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ANNUSHKA's FICTION GALLERY, Solo autore

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-capitolo 12-

La tensione era alle stelle. La torre di controllo, ancora circondata dai carri armati, rischiava di diventare la tomba degli assalitori e del personale dell’aeroporto insieme. E lì si trovavano in ostaggio pure suo padre e sua sorella! Doveva trovare subito una via d’uscita. Maledizione! Di sicuro quei ragazzi avevano subito un condizionamento, potevano agire in modo imprevedibile ed ora stavano alzando il tiro. Non c’era tempo da perdere, bisognava liberare gli ostaggi.
Duke Fleed riprese la parola: “Chi è il vostro capo? Voglio parlargli.”
“Non c’è alcun bisogno di parlare, Duke Fleed!” gli gridarono dall’alto.
Lui rilanciò: “Se è me che volete, non è necessario sacrificare altre persone.”
Questa non se l’aspettavano.
Tsubai non nascose la sorpresa: “Che cosa facciamo?”
Thoroa, invece, reagì sicuro: “Non ha nessuna intenzione di parlare, ci sta solo tendendo una trappola.”
Lo interruppe la ragazza: “No, lui non si comporterebbe mai in modo così vile!”
“Sta’ zitta!” la rimbeccò Tsubai. Ma come si permetteva quella? Che ne sapeva di Duke Fleed? Se non fossero stati in quella situazione, avrebbe saputo lui come rimetterla al suo posto. E non era neanche male… “Allora Beecha, ancora non sei riuscito a comunicare con il comandante Dagil?”
Beecha non aveva mai smesso di tentare: “Comandante Dagil! Comandante! Si metta in contatto con noi! Riesce a sentirci? Niente da fare!” Poi aggiunse sconsolato: “E’ come se una specie di barriera bloccasse le onde radio.”
“Dannazione! Dovremo cavarcela da soli.” disse Tsubai. “Ains! Spetta a te assumere il comando della missione!”
Un’ombra di compiacimento passò fugace sul volto del ragazzo. Tsubai era un vero amico. Malgrado si fossero conosciuti in modo a dir poco burrascoso, era stato davvero sempre leale con lui e ora, in quel terribile momento, gli offriva tutta la sua fiducia. Ne sarebbe stato all’altezza! Li avrebbe portati alla vittoria!
“Guardate! I carri armati si stanno ritirando!” gridò Swinko.
Quello che videro li gettò nello sconcerto. Mentre discutevano, i carri armati avevano fatto dietro-front. Non ne era rimasto neppure uno e se ne era andato anche il velivolo d’appoggio a Grendizer. Duke Fleed era solo sulla pista ed aveva ricominciato a parlare.
“Ascoltatemi. Come vedete ci siamo ritirati. Ma voi dovete tornare sul pianeta Vega.”
Lo sconcerto aumentò. Thoroa commentò: “Lo vedete? Sa che è impossibile. Quello ha in mente qualcosa."
Di nuovo la ragazza gli diede sulla voce: “Ma cosa dite? Non è vero! Lui non cercherebbe mai di ingannarvi!”
“Taci! Ora mi hai stufato! Guai a te se parli ancora!” e la prese di mira un’altra volta.
“Smettila Thoroa!” Ains era esasperato. “Piuttosto, pensiamo a cosa fare con Duke Fleed.”
Tsubai ebbe un’idea: “Noi siamo in cinque, lui è da solo. Battiamoci contro di lui.”
“Ha ragione,” lo sostenne Swinko, “in fondo lo scopo della nostra missione è eliminarlo.”
Ains era dubbioso: “Aspettate, forse è meglio restare qui finché non riusciamo a comunicare col comandante Dagil.”
Tsubai lo incalzò: “Hai già perso tutto il tuo coraggio?”
Cos’è? Lo prendeva in giro? Lo sfidava? La decisione era della massima importanza, bisognava restare lucidi, razionali. Ne andava del successo della missione.
“No Tsubai, però non possiamo batterci contro Duke Fleed armati solo dei nostri medaglioni magnetici.”
“Ma non abbiamo solo quelli!” concluse Tsubai trionfante “Abbiamo anche le pistole laser. Saranno sufficienti!”
Thoroa continuava a diffidare: “Può essere una buona occasione, ma è ugualmente probabile che sia una trappola.”
L’entusiasmo dei fratelli sembrò travolgere ogni esitazione. “Avanti! Andiamo!” esclamò Beecha e Swinko a ruota: “Coraggio Ains! Battiamoci degnamente contro quel Duke Fleed!”
Il comandante Dagil era stato chiaro: niente iniziative personali. Ma non aveva previsto quella situazione! Se si fosse protratto l’isolamento, Duke Fleed avrebbe potuto addirittura prendere lui l’iniziativa, tentare un blitz. E allora, come avrebbero potuto reagire? Far saltare la torre era solo una minaccia: non avevano esplosivi. Uccidere gli ostaggi? Non era per quello che erano venuti! Uomini incapaci di combattere, ancora in stato di incoscienza, una ragazzina… Erano soldati, non assassini! E poi, sarebbe servito solo a far imbestialire Duke Fleed e a confermare le menzogne con cui teneva i terrestri in soggezione.
Ains prese una decisione, non senza trascurare un ultimo tentativo ispirato alla prudenza: “D’accordo, combatteremo. Ma prima voglio provare un’ultima volta a mettermi in contatto col comandante Dagil.”


“Ains! Sono il comandante Dagil, mi ricevete? State lì finchè il mostro di Vega non arriva. Rispondete, se mi sentite.” Niente! Ma cosa può essere successo? Un momento! Ma certo! L’emettitore di onde di disturbo! Avranno modulato male la frequenza e deve aver schermato anche la loro radio. Dagil si ripromise, appena rientrato alla base, di segnalare subito l’inconveniente al responsabile tecnico delle attrezzature da assalto e degli equipaggiamenti.
“Dagil!” la voce di Gandal lo fece trasalire. “Sei riuscito a metterti in contatto con loro?”
“No generale, non ancora.” L’ufficiale percepì un sentore di minaccia nel tono del superiore. Devo capire cosa sta succedendo.
Un sibilo e una vibrazione metallica. Il cavo da scalata era ben teso, il moschettone conficcato saldamente nel tronco a diversi metri d’altezza dal suolo. Dagil si arrampicò in cima all’abete e scrutò con il binocolo la pista. Ma… cosa?!? Quello che vide lo soddisfece molto. Bravi mocciosi, bravi! Così, non tutto il male viene per nuocere… Duke Fleed era uscito dal suo disco e in quel momento era allo scoperto, completamente indifeso. Bravi, tenetelo impegnato, inchiodatelo su quella pista, ancora pochi minuti e gliela farò vedere io. Dagil si affrettò a riguadagnare il terreno. Mentre correva verso il suo robot ebbe un lampo: E voi… risulterete tra i danni collaterali.


“Beecha!” Ains gridò, voltandosi di scatto verso il compagno che ancora armeggiava con la radio.
“Niente da fare Ains!”
“Bene.” Il ragazzo respirò profondamente: “Allora… via!” Ad un cenno del capo di Ains, Swinko si gettò sulla ragazza stordendola di nuovo con il medaglione. In un attimo la misero seduta su una delle poltrone dei tecnici del radar e ve la assicurarono, stringendole bene i polsi ai braccioli e le caviglie alle zampe. Poi si lanciarono a rotta di collo per le scale, brandendo ognuno una pistola laser.
Eccolo! Era lì. Duke Fleed era alto, ma non imponente, non come il loro istruttore di lotta.
“Duke Fleed! Noi siamo pronti a batterci contro di te, perciò prendi un’arma!” lo sfidò Ains.
“Non ho intenzione di battermi con voi. Voglio parlarvi.”
Un lampo accecante, seguito da un sibilo metallico. Duke Fleed evitò il colpo con un balzo. Era stato Tsubai a sparare: “Non ti preoccupare, finché anche tu non sarai armato, non tenteremo di ucciderti” aggiunse canzonatorio.
“Non ho armi con me.”
“Che cosa?” sfuggì a Tsubai. Rimasero in silenzio alcuni istanti, fronteggiandosi. L’aria era pesante, immobile. Non si udiva un suono.
“Desidero solo che ascoltiate quello che ho da dirvi” insisteva quel vigliacco.
Maledetto! Prendi un’arma! Battiti da uomo! Erano spiazzati. Cosa c’era da dire?
“Ains, sta mentendo! Facciamola finita!” Mentre ancora parlava, Thoroa sparò, ma di nuovo Duke Fleed schivò il colpo con agilità. Rotolò a terra, colpì Beecha e Ains che gli si erano parati davanti e con un calcio fece volare dalle loro mani le armi. Senza sapere come, Ains si ritrovò preso in ostaggio, la pistola laser puntata alla tempia.
“Non costringetemi a farlo!” urlò minaccioso Duke Fleed.
Aveva gettato la maschera! Non potevano concedergli la minima fiducia!
La voce di Ains era stridula: “Non preoccupatevi per me, su avanti, sparategli!”
Thoroa prese la mira, ma all’improvviso fu bloccato da Tsubai: “Aspetta! Fermo Thoroa! Non farlo!” Ancora lui, ancora il suo amico! L’avrebbe protetto anche da se stesso! Ma non ora! Ora non doveva! Ora dovevano pensare solo alla missione, ora Duke Fleed era scoperto!
“Cosa fate, vi ho detto di sparare! Non pensate a me! Dovete eliminare Duke Fleed!” insisté Ains disperato.
“Non volevo minacciare uno di voi, ma non mi avete lasciato scelta. Desidero solo che mi ascoltiate. Non ho intenzione di sparare a questo ragazzo.” Quel braccio forte lo teneva stretto, gli impediva qualsiasi movimento, ma non poté fare a meno di cercare di guardarlo. Ains era esterrefatto, non riusciva a crederci.

-continua-


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-capitolo 13-

“Qualcuno vi ha convinto che io voglio impossessarmi della Terra, ma non è così. E’ re Vega con il suo esercito che mira a conquistare questo pianeta” riprese Duke Fleed.
Maledetto! Come osa parlare così del grande Vega! “Non fatevi ingannare da lui, sta mentendo, sparategli! Avanti!” gridò ancora Ains, strozzato.
Ma Duke Fleed non cedeva, continuava a parlare: “Vi hanno fatto credere che io voglio impadronirmi della Terra. Ma non è così! Guardatevi intorno: questo pianeta è meraviglioso! E io voglio solo che qui regni la pace. Per me non c’è nulla di più importante, lo capite? Voi dovete tornare sul pianeta Vega e dire a tutti i suoi abitanti che se anche loro vogliono la pace, non c’è motivo per continuare questa guerra assurda!”
I ragazzi guardavano paralizzati il loro amico nelle mani di Duke Fleed. Prima, non avevano avuto il coraggio di ucciderli insieme, ma ora cominciavano a dare ascolto a quell’uomo. Anche Ains lo ascoltava. Com’era possibile? Era vero! Il comandante Dagil l’aveva detto, Duke Fleed era in grado di condizionare con le parole. Non riuscivano più ad alzare le armi contro di lui.
All’improvviso, Duke Fleed lasciò andare Ains e si avvicinò a grandi passi agli altri quattro.
In quel momento piovvero alcuni colpi.
“Dannazione! Un mostro spaziale!” Un gigantesco umanoide con il capo coperto da un drago dalla coda fluttuante stava calando in picchiata sulla pista. “Devo andare, ma riflettete su quello che vi ho detto!” gridò il guerriero. Poi, restituì ad Ains la sua pistola laser: “Tieni, anche se non vorrei mai vedere uno di voi maneggiare un’arma!”
Subito, altri spari dall’alto. Si udì un grido.
“Beecha!”
Ains prese tra le braccia l’amico: “E’ morto!” Il robot del loro maestro si allontanò per riprendere slancio.
Duke Fleed tornò indietro di corsa, imprecando: “L’hanno ucciso! Maledetti!” Lo prese anche lui tra le braccia per aiutarlo, ma lo trovò già senza vita. Lo depose delicatamente a terra e riprese la fuga. Una seconda raffica straziò il corpo di Beecha.
Ains strinse disperato l’amico: “E’ stato il comandante Dagil! Ma perché?”
“Lo ha colpito per sbaglio, ma ora dobbiamo andarcene da qui!” gli rispose Tsubai, scuotendolo per una spalla.
“Ma Beecha…!” resisté ancora debolmente Ains.
“Non puoi fare più nulla per lui, andiamo!” ordinò Tsubai.
“Beecha! Beecha!” alla voce di Ains si sovrappose quella acuta di Swinko: “Fratello! Non ti voglio lasciare qui!” Lo guardò e capì che non c’era più niente da fare. Si lasciò trascinare con gli altri sotto la bocca del mostro spaziale e il raggio traente li risucchiò tutti e quattro.


Maledetto Duke Fleed! E’ riuscito a ripararsi nel suo disco. Dagil era furente, aveva appena visto sfumare l’enorme vantaggio di avere Duke Fleed alla mercé delle sue armi. Avrebbe dovuto recuperare ad ogni costo. La voce del generale Gandal lo sferzò: “Dagil! Che stai facendo? Lascia perdere quei mocciosi!”
Si udì rispondere spavaldamente: “Generale! Voglio farle vedere i risultati del loro addestramento.”


Muti, i quattro ragazzi si tenevano aggrappati alle cloche.
Ains stava ad occhi chiusi. Perché non l’ha fatto?
La voce di Tsubai lo riscosse: “Ains! A che stai pensando?”
“Perché non mi ha ucciso?”
“Perché non ne ha avuto il tempo.”
“Lo credi davvero?”
“Ains! Duke Fleed ha fatto il lavaggio del cervello ai terrestri. Vuoi fare la loro stessa fine?”
Discussero tesi. Le parole di Duke Fleed e della ragazza, nella torre di controllo, gli risuonavano ossessive nella mente. Negli occhi di quella ragazza non c’era traccia di condizionamento, ma solo ammirazione, forse amore, per Duke Fleed! E lui aveva rischiato la vita per vedere se fosse ancora possibile salvare Beecha. Com’era potuto succedere?
“Ascolta, questo non è il momento di farsi venire dubbi. Noi dobbiamo credere soltanto a quello che ci ha detto il comandante Dagil” lo rimproverò Tsubai.
“Sì, ha ragione!” troncò Thoroa. “Noi siamo i figli delle Guardie Reali di Vega e siamo stati scelti tra tutti gli altri per portare a termine questa missione.”
“Questo lo so benissimo!” esclamò Ains con rabbia.


Sganciato dal mostro, il drago ondeggiava nell’aria, cercando insistente la collisione con Grendizer.
“Daisuke! Vogliono te!” lo avvertì Koji allarmato. Il drago continuava a volteggiare, puntando deciso contro il disco nemico. “Ma non hanno armi! E’ un attacco suicida!” si udì ancora Koji gridare.
“Maledetti! Costringere a questo degli innocenti!” rispose Daisuke con orrore.
Se li era trovati davanti, quei ragazzini soldati di Vega - uno era un bambino, avrebbe potuto essere Goro – e aveva rivisto se stesso. Le stesse uniformi dell’Accademia, quelle con un fulmine doppio sul petto, che minacciava di ridurre in cenere l’universo. Immaginò le pressioni subite, le stesse che erano toccate a lui, nemmeno dieci anni prima. Forse anche peggiori. Lui era riuscito a resistere per amore di Fleed. I loro cuori, invece, erano stati sfregiati dall’odio. Doveva salvarli!
“Koji! Tu occupati di quel robot, io cercherò di salvare i ragazzi.”
“D’accordo!”


Dagil vedeva allontanarsi rapidamente il successo che fino a poco prima era stato a portata di mano. Non poteva neanche pensare di tornare alla base senza la testa di Duke Fleed. E quei bambocci… Erano ancora tra i piedi! “Gettatevi contro Grendizer!” li incitò, “Non dovete temere la morte! Avanti!”
Il drago tentò un altro attacco. Intanto Duke Fleed aveva lanciato il suo robot fuori del disco.
“Grendizer! Avanti!” Attrito di parti metalliche. “Fuori!” Grendizer si sganciò dallo Spacer.
“Koji! Mi raccomando, non dobbiamo far loro del male!”
“Sì, ho capito!”
Koji vide il drago tornare all’assalto per l’ennesima volta: “Attento! Dietro di te!”
Grendizer rotolò al suolo e schivò nuovamente il muso del mostro. Riuscì appena a rialzarsi.
“Ora!” gridò Dagil eccitato.
Grendizer evitò d’un balzo il colpo del robot dalle sembianze umanoidi. Dietro di lui, il drago prese a contorcersi in una spirale di fuoco.
“Dannazione!” gridò Dagil, con rabbia impotente. Ce l’hai fatta di nuovo! Ma ora ti mando all’inferno!
“No! Maledetti! La pagherete!” l’urlo sdegnato di Daisuke sovrastò il fragore degli schianti metallici.
Divampò la battaglia. Con pochi, terribili colpi il mostro veghiano fu abbattuto e si disintegrò in un’enorme esplosione.
Infine, un ultimo boato scosse la terra: la scarica accecante di un fulmine, seguita a breve distanza dal fragore pauroso di un tuono. Cominciò a diluviare.


In ginocchio, i pugni affondati nel fango, Daisuke pianse. Perdonatemi! Non sono riuscito a salvarvi. Se non avessi schivato quel colpo… Poi, disperato, gridò verso il cielo: “Mai più! Non deve accadere mai più!” e chinò il capo sul petto. Riposate, ora.
Oltre il velo di lacrime, vide fra l’erba dei fiori spezzati. Li accarezzò e gli sembrò di sentirne la voce.

Fine



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Nel mondo delle FF può succedere di tutto, vero? Può succedere anche che una conclusione “definitiva” non lo sia poi così tanto… E poi, si sa: da cosa nasce cosa, da FF nasce FF… E’ così che da “La squadra” è nata

La madre



Il racconto riprende da dove si è interrotto il precedente e termina prima dell’inizio dell’ep. 70. Si suppone che in questo arco di tempo il pianeta Vega esista ancora. Insomma, il collasso finale non sarebbe avvenuto di colpo, ma “a tappe”. Del resto, pare che anche nell’anime serpeggi qualche incertezza in proposito: ad esempio, nell’ep. 71 Yabarn osserva una palla di fuoco pulsante: è il pianeta Vega ormai inabitabile, che, tuttavia, non è ancora completamente polverizzato...
Un GRAZIE!!! enorme a Pianetaazzurro, per aver messo generosamente a disposizione la sua competenza professionale. Con pazienza e simpatia ha corretto i miei strafalcioni medico-ospedalieri, non senza concedermi, nel finale, una graditissima “licenza letteraria”, di cui mi assumo (come anche del resto) piena responsabilità.

Buona lettura!



-capitolo 1-

Sulla base Skarmoon il grande monitor della sala comando aveva appena rimandato le immagini della doppia esplosione.
“Maledetto Duke Fleed! E’ scampato di nuovo!” digrignò i denti il generale Gandal, stringendo i pugni con rabbia.
“Gandal! Che ti aspettavi?” Detestava quando sua moglie lo tormentava, facendogli vibrare il cervello col rimbombo della sua voce. Detestava ancora di più quando lo apostrofava in tono sarcastico. Lady Gandal insisté: “Quel Dagil era un presuntuoso incapace. L’avevi dimenticato?”
Il volto del generale si aprì. Gandal lasciò che la moglie continuasse a sfogarsi: “E i ragazzini? Mi chiedo perché hai ceduto così facilmente alla proposta di Staigar. Che cosa ti aveva promesso in cambio?” insinuò.
Il generale spazientito le ribatté nella testa: “L’Accademia Imperiale è l’Accademia Imperiale! Adesso avranno i loro eroi e saranno contenti. Ecco tutto!”
“E tu, per far giocare i mocciosi alla guerra, hai sprecato un’altra occasione!” lo rimbeccò la donna. “Prima o poi re Vega te ne chiederà conto!” sibilò perfidamente.
“Basta!” Il volto si richiuse e Gandal ordinò all’attendente di comunicare al direttore dell’Accademia l’esito della missione del comandante Dagil.

***



Nel suo ufficio Staigar si fregò le mani. Aveva protetto la reputazione dell’Accademia; anzi, l’aveva notevolmente consolidata.
Bene… ed ora si potrà organizzare una cerimonia in grande stile… una di quelle commemorazioni solenni che rimangono negli annali degli istituti.
Ordinò di diramare immediatamente la notizia della sciagura che aveva colpito l’Accademia. Quindi, si gettò a capofitto a preparare lo spettacolo. Avrebbe potuto osare? Inoltrare una supplica al sovrano per chiedergli di intervenire a distanza, di non far mancare la sua parola? Da quando Yabarn si era trasferito precipitosamente sull’avamposto della conquista della Terra, Staigar non aveva più avuto occasione di partecipare a nessuna udienza imperiale. Ormai, il loro signore si rivolgeva soltanto alla ristretta cerchia dei ministri che erano rimasti su Vega a garantire la continuità del governo. Pareva quasi non interessarsi più alle sorti del pianeta. Si diceva che le esplosioni di qualche tempo prima l’avessero seriamente allarmato. Adesso, però, erano sensibilmente diminuite. Continuavano a manifestarsi, di tanto in tanto, in regioni disabitate e molto isolate. Se avessero segnalato effettivamente qualche reale pericolo a livello globale, di certo le autorità competenti avrebbero dato il via ai piani di evacuazione alla volta delle colonie. Al momento, non era dato constatare nulla del genere.
In ogni caso, la prudenza sconsigliò al direttore di osare arrivare così in alto. In fin dei conti si trattava dell’ennesima sconfitta ad opera di Duke Fleed. Che cosa avrebbe dovuto dire il re? “Continuate così”, forse? Staigar rise tra sé. Per quello che a Vega importava della vita di tutti loro, avrebbero potuto continuare a morire fino all’ultimo soldato semplice. E l’Accademia era un ottimo serbatoio… Purché tutto ciò servisse a qualcosa! Il punto era che, nonostante non fossero stati mai risparmiati uomini e mezzi, il successo sperato svaniva inspiegabilmente ogni volta che sembrava raggiunto. Quel Duke Fleed era un demonio!
Ma quello era un campo minato. Staigar si guardò bene dall’avventurarcisi. Riprese a fantasticare. Avrebbe organizzato un evento memorabile: centinaia di invitati, comandanti, generali, alti papaveri, forse addirittura il Ministro! Oltre, naturalmente, al personale dell’Accademia in blocco, insieme ad allievi, ex-allievi, famiglie… tra le quali non mancavano certo aristocratici e pezzi grossi, concluse con estrema soddisfazione. Quella cerimonia sarebbe stata il suo personale trionfo.

***



La pioggia era quasi cessata e con essa il sussurro dei fiori. Daisuke si alzò per andarsene. Ma… cos’era il suono che in quel momento udiva distintamente? Non era un’impressione, lo sentiva davvero. Era una voce; anzi, un gemito! Scrutò da ogni parte per individuarne la fonte. Quando capì, impallidì. Scattò in piedi e si diresse di corsa verso quel punto.
Il lamento proveniva dai rottami del drago metallico. Appena fu sotto, con due grandi balzi guadagnò l’accesso alla cabina di pilotaggio: era spaccata in due da uno squarcio enorme. Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi, all’interno, era raccapricciante. Tre corpi, ancora assicurati con le cinture, giacevano contorti sulle poltrone, completamente carbonizzati. Una quarta poltrona era rovesciata; l’onda d’urto dell’esplosione doveva averla divelta e capovolta. Il gemito, sempre più flebile, veniva da lì. Il materiale ignifugo della struttura e del rivestimento, in qualche modo, aveva protetto l’occupante dalla fiammata che invece aveva investito in pieno gli altri, uccidendoli quasi subito. Le scariche d’acqua del temporale avevano fatto il resto: in quel punto la cabina di pilotaggio era rimasta completamente scoperchiata.
Gradualmente l’aria tornava ad essere respirabile; i fumi dell’incendio si stavano disperdendo all’esterno e la temperatura era in rapido calo. Doveva solo fare attenzione a non toccare oggetti surriscaldati. Comunque, la tuta da combattimento lo proteggeva. Attivò subito il bracciale comunicatore: “Qui Daisuke a Centro Ricerche! Qui Daisuke a Centro Ricerche! Mi sentite?”
Di colpo realizzò con angoscia che quella volta -sarebbe stata la prima!- suo padre non avrebbe potuto rispondergli. Sperò che Hayashi e gli altri fossero in grado di gestire la situazione.
“Qui Centro Ricerche! Daisuke, ti riceviamo!”
Hikaru! Per fortuna anche lei era lì. “Hikaru, ascolta: c’è un ferito gravissimo tra i rottami del mostro di Vega, mandate subito i soccorsi! E anche una squadra speciale! E’ intrappolato fra le lamiere!”
“Ricevuto! Hayashi, chiama il Centro Medico! Yamada, allerta la squadra speciale!” Hayashi e il collega si affrettarono ad eseguire le istruzioni che avevano ascoltato insieme ad Hikaru.
Di nuovo la voce della ragazza: “Daisuke! Saranno lì in pochi minuti!”
“Bene!”
Il lamento era ormai impercettibile, a tratti si interrompeva. Daisuke parlava in continuazione al ferito per sostenerlo. Non tentò di liberarlo da solo, non voleva correre il rischio di aggravare le lesioni interne che di sicuro aveva subito. “Coraggio! Stanno arrivando. Ti tiriamo fuori di lì! Coraggio, sei vivo! Avanti! Coraggio, ancora un po’, ancora un po’!” Ti prego, resisti! Resisti!
Il comunicatore gracchiò: era Koji. Dalla fine della battaglia, aveva continuato a incrociare sul posto, tenendo la zona sotto controllo; ma adesso non vedeva più Daisuke da troppo tempo ed aveva cominciato a preoccuparsi: “Daisuke! Mi senti? Che cosa sta succedendo?”
“Koji! Qui c’è un ferito. Stanno arrivando i soccorsi.”
La foga della battaglia, l’orrore per come si era conclusa e ora quell’emergenza l’avevano distolto per lunghi, frenetici istanti dall’ansia per la sorte degli ostaggi nella torre di controllo. All’improvviso, si sentì gelare il sangue: “Koji! Vai subito all’aeroporto Fuji e verifica la situazione! Fammi sapere!”
“Certo!” Il Double Spacer virò bruscamente in direzione del vicino aeroporto e vi atterrò poco dopo.
Toccata terra, Koji varcò di corsa l’ingresso della torre di controllo e si lanciò per le scale come una furia. Che cosa avrebbe trovato? Con il cuore in gola, si preparò al peggio.
“Koji!”
La voce squillante di Maria gli strappò un grido di gioia: “Sei viva!”
Senza sapere ciò che faceva, se la strinse al petto con veemenza. Afferrandola per le guance con entrambe le mani, le sollevò il viso e la guardò intensamente: “Stai bene? Che cosa è successo?”
“Ehi, calma!” lo smontò lei. “Ti dispiacerebbe slegarmi?” Koji arrossì come un ragazzino. Una mano a grattarsi la nuca e l’altra a frugare la tasca della tuta, farfugliò: “Eh? Sì, certo!”
“E non ti preoccupare per gli altri: non sono morti. Tra poco dovrebbero rinvenire”, aggiunse lei disinvolta.
“Eh?!?” Gli altri? Oddio!
Il professore, il comandante dell’aeroporto, i tecnici delle postazioni radar… erano tutti distesi sul pavimento. Smise un momento di frugarsi le tasche e si gettò a controllare se erano vivi: grazie al cielo! Il polso batteva a tutti regolarmente.
“Ehi! Non mi credi? Mi vuoi liberare una buona volta, sì o no?” sbraitò Maria.
“Eccomi, eccomi!” Finalmente aveva scovato il coltellino multiuso che Goro gli aveva regalato per fargli piacere, quella volta che al pic-nic sul lago era stato un po’ di cattivo umore… Si precipitò a slegare la ragazza; lei scattò in piedi massaggiandosi i polsi: “Era ora!” e gli si gettò tra le braccia. Lui la strinse d’istinto.
“Oh Koji, ho creduto che avessero ucciso il professore! E anch’io ho creduto di morire!” Aveva cambiato tono, negli occhi ancora la paura del pericolo appena scampato. Koji continuò a tenerla abbracciata: “E’ passato, è passato…” Le accarezzò piano la testa e la schiena. “Sei viva…” mormorò posandole delicatamente le labbra sui capelli, sulla fronte, su una guancia, sull’altra…
Un colpo di tosse alle loro spalle li fece sobbalzare. Si staccarono bruscamente, arrossendo entrambi. La prima a ricomporsi fu Maria: “Professore! Sta bene?” Umon era seduto sul pavimento. “Faccia piano, non deve alzarsi troppo velocemente.”
“Professore!” esclamò anche Koji dopo di lei, felice che si fosse ripreso. Acc… poteva aspettare solo cinque minuti, però! Gli si avvicinò per aiutarlo a rimettersi in piedi, ma Umon aveva già fatto da sé. Intanto, anche gli altri stavano rinvenendo.
“Accidenti!” Koji si diede una manata sulla fronte: “Daisuke! Devo avvertirlo!” Cercò subito la comunicazione con lui: “Daisuke! Daisuke! Qui tutto bene: il professore, Maria e tutti gli altri stanno bene. Nessun danno. Passo!”
Un’ondata di sollievo invase il ragazzo. L’ambulanza con il ferito era appena partita d’urgenza verso il Centro Ricerche. Erano arrivati in pochi minuti ed erano stati molto rapidi ed efficienti nel soccorso: avevano cominciato subito a supportare le funzioni vitali. Forse poteva salvarsi! Daisuke sperò con tutte le forze che quel ragazzino, alla fine, scampasse alla crudeltà di chi l’aveva mandato a morire con calcolato cinismo.
Si era chiesto chi fosse, quale dei quattro sopravvissuti al primo attacco del mostro di Vega. Di certo, non il bambino: l’aveva distinto con sicurezza tra gli altri, a causa della bassa statura, appena era entrato nella cabina. Ora, mentre lo tiravano fuori, aveva visto in faccia il superstite…
Tolto il casco, si passò le mani sul volto stanco, fradicio di lacrime e di sudore. Era sfinito, ma voleva ancora aspettare che tornassero a portar via i morti. Scivolò a sedere sull’erba, strinse le braccia intorno alle ginocchia e vi reclinò il capo. Pensò a Koji. Grazie, amico. La sua voce e le sue parole lo avevano rinfrancato enormemente.


La camera dov’era ricoverato il ferito era una stanzetta dell’infermeria riadattata per l’occasione. Il rischio di infezioni era altissimo; le ustioni, estese e profonde. Chiunque entrasse doveva limitare al massimo la permanenza nella stanza e presentarsi in tenuta sterile. Appena possibile, sarebbe stato necessario trasportare il ferito in un centro specializzato, ma i medici della base scientifica non erano ancora riusciti a stabilizzare i parametri vitali.
In quel momento lo stavano visitando.

-continua-

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Edited by Annushka18 - 28/4/2016, 12:29
 
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-capitolo 2-

Daisuke era all’esterno. A Maria e al professore era stato ordinato riposo e Koji si era incaricato di fare in modo che, almeno per un po’, Maria rispettasse l’indicazione. Quella ragazza era ribelle ad ogni limitazione. Koji aveva dovuto promettere di tenerle compagnia per tutto il tempo che avesse voluto.
“Dovresti riposare anche tu.” Hikaru gli si era avvicinata silenziosa da dietro; gli aveva parlato passandogli il braccio intorno al fianco e appoggiando la testa sulla sua spalla. Erano diverse ore che Daisuke non riusciva a staccarsi da lì. Guardava il ragazzo dalla finestrella in cima alla porta. Adesso era incosciente; l’avevano attaccato d’urgenza al respiratore. Il viso non era stato toccato dal fuoco: i danni peggiori erano sulla parte posteriore del corpo. I tratti sottili del volto si potevano distinguere chiaramente. Daisuke non ebbe dubbi: era quello che aveva dovuto minacciare con la pistola laser; quello che, pur di ucciderlo, era deciso a morire. Le sue grida isteriche ancora gli penetravano nella testa come lame; risentiva il fremito di tensione, l’affanno, il sudore che la sua stretta provocava al ragazzo, mentre lo teneva bloccato. Era stato ripugnante, ma in qualche modo aveva dovuto costringerli ad ascoltarlo.
Con tutto ciò, non era riuscito a scalfire quella corazza di odio. O forse… uno spiraglio si sarebbe aperto, se solo non fosse finita in quel modo! Resisti! Ti prego, resisti! Tu devi farcela!
Si spostò un po’, per permettere anche ad Hikaru di guardare nella stanzetta. Le appoggiò lievemente le mani sulle spalle, rimanendo dietro di lei.
La ragazza rabbrividì: “Com’è giovane…”
“Avrà sì e no quindici anni. E c’era anche un bambino con loro” aggiunse Daisuke aggrottando le sopracciglia e scuotendo il capo, quasi a scacciare quell’immagine tormentosa. Tacque immediatamente, non voleva turbarla oltre, ma lei aveva già percepito l’incrinatura nella sua voce. Rimasero in silenzio.
Di nuovo non poté trattenersi: “Non sono riuscito a evitare loro una morte orribile!”
“Daisuke! E’ colpa di chi li ha mandati!”
“Ho provato a salvarli” aggiunse il ragazzo con amarezza, “ma erano decisi ad uccidere, anche a costo della propria vita!” Poi concluse con un sussurro, abbassando lo sguardo: “Ne avevano fatto dei mostri.”
“Basta!” Hikaru si voltò vivamente. “Smettila di tormentarti! Sai benissimo di cosa sono capaci i veghiani.”
“Ma quelli non erano loro nemici! Erano figli! Erano i loro figli!”
La discussione fu interrotta dall’arrivo di Koji e Maria. Quando la ragazza era rientrata sana e salva al Centro Ricerche, il fratello e l’amica erano corsi ad abbracciarla, ma non si aspettavano certo di rivederla così presto!
Voci animate bisticciavano vivacemente, aumentando di volume man mano che dal fondo del corridoio avanzavano verso la porta dell’infermeria: “Fermati! Vieni qui! Che vuoi fare?” diceva il ragazzo.
“Non ti permettere di parlarmi come se fossi una bambina!” lo rimetteva a posto lei.
“Piantala! Torna indietro! Devi riposare almeno fino a domani.”
“Mmhm! Non vorrai controllare pure di notte?!”
“Se lo ordina il medico…”
“Screanzato!”
La porta dell’infermeria si spalancò. “Duke! Come sta?”
“Maria! Tu come stai? Ti sei riposata?” le chiese Daisuke andandole incontro.
“Oh, lascia stare! Ti prego, vorrei sapere come sta quel ragazzo! Sono sicura che è quello che penso…”
Maria non aveva ancora potuto vederlo, ma sentiva con tutta se stessa di aver capito chi fosse. Senza dir nulla, Daisuke accennò con la testa alla porta della camera sterile, dandole il permesso di avvicinarsi. Lei si alzò in punta di piedi e guardò dentro. Le sfuggì un piccolo grido, che soffocò portandosi una mano alla bocca: “E’ lui! Me lo sentivo!”
“Che c’è? Che vuoi dire?” le chiese il fratello.
“Duke! Quel ragazzo mi ha salvato la vita! Gli altri mi volevano uccidere, ma lui li ha fermati!” Koji ringraziò mentalmente lo sconosciuto ferito. Rabbrividì al pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere e non era accaduto, grazie a quell’intervento. Rimase in silenzio, a occhi bassi e braccia conserte. Si appoggiò con le spalle al muro in fondo alla stanza, puntellandosi anche col piede. Non voleva perdere una sola parola del racconto di Maria. Era così difficile parlare con quella ragazza… cambiava d’umore in modo spaventosamente veloce…
“Racconta con ordine: che cosa è successo?” la incoraggiò Daisuke.
Maria raccontò nei particolari tutto quello che era accaduto, dal momento in cui il commando veghiano aveva fatto irruzione nella torre di controllo dell’aeroporto Fuji, fino a quando aveva visto Koji venire a salvarla. Dal fondo della stanza il giovane alzò la testa di scatto e le lanciò uno sguardo penetrante: ebbe la certezza che lei avesse concluso così di proposito. La ragazza non si voltò, ma percepì distintamente il movimento di lui. Fu molto contenta di aver provocato quella reazione...
In quel momento uno dei medici uscì dalla camera sterile, strappandosi la mascherina e gettandola a terra da un lato. Era affranto: “E’ in emergenza! Ha bisogno di sangue!” Daisuke gli si avvicinò e quello continuò disperato: “Ma abbiamo le mani legate: risulta incompatibile a qualsiasi gruppo sanguigno!”
Ammutolirono. Daisuke e Hikaru si scambiarono uno sguardo significativo. Poi lui disse: “Dottore, posso donare io il sangue necessario.”
No Daisuke, no. Sei ferito, non puoi. Non puoi. Tu stesso hai bisogno di cure. Hikaru trattenne il respiro e distolse lo sguardo rapidamente, temendo che parte di quei pensieri trapelasse dall’espressione ansiosa che le si era diffusa sul volto.
“Ma Daisuke, non sono sicuro che non lo danneggi” obiettò il medico.
“Non deve morire!” Tutti si girarono a guardarlo interdetti. Daisuke aveva quasi gridato; stringeva i pugni teso, fino a farli tremare.
Non riuscì a dire altro.
Oh Daisuke, perdonami! Non sopporto che ti consumi per colpe non tue. Hikaru intervenne, reprimendo a forza l’istinto di preservarlo da qualsiasi potenziale pericolo: “Dottore, ricorda? Daisuke mi ha salvato la vita con il suo sangue; neanche allora era sicuro che non mi danneggiasse. Senza trasfusione il ragazzo morirà certamente.”
“Va bene, tentiamo” le rispose il dottore.
“Anch’io posso donarlo! ” si intromise Maria.
“No! Tu sei troppo giovane!” la fermò bruscamente il fratello.
“Duke! Gli devo la vita!”
“Basta! Facciamo presto!” intimò il ragazzo. Cadde un silenzio imbarazzato. Maria non riuscì a rispondere nulla: lo sforzo di trattenere le lacrime di rabbia che di colpo le avevano offuscato la vista era troppo grande. Si voltò indispettita ed andò a rannicchiarsi con aria offesa in un angolo del divanetto vicino alla porta. Quel silenzio rimbombò più di mille proteste. Daisuke si rese conto di averla ferita e mentre il medico gli stava già applicando l’ago, cercò di attenuare la durezza dell’ordine: “Vedremo come reagirà, vedremo se sarà necessario.”

***



L’aula magna dell’Accademia era gremita. Gli unici posti ancora vuoti erano quelli riservati, nelle prime file. Alle spalle del lungo tavolo della presidenza giganteggiavano i ritratti dei caduti. Sei vividi ologrammi riproducevano le fattezze dei ragazzi e del loro maestro; tutti guardavano lontano, oltre le teste dell’uditorio. Fissavano lo sguardo sull’imminente e gloriosa vittoria totale di Vega.
Uno ad uno gli alti gradi dell’esercito prendevano posto nel settore di destra; era atteso anche il nuovo Ministro della Difesa, ma il suo staff non aveva dato conferma della presenza. Le famiglie dei caduti, invece, erano arrivate prima degli altri e si erano già sistemate sulla sinistra. Un gruppo compatto occupava quasi per intero le prime tre file: erano i parenti di Thoroa. Al posto d’onore, immobile nel suo sfarzoso abito nero, la madre dominava ogni movimento dei membri del clan.
Stretti all’estremità della prima fila, sedevano i familiari degli altri caduti.
Dagil non aveva famiglia: aveva dedicato ogni energia alla carriera. Quindi, accanto all’ultimo lontano cugino di Thoroa, si trovavano i genitori di Tsubai. La madre era vestita in modo dimesso; piangeva in silenzio, a capo chino. I grossi occhiali scuri non riuscivano a mascherare i lividi che la segnavano. Seduta vicino al marito, sembrava ancora più piccola e smarrita. Per tutta la durata della cerimonia, il padre non le rivolse mai la parola; rimase perso a fissare con sguardo acquoso i personaggi che si avvicendavano al podio degli oratori. Era un uomo massiccio, dal collo taurino; le mani enormi stringevano a morsa le cosce, facendo sì che i gomiti fuoriuscissero abbondantemente dai braccioli, importunando chi gli si trovava a destra e a sinistra. Di tanto in tanto, una mano si spostava e andava a sfregare vistosamente il naso o le guance paonazze. Quando veniva nominato Tsubai, l’uomo si univa con un grugnito agli applausi del pubblico, ripensando perplesso a quel figlio ribelle che ora non gli avrebbe dato più grattacapi.
Poi veniva la zia di Beecha e di Swinko, con alcuni cugini. Erano tristi per i due sfortunati fratelli, ma almeno, si dicevano bisbigliando tra loro, in qualche modo si sarebbero riuniti ai genitori perduti.
All’ultimo posto all’estrema sinistra, sedeva la madre di Ains. Era sola, il volto una maschera di dolore; la sciagura pareva scolpita nel marmo della sua carnagione perfetta. Non conosceva nessuno, tranne la madre di Thoroa, che l’aveva degnata da lontano di un rigido cenno del capo, prontamente imitata dai suoi familiari.
Gli ultimi ospiti che si aggiravano nella grande sala furono invitati a prendere posto; il brusio si spense di colpo e la commemorazione ebbe inizio. Gli interventi presero a susseguirsi. Per quanto desiderasse non perdere una sola parola di tutte quelle che venivano dette in memoria del figlio e dei suoi compagni, la madre di Ains non riusciva a prestare attenzione ai discorsi; erano gli stessi che aveva sentito migliaia di volte nella sua vita: il popolo superiore, i nemici schiacciati, i traguardi da conquistare, i sacrifici eroici… Ogni oratore, immancabilmente, concludeva osannando la gloria di Vega e, per l’occasione, anche coloro che avevano dato la vita per essa: i nomi dei sei caduti venivano gridati in una sorta di appello drammatico e l’uditorio rispondeva a ciascuno con una calda, prolungata ovazione.
Di tanto in tanto, era presa da un lieve capogiro e la nausea la opprimeva all’imboccatura dello stomaco; allora si stringeva la radice del naso tra il pollice e l’indice e chiudeva gli occhi per qualche istante, cercando di dominarsi. Ma in quel modo la colpiva un altro tormento. A dire il vero, dopo la morte di Ains, non era più riuscita a tenere gli occhi chiusi per molto tempo: appena tentava, una visione orribile si impadroniva di lei e la torturava crudelmente. Vedeva il suo Ains a nove o dieci anni di età: il bambino entrava in casa ridendo e le correva incontro per abbracciarla, come faceva ogni giorno al ritorno da scuola; ma all’improvviso una forza implacabile lo risucchiava verso la porta, nell’oscurità; il riso si trasformava in una smorfia di orrore e il saluto festoso in un grido agghiacciante: “Mamma, mamma, mamma!”
“Ains!” gridava lei ogni volta. Sentendosi soffocare, si portava le mani alla gola. Poi scoppiava in lacrime, si sfiniva piangendo, finché crollava esausta. Dopo un breve riposo, tutto ricominciava.
Anche in quel momento, mentre lottava contro la nausea, il figlio le compariva davanti in quel modo.

-continua-

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-capitolo 3-

Finalmente la cerimonia si concluse. Tra gli ultimi scoppi di applausi, il direttore scese dal palco e si avvicinò al gruppo dei familiari, per porgere di persona le condoglianze. Dopo aver dedicato la dovuta attenzione ai parenti di Thoroa, con in testa la madre, si accinse a sfilare rapidamente davanti agli altri, quando di colpo la sua attenzione fu attratta da qualcuno che dall’alto non aveva notato: quella donna là in fondo, chi era? La segretaria, efficiente, gli suggerì il nome. Ah! E’ lei? La seccatrice, quella che pretende di ritrovare il corpo del figlio e tempesta di richieste il mio ufficio…
Mentre salutava gli altri prima di lei, la guardò di sottecchi. Notevole... Ormai le era arrivato davanti. Le strinse la mano ed espresse compunto le condoglianze. Intanto, ebbe modo di esaminarla: sorvolò con lo sguardo sugli occhi arrossati; seguì lentamente il profilo perfetto del naso; si soffermò sulle labbra carnose; soppesò la massa abbondante dei capelli: erano ancora nerissimi, tranne due o tre fili d’argento che risaltavano, testimoni di una bellezza al culmine della fioritura… Lo sguardo riprese a scorrere lungo la linea aggraziata del collo e scivolò noncurante verso il centro della scollatura; arrivò fin dove era possibile spingersi, nel punto in cui l’orlo della blusa di seta copriva il restante e, allo stesso tempo, suggeriva la morbidezza che nascondeva. Nonostante lo strazio, era ancora magnifica. Ed era così… isolata! Il direttore lo realizzò in quel momento: quella donna era completamente sola. Gli brillarono gli occhi, si risvegliò in lui l’istinto del predatore.
Tenendole ancora la mano, esclamò con calore: “Signora! Ho ricevuto le sue richieste: comprendo bene il suo desiderio. Mi perdoni, non ho potuto risponderle, prima di avere qualcosa di fondato da dirle. La prego: abbia fiducia. L’Accademia non la lascerà sola!”
Gli occhi di lei, fino ad allora inespressivi, si ravvivarono: “Grazie!” rispose con un filo di voce, mentre a sua volta gli teneva la mano stretta fra le sue e le lacrime prendevano a rigare incontrollate le guance.

***



All’infermeria del Centro Ricerche si respirava un certo sollievo. La trasfusione aveva sortito l’effetto sperato e aveva perfino superato le attese. I parametri vitali erano rapidamente rientrati nella norma e non era stato più necessario intervenire d’urgenza per evitare il peggio.
Ormai da qualche giorno le condizioni del ragazzo si erano stabilizzate, sebbene non fosse ancora fuori pericolo: per dargli qualche reale speranza di sopravvivenza, era stato necessario trasformare la stanzetta dell’infermeria adibita a camera sterile, in un piccolo centro di cure intensive. In ogni caso, quell’emergenza era stata rivelatrice delle serie difficoltà che avrebbero reso irto di ostacoli il seguito delle cure.


“Genzo, ti devo parlare” esordì il medico. Avevano deciso di incontrarsi da soli, in tarda serata, e avevano scelto lo studio di Umon, dove nessuno si permetteva di entrare, se non era invitato.
“Ti ascolto, Yoshi. Immagino che si tratti del ragazzo” rispose il professore.
“Eh già.” Il medico si appoggiò allo schienale della poltrona; corrugò la fronte, strofinandosi energicamente le palpebre con una mano, prima di cominciare. Poi, con un sospiro profondo, prese la parola.
“Genzo, da quando è arrivato tuo figlio, quasi tre anni fa, non mi stupisco più di niente.” Umon sollevò impercettibilmente gli angoli della bocca in un lieve, divertito sorriso, prontamente dissimulato dal gesto meccanico di accendere la pipa che teneva fra le labbra distrattamente.
Il dottor Mizuguchi andò avanti: “Con lui, le mie nozioni di fisiologia e di patologia si sono incredibilmente ampliate. Lo ricordi tu stesso: ci siamo impegnati al massimo per rimetterlo in piedi; abbiamo studiato, ci siamo consultati con colleghi sicuri dei quali potevamo garantire la discrezione… Ma non l’abbiamo mai mostrato a nessuno di cui non ci fidassimo ciecamente.”
Piccoli anelli di fumo aromatico salivano lenti nell’ampio cono di luce della vecchia lampada; andavano ad addensarsi nell’ombra, al di sopra del paralume verde di vetro opaco, sostenuto da uno stelo di ottone. Tutta la stanza ne era gradevolmente impregnata. Umon rifletteva. Pensava di sapere dove volesse arrivare il collega; anche lui si era posto il problema. Tuttavia, lo lasciò continuare, annuendo ogni tanto con interesse.
“Ebbene, l’abbiamo guarito. Certo, allora si trattava di ferite leggere.” Uno spasmo contrasse il volto di Umon. “Perdonami Genzo, non intendevo dire questo. La ferita al braccio è un altro discorso. Ma all’inizio non era evidente…” Con un sorriso stanco, il professore fece cenno al collega di proseguire.
“Vengo al punto: Daisuke non è mai uscito di qui. Non siamo mai stati costretti a rischiare di farne una cavia. Ora il caso è diverso. Con questo ragazzo siamo davanti a una scelta: continuare a proteggerlo o continuare a curarlo.”
Le parole del medico rimasero per un attimo sospese nell’aria, semplici nella loro terribile evidenza. Umon assentì in silenzio; poi, apparentemente scollegato dal discorso dell’altro, osservò: “Be’, la buona notizia è che non si trova più in una situazione di emergenza.”
“Certo, altrimenti non potremmo neanche pensare al futuro. Ma proprio per questo ora è urgente decidere. La parte posteriore del corpo è devastata. Escludo che possiamo prestargli qui le cure del caso.”
“Di cosa avrebbe bisogno esattamente?”
“Di un trapianto cutaneo esteso; di un’operazione in una o più fasi per ricostruire i tessuti lesi; di un centro altamente specializzato, con un chirurgo esperto. E poi servirebbe un donatore. Forse si potrebbe tentare l’auto-trapianto, ma è necessario avere sangue pronto a disposizione. E solo questo, sai bene che cosa significhi.”
Umon assentì di nuovo, sbuffando assorto ancora parecchie volute di fumo verso il soffitto. Infine, si tolse la pipa di bocca: “Yoshi, dobbiamo curarlo qui.”
“Ma Genzo, è impossibile!”
“Nulla è impossibile. Dobbiamo solo trovare le persone giuste.”
“Certo! Oltre ad un’equipe completa disposta a chiudere un occhio sul fatto che il paziente è un alieno di provenienza ignota o peggio, è uno che avrebbe voluto distruggere il genere umano, dobbiamo trovare anche le attrezzature: come minimo qualcosa come una sala operatoria e un laboratorio per la coltura di tessuti in vitro, da tenere qui a disposizione, per tutte le volte che ci ricapiterà una cosa del genere!”
Umon guardò divertito l’amico: “Esattamente. E tu ci riuscirai!”
“GENZO!” Mizuguchi non sapeva se ridere o rimanere allibito.

***



Dal giorno della cerimonia, le parole del direttore risuonavano di continuo nella testa della donna. Perfino la visione di Ains aveva smesso di tormentarla: era tornata ad essere un’immagine cara dell’infanzia del figlio e lei aveva ripreso a sperare di riavere almeno un corpo da piangere.
Ebbe inizio un periodo di attesa spasmodica. Per fortuna trascorse veloce: dopo qualche giorno, fu invitata a recarsi dal direttore dell’Accademia. Le fissarono un appuntamento pomeridiano. Appena arrivata, la fecero accomodare in un’ampia anticamera, dove aspettò pochi minuti in tutto. Quindi, il direttore in persona le venne incontro, la salutò cordialmente e la scortò nel suo ufficio, fino ad una delle grandi poltrone davanti alla scrivania. Con estrema cortesia la aiutò a sedersi e solo allora, a propria volta, prese posto.
“Cara signora!” esordì “Benvenuta! Benvenuta in questa Accademia, che negli ultimi tempi è stata anche una casa, per il suo ragazzo!” L’accenno agli ultimi tempi di Ains la colpì a tradimento. Le si riempirono gli occhi di lacrime e si dovette portare un fazzoletto alla bocca per nascondere il tremito incontrollato del labbro. Il direttore si rese conto di essere partito col piede sbagliato. Ad ogni modo, quel passo falso era servito a tastare il terreno. Come immaginava, era ancora completamente prostrata. Si affrettò a rimediare: “Mi perdoni. Vorrei assicurarle soltanto che anche lei può considerare questo luogo come una casa”.
“Grazie” rispose piano lei e rimase in attesa. Quella cordialità l’aveva confusa. Si aspettava un atteggiamento formale, come quello del funzionario del Ministero che a suo tempo l’aveva informata della morte del padre di Ains. Non era preparata a quell’accoglienza.
Il direttore riprese: “Non le ruberò tempo prezioso, verrò subito al motivo di questa chiamata”. Poi, in tono di grande importanza: “Mi pregio di comunicarle che siamo in possesso di informazioni sicure sul luogo dove si troverebbero i resti del suo caro figliolo."
La donna alzò vivamente la testa, sul volto spento si dipinse improvvisamente un’espressione di grande interesse: “Oh, direttore! La prego, mi dica!”
“Signora, come potrà immaginare, non è facile arrivare a certe notizie. Saprà anche lei che, purtroppo, si tratta di informazioni di carattere strategico, pertanto coperte dal segreto militare. Ho dovuto forzare più di un livello di sicurezza per ottenerle. Al momento, posso dirle soltanto che il luogo dove suo figlio è caduto da eroe è il pianeta Terra”.
Terra? Non aveva la più pallida idea di dove potesse trovarsi. Non l’aveva mai sentito nominare prima. Ricordava ogni parola dell’ultimo saluto di Ains ed era sicura che non aveva fatto cenno alla destinazione della missione. Le aveva solo detto che avrebbero dovuto uccidere il principe Duke Fleed.
Mentre lei rifletteva, il direttore era andato avanti: “… ma lì abbiamo degli esploratori. I nostri servizi informativi hanno un presidio fisso su quel pianeta, che attualmente è un obiettivo di primaria importanza. Signora, oso sperare di poterle comunicare a breve il ritrovamento del punto preciso dove giacciono i resti di Ains”.
“Direttore! Non so come esprimerle tutta la mia gratitudine! Mi rendo conto delle difficoltà che ha dovuto affrontare. La ringrazio infinitamente di aver preso a cuore il mio caso. Lei mi ridà speranza!” Riuscì a trattenersi dal commuoversi ancora, mentre concludeva: “Oh! Se potessi riavere qualcosa di lui, se potessi piangere sul suo corpo!”
“Le farò avere notizie al più presto. Intanto, sappia per certo che i nostri emissari stanno facendo tutto il possibile”.
Detto questo, si accinse a congedarla. Mentre lei non smetteva di ringraziarlo, il direttore le scostò premurosamente la poltrona da dietro perché potesse alzarsi più facilmente, la accompagnò fino alla porta e, dopo un ultimo cortese saluto, ordinò all’usciere di scortarla all’ingresso.

***



I pattugliamenti si susseguivano quotidianamente, a ritmo serrato; a volte era necessario uscire anche due volte al giorno, perché la minaccia di Vega si era fatta sempre più intensa e pressante. In diverse occasioni si era trattato di veri e propri attacchi che erano stati respinti solo grazie allo sforzo comune di tutta la squadra. I piani di Vega diventavano sempre più astuti e crudeli: quante volte Duke e ognuno di loro avevano rischiato la vita! Tuttavia, nonostante la situazione, Maria riusciva sempre a trovare il tempo di passare all’infermeria.

-continua-

Commenti? Da questa parte, prego! https://gonagai.forumfree.it/?t=71687755&st=135#lastpost
 
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-capitolo 4-

Ora che il ragazzo stava un po’ meglio, il medico aveva permesso di tenergli compagnia leggermente più a lungo. Bisognava sempre mettere in atto scrupolosamente le misure necessarie ad abbattere il rischio di infezioni. Per Maria era una sorta di rito preparatorio: intrecciava strettamente i capelli e li fissava intorno alla testa, per costringerli tutti sotto la cuffia; poi, pezzo a pezzo, indossava il resto. Odiava infagottarsi in quel camice da chirurgo che, incredibilmente, la faceva apparire goffa. Soprattutto, odiava essere vista da Koji in quella tenuta. Veramente, era successo solo una volta, però sarebbe sempre potuto accadere di nuovo. In realtà, Koji non si faceva vedere spesso. Lei, invece, non lasciava passare giorno senza far visita al ragazzo ferito. Si sedeva accanto al suo letto e rimaneva a guardarlo. In quel modo riusciva a sentirlo.
All’inizio, era avvolto come in una nebbia uniforme, lattiginosa e ovattata. Maria vi si immergeva e trascorreva così la mezz’ora concessa. In quello stato, le pareva quasi di fargli compagnia; le sembrava che anche lui potesse avvertire il contatto.
Poi, col passare del tempo, il velo di nebbia aveva cominciato a strapparsi qua e là, in piccoli punti: erano come lampi fugaci di suoni e di immagini.
Un giorno, all’improvviso, il velo si squarciò e un vortice di sensazioni la invase: parole dal suono mostruosamente deforme, simile a una registrazione ascoltata a velocità più bassa del naturale, si ripetevano all’infinito, in un’eco ossessiva: “Avanti...! Avanti...! Avanti...! Non dovete temere la morte...! morte...! morte...! Avanti...! Avanti...! Avanti...!” Era ai comandi di un mostro di Vega. Un senso di nausea improvvisa, la vertigine delle accelerazioni violente impresse al robot per gettarsi su Grendizer, la afferrava. Ma all’ultimo, Grendizer scompariva, centinaia, migliaia di volte, e tutto diventava incandescente e accecante; urla inumane riempivano l’aria, centinaia, migliaia di volte.
Il ferito diede un debole gemito. Maria scattò in piedi sconvolta: “No!” Madida di sudore, atterrita, gridò: “Dottore!” Rendendosi conto che non poteva sentirla, corse fuori a chiamarlo: “Dottore, venga!” Il medico entrò a precipizio, ma gli bastò un’occhiata per rassicurarsi. Rimase ad osservare il paziente per qualche minuto. Poco dopo, si udì ancora lo stesso gemito. Dopo aver controllato tutti i tracciati, il medico commentò che probabilmente si sarebbe risvegliato in breve tempo.


In realtà, l’atteso risveglio non avvenne così presto, come quei segnali avevano fatto pensare. Maria continuava ogni giorno a stare accanto al letto del ragazzo, il poco tempo permesso. Ogni volta ne usciva sconvolta, ma non voleva staccarsi da quel contatto: le sarebbe sembrato di abbandonare qualcuno che dipendeva da lei. Quando lasciava l’infermeria, desiderava solamente evitare di incontrare chiunque. Aveva bisogno di stare un po’ sola. Infine, recuperata la calma, raggiungeva gli altri nella sala comando.
Un giorno, però, non andò come sperava.
“Maria!” era Koji, la stava aspettando nel corridoio. Si asciugò in fretta le lacrime. “Che c’è?” fece brusca.
“Basta! La devi smettere!” Le si mise davanti e la afferrò per le braccia. Lei si divincolò rabbiosamente: “Lasciami in pace! Non ti permettere!”
“Non voglio che continui a venire qui tutti i giorni!”
“Che c’è, sei geloso?”
Io?!? Di un ragazzino?!? Punto sul vivo, Koji avvampò, ma si trattenne dal dire tutto ciò che in quel momento gli passava per la testa. Sforzandosi di mantenere il controllo, le mise di nuovo le mani sulle spalle, stavolta con delicatezza. Lei teneva lo sguardo ostinatamente rivolto a terra. “Maria!” Il tono era conciliante, venato di supplica, mentre cercava i suoi occhi: “Ti prego, sono stanco di vederti soffrire”. Lei lo guardò incerta. Poi, con un gesto improvviso scostò la mano di lui dalla propria spalla, scartò di lato e corse via senza aggiungere nulla.
“Testarda! Testarda!” le gridò dietro Koji e continuando a imprecare tra sé, colpì il muro con un pugno impotente.

***



Dopo il colloquio col direttore dell’Accademia, la madre di Ains era tornata a casa fuori di sé per l’emozione: aveva di nuovo uno scopo, qualcosa in grado di dare senso alla vita! Aveva ripreso ad alzarsi di buon mattino, come faceva prima della tragedia. Di nuovo, si era riempita la giornata di occupazioni. Ed era divorata dall’impazienza. Il direttore le aveva promesso di darle presto altre notizie. Presto…! Per lei ogni istante era eterno! Lei contava le ore!
Al contrario di quanto sperava con tutta se stessa, la seconda chiamata si fece aspettare. Era già trascorsa una settimana, durante la quale la donna aveva pensato di essere contattata da un momento all’altro dalla segretaria del direttore, ma non era successo nulla. Allora, aveva cominciato a tormentarsi nell’ansia. Avrebbe dovuto farsi viva per prima? Sollecitare lei un appuntamento? Ma il direttore era stato così gentile e l’aveva rassicurata: senz’altro l’avrebbe cercata. Forse, non aveva ancora le notizie sperate… Passò in quel modo ancora una settimana. L’attesa era snervante, ogni richiamo del comunicatore la faceva sobbalzare. Finalmente, la chiamata arrivò! Era urgente, le fu detto. La segretaria particolare del direttore le diede appuntamento per il giorno stesso, in serata: il capo dell’Accademia aveva importanti notizie da darle.
Le ore di quel pomeriggio trascorsero lentissime. Era ancora leggermente in anticipo, ma non resistette: saltò su una navetta del servizio pubblico e impostò l’indirizzo dell’Accademia.
Nonostante l’ora inusuale, il custode all’ingresso la fece entrare senza difficoltà. Diede un’occhiata distratta alle credenziali che le aveva chiesto di digitare: corrispondevano al “passi” che era lì, pronto per lei. Come la prima volta, fu presa in consegna da un altro usciere che la guidò fino all’ufficio del direttore. Le parve di camminare volando. Non fece attenzione ai corridoi spettrali, alle ombre che si addensavano dietro ogni angolo.
“Signora! Che piacere vederla!” La stessa accoglienza cordiale che l’aveva stupita la prima volta. Il direttore si alzò e le andò incontro, le baciò la mano inchinandosi cerimoniosamente e la invitò a sedersi. Di nuovo rimase leggermente confusa; salutò impacciata e rimase in silenzio.
“Ho novità importantissime” esordì l’uomo trionfante.
“Mi dica!”
“E’ accertato, si tratta proprio di loro. Sappiamo dove si trovano.” Lasciò che la notizia producesse l’effetto desiderato. Poi proseguì: “Purtroppo, signora, il recupero non sarà facile. Il luogo è molto vicino alla base nemica.”
“Oh, direttore! Ci deve essere un modo!” esclamò lei. Saputo che li avevano ritrovati, portarli a casa le sembrava ormai la cosa più semplice. Il direttore le spiegò che non era così:
“Bisognerebbe armare una spedizione.”
“Come si può fare?”
“E’ complesso, le operazioni sul pianeta Terra sono arrivate a un punto di non ritorno… Le forze sono tutte impegnate contro quel Duke Fleed.”
Maledetto Duke Fleed! Anche dopo morto, torturi mio figlio! E… me! La donna rimase in silenzio.
Il direttore continuò: “Si potrebbe fare pressione per includere questo obiettivo in una spedizione già pianificata. Se ne parlassi con il generale Gandal, forse, potrei convincerlo a prendere in considerazione la cosa…”
“Direttore, la prego! Mi aiuti! Ricordi al generale chi era il padre di Ains, sono sicura che non rifiuterà il suo appoggio!” Era estremamente agitata, si dominava a stento. Di colpo cedette: scattò in piedi, scoppiando in lacrime: “Farei qualunque cosa per avere indietro il suo corpo!”
“Signora, la prego!” Il direttore lasciò il suo posto, girò intorno alla scrivania e la raggiunse. Era scossa dai singhiozzi, con la testa abbandonata sul petto si puntellava al piano del grande tavolo. Il direttore cercò di calmarla; con un lieve tocco sulla spalla, la invitò a voltarsi. Le parlava benevolo, la voce era bassa, voleva suonare rassicurante: “Signora, parola d’onore, farò tutto il possibile.” Lei sollevò il viso e lo guardò negli occhi. Vi scorse una luce che la agghiacciò.
Intanto l’uomo le aveva appoggiato la mano destra sulla guancia e continuava a parlare fissandola da vicino: “E lei, farebbe qualunque cosa?” Con la mano sinistra la teneva ferma, stringendole il braccio, mentre con l’altra indugiava tra la guancia e l’orecchio. Lei poteva sentire il suo fiato sfiorarle la faccia.
“Sa, io ho molto ascendente sul generale... e potrei parlare molto bene di lei…”
Si vide persa. Puntandogli le mani sul petto, cercò di rimetterlo alla giusta distanza. Lui la afferrò per i polsi, le aprì a forza le braccia e la premette con tutto il corpo contro la scrivania.
“Mi lasci!” Il grido rimbombò sinistro nel vuoto della grande stanza.
“Sta’ zitta! Sta’ zitta!” alzò la voce anche lui, minaccioso, senza allentare la stretta. “Che credi di fare? A quest’ora non c’è nessuno che ti possa sentire. Se rivuoi indietro tuo figlio, sta’ zitta e fa’ come ti dico!”
Inorridita, lottò con disperazione per non essere sopraffatta e lo graffiò in viso. Lui si ritrasse di scatto. Tenendo una mano sull’escoriazione, urlò furibondo: “Vattene! Bastarda, vattene! Sparisci! Che marcisca all’inferno, tuo figlio!” La spinse via con un manrovescio. Lei cadde in ginocchio. Atterrita, scoppiò di nuovo a piangere.
Ains! Figlio mio! Ains!
L’uomo stava lì fermo, saldamente piantato in mezzo alla stanza.
Mamma! Mamma! Mamma…! Quelle grida la straziavano dentro, le si conficcavano nella testa, come gli artigli di un uccello rapace. Vedeva Ains tendere le mani verso di lei, mentre veniva risucchiato nell’abisso del nulla, che aveva spalancato di nuovo la bocca dietro di lui. Credette di impazzire.
Ains! Ains! Torna da me! Ains!
Distrutta, strisciò fino all’uomo e gli si aggrappò a un braccio. Singhiozzava senza controllo: “La prego, mi aiuti! Mi aiuti! Mio figlio è tutto, per me!” Continuò a lungo a supplicare gridando, appesa al braccio del suo aguzzino; lui non la guardava nemmeno.
Infine, stremata, ripeté ancora una volta con un filo di voce: “La prego… mi perdoni…”
L’uomo la costrinse ad alzare il viso verso di lui e la fissò indagatore. La scrutò con violenza fin nel fondo dell’anima. Era spezzata. Lei abbassò gli occhi e mormorò ancora: “Mi perdoni… mi aiuti…”
Si lasciò rialzare e spingere verso il divano.

***



Le pale dell’elicottero appena atterrato continuavano a muovere l’aria sulla pista del Centro Ricerche, rallentando gradualmente fino a fermarsi. Dal portello aperto uscì una squadra di sanitari con una barella; Daisuke e Koji erano pronti ad accoglierli. Dopo rapidi saluti di benvenuto, il gruppo imboccò deciso il corridoio del Centro Medico, fino alla stanza che negli ultimi tempi era divenuta una piccola unità di cure intensive. Nelle lunghe settimane che vi aveva trascorso, il ragazzo era sopravvissuto e le sue condizioni erano andate migliorando man mano: ora respirava spontaneamente con l’aiuto della sola maschera dell’ossigeno, sebbene fosse ancora incosciente. Per questo, era stato deciso di trasferirlo.

-continua-

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Edited by Annushka18 - 7/6/2016, 13:21
 
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-capitolo 5-

Umon e Mizuguchi seguivano la scena dall’alto della sala comando.
“Eccoli, Genzo!” gridò il dottore.
“Andiamo!” I due lasciarono di corsa la sala comando alla volta dell’infermeria. Tutte le operazioni necessarie furono svolte con rapidità e precisione. Poco dopo, la barella con il paziente rientrò nell’elicottero che subito si alzò in volo.
Ora i passi risuonavano misurati nel corridoio. “I miei complimenti, Yoshi. Ero sicuro che avresti trovato la soluzione migliore.”
“Grazie Genzo. Ma io ti ho solo preso alla lettera. Ricordi? Mi sono limitato a trovare le persone giuste!”
I due risero di cuore. Non era stato per niente facile, ma alla fine avevano avuto fortuna. Il dottor Mizuguchi aveva condotto una ricerca sistematica tra tutti i medici di sua conoscenza ed era riuscito a trovare un antico compagno di studi, di cui aveva da tempo perso le tracce. Era proprio uno specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva e si diceva che avesse fatto fortuna negli Stati Uniti. Ai tempi dell’università erano stati amici fraterni, avevano passato insieme intere giornate. E il caso – chissà? – aveva voluto che i due si trovassero in casa del compagno di studi, quando la madre di questi era stata colpita da un grave malore. Erano entrambi giovanissimi, ma Mizuguchi, più grande di un anno, era già esperto nelle manovre di rianimazione. La donna si era salvata grazie alla determinazione di Yoshi e alla competenza con cui l’aveva assistita, nei lunghi minuti prima dell’arrivo dell’ambulanza.
Poi la vita era andata avanti: gli studi, la laurea, strade diverse... Erano anni che il dottor Mizuguchi non sapeva più nulla dell’antico collega. A dire il vero, fin dall’inizio, non aveva condiviso l’ansia di successo che aveva spinto il giovane chirurgo al di là dell’oceano; ne avevano discusso a lungo, anche aspramente: Yoshi non avrebbe mai accettato di lasciare il Giappone. Amava troppo la propria terra e ormai erano anni che prestava servizio in quell’avamposto che era il Centro Ricerche del professor Umon. All’inizio, Mizuguchi faceva parte di un team che dal vicino ospedale distrettuale si alternava per garantire assistenza medica al personale della base; poi, col passare del tempo, aveva scelto di lavorare lì a tempo pieno. Aveva avuto modo di conoscere meglio Umon Genzo, l’anima di quella realtà straordinaria, di quella squadra di uomini in prima linea ogni giorno sulle frontiere del cosmo. Era stato attratto dalla sua personalità magnetica di scienziato. Gradualmente, tra i due era nata un’intesa cordiale che solo il loro pudore granitico li tratteneva dal definire amicizia.
Nei rari momenti in cui si concedeva il lusso di fare bilanci, Mizuguchi era felice di aver deciso, a suo tempo, di restare in patria. Da anni non pensava più al vecchio amico. Per questo, era stata una vera sorpresa trovare il suo nome nell’ultima edizione dell’annuario medico nazionale! Vi si leggeva che il chirurgo era rientrato in Giappone in quell’anno ed aveva aperto una clinica ad Hokkaido. Mizuguchi aveva fiutato subito l’occasione ed era immediatamente volato ad incontrare l’amico. Si rallegrò nel constatare che gli anni e la lontananza non avevano affievolito l’ammirazione e la gratitudine di quest’ultimo, nei confronti dell’uomo che gli aveva salvato la madre. L’anziana donna era morta poco tempo prima, quasi centenaria, dopo aver visto nascere tanti nipoti e perfino un pronipote. Era anche questo il motivo per cui, al culmine di una carriera densa di soddisfazioni, ai primi cenni della vecchiaia, il luminare aveva deciso di rientrare in patria. La morte dell’anziana madre e del fratello maggiore l’aveva lasciato erede di una vasta tenuta ad Hokkaido, dove aveva aperto una nuovissima clinica. Qui aveva accettato di accogliere quel paziente molto particolare, garantendo di circondarlo del massimo riserbo. Si era trovato senz’altro d’accordo con il collega sul fatto che, in quel caso, la discrezione sarebbe stata di vitale importanza, alla pari con le più avanzate competenze mediche.

***



La farsa durò a lungo. Ogni volta il direttore faceva chiamare la madre di Ains dalla sua segretaria: aveva notizie da darle, notizie importanti, sempre in tarda serata. Ogni volta lei pensava di rifiutarsi, di non andare. Restare a casa sarebbe bastato. Ma come avrebbe potuto? Come avrebbe potuto spezzare con le proprie mani quel filo esilissimo di speranza? Ogni volta, in effetti, dopo aver avuto quel che voleva, l’uomo le dava delle notizie, ma nessuna era mai decisiva.
Un giorno le aveva riferito di aver parlato con il generale, ma aveva aggiunto che non era stato possibile affrontare quell’argomento. In un’altra occasione, aveva raccontato, si era presentata l’opportunità di parlargliene, ma non si era arrivati a trovare una soluzione. Infine, avevano esaminato diversi scenari e avevano concluso che sarebbe stato necessario inviare una squadra. Tuttavia, in un ulteriore colloquio, era emerso che la strategia attualmente adottata non permetteva l’invio di altre squadre; l’ultima era stata quella del suo ragazzo, ma aveva fallito. Se i ragazzi fossero stati più abili…
L’effetto di quelle parole lasciate cadere distrattamente lo aveva colto di sorpresa. Con rabbia feroce la donna gli si era avventata contro, tempestandogli di pugni il torace: “Maledetto! Bugiardo! Non osare insultare mio figlio!” L’aveva trattenuta senza difficoltà, era un gigante rispetto a lei. Tuttavia, aveva osservato con piacere che la rabbia la ravvivava. L’avrebbe tenuto a mente: cominciava a trovare noioso averla sempre inerte tra le sue mani.


Quella notte, come altre volte, l’aveva costretta a seguirlo nel suo alloggio. Alle prime luci dell’alba, però, fu svegliata da qualcosa di insolito: voci. Si udivano distintamente provenire dalla stanza accanto. Uno sicuramente era lui, il direttore; l’altro, non avrebbe saputo dire. Sembrava una donna. Si avvicinò furtiva alla porta socchiusa e si mise a spiare dalla fessura. Il direttore, in ginocchio davanti a un video, prendeva ordini da qualcuno che gli parlava in tono autoritario.
“Staigar!” Lady Gandal non aveva mai potuto sopportare quel lacchè del marito. Era un indegno adulatore. Era riuscito a sistemarsi all’Accademia, senza avere mai visto un campo di battaglia. Ogni volta che vi si imbatteva, quando erano ancora su Vega, si chiedeva seriamente in che modo quell’uomo riuscisse ad ottenere dal generale tutto quello che voleva. Era difficile che qualcosa le sfuggisse, eppure, a volte, soprattutto durante gli incontri con quello Staigar, lei aveva delle assenze, come dei vuoti; momenti di buio che, una volta trascorsi, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricostruire nella memoria. Quando rientrava in se stessa, dopo quei momenti, si sentiva immancabilmente preda di una feroce inquietudine. Ora che si trovavano su Skarmoon, la situazione non era cambiata. Naturalmente, sarebbe stato inutile chiederne conto al marito. Aveva il sospetto, sempre più insistente, che quegli stati di assenza fossero indotti artificialmente, grazie a qualche accorgimento che ancora non era riuscita a scoprire, e che suo marito ne approfittasse senza scrupoli per avere mano libera, tenendola all’oscuro delle sue azioni. Tutto ciò le faceva montare dentro una rabbia sorda, che sfogava tormentando accanitamente il generale. In quel caso, l’aveva talmente martellato, da convincerlo a lasciarle in mano Staigar. Ed ora ci stava giocando.
“Staigar!”
“Mia signora!” rispose il sottoposto servile.
“Ho sentito molto parlare di lei da mio marito” continuò la donna. “Il generale Gandal dice un gran bene di lei.” Il viso rivolto a terra si stirò in un sorriso di compiacimento.
“Anche se la conosco poco, ho capito che lei è un valoroso.”
Il direttore fu colto di sorpresa. Non si aspettava complimenti da quella donna. Aveva sempre percepito tutta la sua antipatia nei propri confronti; sarebbe stato assurdo convocarlo a quell’ora, quasi di notte, solo per dirgli quanto era bravo. C’era qualcosa che non andava, una stonatura che non riusciva a cogliere con chiarezza.
Lady Gandal andò avanti: “Finora lei ha servito molto bene, come direttore dell’Accademia.”
Un altro complimento. Ma dove vuole arrivare?
“Ebbene, Staigar, ritengo che sia arrivato il momento di darle la possibilità di emergere veramente, di occupare il posto che realmente le spetta.”
Ma che cosa voleva dire? Lui era soddisfattissimo del posto che occupava attualmente. Gli ambiziosi erano altri… Il direttore si stava seriamente allarmando, ma tenendo la faccia a terra, riusciva a dissimulare la crescente preoccupazione.
“Staigar! Anche lei avrà l’opportunità di farsi onore, di scendere in campo per la gloria di Vega!” esclamò Lady Gandal. “Le ordino di partire immediatamente per la Terra. L’obiettivo della sua missione sarà catturare viva la sorella minore di Duke Fleed e portarla su Skarmoon. La terremo in ostaggio, finché il maledetto non si consegnerà al posto suo. Dovrete fare in modo che Duke Fleed vi insegua: finché sua sorella sarà nelle nostre mani, non oserà attaccarci. Lo cattureremo facilmente e appena lo avremo in nostro potere, lo uccideremo! Per la gloria di Vega!” concluse.
“Sì, mia signora! Per la gloria di Vega!”
La comunicazione fu tolta. Aveva risposto meccanicamente. Tramortito da quella notizia, l’uomo si sforzò di immaginare lo scenario del proprio immediato futuro. Nessuno, finora, era riuscito a battere Duke Fleed. Avrebbe perso tutto: il potere, il denaro… le donne! Diede un pugno rabbioso sul muro. Che morissero altri, per la gloria di Vega! Massaggiandosi le nocche e imprecando tra sé, rientrò nella stanza e si accorse della donna: era rimasta lì, in piedi accanto alla porta.
La investì furibondo: “Che vuoi? Sparisci! Vattene via!” Lei rimase immobile, non vacillò. Parlò con voce sorda, gonfia d’ira repressa, puntandogli l’indice contro: “Tu…! Ho sentito, sai? Tu andrai sulla Terra.” Il volto si deformò in una smorfia di ribrezzo e di scherno: “Andrai a catturare una ragazzina…” Poi, ghignando: “Maledetto! E’ quello che sai fare meglio!”
Rise tra sé come pazza, i lineamenti spaventosamente alterati. Staigar la fissò allarmato. Era irriconoscibile: sembrava posseduta da una furia diabolica. La donna parlò lentamente, scandendo bene ogni parola: “Io verrò con te. Troverò mio figlio. E il suo assassino. Mi vendicherò.”
“Sei pazza! Che credi di fare? Non penserai che decida io chi deve combattere sulla Terra…?” Mentre parlavano, lei era arretrata fino al comodino, dove la sera prima l’uomo aveva lasciato cadere la pistola laser. In un attimo la afferrò con entrambe le mani e gliela puntò contro. Poi, carica d’odio, gridò stridula: “Io verrò con te!” E a voce più bassa: “Troverai il modo.” Poi di nuovo urlando, fuori di sé: “Altrimenti ti uccido! Adesso! In questo momento!”
Staigar non osò contraddirla: “Va bene. Va bene. Cercherò di ottenere appena possibile che…”
Lo interruppe gridando istericamente, sempre tenendolo sotto tiro: “Adesso! Subito! Davanti a me!” Gli ordinò con un cenno del capo di andare nell’altra stanza: “Mettiti in comunicazione con Gandal! Ora! Davanti a me!” L’uomo non poté far altro che assecondarla. Era furba, stava bene attenta a tenersi a distanza. Ed era decisa. Quel tono… lo sguardo… una trasformazione incredibile! Non l’aveva mai vista così e non avrebbe saputo come descriverla: era diventata una belva, era… orribile! Staigar attivò il sistema di comunicazione e chiese di poter conferire col suo superiore. Lei si piazzò dietro lo schermo, continuando a tenere la pistola spianata.

-continua-

Mamma alla riscossa! Commenti? Qui!
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Edited by Annushka18 - 8/5/2016, 01:37
 
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-capitolo 6-

“Che vuoi Staigar?”
Il direttore cadde in ginocchio. “Generale Gandal! Mi perdoni!” Il generale rimase in silenzio e l’altro continuò: “Poco fa mi è stato ordinato…”
“So bene quello che ti è stato ordinato! C’è qualcosa da dire?”
L’altro riprese ossequioso: “Non oserei!”
“Allora perché mi disturbi?”
Staigar alzò un momento lo sguardo: da dietro lo schermo gli occhi di lei lo fissavano torvi; deglutì e continuò: “Generale, ardisco portare alla sua attenzione una possibilità alternativa di sconfiggere Duke Fleed.”
“Mmhm… vai avanti.”
Quello riprese: “Conosco una donna…”
Il volto di pietra di Gandal si stirò in una smorfia; il generale soffocò il riso di scherno che a quelle parole gli era salito spontaneo alle labbra. Una sola?
“… conosco una donna decisa ad uccidere Duke Fleed.” Parlando, il direttore diventava via via più loquace e sicuro di sé. Intanto, da dietro lo schermo due occhi di ghiaccio continuavano a trapassarlo. Bravo Staigar. La paura ti scioglie la lingua… Bravo, sii convincente.
“Vuole vendetta per suo figlio! Nulla potrebbe fermarla!”
Mentre pronunciava quelle parole, nella mente del direttore prese forma inopinatamente un’idea di grande interesse; si sarebbe dovuto giocare bene fino all’ultima carta a disposizione e forse, allora, avrebbe trovato una scappatoia, una via d’uscita da quella trappola. Forse sarebbe riuscito a salvarsi dalla missione…
“Generale, quella donna è pericolosa. Basterà darle la possibilità di raggiungere Duke Fleed e sono sicuro che lo farà a pezzi con le sue mani! Duke Fleed non avrà scampo!”
“E’ molto interessante, Staigar… Ma è pur sempre una donna. Bisognerà dirigerla.”
“Certo, signore!”
In presenza di lei non poteva parlare liberamente con il suo superiore. Si limitò a dire quello che lei si aspettava: “Io… vorrei pregare umilmente di essere autorizzato a portarla con me. Ritengo che potrà essere di grande aiuto.”
Una richiesta del genere Gandal non l’aveva ancora mai ricevuta: andare in missione insieme all’amante. Ma forse Staigar aveva ragione, se davvero quella donna era mossa dal desiderio di vendetta, sarebbe stata temibile e la sua presenza sarebbe potuta risultare utile. “E sia. La porterai con te, sotto la tua responsabilità. Ma ricorda: il piano rimane quello che ti ha ordinato mia moglie. E’ chiaro?”
“Certo, signore!”
L’immagine svanì e il video si spense automaticamente.
“Adesso fuori! Vai fuori!” La donna gli indicò con la testa la porta. Lui parve esitare. Un sibilo tagliò in due la stanza e un pezzo di intonaco si staccò dalla parete, a pochi centimetri dalla sua faccia. Staigar scartò bruscamente di lato, alzando le mani a proteggersi: “Pazza! Che fai?”
“Vattene e non tornare, se non hai niente da dire. E ricordati che io voglio sentire una cosa sola: la data di partenza per la Terra”. Un altro colpo tra i piedi lo costrinse alla fuga. Lei gli chiuse la porta alle spalle e azionò tutti i sistemi di sicurezza. Poi si mise in contatto con il portiere e ordinò che le fosse mandato del cibo.

***



L’elicottero si stava riducendo rapidamente ad un puntino nel cielo. Dalla terrazza del Centro Ricerche Maria lo seguì a lungo con gli occhi, finché sparì nell’azzurro; poi rimase a fissare il galoppo di un banco di nubi. Non voleva farsi trovare lì in quello stato, ma non riusciva a staccarsi dalla ringhiera. Vi prego, salvatelo! Vi prego, fate che torni a vivere! Una mano affettuosa le toccò gentilmente la spalla.
“Maria!”
La ragazza si scosse, sollevata per un istante dall’abbattimento che la opprimeva: “Oh Hikaru, sei tu…” Alla vista dell’amica non riuscì a dominarsi: la abbracciò forte, nascondendo il volto nella sua spalla: “Io spero che lo guariscano!”
“Certo, lo guariranno. Il dottor Mizuguchi ha molta fiducia. Il suo amico è un grande chirurgo.” Maria si lasciò consolare. Poi continuò, ancora dubbiosa: “Ma sarà difficile; ci vorrà molto tempo…”
“Sì, sarà necessario” rispose Hikaru. Avevano trovato un’ottima soluzione per tutto, ma rimaneva il problema delle trasfusioni. Per un’operazione così complessa sarebbe stato indispensabile contare su un’adeguata scorta di sangue. Ci sarebbero volute settimane, prima che Daisuke fosse in grado di subire un altro consistente prelievo e il medico non era nemmeno sicuro che sarebbe stato di nuovo possibile: la ferita al braccio lo stava esaurendo. Maria avrebbe dovuto tenersi pronta. Alla fine, suo fratello aveva accettato di coinvolgere anche lei, in mancanza di alternative. In ogni caso, i preliminari dell’intervento risolutivo sarebbero stati assai laboriosi: avrebbero richiesto un periodo piuttosto lungo per essere completati.
Tuttavia, la voce tranquilla dell’amica più grande non aveva ancora rasserenato del tutto la ragazza. Hikaru la scrutò attentamente: “Che altro c’è?”
“Hikaru… io non sono riuscita a spiegarlo a nessuno… quel ragazzo, quel veghiano che mi ha salvata…” si coprì gli occhi con le mani. “E’ stato orribile!”
“Cosa?”
“Quando lo andavo a trovare era incosciente, ma io ho visto tutto quello che gli è successo!”
“Maria! Che vuoi dire?”
“Non capisci? Nemmeno tu capisci? Io… ho rivissuto con lui la battaglia! Tutto quello che l’ha ridotto così!”
Le venne da piangere. Hikaru la tenne abbracciata. Le si strinse il cuore: Maria non le aveva mai parlato così chiaramente dei suoi poteri di penetrare nella mente degli altri. Sembrava una maledizione…
Le porte scorrevoli si dischiusero e Koji uscì sulla terrazza, seguito da Daisuke. Maria si staccò bruscamente da Hikaru. Asciugandosi le lacrime con un gesto rabbioso, corse via.
“Ma… che le è preso?” chiese il fratello.
“E’ sconvolta, Daisuke” fece Hikaru.
Koji sospirò. Affacciato al parapetto, la guardò allontanarsi in moto. Ascoltò perplesso il seguito della conversazione tra i suoi due amici.
“Forse bisogna proteggerla dai suoi poteri” diceva Hikaru a Daisuke.
“Non c’è modo di limitarli; si manifestano indipendentemente dalla volontà.”
“Ma sembra che si scatenino in particolari condizioni emotive…”
“L’avevo detto io! Gliel’avevo detto di non andarci più da quello!” intervenne Koji, battendo un pugno sulla balaustra “Ma è una testarda!” concluse esasperato.
“Imparerà…” rispose Daisuke pensieroso e continuò: “E’ molto giovane. Inoltre, si sente in debito. Non credo che qualcuno possa fermarla, finché non sentirà di averlo ripagato, quel debito.”
Per un po’, ciascuno rimase immerso nei propri pensieri.
Hikaru sorrise tra sé. E’ tua sorella, Daisuke, non c’è da stupirsi…
Koji corrugò la fronte. In debito? Con un nemico? Uno che l’avrebbe uccisa subito, se gli fosse convenuto?!?
Ma dopo la voce profonda di Daisuke, più nulla ruppe il silenzio. Restarono vicini, a contemplare il panorama inondato di luce del primo mattino.

***



Il volo era trascorso senza sorprese. Nonostante il ragazzo non avesse ancora ripreso conoscenza, appena il dottor Mizuguchi ed il suo collega chirurgo l’avevano giudicato in grado di sopportare lo spostamento, era stato deciso di trasferirlo. In tal modo, avrebbero potuto iniziare al più presto la serie di operazioni e le terapie preliminari all’intervento decisivo. All’arrivo, era stato subito sistemato in una delle nuovissime camere sterili della clinica.


La stanza era immersa nella penombra. In sottofondo, un ronzio sommesso e monotono di macchinari. Il ragazzo aveva cominciato da poco ad aprire gli occhi, di tanto in tanto. La prima volta che l’aveva fatto, aveva capito di essere sdraiato in un letto. Sopra di sé aveva potuto distinguere un soffitto liscio, di colore neutro, uniforme. Era stata la prima cosa che era riuscito a vedere, del mondo in cui si stava risvegliando.
Dove sono?
Da supino, gettare un’occhiata a destra e a sinistra costava ad Ains un’enorme fatica; ma, negli ancor brevi intervalli di lucidità, si accorgeva spesso di essere stato girato su un fianco o sull’altro; così aveva avuto modo, ben presto, di ipotizzare qualcosa sul luogo in cui si trovava.
Sulla destra, in alto, poteva vedere una bottiglia rovesciata che pendeva vicino a lui da un sostegno; ne fuoriusciva un sottile tubo di gomma che arrivava fin sotto la fasciatura che gli avvolgeva il dorso della mano. Una flebo.
Che cosa mi stanno facendo?
La prima volta che aveva messo a fuoco l’immagine, era stato preso dal panico. Aveva cercato di strapparsi di dosso quello strumento, ma il tentativo di muovere l’altra mano gli aveva provocato dolori così lancinanti da tenerlo inchiodato, senza permettergli di osare più nulla.
Veleno!
Sapeva che i prigionieri di guerra, gli schiavi e altri esseri indegni venivano impiegati regolarmente per il progresso della scienza, della medicina in particolare; lo aveva studiato, aveva anche osservato i filmati di alcuni importanti esperimenti. Ora lo stavano facendo a lui! Perché? O forse no. Pensandoci meglio, ricordò di avere già visto qualcosa di simile nei primi giorni del ricovero di Beecha, all’infermeria dell’Accademia. Quell’immagine lo aveva un poco rassicurato, ma continuava a non avere idea di dove si trovasse e di come vi fosse finito.
Oltre il sostegno della flebo, ad una certa distanza, poteva intravedere una lunga vetrata rettangolare, schermata da una tendina di stoffa. Da essa filtrava un chiarore sufficiente ad illuminare la stanza. Quando questo cessava, veniva sostituito da una tenue luce artificiale, in un’alternanza continua. Al di là della finestra, attraverso la cortina di velo sottile, si indovinavano sagome di uomini e donne che andavano e venivano. Doveva esserci un corridoio munito di grandi aperture all’esterno. In fondo alla parete, quasi nell’angolo, si apriva una porta; dalla parte opposta, alla sinistra del suo letto, c’era un’altra porta.
Da lì entravano alcuni individui, di solito a due a due, a intervalli regolari. Erano sempre vestiti di bianco, il volto seminascosto da una mascherina. Ains aveva ripreso conoscenza ormai da diversi giorni e non aveva percepito intenzioni ostili da parte loro: si occupavano di lui, lo curavano, gli cambiavano posizione assai spesso. In generale, lo trattavano con estrema delicatezza. Lui, però, fino ad allora non aveva trovato il coraggio di aprire gli occhi in loro presenza. Forse più in là l’avrebbe fatto, ma al momento era terrorizzato all’idea di affrontare il contatto.

-continua-

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-capitolo 7-

Per fortuna, era stato ottimamente addestrato alle più avanzate tecniche di sopravvivenza in ambiente ostile e, fin dai primi momenti dopo il risveglio, aveva potuto constatare quanto gli fossero rimaste impresse. Una volta, al rumore inatteso della porta che si apriva dietro di lui, aveva deciso di inabissarsi nello stato di latenza e ci era riuscito senza sforzo! In quel momento, nemmeno i macchinari più sofisticati avrebbero potuto rilevare in lui segni di coscienza. Quella tecnica aveva evitato a numerosi soldati di Vega di cedere al nemico sotto tortura e ne aveva salvati parecchi altri dalla morte in battaglia. Tali conquiste erano state ottenute studiando i lepismatidi giganti di Kryor. Ricordava bene la lezione su quell’argomento: una tremenda esplosione aveva scagliato quel pianeta lontano dalla propria stella e lo aveva ridotto ad uno scoglio di rocce gelide vagante nella galassia che, ad un certo momento, era stato catturato dal campo gravitazionale di Vega. Solo alcuni tipi di insetti, enormemente ingranditi dalle radiazioni, erano sopravvissuti al cataclisma. Gli scienziati veghiani, osservandoli, erano riusciti a isolare il gene che presiedeva alla sospensione apparente delle funzioni vitali a scopo difensivo. Quindi, dopo un’innumerevole serie di esperimenti, l’avevano impiantato con successo negli esseri superiori. Da allora, l’impianto era diventato una procedura di routine per i combattenti. L’addestramento consisteva nell’apprendere il comando mentale per poter utilizzare la tecnica sotto il controllo della volontà.
Dunque, per un lungo periodo, Ains ebbe modo di osservare coloro che lo assistevano, senza scoprirsi. Dopo un certo tempo, si convinse che non volevano torturarlo; probabilmente il dolore che provava era causato da ferite. Ma come e quando era stato ferito? Cosa era successo? E ora, dove si trovava? Di tutto questo non ricordava nulla, poteva solo procedere per approssimazioni successive.
Non era su Vega. Ne aveva avuto certezza quando era riuscito a portarsi una mano alla gola e aveva potuto constatare che il traduttore, miracolosamente, era ancora al suo posto, sotto la pelle del collo. Solo grazie ad esso comprendeva i discorsi degli infermieri. Non tutti i veghiani lo possedevano; veniva impiantato a chi andava in missione. Dunque lui, di sicuro, era andato in missione! Quale missione? I ricordi affioravano a brandelli incoerenti: immagini sparse, di cui faticava ad afferrare la logica. Grida, un bagliore accecante… Chi gridava? Cos’era quel bagliore? E dov’erano gli altri? Gli altri! I suoi amici! I loro nomi gli salirono alle labbra in un gemito soffocato: “Tsubai, Swinko, Beecha, Thoroa! Comandante Dagil! Dove siete?”
Dov’erano tutti? Era rimasto solo. Solo e disperso su un pianeta ignoto…
Quella consapevolezza lo precipitò nella disperazione. Sapeva bene che chi falliva e sopravviveva veniva abbandonato al proprio destino. Se lo meritava: chi falliva infangava la gloria di Vega! Non avrebbe più rivisto il suo pianeta, non avrebbe più rivisto sua madre…
Le lacrime sgorgarono incontrollate, gli rigarono il volto abbondanti, finché ne poté percepire il sapore salato.
In quel momento la porta si aprì. Quella volta erano donne. E lui aveva abbassato la guardia!
No, non ora! Non devono vedermi così!
“Ehi, Midori! Ma sta piangendo!”
“Povero ragazzo… chissà chi è, che cosa lo ha ridotto così…” sospirò la collega.
La prima che aveva parlato gli asciugò le lacrime delicatamente e gli diede un lieve bacio sulla fronte.
Un’ondata di tepore lo invase. Mamma… mi hai trovato… Non riuscì a dominarsi: spalancò gli occhi.
Le infermiere diedero un grido: “Ha aperto gli occhi! Bisogna avvertire subito il professore!”
Midori uscì di corsa, l’altra rimase con lui. Gli accarezzava una guancia, sorridendo e parlando. Ains si limitò a fissarla, pensando angosciato che ora lo avrebbero interrogato.

***



Maledetta! La pagherai. Le pagherai tutte! Chiuso fuori del proprio alloggio, Staigar si era dovuto adattare a passare la notte in ufficio. Steso alla meglio sul divano, rifletteva ansioso. Forse sarebbe riuscito ancora a cavarsela. L’indomani avrebbe avuto l’ultima possibilità: il briefing mensile con Gandal, per riferire sull’andamento della vita dell’Accademia. Avrebbe tentato il tutto per tutto, forse l’avrebbe convinto. In caso contrario, non avrebbe avuto più alcuna giustificazione, sarebbe dovuto partire immediatamente per la base Skarmoon e mettersi a disposizione di Lady Gandal. A meno di non volersi insubordinare apertamente. Accarezzò per un momento l’idea, ma subito la scartò. Non era pensabile. Quella strega comandava a bacchetta perfino il marito. Ultimamente, poi, era diventata perfino più diffidente, se possibile. Gandal stava esagerando con l’espediente delle interruzioni neurali, le usava con troppa frequenza e sua moglie cominciava a sospettare qualcosa. Ed è noto che l’ira di una donna è più temibile di un attacco nemico… Sogghignò, immaginando le liti tra il superiore e la moglie.
I pensieri continuavano a vagare febbrili, al confine tra il sonno e la veglia; le immagini si accavallavano, trasformandosi l’una nell’altra, come nubi in un giorno di vento. Una donna adirata… L’ira… L’ira, una forza assassina! Diede un breve grido, smaniando con gli occhi sbarrati, mentre cercava una posizione più comoda. Gli era parso di vedere nel buio gli occhi della donna che poche ore prima aveva minacciato di ucciderlo: carboni ardenti dal bagliore demoniaco… Era diventata irriconoscibile! Lui stesso era rimasto sgomento. Sembrava invasata, come… riprogrammata! Domani ne parlerò al generale, è la mia ultima speranza.
Finalmente riuscì a prendere sonno.


“Staigar, a rapporto!” La relazione mensile era una formalità necessaria; terminò in pochi minuti. Era il momento.
“Generale…” cominciò il direttore.
“Che c’è ancora, Staigar?”
“Mi permetta di aggiungere una parola.”
“Di che si tratta?”
“Quella donna, generale; quella di cui le ho parlato ieri.”
Gandal rimase in attesa.
“Ardisco insistere: sarà lei l’arma che ci permetterà di distruggere Duke Fleed” riprese Staigar. “La conosco da tempo, è vedova di un comandante della Guardia Scelta e madre di uno degli studenti dell’Accademia recentemente uccisi da Duke Fleed. Le assicuro, dopo la morte del figlio ha subito una metamorfosi radicale: è completamente dominata dalla rabbia, vive solo per la vendetta!”
“Bene Staigar” lo interruppe Gandal spazientito. “Ti ho già dato il permesso di portarla con te.”
“Mi perdoni! Mi permetta di esprimere francamente la mia opinione a riguardo: ritengo che quella donna vada lasciata libera di agire da sola contro Duke Fleed. Se potrà contare esclusivamente sulle proprie forze, il suo odio sarà micidiale, si moltiplicherà. Il successo sarà assicurato!”
Ah, è così Staigar? Hai paura? Non vuoi partire… Pensi di essere indispensabile per quelle serate che mi hai organizzato…? Sciocco arrogante! E’ proprio per questo che devi partire: cominci a crederti qualcuno. Il tono del generale si fece distante, atteggiato a distaccata freddezza: “Mi dispiace Staigar: esiste un piano preciso e tu sei stato incaricato di portarlo a termine. Raggiungerai Skarmoon alla massima velocità possibile e ti presenterai a rapporto da Lady Gandal.” Quindi subì un’impennata: “Sono stato chiaro?”
Masticando amaro Staigar chinò il capo: “Signorsì, generale! Agli ordini, generale!”
Era finita, l’ultima chance era svanita. Stava crollando tutto. Ora doveva sperare davvero di catturare la sorella di Duke Fleed e di tirarsi dietro il principe fino a Skarmoon, evitando di farsi uccidere da lui: era l’unica speranza di tornare ad occupare quel posto che gli aveva dato tante soddisfazioni.
Staigar si accinse a partire. Non avrebbe portato nulla con sé, avrebbe trovato tutto il necessario a destinazione. Inoltre, facendo così, gli sembrava quasi di propiziarsi il ritorno.
Raggiunse rapido la porta del proprio alloggio. Occupava l’ampio attico dell’edificio ed era dotato di una grande terrazza, dove stazionava la sua nave personale.
All’interno si udì un fischio sottile: qualcuno sollecitava l’accesso. La donna sobbalzò. Non dormiva da oltre ventiquattr’ore; era rimasta continuamente all’erta, alternando la veglia ad una sorta di sopore vigile, durante il quale bastava il minimo rumore a farla scattare. Nonostante tutto, non si sentiva stanca. Piuttosto, provava una tensione estrema, i sensi erano acuiti al massimo. Un fuoco la divorava dall’interno e le moltiplicava le energie. Si appiattì contro la parete della porta brandendo la pistola laser, poi autorizzò l’accesso.
“Alza le mani!”
Staigar si voltò di scatto. Preso alla sprovvista, indugiò un istante.
“Alzale!” Se avesse osato toccarla un’altra volta, l’avrebbe fatto a pezzi.
L’uomo la guardò con odio. Alzò lentamente le mani, sibilando: “Siamo in partenza.”
Stavolta fu lei a reprimere la sorpresa. Non credeva che sarebbe successo così presto. Le sfuggì un grido di trionfo, quasi un ruggito di soddisfazione: “Andiamo!”
Uscirono sulla terrazza. La nave era lì, enorme, argentea. Sulla carlinga spiccava il simbolo dell’Accademia. Presero posto, lui davanti, lei dietro, sulla poltrona del secondo pilota. Staigar chiese l’autorizzazione ad aprire un corridoio di teletrasporto. Quella modalità era riservata ai casi di massima urgenza, o alle personalità di altissimo livello, perché richiedeva un enorme impiego di energia. Ultimamente si tendeva ad evitare le spese non necessarie e Staigar sperò che l’autorizzazione gli venisse negata; avrebbe avuto ancora qualche giorno, giustificato dai preparativi necessari ad un viaggio in modalità ordinaria.
Pochi istanti dopo ricevettero l’ok. Dovette avviare senza indugio la procedura.
La smaterializzazione fu istantanea. Non ebbero tempo di percepire niente: anche il supporto organico della coscienza veniva smaterializzato. Tutto si trasformava in un fascio di energia fotonica, per poi riacquistare massa e peso in prossimità di un coagulatore a vegatron. Era lo stesso principio di funzionamento dei disintegratori, ma in questo caso, a differenza dell’effetto dell’arma di eliminazione, il passaggio di stato era reversibile. Ed era precisamente il processo di ritorno dal flusso di fotoni allo stato di massa solida ad assorbire quantità immense di energia. Il coagulatore ricevente doveva possedere scorte adeguate. Per questo motivo, tale modalità di spostamento di norma veniva utilizzata molto limitatamente. Tuttavia, la presenza di re Vega sulla Luna, aveva fatto di Skarmoon il centro dell’impero; tutte le risorse disponibili vi convergevano. Dunque, Gandal non aveva voluto negare a sua moglie quella piccola soddisfazione…

***



“Mia signora!”
“Alzati, Staigar. Vieni avanti…” la donna accompagnò l’invito con un gesto sinuoso della mano. “E chi è questa… signora, qui al tuo seguito?”
Il sarcasmo della sottolineatura suonò evidente.
“Sono la vedova del comandante Ghemon” rispose lei, senza aspettare di essere interrogata. E la guardò dritto negli occhi.
Staigar cominciò a sudare. Disgraziata. Mi vuole far ammazzare.
“Vediamo un po’…” Mentre la osservava, cercava di ricordare dove l’avesse già vista. Improvvisamente si illuminò: “Ma noi ci conosciamo!” La moglie del generale Gandal era dotata di intelligenza e memoria superiori. Per questo, quei vuoti che ultimamente la affliggevano le sembravano tanto strani. “Certo! Le rinnovo le mie condoglianze signora. Ancor più, sapendo che anche suo figlio è caduto per liberarci da Duke Fleed.”
Staigar si rilassò. Lady Gandal continuava: “Quell’essere abbietto non merita di infestare ancora la galassia. Sono sicura che l’odio implacabile di una madre, unito all’abilità del comandante Staigar, finalmente ne avranno ragione! Andate!”
L’uomo e la donna si inchinarono contemporaneamente e lasciarono subito la sala.

-continua-

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-capitolo 8-

In questo capitolo si incontrerà la "Trivella Spaziale". Chiedo perdono ai filologi. I nomi originali mi piacciono molto per i personaggi umani; me li sono fatti piacere per il robot cornuto e il suo doppio; ma Drill Spacer e Marine Spacer ancora non li mando giù, mi suonano troppo “alieni”! Per questo, per i veicoli di Hikaru e Maria ho deciso di usare i nomi italiani. Compariranno qui e in altre due occasioni, nei capitoli successivi.


“Questa è Maria Grace, principessa di Fleed. Ai tempi della guerra contro Fleed era una bambina, ora avrà circa quindici anni.” La voce dell’uomo la raggiungeva da una distanza infinita…
Quindici anni… Come il suo Ains. La somiglianza la colpì. Dovevano rapire una bambina, per costringere il fratello a consegnarsi. Di quella principessa non sapeva nulla; era troppo giovane: alla sua nascita lei aveva già perso da tempo ogni legame con il pianeta Fleed. Improvvisamente, il pallido ricordo di sua madre le venne incontro dal passato... Scosse la testa, non doveva cedere alla pietà. Non doveva cedere a nessun sentimento! Maledetto! Ti ucciderò con le mie mani. E poi riavrò mio figlio. E se per questo dovremo rapire tua sorella, lo faremo.
“Questi sono i complici di Duke Fleed” continuava Staigar monotono, facendo scorrere le immagini del personale del Centro Ricerche, con a capo il professor Umon. Si fermò in particolare su Koji ed Hikaru: “I piloti dei mezzi ausiliari di Grendizer.” Dopo alcuni fotogrammi aggiunse: “Nonostante la giovane età, anche Maria Fleed ne guida uno.”
Proprio come Ains. Il paragone le tornava alla mente con insistenza.
“Infine, hanno anche un gruppo che li appoggia dall’esterno: la base è nascosta in questa fattoria. Spesso Duke Fleed, sua sorella e i terrestri che li spalleggiano vi passano la notte. Non dovremo far altro che sorvegliare la strada che collega le due basi; appena Maria Fleed passerà da sola, la sorprenderemo.”
“Bene!”
“Scenderemo sulla Terra questa notte stessa. Entreremo in azione domani all’alba.”
“Bene!”


Il robot da combattimento incombeva nell’oscurità dell’hangar. La struttura era antropomorfa, ma le fattezze del volto erano ferine. Le zanne e gli artigli ricordavano quelli di una belva feroce. Era stato modificato appositamente per quella missione. In evidenza, al centro del petto, era stata montata una capsula trasparente di forma ovoidale.
D’improvviso, l’enorme spazio silenzioso si animò di luci e rumori. Si accesero fari potenti e una sirena prese a suonare, mentre una voce metallica cominciava a dare istruzioni: “Mostro di Vega Gorig: prepararsi al decollo”. Due piccole figure si affrettavano in un corridoio sospeso, che collegava le viscere della base al ventre del robot, simile ad un mostruoso cordone ombelicale. Superata una barriera automatica, i due si ritrovarono in un ascensore che li sollevò fino all’altezza del petto; lì si fermarono a ispezionare la capsula: dall’interno si presentava come una piccola stanza; sulla parete di fondo, ai vertici di un ideale rettangolo verticale, erano fissate quattro catene. “Bene” constatò Staigar; poi premette un pulsante e la parete iniziò a ruotare lentamente sul proprio asse; si fermò appena ebbe completato uno spostamento di centottanta gradi. Le quattro catene ora erano esposte verso l’esterno. “Molto bene. Vedrai Duke Fleed, ti faremo subito perdere la voglia di combattere…” disse beffardo, mentre dava il comando di ripristino dello stato iniziale. Poi rivolto alla donna: “Andiamo!” Due grosse lacrime rigarono il volto di lei, nascoste dalla visiera del casco. E’ solo una bambina… se Ains avesse dovuto subire lo stesso orrore… Oh Ains! Presto sarai di nuovo con me! “Andiamo!” fece lei di rimando e si mise a correre dietro quell’uomo che aveva giurato di ridarle il corpo del figlio. Era questo che le importava al di sopra di tutto, anche più della vendetta su Duke Fleed! Per questo avrebbe fatto qualsiasi cosa, si sarebbe dannata l’anima. Avrebbe anche ucciso! Ora stava per rendersi complice della tortura, forse della morte, di una ragazzina.
Rientrarono nell’ascensore, che proseguì la sua corsa fino alla testa del mostro. Presero posto veloci nella cabina di pilotaggio: “Mostro di Vega Gorig: chiusura!” L’umanoide si ripiegò su se stesso, assumendo la forma di un bozzolo, due enormi placche metalliche si dispiegarono dal suo dorso e lo avvolsero fino a coprirlo del tutto, lasciando in vista solo la testa. La piattaforma di lancio lo stava portando all’esterno. Tutto era pronto.
“Mostro di Vega Gorig: decollo!”
La violenta accelerazione rischiò di farle perdere i sensi. Era la prima volta per lei, il viaggio da Vega era stato completamente diverso. Non doveva! Doveva resistere! Si aggrappò forte con una mano al bracciolo della poltrona, con l’altra serrò la pistola laser, che non aveva mai abbandonato un istante. Respirò profondamente più volte, finché riprese il controllo.

***



Quel giorno la mattinata era libera. Il professore aveva deciso che sarebbero usciti di pattuglia nel pomeriggio e aveva permesso a tutti di rimanere alla fattoria per un po’ di riposo. Maria, però, non aveva nessuna voglia di stare con gli altri: era oppressa dalla tristezza e dalla preoccupazione. Il ragazzo era partito ormai da alcune settimane e lei ogni giorno aspettava con ansia di avere notizie. Sapeva che avevano già cominciato a curarlo e che, della lunga serie di operazioni che lo attendevano, presto ne sarebbe avvenuta una molto importante. Allora lo avrebbe raggiunto ad Hokkaido.
Daisuke era sempre più debole, si vedeva. Anche se a sua sorella non diceva mai nulla, lei lo sentiva. Probabilmente non ce l’avrebbe fatta a lungo a continuare a combattere. Se addirittura avesse dovuto di nuovo donare il suo sangue… Impossibile! Sarebbe stato compito suo!
Maria uscì dalla stanza e si diresse a testa bassa verso la rimessa, senza fermarsi in cucina. Però non poté fare a meno di allungare l’orecchio, mentre passava davanti alla porta: si sentiva il vociare allegro di Goro che battibeccava con suo padre e il tono sommesso di Hikaru che rispondeva qualcosa ad una domanda di Daisuke.
Koji non c’è… Ma che vado a pensare?! E’ l’alba…!
A dispetto delle abitudini di Koji, che conosceva benissimo, e dell’indifferenza assoluta, che si ripeteva continuamente di provare per lui, l’assenza del ragazzo la fece stizzire. Si sentì abbandonata. Accelerò verso la porta esterna, la spalancò e corse alla moto. Il rombo del motore segnalò agli altri che se ne era andata.
In realtà non aveva fretta. Andrò al Centro Ricerche… Studierò quelle mappe stellari del professore…
Oltre il parabrezza, la strada si dipanava tranquilla.


“Ma… cosa?!?” Costretta a una brusca frenata, appena dopo una curva, riuscì a schivare l’ostacolo per un soffio. Scese dalla moto e si avvicinò. Sulle prime, le era sembrato un fagotto informe. Invece era un corpo! Una donna. La colpirono i lunghi capelli corvini sparsi sul fondo polveroso della strada. Cercò di capire se respirasse, accostandole l’orecchio alla bocca. Sì, respi… “Ah!” Una fitta violenta alla nuca, poi il buio.
La figura riversa si alzò, sfilandosi in un attimo da sotto il corpo esanime della ragazza, e subito lo afferrò per le ginocchia. L’altro, quello che l’aveva colpita, la prese da sotto le ascelle. In perfetto silenzio la trascinarono oltre il ciglio della strada, dove una navetta stazionava nascosta tra i primi alberi del bosco, oscillando a mezz’aria, pronta a dileguarsi.


Non senza fatica, la assicurarono alla parete girevole, nel petto del mostro. A vederla così, completamente inerme, la ragazza sembrava ancora più piccola della sua statura. Non aveva ripreso conoscenza; pendeva dal muro completamente afflosciata, le mani e i piedi trattenuti a forza dalle catene, il capo abbandonato in avanti. Le folte ciocche ramate nascondevano il viso. L’uomo le indugiò accanto un istante, poi le sollevò di scatto la testa, afferrandola per i capelli. I lineamenti delicati, quasi infantili, apparivano distesi; sembrava dormisse. Le labbra erano appena dischiuse.
“Non toccarla!” sussultò la donna.
“Non la toccherò.” Soddisfatto, la lasciò ricadere. Non ora. Avrò ben diritto ad un premio, in cambio della testa di Duke Fleed…
L’ascensore li stava portando alla cabina di pilotaggio.
“Ed ora, mio figlio, Staigar!” disse la donna.
“Ti sto portando da lui…” sorrise l’uomo, ambiguo. “La base nemica è poco distante. E’ sepolto lì.”
Mentre prendevano posto ai comandi, la voce di Lady Gandal risuonò aspra nella cabina: “Staigar! A rapporto!”
“Fase uno completata con successo, signora! L’ostaggio è nelle nostre mani” rispose pronto Staigar.
“Bene! Allora, attacco immediato!” concluse imperiosa la moglie del generale.
“Agli ordini, mia signora!”
“Mostro di Vega Gorig! Chiusura!” Il robot si raccolse su se stesso, mentre le corazze di protezione lo avvolgevano; in pochi secondi assunse la forma di un disco.
“Mostro di Vega Gorig! Decollo!”
Il rombo e la vibrazione furono spaventosi. La donna rimase stordita, come la prima volta; ebbe bisogno di alcuni istanti, per rendersi conto che si erano alzati in volo e ancora di un certo tempo, per realizzare che si stavano dirigendo troppo lontano dal punto in cui suo figlio la stava aspettando.


“Daisuke! Qui Centro Ricerche! C’è un’emergenza!” La voce di suo padre era concitata.
“Padre! Ti ascolto!”
“Un mostro di Vega sta attaccando la zona del porto! Dovete intervenire!”
“Sì!”
Daisuke e Hikaru si lanciarono verso la porta.
“Ma dove andate?” Danbei era sbalordito.
“Non c’è tempo papà!” gridò Hikaru. “Avverti tu Koji che c’è un’emergenza!”
“Ehi!” Appena entrato, ancora insonnolito, Koji fu investito dai due che uscivano di corsa. “Ehi, ehi, ehi! Dove andate? Ma oggi non era riposo?”
“Sbrigati, Koji!” lo rimbrottò Hikaru. “E’ un’emergenza!”
“E dov’è Maria?” fece Koji, per nulla convinto a sbrigarsi.
“Non c’è tempo! La cercheremo più tardi!” concluse la ragazza. “Andiamo!”


Poco dopo, la formazione decollò dalla pista del Centro Ricerche, sulla scia di Grendizer. Mancava solo la Trivella Spaziale. Si avvicinarono rapidamente al quadrante sotto attacco.
“Eccolo!” gridò Daisuke.
Il mostro stava facendo scempio dei depositi di carburante della zona industriale costiera.
“Dobbiamo fermarlo!” esclamò Koji.
“Koji! Lo affronterò io! Voi copritemi!”
“Certo!” rispose Koji.
“Ricevuto!” gridò Hikaru.
“Grendizer! Avanti!”
“Grendizer! Fuori!”
Appena toccata terra, Grendizer corse avanti, facendosi sotto al nemico. Ancora da una certa distanza, tentò la prima mossa: “Doppio maglio perforante!”
Il mostro di Vega schivò con un poderoso balzo in verticale e ricadde sul posto. Poi rimase in attesa, senza rispondere al colpo.
C’è qualcosa di strano… Mentre Daisuke cercava di mettere a fuoco la situazione, la voce del veghiano scosse l’apparato di comunicazione.
“Duke Fleed!”
Cosa vuole? Grendizer si fermò sulla difensiva, sorvegliando i movimenti del mostro spaziale, che lentamente si avvicinava. Di nuovo il pilota nemico gridò: “Duke Fleed! Abbassa le armi!”
Perché mi sfida senza colpirmi? Quello continuò: “Non credo che tu voglia combattere!”
Cosa? Il mostro avanzò ancora di pochi passi e Daisuke la scorse. Era legata mani e piedi, con le braccia e le gambe divaricate, intrappolata in un alloggiamento ricavato nel petto del robot; la proteggeva solo una sottile cupola di materiale trasparente. Sembrava svenuta.
“Nooo! Mariaaa!” L’urlo lacerò l’aria e risuonò disperato nei comunicatori di Hikaru e di Koji.
“Daisuke! Che sta succedendo?” gridarono i due.
“Non sparate! Maria è prigioniera in quel mostro!”
Lo sgomento si impadronì dei tre giovani.
“Duke Fleed! Se rivuoi tua sorella, vieni a prenderla!”
“Chi sei?” gridò Daisuke.
Gli rispose una risata beffarda: “Ah ah ah! Sono quello che ti catturerà!” e spiccò un balzo verso il cielo, rinchiudendosi nella corazza ovoidale.
“No! Non lo devo perdere!”
“Giravolta spaziale!”
“Agganciamento!”
Appena riguadagnato lo Spacer, Grendizer si lanciò all’inseguimento. Il nemico aveva sette secondi di vantaggio, quelli della manovra di rientro.
“Non deve sfuggirmi!” esclamò Daisuke.
“Daisuke, no! E’ una trappola!” urlò Koji.
“Koji! Non la può abbandonare!” Hikaru era sconvolta.
Il disco nemico bersagliava Grendizer di proiettili al vegatron, per tenerlo alla giusta distanza; teso all’inseguimento, Daisuke non riusciva ad evitare quei colpi; ogni raffica rendeva il dolore al braccio più insopportabile. Il disco si dirigeva verso i confini dell’atmosfera. Sentì che la vista gli si appannava per lo strazio della ferita. “Maria…! No…!” La stava perdendo.
In quel momento, inaspettatamente, il disco nemico decelerò e all’improvviso cominciò a perdere quota.


“No! Maledetta! Che fai?” Staigar impallidì: la donna lo stava minacciando con la pistola laser.
“Mio figlio! Mio figlio! Tu devi darmi mio figlio!” gridava senza controllo. Era ridiventata la belva capace di spaventarlo. Ma ora non poteva darle retta, prima doveva sistemare Duke Fleed. Ne andava della sua testa. “Tuo figlio lo prenderai dopo!” Il disco si alzava sempre di più, l’orizzonte terrestre si andava incurvando, mentre puntavano dritti verso l’oscurità dello spazio.
Mamma, mamma, mamma! Il lamento infernale la torturava.
“Ti devi fermare! Devi tornare indietro, hai capito?” insisté lei, fuori di sé.
Lo scatto di una sicura. Le urla cessarono, divennero un sibilo minaccioso.
“Inverti la rotta. Subito.”

-continua-

Mamma alla riscossa 2! Commenti qui: https://gonagai.forumfree.it/?t=71687755&st=165#lastpost
 
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-capitolo 9-

Intento a pilotare e a combattere, Staigar la liquidò infastidito: “Basta! Non posso ridarti tuo figlio. Non so neanche dov’è!”
Un errore fatale.
Nella testa di lei la voce infantile esplose in un grido raccapricciante, mentre il gorgo di tenebra inghiottiva per sempre suo figlio. Tutto andava in frantumi. L’uomo si voltò, allarmato dall’improvviso, innaturale silenzio; se la trovò a pochi passi. Istintivamente alzò le mani, cercando di disarmarla. La voce di lei lo gelò: “Non mi toccare!”
Poi un lampo, uno schiocco metallico. Il laser gli trapassò l’occhio destro, facendogli esplodere il cranio.
Privo di guida, il disco cominciò a perdere quota.
“Staigar! Staigar! Che stai facendo?!? Traditore! Dove credi di andare?” La voce di Lady Gandal continuò a risuonare grottesca nel silenzio spettrale dell’abitacolo.

***



“Ancora niente?”
“No, mia signora, il collegamento sembra interrotto.”
“Prova ancora!” ruggì Lady Gandal. “Finché non si schiantano sulla Terra, cerca di ristabilire il contatto!” L’addetto alle comunicazioni della sala comando, sulla base Skarmoon, continuò a tentare freneticamente. Senza staccare mai gli occhi dal monitor, Lady Gandal osservava con espressione impenetrabile la traiettoria mortale di Gorig. Se falliremo anche stavolta, voglio avere almeno la soddisfazione di guardarti in faccia mentre stai per crepare, Staigar…

***



Non era mai salita su una nave spaziale, prima di quei giorni terribili: anche in circostanze diverse non avrebbe potuto far nulla, ma in quel momento era paralizzata. Cadde in ginocchio, attonita. Chiuse gli occhi e rimase così, con le braccia abbandonate in grembo. Continuando a stringere l’arma, si dondolava mormorando ossessiva: “Ains, Ains, Ains… Sto venendo da te, Ains…”


“Maledizione Koji! Stanno precipitando!” urlò Daisuke. Devo fare qualcosa!
“Grendizer! Massima potenza!” Il disco fece un balzo in avanti, mentre il robot protendeva le mani verso la nave nemica, ma questa accelerava sempre di più.
Dannazione! Non riesco a raggiungerli! “Velocità fotonica!” Il rischio era altissimo, doveva calcolare i tempi al millesimo, altrimenti avrebbe rischiato l’impatto. Ma era l’ultima speranza.
Eccoli! Di nuovo Grendizer protese le mani possenti e afferrò saldamente il disco veghiano. Nello stesso momento tornò all’assetto di volo normale. L’effetto fu quello di una brusca frenata. La pressione del gren deformò lo scafo del mostro spaziale, le mani di Grendizer vi penetrarono, aumentando ulteriormente la presa. Ma la corsa allo schianto continuava a velocità folle. La Terra diventava sempre più smisurata.
“Non ce la faccio! Non riesco a rallentare a sufficienza! Ci schianteremo ugualmente!” La voce di Daisuke vibrò disperata nei comunicatori di Koji ed Hikaru.
“Daisuke, coraggio! Koji! Dobbiamo aiutarlo!” gridò lei.
“Sì! Ma come facciamo?” si sentì di rimando.
“Koji!” Era lui, la voce rotta dalla tensione, ma decisa. “Koji, ascolta! Mi sgancerò dallo Spacer, tu verrai sopra di me. Al mio segnale, dovrai tentare un agganciamento a volo radente. Appena agganciato azionerai le turbine sub-alari di contrasto. Forse in due riusciremo a frenare abbastanza. Io non potrò manovrare. Siamo nelle tue mani!”
“Ricevuto!” Maria…! Daisuke…! Maria…! Daisuke…! In quei pochi secondi il ragazzo si ripeté i loro nomi infinite volte, mentre il sudore gli imperlava la fronte.
Grendizer, aggrappato al disco veghiano, apparve sfrecciando verso la superficie terrestre. Koji era già in posizione.
Daisuke ordinò: “Koji! Ora!”
“Double Spacer! Agganciamento!” I due corpi divennero uno.
Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Koji, quasi incredulo, continuò la manovra.
“Turbine di contrasto! In azione!”
La superficie era ormai vicinissima, ma le forze frenanti di entrambi i mezzi combinate tra loro produssero l’effetto sperato. Non erano più un proiettile fuori controllo. I valori altimetrici decrescevano a velocità compatibile con la sopravvivenza. Ancora pochi secondi e sarebbe avvenuto l’impatto.
“Raggio antigravità!”
Fu l’estremo tentativo di attutire gli effetti del colpo. Finalmente, l’enorme struttura composita toccò terra, lasciando dietro di sé una scia di alberi spezzati. Proseguì la sua corsa ancora per qualche centinaio di metri, poi si fermò.
Koji e Hikaru esultarono. Anche Daisuke, stremato, diede un grido di gioia. Lasciò passare qualche secondo, cercando di placare l’affanno. Maria! Dovevano liberarla subito!
“Koji! Sgànciati, adesso!”
“Ricevuto!”
Il Double Spacer si staccò da Grendizer e si posò poco lontano. Intanto il robot estrasse le mani dal disco veghiano. Non sembrava vi fossero segni di vita all’interno. Decisero di penetrare nella cabina di pilotaggio, che sporgeva dalla corazza ovoidale. Daisuke lasciò i comandi di Grendizer e raggiunse in due balzi la testa del mostro; di lì lanciò un cavo a Koji e ad Hikaru. Lentamente anche i due giovani lo raggiunsero. Il vetro della cabina non era esploso, ma l’urto l’aveva ridotto ad una ragnatela fittissima di incrinature. Una lieve pressione bastò a farne crollare una parte e ad entrare.


Sono viva. Sono viva! La vertigine della caduta era cessata. Aveva riaperto gli occhi; davanti a lei il cadavere dell’aguzzino. Sono rimasta in vita per vendicarti, figlio mio. Il rumore del vetro in frantumi ebbe l’effetto di una frustata: scattò in piedi, impugnando l’arma con entrambe le mani protese in avanti.


La scena che si presentò ai loro occhi all’interno era orrenda: un cadavere sfigurato giaceva supino, con le braccia spalancate, riverso in una pozza di sangue. Hikaru sgomenta si portò una mano alla bocca. Riuscirono a muovere appena un passo, nel silenzio gravido di minaccia.


Eccoli! “Duke Fleed! Muori!”
“Giù!” gridò Daisuke ai compagni. Spiccando un balzo, schivò il colpo e piombò addosso al nemico, facendo saltare la pistola dalle sue mani. Una donna! Cercò di immobilizzarla spingendola a terra, ma lei lottava selvaggiamente. Mentre Daisuke tentava di tenerla ferma senza colpirla, lei si divincolò dalla stretta. Vi fu un guizzo d’acciaio, poi una sensazione di umido e caldo.
“Ah!” Daisuke si portò la mano al fianco e la ritirò rossa di sangue. La donna scattò in piedi e prese a infierire con furia diabolica sul ragazzo ancora in ginocchio. “Maledetto Duke Fleed! Prendi! Prendi!” Ogni fendente, un urlo agghiacciante: “Per mio marito! Per Ains! Per i ragazzi! Muori! Muori!” Preso alla sprovvista, Daisuke cercò di ripararsi il volto, tendendo le mani in avanti, sopra la testa.
“Daisuke!” gridò Koji e, piombandole addosso da dietro, la tramortì colpendola forte alla testa. La donna scivolò a terra esanime, davanti a loro.
“Oh Daisuke! Sei ferito!” urlò Hikaru.
“No, no… è superficiale. Maria! Dobbiamo trovare Maria!” il giovane si rialzò ansimando. “Avanti, andiamo a cercarla!” Dovette appoggiarsi per un momento con la schiena alla parete e riprendere fiato. Hikaru gli si fece vicina.
“Sei sicuro?”
“Sì. Non preoccuparti. Andiamo!” ordinò stringendo i denti e tenendo la mano premuta con forza sul fianco.
Muovendosi con circospezione trovarono l’ascensore.
“Di qua!” disse Koji. Arrivarono presto nella stanza all’altezza del petto del mostro. I pulsanti di comando erano in evidenza. Li premettero subito e la parete di fondo cominciò a ruotare. Si udì un debole lamento.
“E’ lei!”
Appena la fessura si allargò a sufficienza, Koji vi penetrò.
“Resisti, Maria! Siamo qui!”
Lei volse il capo verso la voce ben nota: “Koji!” mormorò. Ancora un poco e si ritrovarono entrambi dentro la stanza. Koji imprecò tra sé, esaminando gli anelli che le serravano polsi e caviglie. Dannazione! Acciaio! Senza giunture o cerniere. Hikaru, intanto, armeggiava febbrilmente sui pulsanti del quadro comandi; finalmente, quattro scatti secchi, in sequenza rapida. La sciolsero subito; Maria si afflosciò tra le braccia del giovane che la sollevò con facilità.
“Koji! Dobbiamo andare! Daisuke continua a perdere sangue!” Hikaru si passò il braccio di lui intorno alle spalle e con il proprio gli circondò il fianco per aiutarlo a camminare.
Fecero il percorso a ritroso e riguadagnarono la cabina di pilotaggio. Ma… la donna che poco prima li aveva attaccati era sparita!
“Maledizione!” imprecò Koji “Dovevamo legarla!” Si guardò intorno tentando di capire dove si fosse nascosta.
“Koji! Ora non c’è tempo, Daisuke sta male!” lo incalzò Hikaru “Andiamo via!”
“Sì!”
Uscirono dal mostro e si avviarono a fatica verso i loro mezzi. Quando furono sotto Grendizer, Koji si voltò a guardare l’amico: “Daisuke, sei in grado di pilotare?”
“S…sì” la voce era un soffio “Cercherò…di…farlo…” impallidì repentinamente. “Portatemi…” non poté continuare: piegò le ginocchia e scivolò a terra svenuto.
“Koji! Non riesco a tenerlo!” si disperò Hikaru.
Koji adagiò Maria sul secondo sedile del Double Spacer, poi aiutò Hikaru ad issare Daisuke sul Delfino Spaziale.


Dal folto del bosco la donna vide i due mezzi ausiliari di Grendizer alzarsi in volo. Uno di essi aveva agganciato con i cavi d’emergenza il robot di Duke Fleed e lo trascinava via inerte, evidentemente privo di guida.
Duke Fleed… cominci ad avere quello che meriti… ti ho ridotto già così male da impedirti di pilotare quel tuo mostro cornuto… Ma ti ritroverò e… ti finirò! Ah, figlio! Avevi ragione: Duke Fleed è un vile, è bastata una donna ad abbatterlo… E poi ritroverò anche te, Ains! Ti raggiungerò… e non ti lascerò mai più… mai più… mai più…
Rimase nascosta fino al calare del sole, poi, quando fu sicura di non essere vista, corse verso il disco-mostro e si introdusse nella cabina. Il cadavere era ancora lì, orribile. L’occhio rimasto intatto spiccava biancastro nella penombra del tramonto, spalancato in un’espressione stupita. Cane! Hai avuto anche tu quello che meritavi! Si voltò in fretta rabbrividendo e cominciò a scavare freneticamente nel caos della cabina di pilotaggio. Devo trovare le mappe. E del cibo. Mentre si chinava per aprire lo sportello delle scorte alimentari, urtò con il piede contro qualcosa di duro. Si illuminò. La pistola laser! Figlio mio, verrò presto!
Stava ormai per abbandonare il robot, quando un rumore improvviso la fece sobbalzare: veniva dallo schermo del comunicatore: “Comandante Staigar! Risponda! Comandante Staigar! Qui base Skarmoon. Mi sente? Passo.”
“Qui mostro di Vega Gorig. Vi ascolto.”
“Staigar! A rapporto!” La voce di Lady Gandal si era sostituita a quella del soldato addetto alle comunicazioni. Vibrava di gelida ira.
“Il comandante Staigar è morto respingendo l’assalto di Duke Fleed e dei suoi complici” si sentì rispondere dalla Terra.
Gli occhi di Lady Gandal divennero due fessure. Si sforzò di capire che cosa fosse accaduto realmente. Messa da parte ogni cortesia, squadrò sospettosa la donna che le aveva parlato a testa alta, senza alcun timore, e la interrogò sprezzante: “Tu! Perché sei sopravvissuta?”
“Mi sono nascosta. Ma al momento opportuno sono riuscita ad attaccare e ferire Duke Fleed”.
Lady Gandal fremette. Maledetta, se stai osando ingannarmi… quando sarai di nuovo qui, ti farò pentire di queste menzogne! “Molto interessante. E l’ostaggio dov’è?”
“L’hanno liberato.”
“Devi ritrovare quella ragazza, ad ogni costo!”
“E’ anche il mio scopo.”
“Hai questa notte e la prossima. Dopodomani, prima dell’alba, sarai rilevata da un ricognitore sotto copertura anti-radar. Non tornare senza l’ostaggio!”
La donna si inchinò in silenzio, mentre la comunicazione si interrompeva.
Lady Gandal… Troverò la ragazza, ma non la consegnerò certo a te. La userò io… Duke Fleed, se rivorrai tua sorella, dovrai ridarmi mio figlio!

-continua-

2 a 0 per la mamma :asd: . Se qualcuno ha piacere di commentare... https://gonagai.forumfree.it/?t=71687755&st=180#lastpost
 
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-capitolo 10-

“Il colpo non ha leso organi vitali; lo svenimento è stato provocato dalla perdita improvvisa di sangue, ma ora l’emorragia è del tutto cessata. I valori sono buoni, deve solo stare a riposo per qualche giorno.”
Il bollettino di Mizuguchi fu accolto da tutti con evidente sollievo. Il professor Umon, Hikaru, Koji, Maria si sorrisero intorno al letto di Daisuke. Una fasciatura vistosa gli attraversava l’addome, comprimendo una benda sul fianco sinistro. Il respiro era regolare. Dormiva.
“Ragazzi, andate a riposare anche voi” li invitò Umon. “Specialmente tu, Maria.” Tranne un forte spavento, la ragazza non aveva subito traumi.
“Sì professore.” Mentre si dirigeva alla porta, Maria si voltò verso Koji, fissandolo. Lui la seguì, ostentando l’aria più disinvolta del mondo: “Arrivederci professore, ciao Hikaru.”
Hikaru aveva accostato al letto una sedia. “Io rimarrò ancora un po’ qui, professore.”
Umon le mise una mano sulla spalla e gliela strinse appena: “Va bene, ma poi devi riposare anche tu. Finché Daisuke non potrà pilotare, non avremo altra difesa che i vostri tre mezzi…”
Raggiunte le moto, Koji e Maria decisero di usarne una sola. La voce del ragazzo risuonò ferma: “Lascia guidare me”. Lei lo guardò di sfuggita, da sotto in su; poi, senza dir nulla, salì sulla moto dietro di lui. Gli allacciò le braccia alla vita e si abbandonò spossata contro le sue spalle forti. Si avviarono senza fretta verso la fattoria.


La notte era luminosa e quieta. Di tanto in tanto si udiva il richiamo di un gufo.
Un’ombra scivolò furtiva sul balcone che correva lungo la facciata maggiore dell’edificio; lo ispezionò attentamente, finché trovò una portafinestra socchiusa. Si introdusse leggera, trattenendo il respiro. La stanza era vuota, disadorna quasi. Al centro del letto era appoggiata una chitarra.
Accidenti…
L’ombra uscì nel corridoio e passò in rassegna le porte, una per una. Anche la stanza accanto era vuota, vi regnava un raro disordine: diverse tute maschili e caschi da motociclista erano sparsi sul pavimento.
Dove sei Maria Fleed?
Aprì con estrema cautela ancora altre porte. Un vecchio… Un bambino… tutti immersi nel sonno. Un’altra stanza vuota, vi aleggiava il sentore di un delicato profumo. Restava l’ultima porta. L’ombra vi penetrò.
Maledizione! Sono in due.
La luce lunare illuminava distintamente i volti sereni della principessa di Fleed e del suo compagno, abbracciati nel sonno.
La sensazione di pericolo fu improvvisa, acuta come una coltellata. “Koji! No!” Maria lo spinse con forza tale, da farlo rotolare sul pavimento, mentre un lampo squarciava la penombra. Una striatura fumante si disegnò sul letto, nel punto in cui un istante prima era il ragazzo.
“Maria! Stai giù!” Vi fu ancora un sibilo, a vuoto. Koji strisciò fulmineo verso il nemico. Notò che poggiava i piedi sul tappeto: uno strattone feroce e l’assalitore piombò a terra; la pistola laser gli sfuggì di mano. In un attimo il ragazzo gli fu sopra e colpì all’impazzata nell’oscurità, finché non percepì più resistenza alcuna.
“E’ finita, Maria. Non c’è più pericolo.” Koji si rialzò ansimando. “Accendi la luce, per favore.”
“Oh, Koji!” la ragazza si lanciò ad abbracciarlo. “Sei ferito?”
“No. Sto bene. Ti devo la vita!” Lei lo strinse più forte, premendo la fronte sulla sua spalla: “Come io la devo a te!”
Di colpo, il medesimo pensiero li fece trasalire. Si voltarono contemporaneamente in direzione del corpo riverso a terra.
“E’ la donna che ci ha attaccato nel mostro di Vega” disse Koji, affrettandosi a legarla.
Anche Maria le si avvicinò e le si inginocchiò accanto, per guardarla meglio. “Mio Dio, Koji!” disse, coprendosi la bocca con la mano. “Mio Dio!” quasi gridò, senza riuscire a staccare gli occhi dalla donna svenuta.
“Maria! Stai bene? Maria!”
La ragazza sembrava in trance. Il giovane cercò di scuoterla, afferrandola per le spalle.
Una visione agghiacciante stava irrompendo nella sua mente: il giovane veghiano, bambino, ma si trattava sicuramente di lui, tendeva le mani cercando di afferrare le sue, mentre una forza oscura lo risucchiava lontano.
Mamma, mamma, mamma!
Ains, figlio mio! Ains!
Koji riuscì a strapparla dal pavimento e a farla rialzare. Lei lo guardò stralunata: “Mio Dio, Koji! E’ la madre!”
“Che dici? La madre di chi?”
“E’ la madre del ragazzo veghiano” sussurrò Maria, senza riuscire a staccare gli occhi da lei.
“Come puoi dirlo?”
“Lo sento! L’ho sentito anche in questo momento.” Si sedettero sul letto uno accanto all’altra. “Koji, io… la conoscevo già. L’avevo vista mentre vegliavo il ragazzo, quando era all’infermeria del Centro Ricerche.”
Maria rabbrividì. In quel momento si rese conto di avere addosso solo un lenzuolo. Se lo avvolse più stretto arrossendo violentemente. Anche Koji si guardò intorno grattandosi nervosamente la nuca, finché avvistò gli abiti che aveva lasciato cadere lì accanto, la sera prima. Se li infilò in tutta fretta.
“Koji, ti prego, dobbiamo aiutarla.”
“Maria, stava per uccidere tuo fratello! E ora, c’è mancato poco, anche me.”
“Dobbiamo parlarle. Lei… non è nostra nemica. E’ venuta qui a cercare suo figlio. Ne sono sicura!”

***



Il lavorio mentale lo teneva impegnato, gli impediva di sprofondare nella disperazione. Di alcuni fatti era sicuro: era un soldato, un soldato di Vega. Era stato mandato in missione insieme ai suoi amici, ma adesso era rimasto solo. Era sopravvissuto all’attacco nemico.
Altri erano solo speranze: forse anche i suoi compagni erano sopravvissuti ed ora erano tenuti prigionieri da qualche parte. Devo trovarli, devo riunire la squadra! Dobbiamo compiere la nostra missione!
Pensieri di questo genere lo agitavano molto. A volte cercava perfino di alzarsi, ma i dolori lancinanti che ogni minimo movimento gli infliggeva lo riportavano di colpo alla realtà.
Il resto erano sensazioni: pericolo, orrore, ma anche… uno strano senso di pace. Non sapeva spiegarselo, gli era rimasta impressa una percezione, come il calore di una carezza che non lo aveva mai abbandonato, mentre giaceva incosciente.
Ciò che proprio non ricordava era il passaggio finale. Non riusciva a capire come fosse arrivato dov’era. La mente provava a forzare quella barriera, ma per quanto cercasse di penetrarla, non scorgeva spiragli di luce attraverso la nebbia fittissima.
Un pomeriggio, poco tempo dopo il giorno che aveva pianto in presenza delle infermiere, la porta della stanza, alla sua sinistra, si aprì all’improvviso, in un orario fuori del consueto. Non erano i soliti due. Stavolta erano venuti in forze! Ains si spaventò.
Che vogliono farmi?
Quello che pareva il più anziano e autorevole gli si avvicinò e lo scrutò attentamente: “Ragazzo!” L’espressione era affabile. “Ragazzo! Puoi comprendermi?” L’uomo si sedette accanto al suo letto; gli altri rimasero in piedi, circondandolo attenti. Passò qualche istante.
Basta! Basta fuggire! Se devo morire, lo farò a testa alta. Ains raccolse tutte le forze e cercò di parlare con decisione. Si udì emettere un filo di voce, in una lingua ignota: “Chi siete? Che volete da me?”
Un mormorio di sorpresa accolse quelle parole. Erano meravigliati che lui potesse capirli; sembravano anche contenti. L’anziano riprese: “Ragazzo, sei gravemente ferito. Qui ti stiamo curando.” Ains rimase in silenzio. “Sei stato a lungo incosciente, ma ora stai molto meglio. Tra poco dovremo ancora operarti.” A quelle parole gli si dipinse sul volto una smorfia di orrore; il pensiero volò agli esperimenti medici che aveva visto su Vega.
Lo sapevo! Lo sapevo! Gridò disperato: “Io sono un soldato! Ammazzatemi subito!”
I presenti sobbalzarono: nessuno rise, nessuno lo insultò. Si limitarono a guardarsi l’un l’altro perplessi. L’anziano lo studiò per un poco, poi con un cenno ordinò agli altri di uscire. Quando tutti ebbero lasciato la stanza, gli si fece più vicino. Appoggiò la mano sinistra sopra quella di Ains; il tocco era leggero, amichevole: “Ragazzo, non avere paura. Io solo conosco la tua identità: ti voglio aiutare.” Ains lo guardò incerto. Con tutte le forze voleva credere a ciò che sentiva, ma come poteva fidarsi? L’uomo continuò: “Ora ti trovi sulla Terra; sei scampato miracolosamente al rogo della tua nave spaziale. E’ necessario operarti di nuovo per guarire le ustioni; se aspetteremo troppo, sarà tutto inutile.”
“Tu menti!”
Ains si pentì subito di aver parlato in quel modo imprudente, ma ormai si era scoperto, così continuò: “Com’è possibile? Chi mi ha portato fin qui?” L’altro lo fissò con sguardo grave, poi disse pacato: “Tu sei venuto fin qui per uccidere un uomo. Lui ti ha salvato.” Ains sgranò gli occhi. Il medico si alzò e fece per andarsene, ma il ragazzo cercò di trattenerlo. Fu un attimo appena, poi l’uomo concluse: “Riposa ora e abbi fiducia: cercheremo di curarti il meglio possibile”.
La porta gli si richiuse alle spalle con uno scatto leggero.


Uccidere un uomo… uccidere un uomo… sono venuto qui per uccidere un uomo… Dalla nebbia informe cominciarono a emergere volti, suoni, parole: i discorsi del comandante Dagil, i suoi ordini… gli amici sgomenti che lo guardavano increduli e guardavano qualcun’altro dietro di lui, molto vicino… la propria stessa voce: “Non pensate a me! Uccidetelo! Eliminatelo! Eliminate Duke Fleed!” Il nome gli deflagrò nella testa. All’improvviso tutto si illuminò di luce accecante. Ricordò ogni particolare: tutto quello che Duke Fleed aveva fatto, ogni gesto, ogni parola e, soprattutto, il suo sguardo! Ricordò anche il dubbio tormentoso dell’ultimo istante: “Perché non mi ha ucciso?”
Ains scoppiò in un pianto dirotto. Si aggrappò con furia alle lenzuola, cercando di provare meno dolore possibile, mentre i singhiozzi gli squassavano il corpo ferito e un pensiero si agitava ossessivo, nella mente tornata di colpo alla lucidità: “Lui mi ha salvato… lui mi ha salvato!” Il ricordo dei suoi compagni, di tutti coloro che aveva amato e di quell’ultimo amico, che non aveva riconosciuto, gli straziava il cuore e le viscere.
Pianse a lungo, finché fu vinto dalla stanchezza.

***



Hikaru si stirò infreddolita. Brrr… è quasi l’alba. Si guardò intorno assonnata. Solo allora si rese conto di non aver ancora lasciato l’infermeria, dalla sera prima. Aveva appoggiato un momento la testa alle braccia, sul letto di Daisuke, e alcune ore dopo si era risvegliata nella medesima posizione. Per fortuna, Daisuke continuava a dormire. Si preparò ad uscire nel freddo notturno avvolgendosi in una coperta. In quel momento, sentì arrivare qualcuno.
“Koji, Maria! Che ci fate qui a quest’ora?” bisbigliò. Ebbe un sussulto, quando si accorse che non erano soli.
“Presto! Chiama il dottore!” disse piano Koji, mentre posava sul divano un grosso fagotto, da cui fuoriuscivano lunghi capelli neri.

-continua-

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-capitolo 11-

Con l’aiuto del medico la donna fu adagiata su un altro lettino. Dopo un controllo sommario, Mizuguchi cominciò a medicarle le lacerazioni sul volto. “Mmhm… che brutti colpi. Chi può averla picchiata?” Koji a testa bassa mostrò le mani al dottore: le nocche erano livide. “Dottore, mi dispiace, ho dovuto. Purtroppo… è pericolosa. E’ lei che ha ferito Daisuke e ha cercato di uccidere anche noi! Forse dovremmo legarla.”
Il medico sospirò: “Capisco. Aspettiamo e vediamo come si comporterà, quando riprenderà conoscenza. Poi, se necessario, la legheremo. Rimarrò io a vegliarla.”
“Rimarremo anche noi, dottore!” esclamarono i tre ragazzi, sedendosi stretti sul piccolo divano in fondo alla stanza.
Cadde il silenzio, interrotto solo dal respiro regolare di Daisuke e dall’affanno leggero della donna. I tre scivolarono in un sonno pesante, mentre Mizuguchi restò di guardia.


“Ains, figlio! Ains, aspettami! Ains… Ains… sono qui.”
Chi è? Chi sta parlando? Daisuke si mise a sedere sul lettino. Quella voce flebile e incerta lo aveva svegliato. Una fitta al fianco sinistro gli ricordò cos’era successo il giorno prima. Decise comunque di alzarsi: doveva capire.
Dalla parte opposta della stanza vide il dottor Mizuguchi in piedi, intento ad assistere qualcuno. Il medico si voltò sorpreso: “Daisuke! Devi stare a riposo!” Il giovane gli era comparso accanto silenziosamente. Gettò uno sguardo alla donna: delirava in preda alla febbre.
“Chissà cosa dice?” si chiese il medico pensieroso.
“Chiama suo figlio.” Daisuke comprendeva perfettamente il veghiano, ma qualcosa lo lasciava ugualmente interdetto.
Il medico somministrò un antipiretico. “Tra poco dovrebbe sfebbrare.”
Daisuke continuò a fissarla, cercando di decifrare il motivo della propria perplessità.
“Duke Fleed…” il tono si fece più forte, rabbioso: “Maledetto! Hai ucciso mio figlio!” La donna scosse più volte la testa a destra e a sinistra, smaniosa. Sollevandosi leggermente dal cuscino gridò, poi ricadde affannata.
Daisuke si portò le mani alle tempie. Che dici? Che dici? Io non ho ucciso tuo figlio! Ma tu… chi sei? Da dove vieni?
Svegliàti dal grido, i tre ragazzi si erano avvicinati in punta di piedi ed erano rimasti a guardare in silenzio, dal fondo del letto.
“Ains, figlio mio… Ains!”
Di nuovo quella cantilena… Un momento: la cantilena! Daisuke rialzò il capo con un lampo negli occhi. L’accento! Quell’inflessione! Tu sei fleediana!
Provò una commozione profonda al riconoscere quella cadenza. Da tanto tempo, ormai, la sua lingua risuonava solo nei sogni della sua giovinezza o nelle orrende visioni dello sterminio di Fleed. Allora era morta e ancora una volta era morta con Naida. Certo, Hikaru la comprendeva e la parlava anche; l’aveva voluta imparare per stargli vicina, per farlo sentire meno solo, ma… non era la sua lingua materna!
Daisuke afferrò di getto una mano della donna tra le sue: “Chi sei?”
Lei non poteva ancora sentirlo, così le rimase accanto in attesa, seduto sulla sponda del letto.
“Daisuke, che cosa succede?” chiese Hikaru stupita, a nome di tutti. “Cosa sta dicendo?”
“Questa donna è fleediana!” esclamò Daisuke “E sta dicendo… che ho ucciso suo figlio” concluse accigliandosi.
“Duke!” Maria si fece avanti tremante: “Lei lo crede davvero! Lei… è la madre del ragazzo veghiano.”
La febbre ormai era calata. Adesso la donna era tranquilla. Passò ancora qualche minuto e finalmente aprì gli occhi: due enormi stelle buie; pozzi di nero dolore smarriti in un volto che si intuiva attraente, pure segnato dalle percosse. Lentamente mise a fuoco: un giovane uomo le sorrideva. Stringendole forte la mano, le stava chiedendo il suo nome.
Era bello. E parlava nella sua lingua. Ma la voce profonda non graffiava, non era tagliente. Tutt’altro: era una carezza! Parlava come sua madre.
“Mi chiamo Leyra.”
“Leyra, guardami!” I loro sguardi si incontrarono: quello di lei, sospeso in una muta domanda; quello di lui, intenso, di un calore rassicurante. “Tuo figlio è vivo!”
Le parole, come una scudisciata. Che diceva quel pazzo? Che stava dicendo? Scattò a sedere sul letto. La stava ingannando! Com’era possibile? Ancora una volta, qualcuno la stava ingannando!
Mamma, mamma, mamma! Di nuovo, la tortura di quel lamento straziante.
Si aggrappò alla sua mano ruggendo: “Ti prego, ti prego! Se stai mentendo, uccidimi ora! Io… io… non sopporto più nulla!” concluse con un filo di voce.
Dal fondo del letto, Maria intuì; anche lei le corse vicino, dal lato opposto a quello dov’era Daisuke, e le afferrò l’altra mano: “Leyra, puoi crederci! Ains è vivo e ti ha sempre aspettato! Io l’ho visto e … ho parlato con lui! Ora lo stanno curando.” La donna fu scossa dal tono accorato di quelle parole, ma ne comprese il senso solo dopo che il giovane le ebbe ripetute in veghiano.
Ains… Aveva detto il suo nome! Ains! Come poteva conoscerlo? Allora era vero, forse era vero! Non l’avevano ucciso! La guardò meglio: la principessa di Fleed! E l’altro? Fissò prima lei, poi lui, poi entrambi più volte. Gli stessi occhi… si somigliavano! Allora lui è… Duke Fleed!
“Ti porteremo da lui!”
“E’ in un luogo sicuro…”
“… lo stanno curando…”
Le voci dei due giovani si accavallavano; non afferrava tutto ciò che dicevano, le parole della ragazza non poteva nemmeno comprenderle, ma quasi non li ascoltava: più forte di tutto continuava a sentire il suo nome. Il desiderio che fosse vero era insopportabile: vivo! L’hanno risparmiato… lo stanno curando… ma allora?!? D’improvviso si accorse con orrore dei tagli sulle mani che stava stringendo e in un lampo rivide le proprie, sporche di sangue.
“Principe!” la commozione le serrò la gola: “Perdono!”
Poté pronunciare quella sola parola; poi nascose il volto tra le mani del giovane, vi appoggiò la fronte, le baciò, scossa dai singhiozzi. Infine, si abbandonò a lungo all’abbraccio dei due fratelli.


“Professore, una chiamata da Hokkaido!”
“Grazie, Yamada. Passala nel mio studio e avverti subito il dottor Mizuguchi.”
Umon raggiunse in fretta lo studio.
“Buon giorno, professor Umon.” Era il chirurgo in persona; mentre cominciava a parlare, entrò Mizuguchi; Umon avvertì l’interlocutore e passò al viva voce. “Buon giorno anche a te, Yoshi!” si animò l’altro, sentendo l’amico.
Finalmente era arrivato il momento. I preparativi in vista dell’operazione decisiva erano stati completati; dopo di essa, se tutto fosse andato bene, il ragazzo avrebbe potuto lasciare l’isolamento e avviarsi a riprendere una vita quasi normale. Bisognava procedere in fretta. Fu deciso di raggiungere Hokkaido in serata, per essere pronti l’indomani per l’intervento. Sarebbero andati Koji e Maria. Daisuke si stava riprendendo a fatica dalla ferita al fianco: non avrebbe potuto assolutamente donare altro sangue. Inoltre, non sarebbe stato prudente sguarnire troppo il Centro Ricerche.
Umon chiamò i ragazzi per informarli. Maria scattò in piedi entusiasta: “Oh, professore! Dobbiamo subito dirlo a sua madre!”
Il professore rimase perplesso, d’istinto cercò lo sguardo di Daisuke.
“E’ così, padre. Si trova in infermeria. E’ la donna che ci ha attaccato all’interno del mostro di Vega. Questa notte ha tentato di nuovo di rapire Maria, ma non è nostra nemica. Avrebbe voluto solo riprendere il corpo del figlio, ma ora lo riabbraccerà vivo!” concluse, felice anche lui. Poi aggiunse: “Padre, credo di dover essere io ad accompagnarla.”
Umon riflettè alcuni istanti: “Ieri ha cercato di ucciderti.”
“Era fuori di sé. Ora… è diverso!” Si voltò verso i compagni: tutti annuirono convinti, anche Hikaru.
Il professore li guardò uno ad uno: erano raggianti. Tutti, anche Koji!
“Bene” concluse. Poi, con entrambe le mani appoggiate alla scrivania, si alzò. “Koji, Hikaru, voi rimarrete al Centro Ricerche.”
“Sì, professore!” risposero i due.
“Maria, tu andrai con la Trivella Spaziale, stasera stessa. Se sarà necessario, donerai il sangue e appena sarai in grado di pilotare, tornerai indietro.” La fissò serio.
“Sì, professore” rispose lei a malincuore. Avrebbe voluto restare vicina al ragazzo, ma chinò il capo obbediente.
“Mi fido di te” concluse Umon, prima di rivolgersi di nuovo al figlio.
“Daisuke, tu accompagnerai la donna. Andrai domani all’alba e tornerai il prima possibile.” Gli mise le mani sulle spalle e lo guardò in viso: “Promettimi che non commetterai imprudenze. Le tue energie sono preziose per tutti.”
Anche Daisuke chinò il capo: “Sì, padre.” Poi lo rialzò e confermò le parole con uno dei suoi rari, emozionanti sorrisi. Umon gli strinse affettuosamente le spalle: “Andate!”


“Ricognitore anti-radar a base Skarmoon! Mi sentite? Passo.”
“Siamo in ascolto.”
“Il punto di incontro è deserto. Il momento convenuto è passato da oltre due ore. Attendiamo istruzioni. Passo.”
Maledetta! Hai tradito!
“Incapaci!” la voce di Lady Gandal sferzò l’equipaggio del ricognitore.
Ma non credere di sfuggirmi. Ti troverò prima di quanto pensi e allora… avrai il destino dei traditori!
“Cosa risulta dalla scansione ravvicinata?” continuò bruscamente la donna.
“Danni superficiali alla cabina di pilotaggio e al rivestimento esterno, in corrispondenza delle due estremità dell’asse mediano. Struttura portante integra. Armi d’attacco efficienti!” risposero dal ricognitore.
“Bene!” esclamò soddisfatta la moglie del generale. “Ricognitore! Rientro immediato! Mostro di Vega Gorig! Comando remoto!” Dal momento in cui i biosensori cessavano di rilevare onde cerebrali all’interno della cabina, era possibile attivare quella modalità: un’utile alternativa all’autodistruzione, per i veicoli che cadevano in territorio nemico, purché i danni subiti non fossero ingenti…
Improvvisamente il disco-mostro si scosse; i residui detriti della calotta della cabina di pilotaggio piombarono a terra, ma il fragore dei cristalli in frantumi fu coperto dal rombo di accensione del motore. L’immensa struttura cominciò a vibrare con sempre maggiore potenza, poi prese a ruotare vorticosamente su se stessa, finché riuscì a liberarsi dalla voragine prodotta nel terreno dalla sua stessa caduta. Infine, si alzò in volo.
“Mostro di Vega Gorig! Dirigiti verso la base di Grendizer! Costringilo a uscire e attacca senza pietà!” gridò Lady Gandal.
Il Centro Ricerche entrò rapidamente nel raggio d’azione del mostro.

***



L’operazione era iniziata all’alba e procedeva senza imprevisti; il ragazzo sopportava bene lo stress. L’intervento era giunto ormai in una fase piuttosto avanzata, quando si era resa necessaria la trasfusione. In quel momento era terminata da poco e Maria si era già ripresa perfettamente. Sarebbe dovuta partire subito, invece stava indugiando. Era più forte di lei, non aveva certo intenzione di disobbedire al professore! Non sarebbe rimasta a lungo, solo qualche ora in più, forse neanche: appena il tempo di attendere il termine dell’operazione o almeno di ricevere le prime notizie.
Rimase seduta nel corridoio davanti alla sala operatoria, da sola. A poca distanza, un’infermiera intenta a compilare blocchi di moduli le lanciava ogni tanto un’occhiata distratta. I minuti scorrevano lenti, sembravano ore. Finalmente, non avrebbe saputo dire dopo quanto, il chirurgo uscì, seguito da alcuni collaboratori. Maria accorse impaziente. Tra i più giovani, si era accesa una conversazione vivace: “Sai, Ishimori, finalmente quest’anno andrò in vacanza lungo il corso dello Shonai: due settimane in tenda. Pare che si peschino trote magnifiche da quelle parti!”
“Beato te! Mia moglie non sopporta il campeggio… Credo che dovrò rassegnarmi all’ennesima estate in campagna dai suoceri” rispose Ishimori abbattuto.
Maria faticò un poco a conquistare l’attenzione di uno di loro, ma infine ottenne le notizie desiderate: tutto era nella norma; l’avevano già spostato nell’apposita sala, dove l’anestesista aveva cominciato a monitorare il risveglio.
“Oh, professore! Grazie! Grazie!” esclamò la ragazza felice, correndo avanti fino alla testa del gruppo, per rivolgersi direttamente al chirurgo. Il medico sorrise bonario, leggermente sorpreso dall’irruenza di quella... bambina. Maria arrossì confusa, poi si mise a cercare le parole adatte per chiedere qualcosa di più: “Professore…”
In quell’istante la sirena dell’emergenza lacerò l’aria.

-continua-

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-capitolo 12-

I discorsi sulle vacanze imminenti si interruppero immediatamente e i medici tornarono indietro di slancio. Quando le porte della sala di risveglio si richiusero alle spalle dell’ultimo, Maria rimase sbigottita all’esterno. Le si rovesciò addosso una sensazione di minaccia mortale. No, no, non ora! No! In preda all’angoscia, ricadde seduta sulla panca.


“Che succede?”
“Il cuore! Una crisi!”
Il rianimatore lottava accanto a lui senza tregua.
“Ha bisogno di sangue!”
Maledizione! Il chirurgo si torse le mani. La ragazza non reggerà. Devo parlare con Yoshi! Uscì di corsa dalla sala: “Infermiera! Chiami immediatamente il dottor Mizuguchi!”
La comunicazione fu passata con urgenza al Centro Ricerche.

***



Lo Spacer ruotava lentamente, agganciato alla piattaforma girevole. La donna dietro di lui era tesa. Si reggeva stretta ai braccioli della poltrona, ad occhi chiusi, cercando di tenere sotto controllo il respiro.
“Coraggio!” la rassicurò Duke Fleed. “Tra poco sarai da lui.”
La voce di Hayashi si diffuse nell’abitacolo: “Uscita sette, pronta!”
“Ricevuto!”
Grendizer cominciò la discesa verso l’uscita indicata.
Di nuovo quell’accelerazione tremenda! La donna strinse i denti e serrò con più forza i braccioli. Ma questa volta non provò alcuna oppressione: anzi, le sembrò di volare! Aprì gli occhi: la velocità era incredibile e aumentava sempre di più; avevano superato in un lampo un lungo corridoio in cemento; ora stavano attraversando l’oscurità di una grotta. La corsa proseguì ancora; finalmente, in lontananza, un ovale di luce. Ebbe l’impressione di stare per schiantarsi contro una lastra di ghiaccio: le sfuggì un grido! Di colpo, oltre la cascata, furono proiettati nel cielo.
“Daisuke!” Appena usciti dal fianco della montagna, la voce di suo padre li raggiunse preoccupata: “C’è un’emergenza! Il ragazzo ha bisogno urgente di sangue! Maria glielo ha già donato, possiamo tentare solo con sua madre! Dovete arrivare al più presto! Utilizza la velocità fotonica!”
La donna percepì la tensione: “Che sta succedendo?” chiese esitante.
“Tuo figlio è in pericolo” le rispose Duke Fleed.
“Che cosa succede?” gridò disperata.
“Ha urgente bisogno di una trasfusione! Solo tu puoi tentare! Dobbiamo arrivare al più presto!” E sperare che anche il tuo sangue sia compatibile.
“Daisuke, presto!” era di nuovo suo padre.
“Verifica livello energetico: completata!” disse Daisuke deciso.
“Inserimento velocità fotonica…” Non ebbe tempo di terminare la procedura.
“Daisuke, attento! Sopra di te!” gridò suo padre. Una raffica di proiettili al vegatron li colpì dall’alto.
Il ragazzo gridò. Con una brusca cabrata Grendizer riuscì ad uscire dal tiro; si capovolse e si portò al di sopra del disco veghiano. Daisuke poté osservarlo per alcuni istanti. Dannazione! Credevamo che fosse fuori uso! La donna impallidì mortalmente: “Staigar!” mormorò con un filo di voce.
“Pioggia di fuoco!” Dallo Spacer il colpo raggiunse il disco nemico, facendolo sbandare vistosamente. Evitando di un soffio l’avvitamento, questo cominciò comunque a perdere quota. Grendizer tornò all’assetto di volo normale.

***



Infuriata, Lady Gandal batté un pugno sulla consolle di comando: “Mostro di Vega Gorig! Combatti!”

***



La corona di mitragliatori vegatron che orlava la circonferenza del disco si ritirò all’interno; le corazze metalliche che lo avvolgevano cominciarono a ripiegarsi; il robot distese le gambe e le braccia.
Duke Fleed si voltò con foga verso la donna: “Leyra! Non ti muovere! Per nessun motivo!”
Lei sbarrò gli occhi terrorizzata.
“Finché non sarà tutto finito!” le gridò ancora Duke Fleed. Poi afferrò una maniglia sopra la propria testa.
“Grendizer! Avanti!”
Scivolò via, inghiottito nel nulla. Lei si vide perduta. Passarono alcuni secondi, interminabili. Infine, arrivò l’eco di un grido metallico, deformato dalla distanza: “Grendizer! Fuori!”
In quel momento, davanti ai suoi occhi, il grande robot balzò verso terra; lo Spacer rimase sospeso a mezz’aria. Abbandonata contro lo schienale della poltrona, Leyra pregò intensamente.
Da sopra la voragine della cabina di pilotaggio, gli occhi del mostro cominciarono a vomitare enormi fasci di raggi laser.
Daisuke rimase accecato. Dannazione! Grendizer alzò le mani a proteggere il suo pilota. Poi contrattaccò: “Disintegratori paralleli!”
Il nemico, colpito di striscio, continuò ad avanzare implacabile, rovesciando su Grendizer tutta la potenza dei laser. Di nuovo Daisuke non riuscì ad evitare il lampo accecante. Il robot cadde in ginocchio. Il punto di fusione del gren era infinitamente superiore alla temperatura del raggio, ma alcune giunture correvano il rischio di saltare. Inoltre, la cabina di pilotaggio si stava surriscaldando al limite del sopportabile. Daisuke faceva ogni sforzo per non gridare. Infine, cedette.


“Professore! Dobbiamo intervenire!” gridò Koji, facendo per correre verso la porta.
“Aspetta Koji! Non sappiamo ancora quanti possano essere! Dobbiamo anche difendere il Centro!”
Hikaru si morse le labbra e strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. Ogni volta, le grida di dolore di Daisuke in battaglia la lasciavano senza fiato; ogni volta, si sentiva mancare. Chiuse gli occhi e chinò il capo, aggrappandosi allo schienale della poltrona del professore. Basta… basta! Oh Daisuke…
La voce di Umon la scosse.
“Daisuke! Alzati! Devi uscire dal raggio!” disse forte.
In quel momento il robot veghiano congiunse le mani e le portò ad afferrare qualcosa dietro la propria schiena, passando sopra la spalla sinistra. Trasse fuori un’enorme ascia bipenne e la brandì minacciosa sulla testa del suo nemico.
“Mostro di Vega Gorig! Colpisci!”
L’ombra orribile dell’arma si stagliò gigantesca su Grendizer. Daisuke vide la morte incombente: “No!!!” Poi, un disperato comando a distanza: “Lame rotanti!”
I due micidiali strumenti si staccarono sibilando dallo Spacer e raggiunsero le braccia del robot nemico, spezzandone uno. L’ascia crollò a terra, il mostro di Vega vacillò. Quella frazione di secondo bastò a Grendizer per rimettersi in piedi con uno scatto poderoso.
Protese le mani in avanti: “Doppio maglio perforante!”
Stavolta il colpo andò a segno: i terribili pugni di gren affondarono nel petto del mostro e fuoriuscirono dalla schiena. Nella struttura cominciarono ad aprirsi crepe vistose. Ma dal polso del braccio superstite, il robot sparò all’improvviso ancora una raffica al vegatron.
Il grido di Daisuke risuonò lacerante nell’impianto di comunicazione del Centro Ricerche. Suo padre fremette: “Coraggio figliolo! Ora!”
Con la mano stretta alla spalla, in preda ad un affanno violento, Daisuke gridò per l’ultima volta: “Alabarda spaziale!”
Grendizer impugnò le due parti dell’asta e ne fece una sola, in un bagliore di fuoco. A testa bassa corse in avanti, poi si inarcò e sollevò alla massima altezza la propria arma, al di sopra di Gorig. Infine, la calò con tutta la forza.
Il boato scosse ripetutamente la terra. Il lampo moltiplicò spaventosamente l’intensità della luce del cielo all’intorno.
Daisuke poté ascoltare l’esultanza di suo padre e degli altri, nella sala comando del Centro Ricerche. Ancora ansimando, diede l’ultimo ordine: “Grendizer, rientro! Agganciamento!”
Il robot si ricongiunse allo Spacer e poco dopo, il pilota riprese il suo posto all’interno del disco.
“Principe Duke!” La donna fece per alzarsi.
“Non ti muovere, Leyra” la fermò. La voce era sorda, estenuata, ma impossibile da ignorare.
Cercò di guardarlo in faccia, protesa in avanti: “Stai… bene?”
“Sto bene. Adesso dobbiamo correre da tuo figlio.”

***



Lady Gandal osservò silenziosa gli ultimi detriti fumanti che piovevano a terra, nel bagliore sinistro dell’esplosione. La voce del generale la aggredì prepotente da dentro la testa: “A quanto pare, anche il tuo piano è fallito, donna! Ed io ho dovuto sacrificare uno dei miei uomini più fidati…”
La moglie rispose sprezzante: “Gandal! I miei fallimenti sono sempre infinitamente più rari dei tuoi! E poi, non penserai che io mi arrenda così facilmente... Avremo quella ragazzina! Maria Fleed, non hai scampo: cadrai nelle nostre mani!”
“Andrai tu a prenderla?” la interruppe lui beffardo.
“Lo vedrai!” ribatté la donna piccata. E poi, quasi tra sé: “Vedrai, si consegnerà da se stessa…”
Il ghigno di Lady Gandal finì soffocato dietro il volto del generale, che si richiuse di scatto. Celata nella sua testa, non poté fare a meno di chiedersi un’ultima volta, perché suo marito avesse tenuto così tanto a quella nullità del direttore dell’Accademia…

***



Grendizer atterrò sulla pista del grande eliporto, alle spalle della clinica.
“Stringiti a me!” Duke Fleed sollevò la donna tra le braccia, uscì dall’abitacolo e balzò a terra senza alcun danno, da quell’altezza vertiginosa. Era tutto pronto a riceverli; lui corse incontro agli uomini che erano schierati ad aspettarli. In un attimo, la consegnò loro. Mentre la aiutavano a dirigersi verso l’ingresso, si rese conto di essere stata sottratta alle braccia forti del principe. Si girò, i grandi occhi spauriti, la mano tesa verso di lui.
“Va’!” la incoraggiò Duke Fleed e la vide sparire oltre le porte scorrevoli.
Rimase solo. Non appena la tensione si allentò leggermente, crollò. Si udì un tonfo sordo, l’urto delle sue ginocchia sul cemento liscio della pista. Di nuovo piangeva per quel ragazzo. Quella volta, però, vi era una tenue speranza! Che non sia stato tutto inutile!
Si rese conto di non riuscire più a muovere il braccio, lo sforzo era stato eccessivo. Pensò al proprio destino segnato. Ma tu puoi farcela!
Alzò gli occhi velati di lacrime e da dietro l’angolo del grande edificio vide arrivare qualcuno di corsa.
“Duke!”
“Maria!”
Si fece forza, si alzò e le andò incontro. La tuta da combattimento era scomparsa; il braccio pendeva rigido lungo il fianco.
“Oh, Duke!” Sua sorella lo abbracciò emozionata: “Ce l’hai fatta, sei arrivato!” Poi si staccò e lo guardò meglio: “Duke! Tu stai male!”
“No, no… Ho solo bisogno di un po’ di riposo.” Le sorrise: “Aiutami.” Col braccio sano si appoggiò a lei e insieme si avviarono lentamente verso l’elegante atrio del grande edificio.
Si sedettero su un ampio divano. Daisuke si abbandonò contro lo schienale morbido e rimase ad occhi chiusi, in silenzio.
“Duke…” Maria si voltò verso di lui, guardandolo in viso. Allora comprese che i racconti che le urgevano dentro avrebbero potuto aspettare…
Passò un tempo infinito. Poi qualcuno li venne a cercare: finalmente la notizia sperata!


Il ragazzo giaceva nel letto, il volto di un pallore mortale. La donna era sdraiata su una barella lì accanto. Per lunghi momenti non osava guardarlo, poi non poteva resistere: gettava un’occhiata di lato. Era ancora lì… era lui…! Ogni volta, silenziosa, rideva felice. Avrebbe voluto fondersi con lui, abbracciarlo, almeno tenerlo per mano! Ma doveva rimanere ferma. Il suo braccio alimentava una sacca violacea, sopra le loro teste; il contenuto gocciolava costante fino al braccio del figlio… Chiuse gli occhi un istante, emise un profondo sospiro e si assopì brevemente.
Udì una voce argentina: Mamma, mamma, mamma! Vi fu un salto, un abbraccio… Poi, la propria voce, ridente: “Ains! Ciao! Come stai? Come è andata oggi a scuola?”


Fine




Al termine, vorrei aggiungere un ringraziamento particolare a Calatea e ad H. Aster: senza il loro intervento, questa ff non avrebbe visto la luce. Per prime, infatti, mi hanno suggerito, l’una, che il finale della ff precedente era un po’ affrettato; l’altra, come e perché ampliarlo. Dalla rielaborazione di quel finale è nato questo seguito.


Commenti finali! https://gonagai.forumfree.it/?t=71687755&st=195#lastpost
 
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view post Posted on 20/3/2017, 17:07     +1   +1   -1
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Alla fine dell’ultima fan fiction qualcuno si chiedeva che cosa sarebbe successo ad Ains e a sua madre, veghiani “pentiti” in incognito sulla Terra; qualcun altro era curioso di sapere che faccia avrebbe fatto Lady Gandal, se le fosse venuta all’orecchio qualche soffiata sui segretucci di suo marito… Ebbene, rimuginando su queste ed altre domande, ho prodotto alcune risposte che troverete in questa nuova fan fiction. Buona lettura!
Qui sotto, il riassunto dei due lavori precedenti, di cui questo è a tutti gli effetti la terza parte, per chi non li ha letti e non ha voglia o tempo di farlo.

1) La squadra
La squadra di ragazzi veghiani che affrontano Duke Fleed nell’episodio 59 ha una storia: si è formata intorno ad Ains, il ragazzino-leader, di cui si narrano le vicende familiari a partire dai nonni, sullo sfondo dei preparativi e poi dello scoppio della guerra di Vega contro Fleed. Assume particolare risalto nel racconto la figura della madre del ragazzo. Si aggiungono poi le storie degli altri membri del gruppo, che si svolgono nel contesto scolastico dell’Accademia Militare Imperiale, fino alla decisione di mandarli in prima linea, presa dal direttore dell’Accademia, per fini oscuri. I preparativi della missione e il suo svolgimento condurranno allo scontro finale con Grendizer, al quale i ragazzi non sopravvivranno.
2) La madre
La madre di Ains non si rassegna alla scomparsa del figlio e cerca in tutti i modi di recuperarne almeno il corpo. Nella sua disperata ricerca, cade nelle grinfie del direttore dell’Accademia e per non rinunciare alla benché minima speranza di ritrovarlo, si sottomette all’ignobile ricatto dell’uomo. Intanto, sulla Terra, Ains è fortunosamente sopravvissuto alla battaglia con Grendizer. Recuperato in fin di vita fra i rottami, grazie a Daisuke, ad Umon e a tutti gli altri viene curato con competenza ed affetto. In particolare Maria si affeziona molto al ragazzo, che in precedenza le aveva salvato la vita. Gli eventi precipitano quando Staigar, il direttore dell’Accademia, verrà inviato da Lady Gandal a rapire proprio Maria. Lady Gandal prova un’istintiva avversione per l’uomo, che in effetti è complice dei tradimenti del generale, ai danni della moglie ignara. La madre di Ains riesce ad inserirsi nella missione, ma la donna è fuori di sé per il dolore e le angherie subite. Una volta sulla Terra, si libera dell’uomo che l’aveva ricattata e quasi riesce ad uccidere anche Daisuke, Koji e Maria. Ma gli eroi ribaltano la situazione e grazie ai poteri ESP di Maria capiscono che si tratta della madre di Ains. Daisuke riuscirà a portarla dal figlio, appena in tempo perché lei possa donargli il sangue necessario a salvarlo.


Riscatto



-capitolo 1-
Il ricognitore volava a bassa quota, protetto dalla barriera anti-radar. I segnalatori degli strumenti di bordo pulsavano con regolarità, riempiendo la cabina di un indistinto ronzio metallico. Dopo diverse ore di pattugliamento, la missione si avviava al rientro. D’un tratto, qualcosa attirò l’attenzione dell’equipaggio.
“Signore! Guardi qua!” Il capo dell’unità di ricognizione si avvicinò alla consolle di comando. “Rileviamo una frequenza radio che non può essere terrestre.”
“Cosa?”
“Sembrerebbe un localizzatore in dotazione alle unità speciali delle nostre truppe d’assalto.”
“Trasmetti subito frequenza e coordinate a base Skarmoon.”
“Signorsì!”

***



“Generale Gandal!” La voce dell’ufficiale era concitata. “Il ricognitore Alfa ha rilevato una frequenza radio veghiana proveniente dal pianeta Terra.”
Il generale balzò verso il grande schermo.
“Ne sei sicuro?”
“Sissignore!”
“Analizzala immediatamente! Voglio una spiegazione!”
L’ufficiale si allontanò di corsa. L’enorme archivio elettronico si trovava accanto alla sala comando. L’uomo si immerse in una ricerca febbrile.
“Vediamo… un localizzatore…” Ecco la lista delle frequenze associate ai numeri di matricola… Impallidì. Al diavolo! Sono decine di migliaia!
Sudando, si accinse a digitare alcuni criteri di ricerca e sperò di aver scelto i più rapidi. Dopo lunghi minuti, il terminale cominciò a reagire.
“Ghemon… Ains Ghemon… Studente… Accademia Militare Imperiale… Incarichi operativi: squadra comandante Dagil, pianeta Terra, eliminazione obiettivo sensibile… Esito: secretato.” L’uomo rilesse incredulo la stampa dei dati appena ottenuti. Non è possibile… Uno dei ragazzi di Dagil!


Appresa l’informazione, il generale investì il sottoposto: “Che significa? E’ ancora in vita?”
“E’ l’unica spiegazione possibile, signore. Il traduttore-localizzatore è programmato per autodistruggersi istantaneamente alla morte del portatore.”
“Dov’è?” ruggì il generale.
“Le coordinate corrispondono all’arcipelago dove si trova la base di Grendizer, esattamente alla grande isola settentrionale.”
“Maledetto! Se crede di nascondersi… Ricognitore! Bombarda immediatamente la fonte di onde radio veghiana!”
“Gandal! Sta’ zitto!” Il volto del generale si spalancò e sua moglie intervenne sferzante.
“Come osi, donna?”
“Come osi tu mettere a repentaglio con le tue idiozie le occasioni d’oro che ci si presentano! Non capisci? Se il ragazzo è sopravvissuto, è impossibile che Duke Fleed ne sia all’oscuro. Forse, con un po’ di fortuna, abbiamo un infiltrato già pronto, senza fare nessuna fatica. Lo dobbiamo usare! Non eliminare!” sibilò. “Dobbiamo capire che tipo di aggancio abbia con quel maledetto!” concluse decisa.
Il volto si richiuse. Il generale abbassò gli occhi furibondo, incapace di replicare.

***



Una giornata estiva magnifica. L’aria luminosa e calda del mezzogiorno era piacevole e rilassante. Disteso su una sdraio davanti alla casa, ad occhi socchiusi, Ains osservava il gioco di luce dei raggi di sole che filtravano fra i rami degli alberi. Il canto delle cicale e il ronzio degli insetti riempivano di vita il silenzio profondo.
La clinica dove il ragazzo era stato curato era all’avanguardia anche nell’assistenza ai convalescenti e alle loro famiglie. Per coloro che venivano da lontano, era predisposta un’accogliente foresteria: una serie di confortevoli baite, sparpagliate tra i fitti boschi del circondario, da dove era facile e comodo raggiungere l’edificio centrale per i controlli periodici e per ogni altra necessità.
Ains passava lunghe ore all’aperto. Quella natura stupenda, il tepore, la luce lentamente lo aiutavano a recuperare le forze. Debilitato com’era, aveva faticato non poco ad adattarsi a quell’ambiente del tutto nuovo, ma ora si sentiva molto meglio. Nei momenti di riposo, soprattutto quando sua madre doveva allontanarsi per raggiungere la clinica o, a volte, il paese vicino, il ragazzo aveva tempo di perdersi in pensieri e fantasticherie. Lo riscuoteva solo il frinire delle cicale, quando diventava troppo insistente, o il richiamo improvviso di un uccello del bosco.
Man mano che il corpo si rinvigoriva, la mente cercava di dare un senso a tutto quello che era accaduto.
Duke Fleed mi ha salvato. Se sono vivo, lo devo a lui. Lui mi ha tirato fuori dai rottami e ha ordinato agli specialisti terrestri di curarmi.
Era difficile farsene una ragione: il suo nemico, il nemico di suo padre - forse il suo assassino! - si era comportato umanamente, aveva mostrato pietà. Perché? Ains non riusciva a capire. Era evidente che Duke Fleed avesse tentato di aiutarli, e non solo lui, ma anche gli altri, i suoi amici. Le battute di quel dialogo assurdo, sulla pista dell’aeroporto, gli tornavano alla mente una per una. Avevano creduto che avesse paura, l’avevano preso per un vigliacco. Ma lui aveva dimostrato di non essere affatto un vigliacco. Erano stati sicuri di avere a che fare con un essere sanguinario, assetato di potere. Nemmeno questo era risultato vero, alla prova dei fatti. Aveva cercato di convincerli a passare dalla sua parte, questo sì. E loro non erano traditori! Li aveva scongiurati di tornare su Vega, così, forse, si sarebbero salvati…
Vega…
Le risate squillanti di un gruppo di scolari che tornavano a casa rincorrendosi sul sentiero, lo fecero trasalire. Provò un tuffo al cuore, si sentì stringere un nodo alla gola.
Vega…
Questo pianeta così bello, dove ora si trovavano, aveva accolto lui e sua madre senza esitare, senza chiedere nulla. Eppure… non era la loro casa! La nostalgia lo assalì, trascinandolo nel vortice dei ricordi.
Vega… Come vorrei essere lì.
Il desiderio bruciante gli strappò un gemito sommesso: “Voglio tornare a casa!”
Forse Duke Fleed sarebbe stato ancora una volta così magnanimo da permettere a lui e a sua madre di tornare liberi sul loro pianeta. Che altro avrebbero potuto sperare? Come sarebbero sopravvissuti sulla Terra, altrimenti? Anche sua madre, ne era sicuro, era preoccupata di cosa sarebbe stato di loro. A dire il vero, non ricordava di averla mai vista così felice, come da quando si erano rincontrati sul pianeta azzurro. A volte, però, gli sembrava di scorgere un’ombra sul volto di lei...
Forse Duke Fleed li avrebbe aiutati di nuovo, ma era difficile dirlo: dopo la battaglia, durante la lunga convalescenza, non l’aveva più visto. Tutto ciò che sapeva di lui, oltre ai ricordi di quel giorno terribile e a quello che gli era stato insegnato, lo doveva ai racconti di sua madre. Lei non si stancava mai di ripetergli che certamente non sarebbe arrivata in tempo a donargli il suo sangue, se Duke Fleed non avesse rischiato la vita per loro, lasciando la propria base per scortarla da lui.
Inoltre, ogni volta che la madre tornava dalla clinica con il materiale per le medicazioni, gli portava anche i saluti della sorella di Duke Fleed, la principessa Maria Grace.
Già.
Ma perché lui non si era mai fatto vivo? La ragazza, al contrario, si era sempre tenuta informata sui suoi miglioramenti e aveva perfino promesso di fargli visita. Sperava di rivederla presto; forse, attraverso di lei, avrebbe trovato il modo di parlare con suo fratello.

***



“Professore! Professore!” Una folata d’aria fresca irruppe nella sala comando insieme a Maria. Hayashi e Yamada sollevarono un momento la testa dai tracciati dei radar.
“Ehi, Maria, aspetta! Il professore ed io stiamo lavorando!” protestò Koji. Le si parò davanti, cercando di fermarla, ma lei lo aggirò senza complimenti, prestandogli l’attenzione che si concederebbe a un ostacolo che spunti inatteso da dietro un angolo. Dopodiché, puntò dritta al suo obiettivo. Koji rimase in mezzo alla stanza a grattarsi la testa, farfugliando qualcosa.
“Professore! Una grande notizia!” riprese la ragazza.
Lo schienale della poltrona ruotò verso il centro della sala e il professor Umon si rivolse con interesse alla nuova venuta.
“Buon giorno Maria. Di che si tratta?”
“Oh professore! E’ meraviglioso! Il chirurgo ha detto che Ains ora è guarito e può ricevere visite!”
“Me ne rallegro molto” rispose Umon. Poi aggiunse accennando un sorriso d’intesa: “E penso che tu non voglia mancare l’occasione…”
“Ero venuta proprio per chiederle il permesso di andare a trovarlo!” esclamò la ragazza.
“Non ho nulla in contrario, Maria. Solo, sii prudente e…”
“Oh grazie!” esultò lei, interrompendolo. “Andrò subito!”
“Ehi, ehi, ehi! Un momento!” si intromise Koji. “Con il tuo permesso, principessa, ho l’ardire di contraddirti: io verrò con te. Le ultime volte che sei rimasta da sola con quello, non ti è successo niente di buono.”
“Ti sembro il tipo che si porta dietro la balia?!?” gli rispose Maria, agitandogli minacciosamente l’indice sotto il naso.
“Maria, Koji ha ragione” intervenne il professore. “Lui ti accompagnerà. Ed inoltre, prima di andare, voglio che tu chieda anche a Daisuke che cosa ne pensa” concluse Umon, riprendendo la frase interrotta poco prima.
“Ma certo!” rispose lei. In un attimo saltò al collo di Koji, facendogli fare una piroetta. “Su, su, lumacone! Che aspetti? Corriamo da Duke!” gli urlò nelle orecchie. Tutti scoppiarono in una risata di cuore. Mentre lei lo trascinava verso la porta, accompagnato dall’ilarità generale, Koji si congedò dai presenti con un’occhiata di rassegnazione da far invidia ai montoni dei Makiba, il giorno della tosatura…


Il silenzio profondo della campagna si stava trasformando impercettibilmente in un ronzio indefinito. Era solo in casa. Hikaru e gli altri erano nei campi, o forse al Centro Ricerche. Nel dormiveglia tutto si confondeva. Faceva sempre più fatica a concentrarsi sulle piccole questioni della vita quotidiana; soprattutto, ciò che non costituiva un pericolo, riusciva sempre meno a metterlo a fuoco. Tentava in ogni modo di riposare, di raccogliere le energie residue per essere ancora pronto ad uscire in battaglia, a difendere i suoi… La vita gli stava sfuggendo di mano veloce…
Il ronzio si era rapidamente intensificato, ora poteva distinguere il rombo di un motore che si avvicinava. Anzi, erano due.
Maria… Con chi…?
Le moto rallentarono, entrarono nel recinto e si fermarono. Tutto ripiombò nel silenzio. Sentì che qualcuno si affrettava su per le scale, poi passi leggeri nel corridoio. Finalmente, dietro la porta della sua stanza risuonarono due colpetti secchi e sommessi.
“Avanti.” Per quanto si fosse sforzato di usare un tono normale, aveva risposto con un filo di voce.
Maria fece capolino. L’entusiasmo che l’aveva fatta volare fin lì si spense di colpo.
“Ciao Duke…” disse incerta, spingendo la porta. “Possiamo entrare?”
“Certo, avanti. Venite!” fece lui, tentando di sollevarsi sui gomiti e di sorridere. “Ciao, Koji. Non ti avevo visto.” Ricadde sul cuscino col volto contratto e rimase ad occhi chiusi, cercando di lasciar passare la fitta.
“Ciao Daisuke! Non volevamo disturbarti…” disse Koji serio.
“Speravo che qualcuno venisse a trovarmi” sorrise lui debolmente. “Ditemi: che cosa succede oggi al Centro Ricerche?”
“Va tutto bene. Non ci sono allarmi. Anzi, c’è una buona notizia!” gli rispose Maria.
“Davvero?”
“Sì, Duke. Ti ricordi di Ains, il ragazzo veghiano?”
“Certo” mormorò. “Come potrei dimenticarlo?...”
Il volto della ragazza si aprì in un sorriso luminoso: “Ora sta bene, è guarito. Può perfino ricevere visite!”
“Ne sono contento. L’ho sempre sperato…” le rispose il fratello.
“Duke, io e Koji abbiamo il permesso del professore di andare da lui. Ma … tu che ne pensi?…” Maria esitò lievemente: “Saresti d’accordo? Io vorrei tanto vederlo!”
Daisuke si voltò lentamente verso di lei e in quel momento pensò che sua sorella non era più una bambina. Stava crescendo, cominciava ad essere più riflessiva, a comportarsi con maggiore prudenza.
“Piacerebbe anche a me rivederlo…” sussurrò stanco.
“Oh Duke!” La ragazza lo fissò negli occhi smarrita, gli afferrò una mano e se la strinse al petto. Quelle poche parole le avevano detto quanta tristezza e fatica pesassero sulle spalle di suo fratello. In quel periodo, gli attacchi di Vega si susseguivano accaniti e incalzanti e lui era sempre più debole. Ormai, il tempo in cui non era costretto a pilotare Grendizer contro gli invasori, lo trascorreva quasi tutto a riposo, o sottoponendosi alla dolorosa terapia stabilizzante, l’ultima speranza per sé e per i suoi amici: vivere ancora un po’, vedere la liberazione della Terra dalla minaccia di Vega.
L’ultimo scontro, poi, quello col figlio di Zuril, l’aveva particolarmente provato. Lo spreco di quella giovane vita per mano sua lo opprimeva, se possibile, più della sofferenza fisica, più dei dolori lancinanti alla spalla che alla fine di ogni battaglia lo lasciavano esausto.
“Certo, andate! Sono sicuro che insieme a Koji non avrai nulla da temere” aggiunse alzando gli occhi verso l’amico.
Il ragazzo annuì convinto: “Puoi contare su di me!”
“Grazie Duke”, balbettò Maria, senza riuscire a staccarsi dalla sua mano. Il tocco di Koji sulla spalla la rincuorò.
“Torniamo presto!” si congedarono. Erano già sulla soglia, quando la voce di Duke li fece voltare: “Per favore, dite ad Ains che sono felice che ce l’abbia fatta!”
Richiusero piano la porta e si avviarono mesti nel corridoio.
Duke stava morendo.
Koji guardò Maria con la coda dell’occhio: il mento le tremava vistosamente e grosse lacrime le rigavano le guance, senza che lei riuscisse a fermarle. Il ragazzo le passò un braccio intorno alle spalle, se la strinse vicino affettuosamente e la accompagnò in silenzio fino alla porta della sua stanza. Lei scoppiò in singhiozzi. Koji la abbracciò, lasciando che si calmasse.
Poi disse piano: “Dai, prepàrati. Ti aspetto in giardino. Ains sarà impaziente di rivederti”.

***



-continua-

Edited by Annushka18 - 20/3/2017, 17:23
 
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