus, non avrebbe potuto esistere attrattiva più forte. No, la sua era una partita persa.
Sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Pensare che s’era tanto sentita in colpa per quel bacio dato a Zuril! Ma la realtà era che lei non era minimamente legata ad Actarus, lui non provava nulla per lei, a parte un certo affetto, amicizia... amicizia! Che poteva farsene, lei, della sua amicizia?
Rialzò il mento: bene, non gli avrebbe detto nulla, di lei e di Zuril. Non c’era alcun motivo per farlo... e poi, lui non pensava ad altro che a Naida e a Fleed. Non c’era posto per lei, nel suo cuore.
– Zuril torna? – chiese, riuscendo incredibilmente a mantenere ferma la voce – Ne sono contenta.
– Davvero? – Actarus sembrava sinceramente stupito.
– Certo! È una persona piacevole.
Actarus si voltò a guardarla, sforzandosi di decifrare nella penombra la sua espressione: – Piacevole? Pensare a tutte le opposizioni che hai fatto, quando ti ho detto che sarebbe venuto qui!
Lei sorrise, dolcissima: – Si può cambiare idea, no?
Rientrò in casa, senza aggiungere altro. Actarus rimase immobile fissando la porta da cui lei era scomparsa, stupefatto.
Non riusciva a capire cosa doveva pensare.

- continua -

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Siccome i prossimi giorni sarò via, posto i due capitoli che avrei dovuto mettere sul web la settimana prossima. Non sono lunghi, ma intensi pure questi.


17.

Il prato si stendeva davanti a loro, un intero mondo verde in movimento. Sospinte da una leggera brezza, le corolle multicolori dondolavano nel sole.
Naida trattenne il respiro per la meraviglia. Quasi non osava muoversi, gli occhi persi in quella magnificenza di colori… fiori bianchi, rosa, azzurri, gialli, rossi. Non poteva crederci.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre cadeva in ginocchio a braccia aperte, quasi avesse voluto abbracciare tutta quella bellezza… poi alzò la testa, guardò Actarus che l’osservava in silenzio ed accennò con un gesto ai fiori: – Non credevo che avrei mai visto una cosa simile… non dopo che Fleed…
– Un giorno su Fleed ci saranno ancora fiori – Actarus sedette accanto a lei. Non molto tempo prima, su quello stesso prato Alcor aveva discusso con Zuril, e tutto sommato ne era uscito perdente: – Naida, ho saputo che è possibile riportare Fleed alla vita. Mi capisci? Riavremo il nostro mondo!
Naida si chinò ad annusare un fiore; ma era una margherita, e non aveva odore. – Chissà quando, e se, succederà, Duke.
– Zuril dice che è possibile.
– Sì, certo – Naida scosse all’indietro i lunghi capelli – Ma ci vorrà tempo, molto tempo.
– Ho bisogno di sapere quanti abitanti di Fleed sono ancora vivi.
Naida scosse il capo, evitando il suo sguardo: – Non so. Uno schiavo ha vita breve, su Vega. C’erano altre donne prigioniere con me, ma non ho mai potuto sapere che ne è stato.
Actarus la guardò. – Tu sei sopravvissuta.
Naida si morse le labbra: – Ho avuto fortuna.
Un attimo di silenzio pesante.
– Va bene! – scattò lei – Sono la schiava di Hydargos. Vivo e vado a letto con lui da anni. È questo che volevi sapere?
– Naida, mi spiace…
– Non dovresti, invece. Hydargos è stato molto buono, con me. Se sono viva e in salute, lo devo solo a lui.
– Ma ti ha… ti ha…
– “Violentata” non è il termine giusto – rispose lei, secca – Io ero d’accordo. Lo sono sempre stata. Avrei fatto qualunque cosa, purché lui non mi facesse del male. Lui voleva una donna da portarsi a letto, e io gli ho dato quel che desiderava.
– Mi spiace…
– L’hai già detto. Ma ti ripeto, Hydargos è stato molto buono con me. Non mi avesse comprata lui, sarei finita chissà come, magari in pasto alle truppe. Ho avuto fortuna.
– Naida – Actarus la prese per le spalle – Non dovrai più vivere come una schiava. Andremo su Fleed, e lo ripopoleremo. Vedrai! Noi…
– Cosa mi proponi, esattamente? – lei alzò la testa e lo guardò: – Una volta dicevi d’amarmi.
– Eravamo ragazzini – rispose Actarus, indulgente.
– Sì, ragazzini… però io ti ho amato. Parlo sul serio. Quando mi hai detto che avresti sposato Rubina, io… io credevo che sarei morta…!
Rubina è morta – rispose Actarus, distogliendo il viso.
Ci fu un attimo di silenzio.
– Duke, per quanto non abbia certo voluto bene a Rubina, mi dispiace per tutto quello che è successo. Lei era gentile, non si sarebbe mai meritata… ed era così giovane! – Naida tacque un istante, poi riprese: – Resta però il fatto che siamo vivi, tu ed io. Cos’hai intenzione di fare?
– Tornare su Fleed non appena possibile – rispose lui, animandosi – Portarvi tutti i superstiti. Ripopolare il nostro mondo. Tu, Maria ed io siamo gli unici rimasti della casa reale di Fleed; abbiamo una grande responsabilità verso il nostro popolo.
Naida non rispose. Dentro di sé, aveva sempre provato vergogna per come si era salvata: milioni di fleediani erano stati sterminati, deportati, fatti morire di stenti; chissà quanti altri erano sopravvissuti, costretti ad una vita impossibile… e lei era viva. Sana. Bella. Amata, coccolata e nutrita da uno di quegli stessi veghiani che avevano massacrato il suo popolo… come avrebbe potuto guardare in viso gli altri sopravvissuti? Come avrebbe ancora osato definirsi abitante di Fleed, lei, la concubina di Hydargos?
Lacrime amare presero a bruciarle gli occhi; Naida nascose il viso tra le mani, ma Actarus pensò che stesse piangendo di gioia, di speranza, e non capì.
– Riporteremo Fleed ad essere com’era – stava dicendo, infervorato – Pianteremo alberi, erbe e fiori, e tornerà ad essere il meraviglioso giardino d’un tempo. Ricostruiremo le città…
– Non potrà mai essere come prima – Naida s’asciugò gli occhi – Tutto è cambiato, troppo cambiato…
– È vero – il viso di Actarus s’oscurò – Ma potremo comunque riavere il nostro mondo. La nostra casa.
Naida trasalì, colta da un pensiero improvviso: casa
Un senso d’inesprimibile tristezza le oppresse il cuore. Ma perché?
– Duke – chiese, sforzandosi di non far tremare la voce – Posso sapere cosa pensi di fare, circa noi due?
– Non capisco – lui la guardò e abbassò subito gli occhi.
– Sei il futuro re di Fleed. Dovrai sposarti, avere dei figli. È per questo che mi hai voluto parlare? Vuoi propormi…? – non finì la frase e lo guardò con aria interrogativa.
– Beh, io… – Actarus annaspò – Ma cosa c’entra, questo… prima dovremo pensare a resuscitare il nostro mondo, poi, in seguito…
Naida tacque ancora. In seguito… Più avanti… il senso di tristezza si fece sempre più forte. Lei ripensò a Fleed, ai sopravvissuti di Fleed che l’avrebbero disprezzata, a Duke stesso, che un tempo l’aveva lasciata per Rubina e ora si mostrava così sfuggente…
Un pensiero improvviso, lucido e tagliente come un coltello, le attraversò la mente. Naida si volse verso Actarus e lo guardò, lo guardò come se lo stesse vedendo per la prima volta.
– Quando ho scagliato la mia astronave contro quella di Vega, tu non ti sei chiesto se ero sopravvissuta… mi hai considerata morta, e basta – parlava adagio, come se stesse prendendo coscienza di qualcosa.
– C’era stata quell’esplosione – Actarus non sapeva perché dovesse sentirsi a disagio – Tutti ti abbiamo creduta morta.
– Non Hydargos – rispose lentamente lei, sempre guardandolo con occhi nuovi – Lui mi ha cercata. Lui mi ha raccolta. Lui si è preoccupato di farmi curare.
– Hydargos è un veghiano – sbottò Actarus – Non sarai più costretta a restare con lui.
– No, non sarò costretta – Naida si drizzò nella persona, improvvisamente sicura: ora capiva finalmente quale strada le si aprisse davanti – Adesso tornerò da lui non perché sono obbligata, ma perché sono stata io a volerlo.
Stupefatto, Actarus sentì mancargli il respiro: – Ma come… Naida! Ma se Fleed…
– Io non appartengo più a Fleed – Naida parlava in tono quasi di scusa – Non potrei guardare in viso gli altri sopravvissuti, io, proprio io, che… Scusami, Duke. Non verrò con te.
– Ma… ma noi abbiamo bisogno di te! Il nostro pianeta, il nostro Fleed che amiamo tanto…
– Non è più “mio”. E quanto a ciò che amo… – esitò, prese fiato; poi si voltò verso Actarus, piantando gli occhi in quelli di lui: – Ti ho amato, Duke. Davvero. Ma è ormai finita, è inutile far finta che non sia vero. Sono successe troppe cose.
– Naida…
– Adesso mi odierai per ciò che sto per dirti… ma la verità è che io amo Hydargos.
Actarus vacillò come se fosse stato colpito in pieno viso: – Hydargos…!
– L’ho capito solo ora – continuò lei, che ora che aveva iniziato a parlare non poteva più fermarsi – Forse non lo amo come ho amato te; però ho pensato alla mia vita senza di lui, e ho capito che non potrei essere felice. È un veghiano, ma con me è sempre stato molto buono; e io lo amo.
Actarus tacque, incapace di dire qualcosa, qualsiasi cosa.
Lei gli mise una mano sul braccio: – Perdonami se puoi, Duke. E buona fortuna.
Actarus non riuscì ancora a dire nulla, troppo sorpreso, e furioso, per parlare. Naida s’alzò sulle punte dei piedi e gli diede un bacio sulla guancia; poi s’allontanò di corsa in mezzo ai fiori, simile ad una ninfa dei prati. Imboccò il sentiero che tornava al ranch, là dove Zuril la stava aspettando per sapere cos’avesse deciso.
Naida correva, leggera, liberata, felice come non era più stata da anni e anni. Actarus rimase in silenzio, guardandola, allibito. Naida e Hydargos! Naida e Hydargos…
Un fulmineo, inaspettato senso di perdita gli oppresse il petto: la sua Naida non era più sua.
Improvvisamente, l’immagine di Venusia gli balenò davanti agli occhi. Alcor aveva insinuato che Zuril la corteggiasse… ed effettivamente, per tutto il tempo in cui era rimasto al ranch, il sovrano di Vega era sempre stato molto gentile con lei, che sembrava gradire le sue attenzioni… Allora, come Naida, anche Venusia avrebbe potuto…
Actarus balzò a cavallo, spronando l’animale perché galoppasse verso il ranch; tagliò giù per i campi, vide in lontananza la figurina sottile di Naida che correva, incitò ancora il cavallo perché andasse più veloce, più veloce…
Trovò Venusia e Zuril seduti fianco a fianco sul dondolo nel patio.
Con loro c’erano anche Rigel e Mizar, certo, ma la ragazza era accanto all’uomo di Vega, e sembrava che tra di loro ci fosse una notevole intesa; ridevano, complici, mentre Rigel cianciava di vecchi aneddoti, veri o quasi, risalenti al periodo in cui era stato in America. Actarus si sentì gelare: Venusia non solo non sembrava essersi accorta del suo arrivo, ma anche continuava a chiacchierare animatamente con Zuril… proprio Venusia, la sua Venusia della cui fedeltà e dedizione non aveva mai dubitato.
Naida gli aveva preferito Hydargos; Venusia l’avrebbe lasciato per Zuril…?
– Oh, sei qui, Actarus – Mizar lo salutò agitando festosamente una mano – Vuoi una bibita fresca?
– Dov’è quella bella signorina che era con te? – chiese Rigel.
– Naida viene subito – Actarus scese da cavallo ostentando una calma che non provava affatto; legò alla bell’e meglio l’animale e s’avvicinò al gruppetto seduto attorno al tavolino – Cosa c’è da bere? Aranciata?
– Tè freddo al limone – Venusia si alzò per servirgli la bevanda, e intanto si rivolse a Zuril: – Come vedi, non ho dimenticato i tuoi gusti.
– Sei molto gentile, come sempre – Zuril le sorrise, mentre lei gli colmava nuovamente il bicchiere; poi Venusia tornò a sedere accanto al sovrano di Vega, mentre Actarus si metteva più in là, scuro in volto.
– Cos’ha deciso, Naida? – chiese Venusia, che non pareva far molto caso alla serietà di Actarus.
– Sarà meglio che ve lo dica lei stessa – Actarus si guardò in giro: – Alcor e Maria…?
– Sono a fare una corsa in moto – Venusia sorrise a Zuril: – Non sono capaci di stare tranquilli, quei due.
– Sono ragazzi – Zuril alzò lo sguardo vedendo giungere Naida: aveva il viso roseo e animato, gli occhi brillanti per la corsa, i capelli che scintillavano nel sole. Non era mai stata così bella.
La giovane salì i due scalini che portavano al patio, e s’arrestò, incerta, mentre Zuril s’alzava educatamente come per andarle incontro. Lei si guardò attorno e vide Actarus, cupo, che pareva guardare lontano.
– Mi dispiace, Duke – gli disse – Non avrei mai voluto offenderti.
– Non sono offeso – Actarus s’impose di mostrarsi più amichevole, ma con scarsi risultati.
Naida s’accorse che tutti la guardavano con aria interrogativa, e parve stupita: – Come! Non gliel’hai detto?
– Non ha voluto dirci nulla – disse Zuril, col suo tono gentile – Suppongo che vorrai restare qui, comunque.
– Oh, no! – Naida rise, come se si fosse liberata da un peso – Io torno con te su Skarmoon.
Ci fu un movimento di stupore; Zuril fu il primo a riprendersi. Non era persona da grandi esplosioni emotive, lui.
– Se torni – avvertì – sarai nuovamente una proprietà di Hydargos, dovrai vivere sempre con lui. Pensaci.
Naida allargò le braccia, in un allegro gesto di resa: – Ma vivere con lui è quello che voglio! – vide che persino Zuril, l’imperturbabile Zuril, pareva sinceramente sorpreso, e aggiunse, ridendo: – Ho scoperto una cosa… io amo Hydargos. Ecco tutto. …Posso avere qualcosa da bere anch’io?
– Oh… certo – Venusia, da quella perfetta padrona di casa che era, s’affrettò a servire la sua ospite – Ti prego di scusare la nostra sorpresa, ma…
– Sono sorpresa anch’io – Naida era euforica – Ma la verità è che solo adesso che posso tornare libera, e non stare più con lui, ho capito che lo amo.
– Spero che tu non abbia a pentirti di questa scelta – osservò cupamente Actarus – Comunque, se cambierai idea potrai tornare da noi in qualsiasi momento… ammesso che lui ti lasci andare.
– Grazie, Duke... ma non credo che avrò modo di pentirmi.
Zuril scambiò un’occhiata con Naida e sorrise. Il giorno in cui l’aveva presa con sé, Hydargos aveva trovato un vero tesoro.


Venusia raccolse su un vassoio i bicchieri sporchi; indugiò un attimo tenendo in mano quello che aveva usato Zuril, o almeno così parve ad Actarus, che seguiva cupamente tutti i suoi gesti. Venusia sembrava felice, sorrideva tra sé come se avesse avuto un qualche segreto… un segreto da cui lui, Actarus, era escluso. Per la prima volta da che la conosceva, lei gli appariva remota, distante, invece di stargli attorno in cerca della sua attenzione, del suo amore.
Naida l’aveva lasciato. E Venusia…?
– Ti dispiace tanto che se ne sia andato? – chiese, più brusco di quel che avrebbe voluto.
– Chi? – Venusia parve riscuotersi dalle sue fantasie.
– Zuril. Avete fatto amicizia, voi due.
Lei pose anche la caraffa vuota sul vassoio: – È molto gentile.
– È un veghiano – disse Actarus – È stato per anni un nostro nemico. Non dimenticartelo.
– Non c’è pericolo che lo dimentichi – nervosa, lei prese a strofinare il tavolo con un panno umido.
Actarus s’appoggiò con finta noncuranza alla ringhiera del patio: – Avresti preferito che rimanesse ancora?
Venusia sentì un lampo d’esultanza scaldarle il cuore… tutte quelle domande, quell’atteggiamento indifferente così fasullo… Oh, Actarus…!
Essere troppo disponibile, con un uomo come Actarus, è controproducente. Così aveva detto Zuril.
Una nuova luce apparve negli occhi di Venusia. Actarus appariva stranamente teso, nervoso… perfetto.
– Cosa conta quel che desidero? – chiese, con una disinvoltura che sorprese lei stessa per prima – Lui è partito. Ecco tutto.
S’avviò verso la cucina, il vassoio in mano; Actarus l’afferrò per un polso, trattenendola: – Sì, ma tu avresti preferito che Zuril rimanesse?
Venusia esitò, incerta su cosa rispondere… poi, quella nuova parte di sé che stava improvvisamente emergendo le suggerì la risposta da dare: – Mi stai facendo male.
– Scusa – Actarus la lasciò subito, e lei rientrò verso la cucina, canticchiando sommessamente.
Ma nel suo cuore gorgheggiava a squarciagola.

18.

In piedi davanti all’ampio finestrone, Hydargos osservava torvamente la Terra, azzurra e luminosa sul nero dello spazio.
La porta scivolò di lato, ma lui non si volse nemmeno. Naida si fece avanti, titubante, fermandosi nel vedere la gelida immobilità di lui. Mentre faceva ritorno su Skarmoon, s’era aspettata che lui si mettesse in contatto con Zuril per sapere cosa lei avesse deciso; invece, niente. Ora, eccolo lì, intento a voltarle le spalle: eppure, doveva aver saputo che lei era tornata.
Aspettò, mentre la porta si richiudeva silenziosamente; poi, visto che lui non pareva intenzionato a parlarle, o almeno a voltarsi verso di lei, Naida prese fiato e coraggio: – Hydargos.
Lui trasalì al suono della sua voce; quando si voltò rimase però impassibile, il viso severo. La fissò a lungo, mentre Naida pareva rattrappirsi sotto quegli occhi gelidi.
– Sono tornata – disse, esitante. Non capiva quella reazione così fredda da parte di lui… non sembrava nemmeno lo stesso uomo che due giorni prima l’aveva amata con passione febbrile: – Hydargos… cosa c’è?
– Perché sei qui? – chiese lui, la voce sorda – Duke Fleed non ti ha voluta?
Oh, è questo, pensò Naida, rincuorandosi.
– No – rispose, facendosi più sicura – Lui mi voleva. Sono stata io che ho preferito tornare.
Hydargos la squadrò da capo a piedi, ma non si mosse: – Credevo che amassi Duke Fleed.
– L’ho amato – ammise lei – Il tempo passa, e le cose cambiano. Me ne sono resa conto mentre gli parlavo. Duke avrebbe voluto che andassi con lui su Fleed; ma io ho preferito tornare qui, da te.
Un lampo balenò negli occhi di Hydargos; ma fu un attimo, e lui rimase immobile dov’era, innaturalmente gelido.
– Io t’avevo lasciata libera – esclamò – Non hai più obblighi verso di me.
– Sì, lo so. Zuril me l’aveva detto. Sono stata io a voler tornare da te.
Un altro lampo, subito soffocato. Quando parlò ancora, Hydargos evitò deliberatamente di guardarla.
– Capisci che adesso sarai nuovamente ciò che eri… una concubina? Hai gettato via la tua libertà, te ne rendi conto?
– Zuril mi ha detto anche questo – ma perché sei così freddo? Perché non mi guardi, non mi abbracci? Cos’ho fatto da disgustarti a questo modo?
Hydargos alzò il mento, gli occhi fissi su un punto indefinito: – Hai scelto liberamente. Sei tornata da me di tua spontanea volontà, dunque. – La trapassò con lo sguardo: – Perché?
– Ascoltavo Duke parlare del nostro futuro – rispose fievolmente lei, le lacrime che le bruciavano gli occhi – e mentre lui parlava io mi sentivo inquieta, e triste, profondamente triste… poi, ho compreso il perché. Tu non avresti fatto parte di quel futuro. Allora ho capito che volevo solo tornare da te.
– Sono solo il tuo padrone, nient’altro – brontolò lui.
– Avresti potuto farmi del male, vendermi, anche uccidermi – Naida sentì le lacrime scorrerle giù per il viso, e si asciugò rapidamente con una mano – Invece sei stato molto buono con me. Quando tutti mi credevano morta, tu mi hai salvata. Credi che possa dimenticarlo, questo?
Hydargos alzò la testa. La sua maschera crudele si stava infrangendo, ma non era ancora caduta: – Ah. Sei tornata per gratitudine. Capisco.
– No! Io ti amo! – lo vide vacillare; sentendosi più sicura, Naida proseguì, accalorandosi: – È vero, ho amato Duke Fleed. È stato il mio primo, grande amore, i miei sogni di ragazza... Quello che provo per te è completamente diverso, ma noi non siamo ragazzi, siamo adulti. Voglio vivere ancora con te, perché finalmente ora la mia vita ha un senso; e se per questo devo tornare ad essere una schiava, bene, eccomi qui.
Lui appariva ora profondamente scosso. Mai avrebbe creduto che lei sarebbe tornata, mai avrebbe immaginato quella sua confessione, fatta con estrema, disarmante semplicità… mai si sarebbe aspettato la sua rinuncia alla libertà. Per vivere con lui…!
– Vieni qui – fu tutto ciò che riuscì a dire; aprì appena le braccia, e subito Naida vi si slanciò, rannicchiandosi contro il suo petto e offrendogli le labbra. Ma lui non la baciò.
Scosso da emozioni che non poteva più reprimere, Hydargos nascose il viso nell’incavo del collo di lei, lottando disperatamente per recuperare il controllo… poi, allora e solo allora, rialzò la testa, guardò quella giovane, bellissima donna tornata volontariamente da lui: per la prima volta da che era divenuta la sua schiava, quasi non osava toccarla, proprio lui, che aveva sempre fatto di lei ciò che più gli era piaciuto.
– Hydargos! – lei era sorpresa, quasi intimorita: – Cosa c’è? Non mi vuoi più?
Lui scosse il capo: aveva la gola contratta, non si sentiva sicuro di poter controllare la sua voce… strinse perciò Naida tra le braccia, toccandola quasi con precauzione, come se lei avesse potuto spezzarsi… poi finalmente si chinò a baciarla, dapprima timidamente e poi facendosi via via più sicuro.
Era tornata. Non voleva andarsene. Non l’avrebbe lasciato.
Non avrebbe mai pensato di poter essere così completamente, dolorosamente e totalmente felice.


Come sarebbe a dire che vuoi sposarla?! – lady Gandal era a dir poco allibita.
– Esattamente quello che ho detto – rispose Hydargos, asciutto.
– Sposare una concubina…? Ma che senso ha? Vive con te, puoi farne ciò che vuoi… sposarla significa solo renderla libera!
– Appunto.
– Con tutti i diritti di una veghiana nata libera!
– Infatti. Sposandola, l’affranco automaticamente dalla schiavitù; non è così?
Sbalordita, lady Gandal si lasciò cadere sulla sua poltroncina: – Sì, è una procedura molto più rapida che compiere un atto di liberazione.
– È ciò che voglio.
– Te ne pentirai.
– Forse. Ma me ne pentirò sicuramente se non lo farò. …Puoi cominciare a preparare i documenti necessari?
Sempre più stupefatta, lady Gandal fece apparire sul monitor del suo computer la schermata che l’interessava; poi guardò ancora Hydargos: – Magari, dopo che tu avrai perso tempo e speso denaro per sposarla, lei chiederà il divorzio! Ci hai pensato?
– Certo – rispose lui – Però, se starà con me sarà solo perché desidera restare, non perché è costretta.
Lady Gandal scosse il capo: – Continuo a pensare che sia un errore.
– Io invece credo il contrario.

- continua -


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Un altro paio di sberlotti ad Actarus... così, tanto per non perdere le buone abitudini.^^



19.

Le analisi accurate eseguite da Zuril su Moru e Fleed avevano confermato il fatto che le atmosfere di entrambi i mondi fossero nuovamente salubri. Anche le acque apparivano nel complesso in buone condizioni; sarebbe stato prudente installare dei depuratori, naturalmente, ma le analisi erano davvero incoraggianti. Quanto alle superfici, erano state evidenziate ampie zone non contaminate; solo alcune regioni erano ancora veramente pericolose, il resto, che era la maggior parte, mostrava una contaminazione molto bassa. Deciso comunque a non correre rischi, come prima mossa il sovrano di Vega inviò sui due pianeti dei decontaminatori robotici che irradiarono i terreni con vegatron invertito. La bonifica diede ottimi risultati: in entrambi i mondi, solo alcune aree rimasero non abitabili, almeno per il momento; sarebbe stato comunque possibile ripetere la bonifica in futuro. Quel che contava era stato ottenuto: ampie zone erano ormai pronte ad accogliere i nuovi abitanti.
Fu allora che Actarus e Maria, salutati col cuore stretto i loro amici terrestri, partirono per un viaggio nello spazio, imbarcandosi così nella più disperata delle loro avventure: riportare alla vita il loro pianeta malato, Fleed.
Per i due giovani non fu difficile decidere da dove cominciare a ricostruire il loro mondo: di comune accordo scelsero di ritornare dove un tempo sorgeva la loro reggia. Là era stata la capitale di Fleed, là tutto avrebbe avuto di nuovo inizio.
Il rivedere quei posti li lasciò senza fiato: il palazzo era in rovina, i giardini scomparsi. Il lago era però come Actarus lo ricordava, e così il sole e il vento lieve che si alzava sempre nel primo pomeriggio... sentendosi quella brezza carezzargli la pelle, il giovane si commosse fino alle lacrime. Non aveva dimenticato.
Chi invece non ricordava nulla era Maria: aveva tanto sperato che tornare su Fleed le avrebbe riportato i ricordi d’un tempo, ma non era stato così, e la delusione fu cocente. Invece di riconoscere il luogo in cui era nata, lei provava un forte senso d’estraneità: si sentiva come se fosse stata sradicata e ripiantata in un suolo ostile. L’entusiasmo del fratello le tolse però il coraggio di manifestare il suo disagio: Maria tacque, impegnandosi a fondo per affezionarsi quel mondo che ormai sentiva estraneo.
Visto che la reggia era ormai completamente distrutta, Actarus impiegò Goldrake per sgomberare le rovine: quando fossero finalmente giunti gli schiavi liberati da Vega, avrebbero trovato un’ampia spianata, pronta perché vi fossero ricostruiti i primi alloggi.
Zuril invece non ebbe alcun vincolo affettivo nel decidere il posto in cui insediarsi con la sua gente: semplicemente, studiò l’intera superficie di Moru e scelse un luogo ben bonificato, adatto alla costruzione della nuova capitale, con terreni fertili... e vicino al mare. Finché era vissuto su Skarmoon, aveva sofferto molto per la mancanza d’uno specchio d’acqua, per cui non seppe resistere, e individuò un luogo ideale per la nuova città proprio su un ampio golfo.
Quando scese dalla sua nave, Zuril sentì la sabbia sotto ai piedi e poté spaziare con lo sguardo sulla superficie increspata del mare; non appena annusò il vento dal profumo di salsedine e udì lo scroscio delle onde, provò un forte senso di comunione con quel suo nuovo mondo che l’accoglieva. Era la sua terra; lui sentì d’amarla profondamente, di appartenerle fino all’ultima fibra del suo essere.
I primi a giungere su Moru dopo i sopravvissuti di Skarmoon furono un gruppetto di tecnici provenienti da Zuul. Uomo pratico, Zuril aveva deciso da subito che la nuova città che sarebbe sorta sarebbe stata costruita secondo precisi canoni ecologici: Moru non sarebbe stato l’ennesimo mondo distrutto da Vega. Come era avvenuto su Zuul, il suo pianeta natale, le abitazioni si sarebbero integrate perfettamente nell’ambiente, l’impatto sarebbe stato minimo e gli sprechi sarebbero stati evitati. Per questo Zuril aveva affidato il progetto a degli esperti che aveva posto sotto la sovrintendenza di lady Gandal: lei sarebbe stata la responsabile della costruzione della nuova città, mentre Hydargos si sarebbe occupato degli approvvigionamenti. Quanto a lui, oltre al suo impegno come sovrano, avrebbe trascorso più tempo possibile in laboratorio, a perfezionare la nuova formula di fertilizzante organico cui stava lavorando.
Fu così che, poco per volta, la nuova città cominciò lentamente a prendere forma: gli edifici vennero costruiti in roccia locale, isolati con materiale biologico e con solo le finiture metalliche, e ampi spazi vennero lasciati tra uno stabile e l’altro: anche su Zuul, le case erano separate tra di loro da zone verdi, e addirittura nella maggior parte dei casi erano completamente nascoste alla vista da alberi e cespugli. Col tempo, anche su Moru sarebbe cresciuta una vegetazione lussureggiante.
I veghiani avevano un gusto piuttosto severo, e Zuril non era da meno: preparò lui stesso la pianta della propria abitazione (nemmeno lui voleva definirla “reggia”), disegnandola di misure decisamente ridotte sia per quantità di stanze che per proporzioni delle medesime. L’unica concessione che si fece, una loggia che dava sul golfo: da là, avrebbe potuto spaziare con lo sguardo sul mare – e avrebbe potuto scendere sulla spiaggia, naturalmente. Quando i depuratori fossero entrati in funzione, e le acque fossero tornate completamente sicure, avrebbe anche potuto nuotare... ma per ora si trattava solo di un sogno.
L’attività ferveva quindi su entrambi i mondi: se da una parte Actarus e Maria attendevano le prime navi con gli schiavi liberati, dall’altra i veghiani stavano ricevendo navi e navi di profughi dai vari mondi che un tempo avevano costituito l’Impero di Vega: gente fuggita da pianeti ormai liberi come Upuaut o Ruby, gente sbandata che aveva perso ogni cosa e che non sapeva più come vivere, perché non c’era più un pianeta Vega cui fare ritorno. Zuril li vedeva arrivare con un misto di piacere e preoccupazione: perché se da un lato era bello per lui veder ingrossare le fila del suo popolo, dall’altro il pensiero di come avrebbe potuto trovare di che sostentare tutti lo preoccupava non poco.
Altrettanta preoccupazione, anche se di genere del tutto diverso, la provava Actarus, su Fleed: presto avrebbe incontrato nuovamente dei fleediani, e non aveva la più pallida idea di come l’avrebbero accolto, dopo tanto tempo.


Actarus prese fiato: questa sarebbe stata la sua peggior battaglia.
Davanti a lui, una folla di gente sparuta, dagli abiti stracciati e dal viso indurito di chi ha visto e conosciuto l’inferno. Uomini, donne... Actarus si sentì stringere il cuore, vedendo pochissimi ragazzi e nessun bambino o anziano... gente che era stata schiava di Vega, che era sopravvissuta ad orrori indescrivibili e che ora era tornata libera.
Gente che con ogni probabilità l’avrebbe considerato “uno che si era salvato”. Non aveva condiviso il loro orrore, lui.
Muti, immobili, i fleediani sembravano incapaci di far altro che guardarsi attorno, chiedendosi se quella specie di arida prateria fosse il meraviglioso pianeta lussureggiante cui tempo prima erano stati strappati. Ricordavano prati verdissimi, boschi, fiori, acque limpide e città aeree e luminose; vedevano solo vegetazione stentata, il grande lago torbido e rovine dappertutto. Solo il cielo era azzurro e luminoso come lo ricordavano.
Alle spalle del fratello, Maria sentiva crescere in sé la tensione. Per tanto tempo avevano aspettato che arrivasse la prima astronave con gli schiavi liberati da Vega; ora però li avevano davanti, uomini e donne che avevano patito orrori tali in confronto ai quali le loro sofferenze non erano nulla. Si trattava di un gruppo compatto di centoventi persone, inviati da Zuril assieme a provviste e altri generi di prima necessità; tuttavia Maria temeva che difficilmente avrebbero provato gratitudine verso lei e suo fratello. Certo, li avevano liberati, ma...
Actarus mosse un paio di passi verso di loro; subito i fleediani smisero di guardarsi attorno e lo fissarono. L’odio era palpabile.
– Aspetta...! – bisbigliò Maria, cercando di trattenerlo; ma Actarus scosse il capo e andò avanti. Aveva sempre affrontato qualsiasi ostacolo: non si sarebbe certo tirato indietro ora.
I fleediani si strinsero gli uni agli altri, un muro compatto e ostile; davanti a loro, una donna matura, ancora bella nonostante avesse il viso segnato da una cicatrice di frustata. Actarus comprese subito che fosse lei il capo del gruppo. Avrebbe voluto andarle incontro, ma comprese di doversi tenere a distanza.
– Vostra Altezza – disse educatamente lei, e Actarus sentì il disprezzo vibrare in quella voce fredda.
Actarus aprì la bocca, ma non emise alcun suono: che avrebbe potuto dire, a quella gente che aveva sofferto l’indicibile? Se solo lui avesse potuto far loro comprendere...!
Il silenzio si fece glaciale.
– Dov’eri quando i veghiani hanno bombardato Fleed? – urlò una voce rabbiosa.
Un mormorio minaccioso si levò dalla folla. La donna fece un gesto secco, ottenendo il silenzio; poi si voltò verso Actarus, guardandolo con scarsissima simpatia: – Mi chiamo Yaret. Come tutti i miei compagni, ho perso la famiglia, la casa, gli amici, tutto ciò che avevo. In questi anni, siamo sopravvissuti nei campi di lavoro su Ruby. Se siamo ancora vivi, è solo perché ci siamo dati forza l’un l’altro, giorno per giorno; e giorno per giorno, ci siamo chiesti perché ci avete abbandonati per tutto questo tempo.
– Non vi ho abbandonati! – esclamò Actarus – Quando Re Vega ha assalito Fleed, io ho combattuto. Sempre! Ho distrutto mostri e abbattuto astronavi... – chinò la testa – Erano troppi, troppi anche per Goldrake.
– Però sei scappato! – gridò una voce dalla folla – Perché non sei morto combattendo?
– Avrei voluto! – urlò Actarus, mentre altre voci s’univano alle prime – Non volevo andarmene, ma stavano per catturare Goldrake! Allora mi è stato... mi è stato ordinato...
– Di scappare! – la folla rumoreggiò, Yaret la tenne a bada con un gesto imperioso, prima di voltarsi nuovamente verso Actarus:
– Cosa vi sarebbe stato ordinato?
– Di mettere in salvo Goldrake – articolò il giovane, a fatica – Mai e per nessun motivo avrebbe dovuto cadere in mano a Vega.
– Questo è vero – un uomo si fece avanti, fendendo la folla – Posso testimoniarlo, perché ero presente.
Actarus lo guardò tentando di riconoscerlo: era un uomo alto, dai capelli grigio ferro e i tratti fieri... Skander, il capo delle guardie di palazzo? Possibile?
– Sua Maestà in persona diede quell’ordine – continuò l’uomo, e la sua voce baritonale sembrò squillare sopra le teste dei fleediani – Il principe non avrebbe voluto obbedire, ma Sua Maestà fu inflessibile: Goldrake era un’arma troppo potente perché Re Vega potesse impadronirsene.
Un altro mormorio tra la folla: – E proprio lui doveva portarlo via...!
– Vi siete dimenticati che solo Duke Fleed può avvicinarsi a Goldrake senza essere colpito dal suo sistema difensivo? – esclamò Skander, affrontando fieramente la folla – Quanto alla principessa Maria, è stata salvata per iniziativa del segretario personale di Sua Maestà.
La folla tacque, incerta. L’ostilità era molto meno marcata, ma sempre percepibile. Yaret taceva fissando Actarus, il viso impenetrabile.
– Goldrake mi ha portato sul pianeta Terra – disse il giovane, e le parole sembravano sgorgargli a fatica, come se avesse avuto la gola stretta – Per anni non ho saputo nulla di Fleed, di voi, se ci fosse ancora qualche superstite... poi Vega ci ha attaccati, e io ho combattuto.
Un mormorio d’assenso. Lo sapevano.
Actarus li guardò, disperato. Avrebbe voluto dir loro... cos’avrebbe potuto raccontare, a quella gente? Il suo dolore? Ma loro avevano patito più di lui! Cosa, allora? La sua angoscia nel non sapere nulla di loro, di non aver potuto condividere la loro pena, il loro terribile destino? Il tormento che provava ora, mentre si sentiva tagliato fuori dai suoi simili? Se avesse patito con loro, adesso non l’avrebbero considerato un estraneo...
Quel silenzio, quel disprezzo, lo spezzarono come Vega non avrebbe mai potuto fare. Actarus si coprì il viso con le mani e crollò in ginocchio a terra, le spalle scosse da un pianto silenzioso.
La folla parve riscuotersi; Maria fece per raggiungere il fratello, ma Skander le fece cenno di restare dov’era, e qualcosa le suggerì di obbedirgli.
Yaret si fece avanti.
Actarus non se ne accorse nemmeno.
La donna si chinò, gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Il giovane alzò il viso rigato di lacrime e la guardò, interrogativo; all’improvviso, si rese conto che lei lo capiva. Come molti fleediani, lei doveva possedere poteri ESP che le avevano permesso di percepire la sua angoscia... una telepate, forse?
Lentamente, si rimise in piedi aggrappandosi alla salda mano di lei. Si sentiva come un bimbo che incomincia a camminare.
– Vi dobbiamo la nostra libertà, Altezza – disse la donna, il viso serio e un sorriso che le brillava negli occhi – Grazie.
La folla gli andò incontro, circondando lui e Maria: grazie ai poteri empatici di Yaret, avevano percepito nei loro due principi il loro stesso dolore, la loro stessa angoscia.
Si riabbracciarono, felici di essersi ritrovati.

- continua -

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Penultimo capitolo, bello corposo e con un paio di sberlette per il principe, così, per non perdere le buone abitudini.^^

20.

L’ostilità era a dir poco palpabile.
Bene, ci siamo, si disse Zuril.
Rivolse uno sguardo di monito al suo seguito – guai se qualcuno non si fosse attenuto alle sue istruzioni! – prima di voltarsi verso i suoi ospiti, il viso atteggiato ad un’espressione cordiale, a dispetto dell’odio che percepiva.
Tempo prima, lui ed Actarus avevano convenuto che fosse necessario rompere il ghiaccio e ricucire al più presto i rapporti diplomatici tra Fleed e Vega: ormai i destini dei loro popoli erano legati indissolubilmente, continuare con le ostilità sarebbe stato negativo per tutti. La guerra era definitivamente finita, questo doveva essere ben chiaro a chiunque.
Sarebbero stati i veghiani a fare visita per primi al pianeta Fleed; Zuril aveva perciò affidato il comando alle capaci mani di lady Gandal, aveva chiesto ad Hydargos di affiancarlo e, scelti con cura coloro che l’avrebbero accompagnato, si era diretto verso il pianeta dell’uomo che, fino a non molto tempo prima, aveva sterminato le armate di Vega.
Ora erano scesi dalla loro astronave; niente più li separava da quelli che erano stati i loro nemici.
Erano una ventina di veghiani, e in pratica si stavano consegnando disarmati ed inermi a Duke Fleed e al suo popolo.
Dall’altra parte, i fleediani non potevano celare l’odio che provavano per i loro visitatori: troppo sangue, troppi morti, troppa rovina, troppe cose erano intercorse tra di loro. Actarus gettò uno sguardo severo ai suoi uomini: poco prima aveva tenuto un discorso in cui aveva fatto capire chiaramente che chi non avesse obbedito alle sue direttive sarebbe incorso in guai, e guai seri. I suoi ordini erano chiarissimi: trattare i veghiani con rispetto e cortesia, qualunque cosa fosse accaduta.
Per questo, Actarus si era recato al punto di atterraggio dell’astronave assieme a Skander, Yaret e il resto del proprio seguito, per questo era rimasto in attesa che il sovrano di Vega scendesse dalla nave; per questo ora si fece incontro a Zuril con un gran sorriso sul volto, pronto a stringergli la mano.
Rimasta indietro, Maria non sapeva decidersi: quella gente la spaventava, si sentiva il cuore pieno di odio e disgusto al solo vederli. Pensare di dover trattare con quelle persone, dover vivere per qualche giorno sotto lo stesso tetto con quei mostri assassini...
Percepì attorno a sé il suo stesso astio, e si riprese subito: era una principessa. Doveva dare l’esempio.
Actarus aveva ormai raggiunto Zuril, e i due si erano messi a parlare tra di loro con la massima amabilità; del resto, erano diventati amici, questo Maria lo sapeva bene, anche se faticava a capacitarsene. Doveva sforzarsi d’ignorare chi fosse veramente Zuril, cosa avesse fatto, perché il solo pensiero la faceva inorridire. Anche lei avrebbe dovuto mostrarsi gentile, ma... ma...
Fu allora che, seminascosta dietro Hydargos, Maria scorse la figura esitante di Naida.
Ancora più a disagio di quanto non si sentisse lei, la giovane donna si stringeva al marito: duchessa di Fleed, sapeva che gran parte del biasimo sarebbe stato per lei, colpevole agli occhi del suo popolo di tradimento e fraternizzazione col nemico. Una nobile di Fleed divenuta moglie di un comandante di Vega! Naida sentiva decine di occhi ostili su di sé, e aspettava tremando che qualcuno le rivolgesse un insulto, le gridasse qualche ingiuria.
Maria si decise con l’impetuosità che le era propria: sotto gli occhi stupefatti dei fleediani, andò dritta verso Naida e l’abbracciò come una sorella, dandole un caloroso benvenuto. Allibita, la donna rimase immobile un istante, prima di ricambiare l’abbraccio: aveva tanto temuto quel momento, tanto...! Sentirsi accogliere così da Maria le fece venire le lacrime agli occhi.
Un fremito passò tra i fleediani presenti, e subito i veghiani ebbero un moto istintivo di difesa; i due sovrani si voltarono verso i rispettivi sudditi, gettando occhiate d’ammonimento. Poi Yaret si fece lentamente avanti (gran donna! Actarus in quel momento l’avrebbe baciata), un veghiano osò fare altrettanto. Qualche saluto fu scambiato, qualche parola venne detta; non si poteva certo parlare di clima sereno, ma almeno il ghiaccio era stato rotto, e l’odio era un po’ meno palpabile di prima.
– Salutiamo questi nostri... vicini – all’ultimo momento Actarus evitò di dire “amici”, sarebbe davvero stato un po’ troppo – che ci hanno portato in dono delle formule per fertilizzanti di nuova generazione che ci permetteranno di arricchire i terreni e velocizzare i tempi dei nuovi raccolti.
Zuril alzò il suo scanner, nella cui memoria conservava quel dono per Fleed, frutto del suo lavoro degli ultimi tempi; stavolta dalle file dei fleediani si levò un applauso, un po’ impacciato all’inizio ma molto più caloroso dopo qualche istante. Alla fine si udirono persino un paio di acclamazioni.
Actarus e Zuril si diedero uno sguardo d’intesa: avevano sottovalutato i loro rispettivi popoli. Stava andando meglio di quanto si fossero aspettati.


Gli ospiti di Vega (ospiti! Actarus ancora non riusciva a crederci), vennero fatti accomodare in quella che era la nuova reggia di Fleed, praticamente la ricostruzione di una parte di quella vecchia, in alloggi appositamente predisposti. Maria si era molto data da fare per accogliere i veghiani nel migliore dei modi; disgraziatamente, la ragazza non era certo una buona padrona di casa, anzi! Diplomatico, Actarus le aveva affiancato Yaret, che aveva saputo darle i suggerimenti giusti, e per maggior sicurezza aveva incaricato Skander di vegliare sull’incolumità degli ospiti. La tensione era ancora molto forte, un imprevisto poteva sempre accadere.
In effetti, i rapporti tra veghiani e fleediani non brillavano per cordialità: una sorta di muro invisibile si ergeva tra i due popoli. Glaciale cortesia da una parte e dall’altra e molto imbarazzo: ma almeno si riusciva a comunicare in qualche maniera. Gli unici che apparivano veramente a loro agio erano i due sovrani, che trattavano tra di loro con gran cameratismo; ma gli altri non vedevano praticamente l’ora che quella visita terminasse. Fortuna che si sarebbe trattato di un periodo breve, pochi giorni... ma a tutti, in particolar modo a Maria, parvero eterni.
Curiosamente, ogni cosa sembrò filare liscia: da entrambe le parti c’era molta buona volontà, nonostante l’odio che ancora serpeggiava. Skander era stato attentissimo alla sicurezza, istruendo i suoi uomini perché proteggessero gli ospiti senza farli sentire dei sorvegliati speciali. Yaret aveva fatto di tutto per farli sentire a loro agio, Maria si era sforzata di mostrarsi il più possibile amabile, anche se il solo trovarsi a breve distanza da un veghiano la riempiva di disgusto. Tutto, insomma, era filato per il meglio. Si stava parlando già della visita che i fleediani avrebbero presto contraccambiato, quando proprio l’ultima sera si fu sul punto di far scoppiare un incidente diplomatico; e, assurdo a dirsi, a causare il problema fu proprio il sovrano di Fleed.
Per quell’ultima sera era stata prevista una cena piuttosto elegante, in cui sarebbero stati serviti i cibi migliori che per il momento fosse possibile reperire su Fleed. I due sovrani e i rispettivi seguiti si erano preparati con estrema cura per la serata, indossando i propri abiti migliori; si ritrovarono tutti nell’ampia sala di ricevimento, un salone ancora disadorno ma addobbato per l’occasione con le piante verdi e fiori in vaso provenienti dalle serre, e allietato da un trio di musicisti – incredibile che dalle macerie di Fleed fossero riemersi degli strumenti musicali ancora funzionanti; ma alle volte i miracoli avvengono. Vennero offerti stuzzichini, gli invitati si radunarono a gruppetti in giro per la sala; fu allora che Actarus si ritrovò improvvisamente davanti Naida.
In quei giorni i due si erano visti spesso, ma non avevano scambiato che poche formali parole: ora erano finalmente l’uno di fronte all’altra, in un angolo in cui nessuno sembrava fare caso a loro. Zuril stava conversando con Maria, che gli rispondeva a nervosissimi monosillabi, Hydargos era all’altro capo della sala, gli altri erano tutti occupati a chiacchierare e fare onore al rinfresco. Actarus salutò brevemente Naida, mentre la scrutava cercando in lei la splendida adolescente che aveva amato: ma davanti a lui c’era una donna più matura, molto femminile nella sua morbida tunica verde dorato. Aveva il viso forse un po’ segnato ma era comunque bellissima, d’una bellezza nuova e sconosciuta, e perciò ancora più sconvolgente.
– Ti trovo benissimo – disse Actarus, e lo pensava davvero.
Naida sorrise lievemente. Avrebbe potuto glissare, ma era nella sua natura affrontare subito le cose: – Sono fortunata, il matrimonio mi fa bene.
Actarus depose un po’ troppo in fretta il suo bicchiere su un tavolo: – Ho saputo che sei ancora con Hydargos.
Lei percepì la tensione di lui, ma non si tirò indietro: – Non girarci attorno, Duke. Vuoi sapere che cos’è successo dopo che ci siamo parlati, quella volta sulla terra?
– Lo so, cos’è successo – rispose lui, il viso in ombra – Hydargos ti ha sposata.
– Sì – rispose lei, con un sorriso.
– Hai sempre detto che lui ti ha trattata bene – Actarus evitava di guardarla – Posso capire che tu abbia provato gratitudine...
Lei scosse il capo, i grandi occhi luminosissimi: – Non gratitudine, Duke. Amore.
Actarus trasalì e drizzò di scatto la testa: – Non è possibile!
– Mi dispiace, Duke – disse Naida, in tono gentile – Hydargos è mio marito. E, ti sembrerà forse assurdo, ma io l’amo.
– Non è possibile – ripeté a mezza voce Actarus, serrando i pugni – Ti ha fatta condizionare. Non è possibile!
– Lo sai che non è vero – rispose Naida.
– Sei una duchessa di Fleed… come hai potuto…?
– Sono anche una schiava – in Naida stava cominciando a manifestarsi una certa asprezza – O meglio, non lo sono più grazie a lui. Sarei morta, senza Hydargos!
– Come dicevo io… gratitudine. In questo caso…
– No, non vuoi capire – Naida si sforzava di mantenersi calma, ma aveva le guance rosse di collera – Non è gratitudine, la mia… non solo… io lo amo.
– Ma è… è… lui era tra quelli che hanno distrutto Fleed!
Naida scosse il capo: – Il Comandante Supremo era Barendos. Lui è stato il responsabile.
– Hydargos però ha cercato di conquistare la Terra!
– Anche il tuo amico Zuril – puntualizzò Naida.
– Devi essere impazzita – rispose lui, ignorando volutamente l’appunto che Naida gli aveva appena mosso – Sei passata dalla loro parte!
– Stai dicendomi che sono una traditrice?
Actarus le fece cenno di tacere, guardandosi attorno: ma nessuno sembrava far loro caso. Zuril continuava a parlare con Maria, che l’ascoltava sforzandosi di non far trapelare la repulsione che provava per qualsiasi individuo di Vega. Più in là, altri fleediani stavano cercando disperatamente di trovare argomenti di conversazione con altri impacciati veghiani, Yaret stava evidentemente impegnandosi con tutta sé stessa per sciogliere il più possibile il ghiaccio, mentre Hydargos… beh, Hydargos stava bevendo da una coppa, gli occhi fissi su di loro. Che si rodesse dalla rabbia, a lui non importava.
– Naida, non ti sto certo rimproverando – disse Actarus, che si sentiva ormai l’inferno nel petto – Non hai avuto la minima possibilità di scelta, per cui non devi considerarti legata a loro.
– Lo sono, invece – rispose Naida, alzando il mento con aria di sfida – Ho sposato un veghiano. Stavo persino per dargli un figlio.
– Cosa? Tu…
– Io – un’ombra di tristezza le oscurò il viso – Non ne sono venuti altri, da allora, e temo non ne verranno più.
Actarus l’afferrò per un braccio: – Ma senti quello che stai dicendo?
– Mi fai male – si lamentò Naida, ma lui non lasciò la presa.
– Sei sposata con un veghiano… avresti voluto un figlio… sei diventata una di loro!
– Sì! – il sussurro di lei fu più energico di un grido – Sì!
Hydargos sbatté la coppa su un tavolo, gli occhi sempre fissi su Naida e Actarus.
Zuril, che pur parlando con Maria aveva seguito la scena, intervenne prontamente: – Non è il momento di litigare.
– Naturale – Hydargos raggiunse in poche falcate la moglie e le mise possessivamente le mani sulle spalle, gli occhi fissi su Actarus: – Tutto bene, piccola?
– Ma certo – sorrise, imbarazzata, sciogliendosi nel contempo dalla stretta di Actarus, che pareva incapace di distogliere gli occhi da quelle lunghe dita posate sulle spalle di quella che un tempo era stata la sua fidanzata – È tutto a posto. Stavamo solo parlando. – fece un cenno di saluto ad Actarus come se avesse voluto allontanarsi, poi parve ripensarci: – Duke, ti giuro che quella volta, quando mi sono gettata contro il mostro di Vega, io volevo davvero morire.
Lui si sforzò di mostrarsi impassibile, come se la cosa non gli bruciasse: – Ti credo.
Naida gettò uno sguardo rapido al marito, immobile alle sue spalle: – Se sono viva, se sono guarita, lo devo a lui.
Stavolta per Actarus fu ancora più difficile farsi vedere calmo: – Sono contento che tu stia bene, adesso. Ti auguro ogni felicità.
Con il rispetto dovuto al suo altissimo rango, Naida si sprofondò in un inchino e poi s’allontanò, pensando che il marito l’avrebbe seguita; lui invece rimase dov’era, fronteggiando Actarus in un silenzioso duello di sguardi.
– Qualcosa non va, Duke Fleed? – chiese, beffardo.
– Niente – non mostrare come ti senti.
Hydargos sogghignò e gli rivolse un ironico cenno di saluto, prima di voltarsi per raggiungere la moglie.
– Hydargos – lo richiamò Actarus; il vicecomandante si fermò e attese, senza voltarsi: – Quello che hai fatto per Naida... io... – raccolse tutto il suo coraggio – Grazie.
Stavolta Hydargos gettò una lunga occhiata al suo rivale; ma non c’era cattiveria, in lui, solo una gran sorpresa. Non si parlarono, non avevano più nulla da dirsi. Hydargos piegò la testa in un educato cenno col capo, Duke Fleed chinò la testa a sua volta; poi il veghiano raggiunse sua moglie, e il re di Fleed rimase solo con i suoi pensieri.
La sua Naida non era più sua.
Avrebbe fatto meglio ad abituarsi a quell’idea, e in fretta.


Nel chiuso della sua stanza, Maria si lasciò cadere seduta sul letto.
Era tornata su Fleed chiedendosi quale sarebbe stato il suo ruolo, che scopo avrebbe potuto avere, lei. Era una principessa, ma non sarebbe mai stata la regina di Fleed: un’altra, la futura moglie di suo fratello, avrebbe avuto quel compito. E lei...?
Si sentiva una fallita: proprio adesso avrebbe potuto dare buona prova di sé accogliendo degnamente i veghiani, ma era solo riuscita a dimostrare la propria incapacità e inesperienza di padrona di casa, e se non fosse stato per Yaret il tutto si sarebbe mutato in disastro. Al suo posto, Venusia non avrebbe certo avuto bisogno di qualcuno che le suggerisse come accogliere degli ospiti! Ma lei... No, ogni giorno che passava lei si sentiva sempre più fuori posto, sempre più inutile.
Per mesi e mesi era vissuta accanto al fratello cercando di essergli d’aiuto, ma tutto quel che aveva fatto le era sempre sembrato una sorta di palliativo. Che cosa avrebbe potuto davvero fare, lei?
Il ricordo di Rubina, come era vissuta, perché era morta, continuava ad ossessionarla; ed ora, giunta alla disperazione com’era, Maria finalmente aveva trovato il coraggio di guardare in sé stessa, di capire quale sarebbe stato il suo compito.
Tentò inutilmente di soffocare le lacrime, e scoppiò in singhiozzi: perché ora vedeva chiaramente la sua strada tracciata davanti ai suoi piedi, e ne aveva paura.


– Allora? Che effetto fa essere un re? – chiese Actarus, porgendo a Zuril un bicchiere colmo di una bibita verdognola. Congedati i rispettivi seguiti, i due sovrani avevano voluto prendersi un poco di tempo per scambiare qualche parola.
Zuril conosceva quella bevanda: era taketh, un infuso freddo di erbe dal sapore acidulo, molto dissetante. Veniva bevuto comunemente su Fleed, fino a qualche anno prima: adesso le piante provenivano da una serra, ma il sapore era pressoché identico a quello d’un tempo. Essere di nuovo su Fleed e bere ancora taketh era un po’ come avere la certezza che le cose avrebbero ripreso il loro corso.
– Essere re? – Zuril rigirò la bevanda nel bicchiere – All’inizio, la responsabilità mi ha dato parecchio da pensare, lo ammetto. Ora, nessun effetto in particolare. Sono abituato al comando da molti anni, ormai; casomai, da comandante di Vega ho avuto autorità su molta più gente di quanta ne abbia adesso, che sono il re.
Actarus si allungò sulla sua poltrona, e i suoi occhi azzurri brillarono: – Essere re è qualcosa di diverso che essere un semplice comandante.
Zuril scosse la testa: – Mah, forse dovrei esserci nato, per capirlo completamente.
– A proposito: dovresti pensare ad un erede.
– Sono vecchio, ormai, per queste cose. – Zuril bevve un sorso di taketh – Al momento giusto troverò chi prenderà il mio posto. – vide che Actarus stava per replicare, e passò al contrattacco: – Guarda che lo stesso discorso vale anche per te.
Gli occhi del giovane ebbero un altro scintillio: – Ci ho pensato.
Venusia, si disse Zuril; e sorrise.


Actarus, pensò Venusia lasciandosi cadere ai piedi dell’albero che il giovane aveva sempre prediletto. Quante volte lui si era seduto con la schiena contro quel tronco, suonando la chitarra, gli occhi persi in chissà quali pensieri da cui l’aveva sempre esclusa? Stare lì, contro quella stessa corteccia, per Venusia era un modo per sentirselo ancora vicino.
Ultimamente, la vita era sprofondata in un’insopportabile monotonia. Quasi non credeva di aver vissuto diversamente fino a poco tempo prima... gli allarmi, le partenze concitate, la tensione delle battaglie, il timore di non riuscire a impedire l’attacco, o di morire, o peggio, di veder morire i propri compagni... era tutto così distante, così remoto. La squadra si era sciolta per sempre. Actarus e Maria erano tornati su Fleed, e anche Alcor se ne era andato: negli ultimi tempi il giovane si era fatto irrequieto, aveva detto di non poter più restare lì a rigirare i pollici ed era partito senza quasi voltarsi indietro. Rigel si era molto risentito di quella partenza affrettata, ma Venusia aveva capito: Alcor soffriva molto per la decisione di Maria di tornare su Fleed. Era sempre stato convinto che lei sarebbe rimasta con lui, sulla Terra! La delusione di non essere stato al primo posto nelle priorità della ragazza l’aveva ferito molto più di quanto lui non avesse lasciato capire agli altri – non a lei, ovvio. Lei sapeva bene cosa si prova, quando non si ha il primo posto nel cuore di chi si ama; l’atteggiamento indifferente di Alcor non l’aveva certo ingannata.
Si erano tenuti in contatto, naturalmente. Il giovane era tornato a collaborare col professor Yumi, ed era stato raggiunto da Sayaka, appena rientrata dai suoi studi in America. Da quel che Alcor le raccontava nelle sue mail, tra lui e la ragazza avevano preso a volare scintille – ma Venusia non dubitava che presto gli screzi sarebbero evoluti in qualcos’altro. Le premesse c’erano tutte.
Venusia alzò gli occhi verso le stelle: Vega scintillava allo zenith, ma ormai lei non ne provava più alcun timore.
Davanti a lei, il ranch si ergeva come una massa nera contro il cielo oscuro. Il quadratino luminoso di una finestra si spense: Rigel era andato a dormire. Fino a non molto tempo prima, avrebbe ululato perché anche lei andasse a letto; ora, accettava finalmente il fatto che la sua bambina fosse cresciuta. Certo, alle volte era ancora indisponente, ma almeno non pretendeva più d’imporle orari o abitudini. Si era definitivamente affrancata da questo.
Una zaffata di profumo dolce; era il cespuglio vicino alle scuderie. Actarus amava molto i suoi fiori bianchi... se n’era andato quando le gemme stavano aprendosi in foglioline e i boccioli non erano ancora comparsi. Quando era piccola, Venusia, amava infilarsi quei fiori bianchi nei capelli per giocare alla sposa...
Si strofinò nervosamente gli occhi, asciugandosi le lacrime. Sposa! Lei! Chissà se sarebbe mai venuto, quel giorno!


– Non posso chiederti d’aspettarmi – le aveva detto Actarus, la sera prima della sua partenza per Fleed.
– Ma io voglio venire subito via con te! – aveva esclamato lei – Posso aiutarti, posso...
Lui aveva scosso il capo: – È ancora troppo pericoloso, per te. C’è ancora una certa quantità di radiazione vegatron presente su Fleed; per noi non è dannoso, ma per un terrestre può diventarlo. Non posso permettere che tu corra rischi.
Venusia aveva chinato il capo: lui non voleva essere brusco, ma lei sapeva riconoscere un “no” quando se lo trovava davanti... – Per favore, risparmiati le scuse. Tu non provi nulla per me. Stupida io, che dopo tutto questo tempo ancora m’illudo...
Gli occhi di lui si erano spalancati, colmi d’orrore: – Venusia! Davvero... tu credi questo?
Lei non era riuscita a dire nulla, la gola le si era strozzata in un nodo nervoso.
Actarus aveva annaspato, cercando disperatamente le parole per esprimere quello che provava. Certo, lui l’aveva sempre tenuta a distanza: ma era convinto di star per morire per la ferita alla spalla, ecco perché non aveva mai voluto impegnarsi... come poteva legarla a sé, sapendo di aver poco tempo da vivere? Poi Markus l’aveva guarito, era tornata Rubina e subito dopo la guerra era finita, tantissime cose s’erano avvicendate troppo in fretta... e ora doveva partire per Fleed, e sapeva bene che per un certo tempo nessun terrestre avrebbe potuto andarvi senza mettere a repentaglio la propria salute, e lui non voleva che lei corresse rischi... non poteva permetterlo, perché lui... lui...
Non era più riuscito a parlare, guardandola speranzoso: lei aveva capito cosa lui volesse dirle, no?
Venusia aveva scosso il capo, gli occhi che le brillavano: – No, Actarus. Devi dirmelo!
Lui aveva raccolto fiato e coraggio: era evidente che avrebbe preferito affrontare di nuovo King Gori, piuttosto... – Io ti amo, Venusia.
Lei aveva lanciato un urlo di gioia e gli aveva gettato le braccia attorno al collo: – Ma era così difficile da dire?
– Abbastanza – aveva sorriso lui, e a quel punto lei l’aveva baciato per impedirgli di tirare fuori qualche altra sciocchezza.


Venusia riemerse lentamente dai suoi ricordi. Il giorno dopo lui era partito, e per quanto la separazione l’avesse straziata, lei era stata ben cosciente che prima o poi lui sarebbe tornato sulla Terra... e questa volta, sarebbero andati assieme su Fleed.

- continua -

Link per stramandarmi una volta per tutte: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1065#lastpost
 
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Conclusione, finalmente - Joe, preparati... ti ho avvertito. :innocent.gif:



21. EPILOGO – UN PO’ DI TEMPO DOPO

Il sole fece capolino tra le nuvole, e la semplice comparsa della sua luce sembrò rivitalizzare il panorama.
Actarus strinse la ringhiera tra le mani, spingendo lo sguardo fino all’orizzonte: colline che cominciavano a coprirsi di velluto verde chiaro, qualche macchia più scura che indicava la presenza di alberi. Davanti a lui, il lago scintillava, azzurro e cristallino come un tempo.
Il giovane continuò a scorrere con gli occhi su quanto vedeva, incredulo. Due anni prima, Fleed appariva un mondo bruciato, il cielo perennemente coperto di nuvole di ceneri e polveri sottili, l’aria fredda, le acque torbide e limacciose. Ora, dopo svariate decontaminazioni, la depurazione dell’acqua e dell’atmosfera, l’arricchimento e la fertilizzazione del suolo, Fleed stava lentamente tornando a ciò che un tempo era stato: un mondo meraviglioso, pulito e ricco di vegetazione.
Actarus guardò il cielo: due anni prima era perennemente ricoperto da nuvole grigio plumbeo, che impedivano ai raggi del sole di illuminare e scaldare il suolo. Il clima era profondamente mutato da quello dei suoi ricordi d’infanzia: sempre cielo coperto, freddo, pochissima pioggia. Molte piante che Actarus rammentava bene erano completamente scomparse… altre erano mutate, adattandosi a quel clima così diverso da quello d’un tempo.
Zuril aveva fatto costruire delle sonde robot che avevano nebulizzato nell’aria un reagente, che aveva inglobato le polveri sottili cadendo poi a terra sotto forma di fiocchi biancastri, simili a neve. Come il sovrano di Vega gli aveva spiegato, e come poi era effettivamente avvenuto, le polveri sottili erano divenute così una scoria completamente biodegradabile che sarebbe andata poi ad arricchire il terreno. Le successive analisi fatte compiere dal giovane re di Fleed avevano confermato le parole di Zuril: ciò che prima era stato inquinamento, ora era divenuto una risorsa. Del resto, da tempo immemorabile la scienza di Zuul aveva studiato gli ecosistemi, e il modo di preservarli.
Actarus scosse il capo, sorridendo tra sé: Zuril! Erano stati avversari per lungo tempo, e ora il sovrano di Vega era divenuto per lui un alleato leale, un sostegno… un amico, ormai non esitava più a definirlo tale. La vita è così assurda, a volte! Ma a volte le cose cambiano, e in maniera inaspettata.
Già. Le cose cambiano, ripeté tra sé Actarus.
Fino a non molto tempo prima, l’idea che Naida avesse sposato Hydargos, peggio, che ne fosse innamorata, l’aveva fatto star male; ora, non provava più nessun dolore... quasi nessuno.
In ogni caso, Naida aveva sofferto fin troppo; da quella persona generosa che era, Actarus represse gli ultimi residui di dispiacere, e in tutta onestà in cuor suo le augurò ogni bene. Se lo meritava.
Un allegro schiamazzare lo fece riscuotere dai suoi pensieri: tra gli alberi (piccoli, ancora un po’ stentati ma decisamente vitali) scorrazzavano alcuni ragazzini, giocando a prendersi. Erano bambini usciti dall’inferno dei campi di lavoro di Vega, creature sparute, pallide e magrissime che avevano ripreso poco per volta a vivere. Actarus li conosceva uno per uno, li aveva accolti, quelli rimasti orfani li aveva affidati ad adulti capaci di prendersi cura di loro, a volte li aveva persino accuditi personalmente; sentirli ridere, vederli correre spensierati sul prato fu per lui una gioia talmente forte da essere persino dolorosa.
Rimase a guardarli, mentre sparivano tra i cespugli: anche lui aveva corso così, un tempo… spensierato, felice, ignaro del futuro che incombeva su di lui. Fortuna che quei bambini non avrebbero mai vissuto nulla di simile… lui non l’avrebbe permesso, mai.
Accanto a lui, da un grande vaso facevano capolino alcune campane scarlatte; altre stavano cominciando a spuntare tra l’erba. Actarus le sfiorò con le dita, la mente piena di ricordi.
Un suono che non sentiva da troppo tempo gli strappò un sorriso di meraviglia. Actarus guardò giù dal balcone, nel giardino sottostante, il cuore che gli batteva di gioia nel petto: il vagito d’un neonato! Dopo tanto tempo, su Fleed avevano ripreso a nascere dei bimbi… il futuro era a portata di mano, ormai.
Incantato, il giovane si sporse per veder passare la giovane madre col suo bimbo tra le braccia: era stata una tale festa per la sua piccola comunità, il giorno in cui era nato il primo fleediano! Altri ne erano venuti, ancora di più ne sarebbero arrivati nei tempi a venire; ma ancora adesso lui provava la stessa gioia mista a meraviglia che gli aveva colmato il petto quando era nato il primo bambino di Fleed.
– Avete intenzione di buttarvi di sotto, Maestà? – la voce di Yaret risuonò alle sue spalle, colma di bonario umorismo.
Actarus, che per guardare il bambino si era sporto dal balcone oltre i limiti della prudenza, si tirò indietro, sorridendo imbarazzato: – Mi spiace. Ho sentito piangere il piccolino di Koure, e… pensavo… – tacque: non era mai stata sua abitudine rendere partecipi gli altri dei suoi pensieri, e quello che aveva nell’animo apparteneva a lui, e a lui solo.
Yaret era Yaret, però, e celarle qualcosa era praticamente impossibile. Straordinariamente empatica, la donna captava gli stati d’animo con la massima facilità, e il giovane sapeva bene che avrebbe sicuramente indovinato quel che ormai non riusciva più a nascondere. Se tempo prima lui aveva benedetto la capacità di lei di sintonizzarsi con gli stati d’animo altrui (quanti erano giunti su Fleed prevenuti nei suoi confronti, ed erano stati “convertiti” da Yaret!), ora la cosa lo preoccupava non poco.
– Maestà – lei lo guardava un po’ di traverso, un lieve sorriso sulle labbra. Aveva capito, naturalmente! Per quanto fosse una persona rispettosa degli altri, per quanto cercasse di isolare il proprio animo il più possibile, le emozioni più forti le saltavano agli occhi senza che potesse evitarlo. Anche se ci si tappano le orecchie, certe grida si è costretti a sentirle...
Actarus assentì: – Hai capito benissimo – ora era persino sollevato che lei avesse compreso: sarebbe stato più facile chiederle quel che doveva domandarle. – Credi che…?
– Ma certo! – esclamò lei, decisa – Possiamo benissimo fare a meno di voi, ora.
Il giovane guardò ancora il panorama, si volse verso i lunghi tetti trasparenti delle serre in cui venivano fatte crescere le piante ancora troppo delicate per affrontare il mondo esterno. – Yaret, pensi che io possa davvero permettermi di prendermi un breve periodo solo per me? Voglio dire… le mie responsabilità…
– Si tratta del vostro futuro, Maestà – rispose lei, senza esitazione – È una vostra responsabilità anche questo.
– Dovrò star via un poco di tempo – aggiunse Actarus, in tono di scusa.
– La Terra non è dietro l’angolo – rispose lei; poi, in tono più serio: – Non aspettate oltre. In tutto questo tempo, ci avete dato tantissimo; ora tocca a voi. E poi – concluse in tono pratico – al vostro ritorno ci porterete la nostra regina.
Actarus volse istintivamente lo sguardo verso le colline: non appena fosse calata la sera, là sarebbe apparso un puntolino luminoso che lui ben conosceva… il Sole. Là era la Terra, là era Venusia.
Venusia
– Abbiamo appena fatto revisionare Goldrake, che è risultato in eccellenti condizioni – gli ricordò Yaret, col suo consueto buon senso, – Sono certa che farete buon viaggio, Maestà.


Zuril si appoggiò con la schiena alla sua poltrona e si strofinò l’unico occhio: dopo ore e ore di lavoro al computer, cominciava ad essere davvero stanco.
Da quasi due anni – due anni terrestri, ormai s’era abituato a ragionare in quei termini di tempo – era divenuto il nuovo re di Vega. Per suo ordine, la base Skarmoon era stata evacuata e tutto il personale era stato trasferito su Moru: si trattava di poche centinaia di persone, cui successivamente s’erano aggiunti tutti coloro che erano scappati dai pianeti che un tempo erano stati colonie di Vega. Zuril non dubitava poi che in varie parti della galassia ci fossero veghiani che avevano preferito restarsene ben nascosti su altri pianeti, facendo dimenticare grazie alla loro ricchezza la loro origine. Gente di cui lui, Zuril, non avrebbe proprio saputo che farne. Meglio così.
Attualmente su Moru c’erano diecimilasettecentoventiquattro abitanti, gli unici superstiti di quello che un tempo era stato il potentissimo Impero della Nebulosa di Vega.
Il compito che Zuril si era prefisso era durissimo: far sopravvivere la sua comunità su un pianeta devastato dal vegatron. Fortunatamente, lui non era uomo da spaventarsi davanti alle difficoltà, e i veghiani erano gente forte, tenace. Ce l’avrebbero sicuramente fatta.
Oltre tutto, lui aveva la fortuna di disporre di eccellenti collaboratori, ed era capace di demandare incarichi e coordinare il lavoro in maniera efficiente.
Innanzitutto, aveva Hydargos, che da subito s’era impegnato a mettere in pratica i progetti che lui, Zuril, aveva stilato: nuovi metodi di decontaminazione, purificazione delle acque, arricchimento dei terreni. I progressi erano già ben visibili.
Poi, aveva potuto contare su lady Gandal, assicurandosi così un ottimo ministro dell’interno. Non c’era nessuno capace come lei di affrontare e risolvere le infinite questioni che si presentavano ogni giorno. Grazie a lei, erano stati costruiti alloggi, edifici pubblici, vie di comunicazione, mezzi di trasporto. La nuova capitale stava crescendo rapidamente, razionale, efficiente e – perché no? – persino bella, con le sue abitazioni dalle grandi finestre e progettata per divenire una città giardino ricca di verde – s’intende, quando la vegetazione fosse tornata lussureggiante. Per ora cominciava a spuntare un po’ d’erba, qualche albero rinsecchito iniziava a coprirsi di foglioline, e questo di per sé era già un grande risultato.
Pensare che il suo predecessore, Yabarn, l’antico Re Vega, non aveva mai dato grande fiducia alle donne! Al contrario, lui non avrebbe saputo come cavarsela, senza di loro.
Il suo braccio destro era una donna, appunto... sua moglie.
L’aveva sposata controvoglia, convinto di legarsi ad un’inutile ragazzetta; aveva scoperto in lei una giovane donna matura per la sua età, intelligente e capace. Una donna tanto competente da saperlo sostituire mentre lui era impegnato in laboratorio a studiare nuovi processi di decontaminazione e rigenerazione. Una donna leale e affidabile, capace di cavarsela in quasi tutte le situazioni e allo stesso tempo di chiedergli consiglio quando pensava di non poter risolvere da sola un problema. Una donna abile nei contatti umani – non una grande diplomatica, questo no! Ma aveva una sua innata simpatia che la rendeva in grado di mantenersi in ottimi rapporti non solo con Fleed e la Terra, ma anche con Ruby, Zuul e tutti gli altri mondi che erano stati soggetti a Vega. Regina, e ministro degli esteri insieme: davvero, una persona straordinaria, questo lui lo riconosceva ogni volta che pensava a lei.
Zuril fece ruotare la sua poltroncina e gettò uno sguardo attraverso l’ampia finestra alle sue spalle, quella che dava sul giardino interno. Si trattava d’un arioso cortile con una grande aiola al centro; foglie d’un verde brillante stavano spuntando, erano apparsi i primi boccioli e presto, molto presto, si sarebbero aperte le grandi campane rosso fiamma. Le piante che Duke Fleed gli aveva donato, e che tanto Rubina aveva amato, avevano attecchito anche su Moru.
Per un attimo, il viso di Zuril s’incupì, come sempre quando pensava a Rubina. Era passato un paio d’anni terrestri da allora, moltissime cose erano cambiate: lui stesso non provava più il dolore intenso che un tempo gli attanagliava le viscere, quando il ricordo di Rubina s’insinuava nei suoi pensieri. Però il dispiacere rimaneva.
Guardò la figura curva, seduta in un angolo del cortile: la testa che un tempo aveva svettato orgogliosa su tutti era sempre china, lo sguardo si era fatto spento, la barba da viola era divenuta grigiastra. Era invecchiato spaventosamente in poco tempo, non parlava più, sembrava che poco o nulla potesse oltrepassare il muro di silenzio che aveva eretto attorno a sé. Seduto sulla panca che Zuril aveva fatto costruire apposta per lui, colui che un tempo era stato l’Imperatore della Nebulosa passava le ore a fissare quelle foglie verdi, in attesa non sapeva nemmeno lui di che cosa.
Un uomo si fece avanti, gli parlò a bassa voce; Yabarn – nessuno pensava più a lui come a Re Vega, ormai – si alzò, ubbidiente, e lo seguì all’interno della casa.
Zuril sospirò: aveva fatto costruire per lui un quartiere accanto alla sua casa, e l’aveva affidato alle cure di persone fidate. Non era possibile fare altro, per quell’uomo ormai completamente perso dentro sé stesso.
Yabarn, il Grande Vega non esisteva più, come non esisteva più Gandal: insofferente alla nuova situazione si era ritirato in sé stesso anche lui, lasciando il campo completamente libero a sua moglie. I due principali sostenitori della guerra suicida erano scomparsi.
Zuril girò la sua poltrona, voltando le spalle al suo antico sovrano. Aveva altro da pensare, ora... altri problemi, altre difficoltà da superare. Questo nuovo Re Vega non doveva conquistare altri mondi ma far rivivere il proprio, e questa era una sfida ben peggiore di qualsiasi guerra.
S’immerse nuovamente nel suo lavoro, e il tempo perse ogni significato.
All’improvviso sentì un passo leggero scivolare sul pavimento: lei era alle sue spalle, ma stava cercando di sorprenderlo. Stette al gioco e finse d’essere concentrato sul suo lavoro.
Due braccia lo cinsero, e Zuril sentì contro il viso il tepore della guancia di lei. Si voltò di lato e scambiò con sua moglie un bacio che di freddo e di razionale aveva ben poco.
– Lavori troppo – lo rimproverò lei.
– Questo lo chiami lavorare? – rispose lui, serissimo, ma con l’unico occhio che scintillava.
Maria sedette sulle ginocchia del marito e gli posò la testa sulla spalla.
Tempo prima, era stata proprio lei a volerlo sposare. Non che ne fosse innamorata, tutt’altro: ma Rubina era stata una martire per la pace, e lei non aveva voluto essere da meno. Aveva pensato di sacrificarsi sposando un uomo che detestava e temeva, e l’aveva fatto con spirito d’abnegazione e vocazione al martirio. La sua sofferenza avrebbe garantito la pace e la sicurezza al suo popolo: lei era una principessa, si era detta, era suo dovere immolarsi per la sua gente. Per questo e solo per questo, e celando con cura i suoi veri sentimenti, aveva molto insistito per quel matrimonio. Lei sarebbe stata il pegno vivente della pace tra Fleed e Vega.
Con un sorriso tirato sulle labbra e la morte nel cuore, aveva unito la sua esistenza a quella di Zuril, il nuovo sovrano di Vega. Si era aspettata d’avere per marito un mostro – oltretutto, un mostro molto più vecchio di lei – che le sarebbe saltato addosso senza il minimo riguardo, e aveva scoperto d’aver sposato un uomo dotato di pazienza e senso dell’umorismo, un uomo che l’aveva sempre trattata con rispetto e cortesia.
Non s’era nemmeno accorta di come fosse successo: all’improvviso, tutto ciò che le aveva reso ripugnante Zuril – aspetto fisico, età, mentalità, maniere – aveva perso qualsiasi importanza, e lei si era ritrovata innamorata proprio del mostro cui aveva creduto di sacrificarsi. Cosa ancora più straordinaria, si era resa conto che sotto la maschera del gelido scienziato suo marito celava sentimenti forti e una grande capacità d’amare. Si erano entrambi scoperti innamorati, e ben felici d’essersi sbagliati ciascuno sul conto dell’altro.
Adesso, Regina di Vega con funzioni di Ministro degli Esteri, Maria si sentiva finalmente realizzata: aveva un lavoro che le piaceva, era sposata con un uomo che amava e stimava, si era guadagnata l’affetto del suo popolo. Dopo anni di sbandamento e incertezze, la sua vita aveva finalmente un senso.
– Come va con il nuovo fertilizzante? – restando seduta sulle ginocchia del marito, Maria scorse rapidamente i dati di crescita delle piante campione sullo schermo del computer – Mi sembra che funzioni piuttosto bene.
– Non c’è male, in effetti – ammise lui, che sapeva benissimo d’aver ottenuto un prodotto eccellente – Domani mi metterò in contatto con tuo fratello per aggiornarlo sui miei studi.
Maria assunse un’aria molto indifferente: – Actarus non è più su Fleed. È partito per la Terra.
– Oh. Cos’è questa novità?
– Indovina – lei avrebbe voluto apparire molto seria, ma non ci riuscì e scoppiò a ridere.
Zuril assentì: non ci voleva molto a capirlo. Venusia, naturalmente. – Matrimonio in vista.
– È molto probabile.
Lui sospirò, prese un’aria da vittima sacrificale: – Cerimonia ufficiale... Ugh! Credi che dovrò proprio mettermi mantello e corona?
Maria gli diede un bacio sul naso: – Sei un sovrano, amore. I re hanno obblighi e responsabilità, lo sai. ...Adesso smetti di lavorare e vieni a cena.
Lui spense il computer: sua moglie aveva ragione, era tardi ed era piuttosto stanco.
Uscirono nel corridoio: la loro abitazione contava ben otto camere, di cui una che usavano per i pasti. Certo, come reggia non era un granché nemmeno per il severo metro veghiano; tuttavia lui, Zuril, era di gusti semplici, e sua moglie non era da meno. Quella casa luminosa, con le stanze ampie e ben areate e tutte provviste di portafinestre che davano sul prato – spelacchiato, ma sempre prato – e la loggia affacciata sul mare per loro era una sorta di palazzo fiabesco.
Gettò un rapido sguardo a quella giovane, bellissima donna che era la sua regina. Nel pieno della sua maturità, convinto ormai d’essere finito, aveva trovato tutto: un potere oltre ogni sua più folle previsione, e soprattutto, finalmente aveva avuto la pace con sé stesso. Il pensiero di Rubina non gli provocava più il dolore vivo di un tempo, e ormai poteva rievocare i ricordi di Shaya, la madre di Fritz, con serenità, senza sentire dentro di sé un vuoto spaventoso. Curiosamente, invece di colpevolizzarsi per essersi risposato provava una gran senso di pace, di completezza. Era sicuro dentro di sé che lei, la sua prima, indimenticata moglie, fosse felice per lui. Possibile?
Restava solo il pensiero dei ragazzi... Fritz, Kein... voltò il viso da una parte, non voleva che Maria lo vedesse ora.
– Ah, Zuril – Maria gli mise un braccio attorno alla vita e si strinse al suo fianco, mentre parlava con un tono noncurante molto sospetto: – Mi piacerebbe un bambino, prima o poi.
Riemerse subito dai suoi ricordi.
Un bambino... pianti, levatacce notturne, pappe... lui conosceva molto bene tutto questo, e non è che lo rimpiangesse. Senza contare poi tutti i pensieri che gli aveva dato l’adolescente Kein! L’idea di ripartire da capo non gli sorrideva proprio.
Poi, a tradimento, rivide il viso gioioso di Fritz, ne sentì la voce: “Papà, sai quanto ho sognato d’avere un fratello...”
Zuril si drizzò nella persona e assunse a sua volta un’aria molto, molto noncurante.
– Un bambino, eh? – disse – Beh, vedremo che potremo fare.


Il sole stava calando oltre l’orizzonte. Immobile, Hydargos continuava a fissare quella palla rossa che scendeva tra le nuvole gettando sprazzi di fuoco sulla superficie increspata del mare, e si ripeté mentalmente quanto fosse incredibile tutto ciò che stava vivendo.
Fino a non molto tempo prima, era rinchiuso in una base tutta plastica e metallo, condannato a respirare aria artificiale e nutrirsi di cibi liofilizzati e conservati; ora, i suoi piedi poggiavano sul terreno, poteva stare all’aria aperta, guardava il mare e sentiva sul viso il calore del sole. Aveva una casa, una vera casa, e aveva anche un giardino – un riquadro sterrato in cui finalmente cominciava a crescere un po’ d’erba, in realtà, ma era pur sempre un giardino. La cena che avrebbe avuto di lì a poco sarebbe stata composta di cibi naturali. Una vita vera, finalmente.
E poi, c’erano anche altre cose...
Sentì scivolare alle sue spalle la portafinestra. Naida.
– Stai ancora guardando il panorama? – sorrise lei.
– È impossibile stancarsene – si volse verso la moglie, che si strinse a lui mettendogli le braccia al collo. Hydargos sentì contro di sé il turgore del ventre di lei, e un brivido di gioia gli percorse la schiena.
– Cos’ha detto Koyra?
– Che va tutto benissimo – Naida appariva semplicemente raggiante – È una femminuccia.
– Una bambina...?
– Avresti preferito un maschio? – trepidò lei.
– No, sono contento. Pensavo... – Hydargos appariva calmo e impassibile come sempre, ma gli occhi gli brillavano: – Speriamo solo che non assomigli a me.


FINE




Link per stramandarmi visto che non ho voluto descrivere la scena ormai trita dell'incontro tra Actarus e Venusia, che rischiava di far piombare il tutto verso lo stile Harmony: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1110#lastpost
 
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view post Posted on 23/7/2012, 23:22     +1   -1
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Un what if nel what if: se avete letto il Tempo conquistato, arrivati all'episodio della morte di Rubina provate ad innestare questo racconto... di cui assolutamente non vi anticipo nulla.

FINE

Zuril oscillò in avanti, come un ubriaco; troppo perso nel suo dolore, Actarus non se ne accorse, non lo vide, non gli badò nemmeno.
Non gli badò nemmeno Venusia, che vedendo l’uomo che amava stringere tra le braccia quella bellissima principessa morente si era sentita soffocare e si era girata da una parte per nascondere le lacrime che non poteva più trattenere.
Chi lo notò fu invece Alcor, che subito estrasse la pistola puntandola verso quella figura che avanzava zoppicando alle spalle di Actarus. Se solo si fosse fatto ancora avanti, gli avrebbe sparato… se solo…
– Alcor, no! – Maria gli afferrò il polso, trattenendolo – Guarda!
Allibito, Alcor vide Zuril fermarsi alle spalle di Duke Fleed; ma non stava guardando il giovane, e la mano che stringeva la pistola pendeva lungo il suo fianco. L’unico occhio di Zuril era fisso sulla figura riversa di Rubina, e sembrava totalmente incapace di staccarsene.
– Maria, è armato! – sibilò Alcor; ma lei non cedette.
– Non ha sparato, e non sparerà – rispose, decisa.
Come a darle ragione, proprio in quell’istante Zuril aprì le dita, lasciando cadere a terra la sua arma.
Quasi l’avesse percepito dietro di sé, Actarus si riscosse, i suoi occhi incontrarono lo sguardo del veghiano. Zuril fece un altro passo in avanti, inciampò, sembrò volersi scagliare contro il giovane; e Alcor fece fuoco.
– NO! – Actarus balzò in piedi, gettandosi addosso al veghiano, e rotolò con lui nell’erba.
– Oh, mio Dio…! – Alcor lasciò cadere a terra la pistola, annichilito. Maria si cacciò i pugni in bocca, incapace di muoversi, piangere, gridare; chi agì fu Venusia, rapidissima a raggiungere i due uomini ancora stesi nell’erba.
Sangue, sangue dappertutto… Venusia si sforzò di mantenersi calma, lucida: Zuril era ferito, sicuramente quel sangue era solo suo… certo, si era sporcata anche la tuta di Actarus, ma non poteva… non doveva…
Zuril si rialzò faticosamente su un gomito: Actarus gli gravava addosso, inerte, troppo inerte. Sbalordito, il veghiano fissò in silenzio lo squarcio sul fianco del giovane, da cui colava il sangue a fiotti.
– No – gridò la voce di Maria – No…!
Ancora una volta, ad agire fu Venusia: si strappò via il corpetto della tuta rimanendo in reggiseno, e premette la stoffa sullo squarcio, per arrestare il sangue: – Chiamate i soccorsi!
Con delicatezza, Zuril si sfilò da sotto il corpo inerte di Actarus. Si strappò a sua volta una manica della casacca, e si mise pure lui a tamponare la ferita del giovane.
– Non toccarlo! – sibilò Venusia.
– Mi ha salvato – disse semplicemente Zuril.


Azzurro… il verde dell’erba, il giallo dei fiori…
Sentiva a malapena le voci concitate di chi gli stava attorno, il loro agitarsi attorno al suo corpo… un corpo pesante, sempre più pesante, mentre lui si sentiva staccare da tutto, galleggiare… su, verso l’azzurro, la luce…


Venusia trattenne il fiato, continuando a tenere premuta la ferita; Zuril prese tra le mani insanguinate il viso di Actarus, gli tastò la iugulare, aprì una palpebra per controllare la pupilla. In un ultimo scrupolo, gli mise l’orecchio contro il petto; poi scosse il capo.
Non c’era più nulla da fare.


– S-sono stato io…! – balbettò Alcor, i denti che gli battevano.
Lasciò cadere la pistola a terra, allungò una mano verso Maria… ma lei si scostò bruscamente, con orrore, scoppiando in singhiozzi disperati.


Due giorni dopo, la testa orgogliosamente eretta e un sorriso di trionfo sul volto, Re Vega calcava per la prima volta il suolo del nuovo pianeta appena conquistato, la Terra.



Potete trucidarmi qui: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1170#lastpost
 
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view post Posted on 18/9/2012, 20:49     +1   -1
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Dedicato a Joe, che mi ha dato gentilmente l'idea... grazie!!! :wub:


PRIMO GIORNO DI SCUOLA

America – alloggi universitari
Camera di Alcor all’università. Letteralmente spalmato sul materasso, lenzuola e coperte in totale disordine, il giovane dorme della grossa. La sveglia ha suonato da tempo, ma lui sembra non essersene proprio accorto, visto che non ha nemmeno cambiato il ritmo della russata.
Entra Sayaka, vestita di tutto punto.
Guarda il giovane, che non si è nemmeno mosso, e sbuffa.
Estrae da una tasca un fischietto. Un suono acutissimo fa sobbalzare Alcor, che si mette seduto sul letto.

ALCOR: Ma… ma che succede?
SAYAKA: (spalancando la finestra, in modo che aria e luce entrino nella stanza un istante prima scura e silenziosa): Ora di alzarsi! Marsch!
ALCOR: (gemendo) No… ti prego, ancora un minuto…
Altro fischio sopracuto. Alcor schizza dal letto:
SAYAKA: Tra cinque minuti, il caffè in tazza! Muoversi!
ALCOR: Ma…
SAYAKA: Devo fischiare ancora? (fa l’atto di portarsi il fischietto alla bocca. Alcor sparisce subito nel bagno.) Ne ero sicura. (Sorride, perfida, e batte sulla porta del bagno): Hai esattamente quattro minuti!
ALCOR (Batte una capocciata contro le piastrelle) Odio la scuola!!!


Giappone – Fortezza delle Scienze
Stanza di Shiro. Il bambino sta dormendo della grossa.
Entra Tetsuya sbattendo la porta e facendolo sussultare.

TETSUYA: Shiro, in piedi! Ora di andare a scuola! (alza la tapparella causando un fracasso infernale).
SHIRO: (cominciando a piagnucolare) No… no, non voglio…
TETSUYA: È tardi! (lo afferra per un piede e lo scuote vigorosamente. Shiro si divincola)
SHIRO: No! Lasciami in pace! (si tira le coperte sulla testa).
TETSUYA: Avanti, poltrone! Alzati! (gli strappa via le coperte. Shiro caccia la testa sotto al cuscino).
SHIRO: (cominciando a frignare sul serio) Lasciami stare! Sei cattivo!
TETSUYA (strappandogli il cuscino): Non farmi arrabbiare. Alzati!
SHIRO: No! Non voglio andare a scuola! (si aggrappa mani e piedi al materasso).
Tetsuya non si scompone: afferra il materasso, lo gira tenendolo a mezz’aria e lo scuote vigorosamente. Coperte, lenzuola, cuscino e Shiro volano da tutte le parti.
)
SHIRO: (carezzandosi amorosamente il fondoschiena, duramente provato dall’impatto col pavimento) Mi hai fatto male!
TETSUYA: (imperturbabile) Colpa tua. Adesso alzati, vestiti e vieni a fare colazione.
SHIRO: (cominciando a versare qualche mezzo litro di lacrime) Ma non è giusto! Perché devi trattarmi così?
TETSUYA: (uscendo dalla stanza) Naturalmente, devi anche rifare il tuo letto. Sbrigati!
SHIRO: (torcendo rabbiosamente l’incolpevole lenzuolo) Odio la scuola!!!

Giappone – Ranch Betulla Bianca
Stanza di Mizar. Il ragazzino dorme, ignaro del Fato che sta per piombargli addosso.
Entra Rigel, armato di schioppo.

RIGEL: In piedi, poltrone! Ora di andare a scuola! (Spara una rosa di pallini sul soffitto. Mizar balza sul materasso, finisce a terra e vi rimane, in preda a un attacco di tachicardia. Soddisfatto, Rigel batte un paio di colpetti sul calcio del suo schioppo). Ecco, era così che ci svegliavamo, laggiù, nel west! (esce, steccando allegramente un motivetto country).
MIZAR: (riprende a respirare, si rialza a fatica mettendosi a sedere. Guarda con astio verso dove è uscito il genitore; vorrebbe manifestare il suo stato d’animo, ma il rispetto che nonostante tutto nutre per il padre glielo impedisce, per cui ripiega su un): Odio la scuola!!!

Zuul – Casa privata (pochissimo tempo prima)
Camera di Fritz. Com’è ovvio, il ragazzo sta dormendo.
Entra Zuril.

ZURIL: Ora di alzarsi!
FRITZ: (stirandosi nel letto, ancora semiaddormentato) Ma come… di già…?
ZURIL: Una domanda inutile, visto che è il solito orario in cui ogni mattina…
FRITZ: (deciso a troncare subito un eventuale ragionamento-fiume paterno) Va bene, va bene. Ho capito. Adesso vengo.
ZURIL: (in tono zuccheroso) Sarà meglio che ti spicci, o dovrò spiegarti ancora una volta tutti i motivi per cui una buona istruzione sia necessaria…
FRITZ: (balzando immediatamente in piedi) Mi sono alzato!
ZURIL: Non mi sembri molto sveglio. Forse davvero dovrei ripeterti…
FRITZ: (sbarrando gli occhi) Sono sveglissimo!
ZURIL: Hai un minuto per venire a fare colazione. Sbrigati, o dovrò ripeterti per filo e per segno la tabella degli orari.
FRITZ: Arrivo!
Zuril ghigna e s’avvia verso la cucina: sa che nulla e nessuno può resistere alle sue spiegazioni razionali.
Rimasto solo, Fritz afferra il cuscino, lo mette contro una parete e picchia la testa (disperato, ma non scemo).

FRITZ: Odio alzarmi presto! Odio la scuola!!!


Fleed – Palazzo reale (qualche anno prima)
Camera del re e della regina di Fleed.
È mattino presto. I suddetti re e regina dormono ancora.
Entra il giovane Duke Fleed: si è lavato, ha fatto colazione, si è pettinato e vestito e ha già la cartella in spalla. Si avvicina al letto dalla parte del padre e scuote il genitore.

DUKE: Papà! È ora.
RE DI FLEED: (aprendo un occhio) Gronf…?
DUKE: Devi accompagnarmi a scuola! Alzati!
RE DI FLEED: (tenta di riaddormentarsi, ma il figlio lo scuote con decisione) Ma cosa c’è?
DUKE: (in tono di leggero rimprovero) Papà, alzati. Mi farai arrivare tardi alle lezioni.
RE DI FLEED: (supplichevole) Un momento… un momento solo…
DUKE: (scuotendo il capo) Non è possibile, papà, o arriveremo in ritardo. Coraggio, in piedi.
RE DI FLEED: (battendo una craniata contro la testiera del letto) Odio la scuola!!!


Vega – Palazzo reale (Parecchi anni prima)
Camera del giovane principe Yabarn, futuro Re Vega.
Il ragazzo dorme nel suo letto.
La porta scivola di lato; entra uno schiavo tremante, esita, poi muove qualche timoroso passo verso il letto.
Tossicchia, tentando di svegliare il giovane principe.
Nessuna reazione.
Tossicchia più forte.
Niente.
Si sgola, quasi sputa una tonsilla.
Stesso risultato.

SCHIAVO: (con voce flautata) Ehm… Vostra Altezza…? È ora di alzarsi…
Yabarn si stiracchia, sbadiglia, si mette a sedere e getta giù le gambe dal letto. Poi considera lo schiavo, che lo guarda come si può guardare una belva ferocissima e presumibilmente dotata di robusto appetito.
YABARN: Ma che ora è? (si gira verso il suo comodino e legge l’ora sulla sua sveglia. Quindi si volta verso lo schiavo) Sei in ritardo di più di mezzo minuto.
SCHIAVO: Ma… ecco, io veramente…
YABARN: Non sopporto i ritardatari. (Pigia un pulsante sulla testiera del letto. Dall’alto piove un raggio color mandarino che fulmina lo schiavo riducendolo in un mucchietto di polvere puzzolente).
Entra la Regina, madre del frugoletto.
REGINA: Tesoro, è ora di alzarsi… (vede il mucchietto di polvere e scuote il capo) Oh, Yabarn, non ci posso credere! Un altro schiavo!
YABARN: (alzando le spalle) Mi ha svegliato in ritardo. Colpa sua.
REGINA: Ma non è possibile! Insomma, devi smetterla con questa mania di polverizzare gli schiavi! Con quel che costano…
YABARN: (alzandosi in piedi) Vorrà dire che polverizzerò qualche compagno. Quelli non sono schiavi, e non costano.
REGINA: Polverizzare i tuoi amici? Ma vorrai scherzare! Te lo proibisco, capisci?
YABARN: (con un ghigno) Restano sempre i professori…
REGINA: (esasperata) Insomma, sei impossibile! Guai a te, capisci? Guai a te, o dovrò dirlo a papà! (fa per uscire, borbottando tra sé) Un altro schiavo! Anche oggi! E naturalmente, bisognerà pulire ancora il pavimento… Non provarti a camminare su quel mucchio di polvere, capito?
YABARN: Certo, mamma. (sferra un calcio al mucchietto, mandando la polvere ovunque).
REGINA: (con uno strillo) Oooh, sei impossibile! Lo dirò a tuo padre! E se verrò a sapere che a scuola hai distrutto un qualche altro insegnante, un compagno, un bidello… beh, resterai in camera tua una settimana intera! E senza cartoni animati! Mi hai capito? (esce, inviperita).
Yabarn si stiracchia con aria soddisfatta. È di ottimo umore: oggi, di primo mattino, ha già commesso la sua carognata quotidiana.
Si sente talmente bene, che ha una mezza idea di non far fuori nessuno a scuola, oggi… nemmeno il preside, come aveva progettato. Se lo terrà per un giorno rovescio, di quelli in cui ci si sveglia tristi e depressi.
Ripensa al terrore dei suoi compagni, dei suoi insegnanti, al fatto che non deve fare nessun compito e nonostante questo splendidi voti si accumulano sulle sue pagelle, e sorride, beato.

YABARN: (sognante) ADORO LA SCUOLA!!!


link per tirare pomodori: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1185#lastpost
 
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view post Posted on 24/10/2012, 13:06     +1   -1
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Sciocchezzuola one-shot.
L'idea originale non è mia: è stata usata da O. Henry (Il riscatto di Capo Rosso) e successivamente da Donald Westlake (Come ti rapisco il pupo). Era però troppo divertente, e non ho resistito all'idea di darne la mia interpretazione.
Buona lettura.


ATROCI TRATTATIVE


Mail inviata da Hydargos al professor Procton:

Professore, abbiamo catturato Shiro Kabuto. Se volete rivederlo vivo e sano, consegnateci Goldrake.

Risposta immediata del professor Procton:

Gentile signore, con rammarico devo avvertirLa che sicuramente c’è stato un errore: circa Shiro Kabuto, La consiglio vivamente di rivolgersi al Professor Kenzo Kabuto, c/o Fortezza delle Scienze.
Cordiali saluti.


A questo punto, lo scambio di lettere ebbe un brusco arresto.
Dopo aver debitamente imprecato, aver fatto trucidare le spie che gli avevano fornito informazioni sbagliate e aver detto a Gandal di sostituirle con altre un po’ meno cretine, Hydargos rimase un po’ incerto sul da farsi.
Non aveva nessun motivo per comunicare con questo Kenzo Kabuto, per cui decise da subito di lasciar perdere. Il giovane Shiro era comunque un bambino… un bambino dannatamente frignone… e sicuramente Procton, a meno di essere uno snaturato, avrebbe dovuto interessarsi alla sua sorte.
Fu così che una nuova mail venne inviata.

Professore, le ripeto che la vita di un bambino dipende unicamente dalle sue decisioni. Se volete riaverlo sano e salvo, consegnatemi subito Goldrake.

Immediata risposta di Procton:

Sono molto spiacente di non poter accettare la Sua gentile proposta. Per quanto importante sia la vita d’un bambino, la salvezza della Terra intera dipende da Goldrake.
Con vivo rincrescimento, mi vedo quindi obbligato a respingere la Sua richiesta.
I miei più cordiali saluti.


Nuove, vivacissime esclamazioni da parte di Hydargos, cui fecero eco i lamenti dell’infelice Shiro.
Il Vicecomandante di Vega digrignò le zanne: praticamente, da quando era stato catturato quell’infernale moccioso non aveva fatto che lagnarsi, alternando espressioni colme di autocommiserazione ad aspre rampogne verso i suoi rapitori (“Siete brutti e cattivi!”).
Comprensibilmente, Hydargos cominciava a non poterne più – e più esasperate ancora erano le guardie preposte alla custodia del piccolo piagnucolone.
Di una cosa comunque il Vicecomandante di Vega era certo: mai Procton avrebbe ceduto. Chiedere Goldrake era stato evidentemente un po’ troppo. Meglio ripiegare su una richiesta più contenuta.

Professore, non la facevo così duro di cuore.
Le faccio una proposta che non potrà rifiutare: la vita di Shiro contro la consegna di Goldrake Due, il Delfino Spaziale e la Trivella Spaziale.


Risposta istantanea:

No.

Ruggito da parte di Hydargos.
La porta si aprì, lasciando entrare un Gandal particolarmente stravolto, accompagnato da vari ululati da parte di Shiro.
– Non ne posso più! – esclamò il Comandante Supremo di Vega, occhi iniettati di sangue e bava alla bocca – Quando lo consegniamo?
– Non lo consegniamo – rispose Hydargos, cupo.
– Perché no? – trasecolò Gandal.
– Non lo vogliono. Mica scemi.
– Non possono farci questo! – esplose Gandal – Due soldati hanno già tentato il suicidio, e altri tre o quattro stanno impazzendo! Quel piccolo mostro continua a frignare da ore! DEVONO riprenderselo!
– Adesso riprovo – e Hydargos si mise a digitare una nuova mail.

Professore, devo essermi spiegato male: ho detto che in cambio di Shiro voglio O Goldrake Due, O il Delfino O la Trivella. Non intendevo certo tutti e tre insieme! Che ne dite?

Nuova, velocissima risposta:

Sono davvero spiacente di non poter ottemperare alla Sua gentile richiesta.
L’occasione è gradita per porgerLe i miei più cordiali saluti.


– Non posso crederci – rantolò Hydargos, gli occhi incollati sulle incredibili parole apparse sul suo schermo – Ma come possono essere così crudeli? Ma si rendono conto che stanno abbandonando UN BAMBINO nelle mani di mostri assassini pronti a trucidarlo?
– Otto – gemette Gandal, entrato proprio in quel momento nella sala.
– Otto, che cosa? – chiese Hydargos.
– Suicidi. Più quattordici crisi isterico-depressive. Quel continuo piagnucolio ci sta uccidendo.
Hydargos batté il cranio contro la consolle del computer.
Avevano cercato di tacitare il pargolo minacciandolo, ma l’effetto ottenuto era stato il raddoppio delle lagne.
Avevano tentato di ottenere silenzio imbavagliandolo, ma nulla aveva resistito a quel profluvio di lacrime e lamenti.
Avevano anche provato a rinchiuderlo in una stanza insonorizzata, ma il piagnisteo di Shiro era risultato ben più tenace di qualsiasi materiale isolante.
Se solo ci fosse Zuril!, si disse Hydargos. Lui saprebbe inventare qualcosa per ridurre al silenzio il moccioso… uno zittitore neurale, un tacitatore ultrasonico, un antifrigno high-tech…
Disgraziatamente, Zuril era in quel momento su Ruby, dove aveva accompagnato Sua Maestà in visita ufficiale in occasione del compleanno della principessa Rubina.
– Dobbiamo sbarazzarci di quel mostriciattolo – la voce di Gandal tremava violentemente, rischiando di spezzarsi. Anche il ferreo Comandante Supremo di Vega stava per cedere.
– Vediamo di liberarcene in qualche altro modo – e Hydargos preparò una nuova mail, indirizzata stavolta all’Imperatore delle Tenebre:

Abbiamo catturato Shiro Kabuto. Vi interessa? Ve lo cediamo anche gratis in segno della nostra stima e amicizia.

Fulminea la risposta dell’Imperatore, tramite la Marchesa Yanus:

Godetevelo.

Nuova esclamazione di genere intestinal-rettale da parte di Hydargos.
Gandal, che aveva sperato in buone nuove, si afflosciò contro lo stipite della porta.
Dall’esterno, altri strilli e piagnistei.
Un colpo di fucile laser.
– E con questo, quattordici suicidi – mormorò Gandal, con voce incolore – Più i trentasette casi di crisi isterico-depressiva con convulsioni. E questo numero è destinato a crescere.
– Riproverò con Procton! – decise Hydargos – DOVRÀ cedere!
Digitò in fretta una nuova mail.

Professore, capisco il suo punto di vista, ma lei deve anche capire me.
Si tratta di un BAMBINO… un bambino che vuole tornare a casa, e che piange. Molto.
Facciamo così: Shiro, in cambio di suo fratello Alcor. Mi pare una proposta ragionevole.


La risposta si fece attendere un poco di più, ma arrivò comunque in breve tempo.

Gentile signore, ho girato la sua richiesta all’interessato.
Non posso riferirle le esatte parole della risposta… non oso farlo, simili termini non appartengono al mio vocabolario… ma sappia che il senso generale è decisamente negativo.
Dubito quindi che Alcor accetti lo scambio.
Resto a sua completa disposizione per ulteriori chiarimenti.
Cordiali saluti.


Stavolta, la parola ululata da Hydargos fu di genere strettamente genitale.
Gandal, che aveva atteso la risposta di Procton come l’erbetta riarsa attende la pioggerella estiva, ricadde contro lo stipite emettendo un singhiozzo. Hydargos lo guardò, molto a lungo.
Rilesse sul suo monitor l’aggiornamento delle vittime di Shiro (venticinque suicidi, cinquantaquattro casi di crisi depresso-isterico-convulsiva).
No, qui bisognava prendere una decisione immediata e drastica.
Fu così che si mise a digitare freneticamente una nuova mail.

Professore, mi rivolgo a lei come solo un uomo profondamente disperato può fare.
DOVETE riprendervi quel mostriciattolo… ci sta uccidendo, con le sue lamentele, i suoi piagnistei, il suo continuo frignare.
Già ventotto dei miei uomini si sono suicidati, ed altri sessantuno sono rinchiusi al Centro Medico, in preda a convulsioni di origine isterico-depressiva.
Questo numero è destinato a crescere in maniera esponenziale.
Non le chiedo più nulla, non azzardo nemmeno la più piccola richiesta; ma se in lei c’è un cuore, se ancora in lei alberga un barlume di umanità, la prego, SE LO RIPIGLI.


La risposta fu tempestiva.

Gentile signore, sono profondamente dispiaciuto di apprendere che un così alto numero dei suoi simili abbia subito una sì grave sorte; le faccio comunque presente che la colpa di quanto è accaduto sia da imputare unicamente a voi, che per i vostri loschi scopi avete rapito un bimbo innocente ed indifeso.
A parer mio, quanto vi sta succedendo non è che la diretta conseguenza delle vostre cattive azioni, per cui, pur rammaricandomi per il vostro triste destino, non posso che pensare che si tratti comunque di una meritata punizione per le vostre malefatte. Non vedo perciò per quale motivo dovrei intervenire, togliendovi detta punizione.
I miei saluti più cordiali.


Hydargos batté ripetutamente il cranio contro la consolle, scandendo il tutto a suon di parole di genere strettamente gergale.
Dietro di lui, Gandal si lasciò scivolare a terra e là rimase, gli occhi sbarrati e persi nel vuoto.
Il frignoso piagnucolio non era cessato per un solo secondo.
Massaggiandosi il bernoccolo che stava fiorendogli sulla fronte, Hydargos lesse i nuovi dati: trentaquattro suicidi, settantadue ricoverati.
Fu un uomo profondamente disperato quello che scrisse la nuova mail:

La prego! Non mi dica che non lo rivuole indietro! Abbia pietà, non posso credere che lei possa restare insensibile… mi appello al suo buon cuore, alla sua coscienza, alla sua umanità, a qualsiasi cosa possa servire a convincerla, ma la supplico: riprendetevelo. Noi non lo reggiamo più.
P.S. Mentre le scrivo, i suicidi sono aumentati a quarantacinque, i ricoverati sono ottantaquattro, tra cui il Comandante Gandal. Mi creda, è penoso veder piangere un uomo simile.


La risposta arrivò in breve tempo.

Gentile signore, sono profondamente addolorato per quanto avvenuto al Comandante Gandal, cui porgo i miei più sentiti auguri di pronta guarigione.
Non posso restare insensibile alle sue suppliche: anche le più meritate punizioni, se eccessive, sono eccessive appunto.
Vedrò quindi di venirle incontro, facendole il favore che lei tanto insistentemente mi richiede.
Un uomo di mondo come lei capirà però che i favori, anche quelli fatti per pura bontà d’animo e tenerezza di cuore, hanno comunque un costo.
Eccole quindi la mia offerta.
Poiché il Vs. ultimo attacco ha seriamente danneggiato il nostro Osservatorio, le propongo di farlo riparare – s’intende, con spese, materiale e manodopera interamente a vostro carico.
Le fornirò inoltre una lista di materiali di cui mi farà il favore di rifornirci, in vista delle prossime battaglie.
A riparazioni e rifornimento avvenuti, sarò più che lieto di prendere in custodia il piccolo Shiro, cui nel frattempo avrete avuto cura di provvedere con la massima sollecitudine.
La prego di ritenere questa mia proposta come definitiva e assolutamente non negoziabile.
Mi creda suo, eccetera.

Una serie di esclamazioni circa la professione della mamma di Procton, e delle relative antenate, fu la reazione immediata di Hydargos.
Gandal era ormai stato portato via, in preda a una crisi convulsivo-istericoide con manifestazioni depressive, per cui il Vicecomandante di Vega non poté richiedere il suo parere.
Dall’esterno, continuavano a provenire gemiti, ululati ed alti lai, alternati ad alcuni colpi di mitraglia, sparati da qualche novello suicida.
C’era solo una cosa da fare… e Hydargos la fece.
Le sue dita volarono sulla tastiera…

Accetto.

EPILOGO PRIMO

Sotto la luce del sole, l’Osservatorio sembrava risplendere.
Ricostruito in ogni sua minima parte dalla più competente manodopera di Vega, migliorato dagli innovativi materiali di costruzione forniti dai veghiani, fresco di pittura appena data, era un’autentica bellezza.
I suoi magazzini rigurgitavano dei materiali che facevano parte della nutritissima lista di Procton, e che Hydargos aveva rifornito senza fiatare.
C’era il lato negativo costituito dal fatto che Shiro era stato restituito, ma siccome Alcor aveva provveduto a rispedirlo subito alla Fortezza delle Scienze, non si trattava poi di un problema così grave… non per loro, almeno.
– Non è una bella vista? – Procton accennò al laboratorio, fiammante di nuovi colori.
– Meraviglioso – ammise Actarus.
Pausa.
– Cosa volevi dirmi, figliolo? – chiese il professore.
– Papà – il giovane sembrava esitare – quello che è successo con Shiro…
– Sì?
– Ecco… non sei stato troppo crudele? Voglio dire…
– Perché ho mercanteggiato su un bambino, vuoi dire? – Procton si accese la sua pipa – Probabilmente sì, anche se ero sicuro che non gli avrebbero fatto nulla. Shiro era un ostaggio, non avevano alcun interesse ad ucciderlo.
– Lo so anch’io – rispose Actarus – e non era a questo che mi riferisco.
– E allora?
– Mi chiedevo… non sei stato troppo crudele con i veghiani?
– Oh – rispose Procton.

EPILOGO SECONDO E DEFINITIVO

Zuril lesse sul suo schermo i dati finali: cinquantasette suicidi, novantuno ricoverati. Una vera ecatombe.
Scorse poi la lunga lista del materiale fornito a Procton: era troppo controllato per lasciarsi sfuggire un fischio, ma fu lì lì per farlo.
Prese fiato: mentre il sire era rimasto ad infestare Ruby della sua presenza, lui aveva fatto ritorno su Skarmoon per trovare… cosa? Un numero incredibile di soldati morti, ancora di più internati in gravissime condizioni, lo stesso Comandante Gandal ridotto a una specie di tremolante gelatina, un’enorme quantità di materiale passato al nemico… e per cosa, poi?
Guardò con sincero interesse Hydargos, che in piedi davanti a lui sembrava torcersi come un vermicello posto su un vetrino.
– Tutto questo per un… bambino? – chiese, non sicuro d’aver capito bene.
– Macché bambino, quello era un mostro! – rispose Hydargos, pronto – Credimi, abbiamo tentato di tutto… minacce, ricatti, tutto, ma quello Shiro è un osso più duro di quel che immaginavo, e…
– Osso duro… un bambino? – ripeté Zuril, incredulo.
– Tu non l’hai sentito piangere – s’affrettò a dire Hydargos – Un lamento continuo… piagnucolava come se non avesse mai potuto smettere… insopportabile! Abbiamo provato di tutto, tappi nelle orecchie, una cella insonorizzata… niente. Orribile.
– Scusami, vorrei capire – Zuril si protese in avanti, i gomiti sulla scrivania e le punte delle dita congiunte – Non potevate semplicemente farlo star zitto?
– Certo che ci abbiamo provato! – esclamò Hydargos – Abbiamo tentato di tutto, l’abbiamo blandito, minacciato, l’abbiamo persino imbavagliato… niente! Non funzionava niente, con quel marmocchio!
– Avreste potuto sparargli un colpo di pistola…
– Un ostaggio morto non ci sarebbe servito a niente!
– …per stordirlo – completò Zuril.
Hydargos trasalì, e per un attimo rimase immobile, come congelato.
Un secondo dopo, l’intera base Skarmoon udì un ululato disumano come mai si era sentito.


Zuril guardò il suo infelice collega, urlante ma debitamente impacchettato, mentre veniva condotto via da otto infermieri.
Scosse il capo, e ripreso l’elenco dei ricoverati per crisi depressivo-convulsiva con manifestazioni isteriche, lo corresse: novantadue.
Sospirò: è vero, è sempre uno spettacolo penoso veder piangere un uomo.


Link per pomodori e altri vegetali (di questi tempi si accettano con gioia): https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1185#lastpost
 
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view post Posted on 31/1/2013, 09:30     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Un Actarus così difficilmente lo avrete mai visto... e nemmeno immaginato.^^

Un grande ringraziamento a Isotta, il mio editor preferito, e Monica, che con me ha sempre tanta pazienza.^^



DURA CURA


Actarus guardò con scarsa simpatia lo scaffale della dispensa: era molto pesante, di legno robusto. Anni prima era stato appeso al muro da Rigel, che aveva delle opinioni molto personali circa il mettere a bolla un piano; il risultato era che regolarmente gli oggetti scivolavano e cadevano di lato. Per anni Venusia aveva litigato col padre, che aveva sempre sostenuto l’eccellenza del suo lavoro e ostacolato qualunque tentativo di porvi rimedio; alla fine la figlia l’aveva spuntata, Rigel, offesissimo, se ne era andato a fare un lungo giro a cavallo e chi aveva dovuto accollarsi quell’odioso compito era stato naturalmente lui, Actarus.
Bene, cominciamo…
Bisognava staccare dal muro lo scaffale, togliere i due ganci, chiudere i buchi con lo stucco, mettere i ganci stavolta ad altezze uguali e riappendere lo scaffale. Delizioso.
Actarus afferrò il mobile e fece per toglierlo dal muro, quando gli scivolò di tasca il metro; d’istinto si chinò a raccoglierlo, ma i ganci, che evidentemente erano malfermi nei loro alloggiamenti, trovarono che quello fosse il momento ideale per staccarsi.
La gravità fece il resto, e l’impatto fu notevole.


Venusia aveva appena finito di stendere il bucato, nel giardino sul retro; afferrò la cesta vuota e rientrò in casa, totalmente impreparata a quello che vi avrebbe trovato.


Era seduto in cucina… no, “seduto” non è il termine esatto.
Era stravaccato in cucina.
Una gamba a est, una a ovest, una mano pensosa che grattava la pancia, e anche un pochino più in basso, Actarus contemplava con occhio bovino l’enorme lattina di bibita che stringeva tra le dita.
Poi, d’un colpo, la buttò giù per intero: l’inevitabile deflagrazione che seguì fece inorridire Venusia.
– Ma insomma…! – esclamò lei, giustamente scocciata – Actarus! Ma come ti comporti?
Seconda deflagrazione, di minore intensità.
– …? – c’era tutto l’orrore possibile, in quel “…?”; ma il peggio non era ancora arrivato.
– Ehilà, bella! – esclamò Actarus, agitando allegramente la lattina vuota – Vuoi una coca?
– Una coca…? – Venusia era a dir poco stupefatta – Ma se non ti è mai piaciuta… in genere tu bevi latte, al massimo orzata…
Versaccio disgustato.
– Ti senti bene? – insisté lei – Mi sembri un po’ strano…
– Tutto OK – gettò per terra la lattina vuota, spinse all’indietro la sedia facendo un gran rumore, aprì il frigo, estrasse un’altra lattina, l’aprì e ne trangugiò mezza in un paio di rumorosissimi sorsi.
Ulteriore inevitabile deflagrazione.
– Actarus!!! Smettila di comportarti come un… un…
Lui le strizzò l’occhio: – Dài, che ti piace!
– Insomma, non ti ho mai visto così… – “cafone”, avrebbe voluto dire, ma la parola non le uscì dalle labbra. Actarus… Actarus, sì, proprio lui… comportarsi come un bulletto di periferia? Non era possibile!
Il giovane evidentemente aveva tutte le intenzioni di mostrarsi amabile; sempre senza scollare il posteriore dalla sedia afferrò altre due lattine, porgendone una a Venusia accompagnata da un gentile invito: – Gara di rutti?
Venusia gli voltò di scatto le spalle: era indignata, inorridita, disgustata… un istante dopo, fu anche totalmente sconvolta.
Le era sembrato… non poteva crederci, non voleva crederci… ma era proprio sembrato…
– Actarus – disse lei, con un filo di voce – so che non è vero, che non puoi averlo fatto, ma giurerei che tu mi abbia dato una palpata al sedere…
– No, una no… due! – seconda smanazzata. Con uno strillo, Venusia schizzò contro una parete, guardando con autentico raccapriccio l’individuo che le stava davanti.
– Ce l’hai di marmo – commentò lui, chiaramente compiaciuto del sondaggio testé compiuto.
Venusia schizzò nella dispensa, chiudendovisi dentro, lontano da quel selvaggio totalmente impazzito… l’aveva visto così fuori di sé soltanto una volta, quando era stato colpito dal raggio di Zuril ed era diventato un maniaco sessuale. Con l’unica differenza che allora parlava pochissimo (ARF!!!) e agiva anche troppo, mentre ora sembrava decisamente molto meno attivo, per non dire spudoratamente pigro, e purtroppo discorreva, eccome se discorreva.
Pigro, già… non aveva appeso lo scaffale, che era a terra, buttato di lato…
Un’idea improvvisa la colse. Controllò lo scaffale: i ganci erano fuoriusciti, uno spigolo era scheggiato, come se avesse subito uno scontro con qualcosa di particolarmente duro.
La testa di Actarus…!
Ma sì, era andata sicuramente così: Actarus si era preso lo scaffale in testa e ora era completamente rimbecillito! Bisognava subito chiamare aiuto!
Venusia aprì la finestra dello stanzino: era al pianterreno, scivolare fuori era un giochetto.
Un attimo dopo corse verso la rimessa, dove Alcor e Maria stavano lavando le rispettive motociclette.


Stupore, incredulità, orrore furono la reazione al racconto di Venusia; per quanto i due si fossero preparati al peggio, restarono a mascelle pendule quando, entrati in cucina, si trovarono al cospetto di un Actarus dall’aria meditativa che si stava pensosamente esplorando il naso con un dito.
Maria richiuse subito la bocca, riaprendola però un secondo dopo.
– Ma Actarus!!! – uno strillo che mise a dura prova i vetri delle finestre.
L’interpellato si voltò verso di lei. Con molta calma.
– Chi è questa manza? – chiese Actarus, con un luccichio piuttosto lubrico nello sguardo.
– Tua sorella – disse Alcor.
Sorella… bleah. Agli occhi dei fratelli, si sa, le sorelle difficilmente sono graziose.
– Naah, allora è una ciospa – e con un gesto della mano, Actarus liquidò Maria e riprese la sua esplorazione.
– Vuoi dire… che non riconosci tua sorella? – esclamò Alcor.
Occhiata bovina e ripresa delle operazioni nasali.
– E me… mi riconosci? – insisté il giovane.
– Sei il mio brother?
– Sono il tuo migliore amico!
Actarus lo squadrò da capo a piedi, facendo chiaramente capire la sua opinione: – Non provare ad intortarmi, bello, sei troppo handicapace per essere il mio migliore amico.
– Lo strozzo! – ululò Alcor.
– Non è in sé! – esclamò Venusia.
– Allora prima lo curiamo, e poi gli spacco il muso… e levati quelle dita dal naso!
– Ok, Ok, non scassare – e Actarus sfilò l’indice dalla narice e cominciò a frugarsi in un orecchio.
Alcor gli voltò le spalle: non voleva vederlo, non voleva sentirlo. – Cosa gli è successo?
Brevemente, Venusia gli spiegò la faccenda dello scaffale e quali fossero state le sue deduzioni in merito. Alcor si decise a riguardare in viso Sua Altezza, che terminato di sondarsi l’orecchio aveva preso a frugarsi tra i denti con la punta dell’unghia. La stessa con cui aveva sondato naso e orecchio, si capisce.
Sulla fronte, sotto al ciuffo di capelli castani, era chiaramente visibile un livido che stava assumendo allarmanti dimensioni.
– Hai ragione, dev’essersi preso una gran botta in testa, ecco perché è rimbecillito – commentò il giovane.
– Vuoi dire che resterà sempre così? – esclamò Venusia, inorridita.
– Non è detto… una botta l’ha rincretinito, un’altra botta potrà farlo guarire.
– Alcor, non vorrai…
– C’è una sola cosa da fare! – Alcor si precipitò fuori, tornando con un randello di rispettabili proporzioni.
– Ma cosa ti salta in mente? – strillò Maria.
– Dargli una botta in testa, naturalmente! – rispose il giovane – Una botta l’ha ridotto così, un’altra botta lo guarirà!
– Mi sembra una scemenza – intervenne Venusia – Non puoi prenderlo a legnate così, come se…
– Quel flippato… menare me? – Actarus sghignazzò letteralmente in faccia ad Alcor, manifestando così la sua opinione in merito. – Se ci provi, ti asfalto.
– Vedete che devo farlo? – disse il giovane, rivolto alle due ragazze – Non è in sé! Una sola randellata, e vedrete che starà meglio!
– Camomillati, bello – disse Actarus – Guarda che ti svito una gamba e te l’accravatto al collo, claro?
– È per il tuo bene – Alcor alzò il randello.
Actarus si voltò verso le ragazze: – È fuori un totale?
– Perdonami! – e Alcor calò una potente randellata sul cranio di Actarus.
Un istante dopo, uno sgrugnone di Actarus fece volare Alcor dall’altra parte della cucina, mandandolo ad insaccarsi contro la credenza e seminando morte e distruzione nel servizio dei piatti.
Venusia lanciò un urlo di vera disperazione: – Insomma! Se proprio volete ammazzarvi, fatelo almeno FUORI!!!
– Ehi, stai tranqui – disse Actarus – è stato lui a…
– Zitto! – Venusia aveva usato il tono delle grandi occasioni, quello con cui riusciva a zittire persino Rigel; Actarus non fu da meno e ammutolì. – E adesso, facciamo l’unica cosa che avremmo dovuto fare subito: andiamo dal professor Procton.


Attonito, il professore ascoltò in silenzio il racconto che gli venne fatto; più che la faccenda dello scaffale, più che l’occhio pesto di Alcor, che stava assumendo toni decisamente bluastri, a sconvolgerlo fu la narrazione delle esplorazioni nasali, delle deflagrazioni digestive e delle grattate in zone off-limits (pietosamente, Venusia omise la palpata di controllo subita dai suoi quarti posteriori).
Stupefatto, Procton guardò il figlio, che ciondolava in un angolo e aveva preso a rasparsi le chiome.
Venusia si schiarì la voce: – Actarus, credo che il professore voglia parlarti…
Il giovane guardò Procton: – Chi è questo dinosauro?
– Tuo padre – disse Alcor, mentre i baffi di Procton sembravano arricciarsi per l’orrore.
– Ah – Actarus rivolse al genitore un amichevole sorriso: – Ciao, vecchio. Come butta?
– Vecchio…? – inorridì il professore.
– Non è in sé – l’avvertì Venusia.
Actarus aveva intanto adocchiato una poltrona, e vi era colato sopra: sembrava che il semplice sforzo di stare in piedi fosse eccessivo, per lui. Il giovane educato e pieno d’energia che era stato un tempo aveva lasciato il posto a un bifolco con la verve d’una medusa bollita.
– Actarus – lo richiamò Procton – è suonato l’allarme.
Lui si grattò pensosamente un’ascella: – E allora?
– Sta arrivando un mostro di Vega!
Il giovane rifletté attentamente: – Ok, prof, ma a me che mi frega?
Era una risposta fatta in tono amabile, pure Procton sembrò irritarsi notevolmente: – Tu hai sempre combattuto contro i mostri di Vega!
Actarus parve sinceramente urtato da quella perdita di self control: – Non è il caso di sclerare…
– Non lo sopporto…! – ringhiò Procton, che nonostante fosse un uomo pacato e gentile sentiva un bisogno impellente di tirare qualche schiaffone.
– Gli parlo io – Alcor si fece avanti: – Adesso la pianti, vai a prendere Goldrake e vai a combattere contro quel mostro. Mi hai capito?
Actarus lo guardò come si guarda un perfetto deficiente: – No, bello, non esiste. Io andare a menare gli UFO? Ma sei fuori, porca pupazza!
– Ma Actarus! – esclamò Maria – Tu combatti da anni contro i mostri di Vega!
– Io? Non mi rompere, ciospetta.
– Non è in sé! – esclamò Venusia, mentre anche Maria, come Alcor e il professore, sembrava cominciare a sprizzare scintille dalle narici.
Sicuramente, a quel punto la situazione sarebbe degenerata, se non fosse stato per Yamada, che fece capolino sulla porta: – Scusate, c’è una comunicazione da parte dei veghiani. Un loro mostro sta per attaccarci.


– Vieni fuori a combattere, vigliacco! – esclamò Hydargos, mentre il suo mostro sputacchiava fuoco tutt’intorno, a mo’ di giuliva fontanella.
Attraverso lo schermo, Procton, Alcor, Venusia e Maria lo osservavano, attoniti.
– È un mostro fortissimo – commentò il professore – Non potrete farcela, voi da soli senza Actarus.
– Ma non possiamo stare qui senza far niente! – esclamò Maria.
– Potremmo provare comunque ad affrontarlo – azzardò Venusia – Forse…
– Sarebbe un suicidio – tagliò corto Procton.
– Avanti, Goldrake! – insisté Hydargos, facendo sputazzare al suo mostro fuoco e fiamme – Fai vedere il tuo brutto muso! O hai paura, forse?
Ci sono cose che normalmente non vengono mai fatte, e che la volta in cui vengono invece compiute ottengono il miracolo – che in genere più che “miracolo” viene definita volgarmente “botta di eccetera”.
Bene, quella fu la volta in cui Alcor ebbe appunto una botta di.
– Piantala di strillare, fetente! – urlò nell’interfono, non potendone più delle provocazioni di Hydargos – Actarus non verrà a combattere, oggi! Non può!
– Ma cosa dici, stupido? – sibilò rabbiosamente Maria, mentre anche Procton e Venusia tentavano inutilmente di tacitare l’incauto.
– Come sarebbe, “non può”? – chiese subito il Vicecomandante di Vega.
Procton tentò di allontanare Alcor dall’interfono, ma il giovane si era saldamente aggrappato alla postazione e non cedette.
– Perché Goldrake non può combattere? – insisté Hydargos.
– Sta male! – gridò impulsivamente Alcor, nonostante i suoi compagni tentassero di zittirlo.
Un attimo di attonito silenzio, mentre Maria, Venusia e Procton si dicevano che era inutile ormai uccidere Alcor, il danno era irrimediabilmente fatto.
– Come sarebbe, sta male? – domandò Hydargos, e tutti percepirono una nota di preoccupazione nella sua voce – Cos’è successo?
– Gli è caduto uno scaffale in testa – disse Alcor.
– Non sta poi così male – tentò d’arginarlo Procton.
– Non è vero, è completamente rinscemito! – urlò Alcor – Non capisce nulla, parla come un deficiente, smanazza le ragazze e non… oh – tacque, finalmente, comprendendo solo allora l’esatta portata di quel che aveva detto: adesso i veghiani sapevano d’avere campo libero, avrebbero invaso la Terra, avrebbero…
Dall’altra parte, un gravissimo conflitto interiore stava avendo luogo: in Hydargos l’idea di conquista immediata era entrata in collisione col raccapriccio di non poter vincere facendo finalmente a sfoglia il maledetto Duke Fleed. Il SUO nemico.
Stava male…? Talmente male da non poter combattere? Così malato al punto che Alcor, impulsivo com’era, aveva spiattellato cose che normalmente gli avrebbero fatto saldare la bocca e incollare la cucitura?
In preda ai dubbi, chiese la comunicazione con la base Skarmoon per avere lumi.
Quella fu la seconda botta di miracolo del giorno. Dall’altra parte a ricevere la chiamata ci fu la principessa Rubina, che saputo delle condizioni in cui versava l’amato bene gli diede ordine immediato di sospendere l’attacco; e Hydargos, che nel complesso trovava per nulla divertente fare sfracelli senza che ci fosse Goldrake ad impedirglielo, fu contentissimo di obbedire, un po’ come avrebbe fatto un bimbo che non sopporta di giocare senza l’amichetto preferito.
Rubina non pose tempo in mezzo: se Actarus stava male, bisognava subito sincerarsi delle sue condizioni. Senza indugio.

- la fine alla prossima puntata -


Link per uccidermi, scusate, per asfaltarmi un totale: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=1200#lastpost
 
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