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Delari
view post Posted on 20/10/2017, 08:52 by: Delari     +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Non sapevo che fossimo poveri. Prima di essere iscritta al liceo.
Traduzione da un recente articolo di giornale.


Il mio liceo si trovava in uno dei quartieri un po’ più agiati di Düsseldorf; il tipo di posto dove i ragazzi di buona famiglia arrivavano tutti i giorni a sfoggiare i loro abiti firmati. Alcuni scolari dell’ultimo anno erano alla guida della loro Mercedes nuova di zecca, mentre i maestri, più modestamente, si contentavano di venire in bici. Sparpagliati tra le classi si trovavano alcuni scolari piuttosto normali, né ricchi né poveri. Molto sporadicamente, si incontrava qualcuno appartenente a una famiglia meno agiata.
Io facevo parte dell’ultimo gruppo, giacché i miei sbarcavano il lunario come autisti o fattorini. Ma mi ricordo bene che spesso pensavo: non stiamo per niente male. Quando avevo 11 anni riuscimmo anche a traslocare dal nostro appartamento di 50 metri quadri in uno di 70, il che per me significava una bella e grande camera propria. Non era lusso questo?

Mi sbagliavo. Almeno fu quello che i miei coetanei mi dimostrarono senza indugio.
Durane l’intervallo tutte le ragazze si mettevano in cerchio e paragonavano le loro scarpe. Tutte indossavano scarpe di Adidas o Nike, possibilmente modelli simili.
Non immaginando nulla di male, schiacciai i miei piedi tra i loro e dissi orgogliosamente: „Le mie scarpe sono di Graceland!“ Per tutta risposta ottenni solo occhiatacce irritate.
Capii allora che era una sorta di blasfemia se le mie normalissime scarpe toccavano quelle firmate delle mie compagne. Un altro giorno arrivai a scuola in bici, come di consueto, e uno dei ragazzi mi rise in faccia: „La bici l’hai rimediata al discounter, vero?”
Mi meravigliai come avesse fatto un ragazzino di dodici anni a riconoscere subito dove avevo comprato la mia bici – finora non avevo mai riflettuto sugli attributi della mia bicicletta. Doveva funzionare e basta. Ancora una volta capii: non si compra la bici in un negozio di roba economica, se si ha un po’ di stima di se stessi.
Un giorno mi venne a trovare una compagna di scuola, ed io ero contenta di poter finalmente mostrare a qualcuno il nostro nuovo appartamento. Lei la girò tutta con passo pesante e quindi mi chiese, con gli occhi spalancati: „Ma come fate a vivere così?” Lei stessa naturalmente risiedeva in una villetta in periferia. Ancora una volta capii: un appartamento di 70 metri quadri non è degno di essere abitato da tre persone (per tacere del cane).
Scene come queste si ripeterono ancora e ancora durante i miei anni a scuola. Perché la mia salopette non era di Gap? Perché dovevo fare domanda di un contributo per poter partecipare a una gita scolastica? Perché non facevo parte allo scambio di studenti? Io stessa ero sempre dell’opinione di vivere abbastanza bene; era a confronto con gli altri che ero povera.

A 15 anni attraversai una fase di ribellione. Mi rifiutai di andare a scuola, mi tinsi i capelli di tutti colori del mondo e andai a passare il mio tempo sulle scalette del Reno, insieme ai punk e i drogati.
E tutt’a un tratto la frittata si rigirò: qui non ero più appartenente a una classe inferiore, neppure in grado di finanziare una gita scolastica, ma una ragazza ricca. Dal punto di vista di questa gente io stavo bene, perché avevo una dimora fissa e i miei genitori non sprecavano quello che guadagnavano per comprarsi alcool e canne.
Mi ricordo ancora quella volta che un punk sotto l’influsso di droghe si era seduto vicino a me, e, sbavando, mi aggredì chiamandomi una viziata figlia di ricconi. Andai su tutte le furie perché i miei avevano appena perduto i loro posti di lavoro e non mi sentivo per nulla come un membro di famiglia benestante. Mi vergognai lo stesso dei miei privilegi, del fatto che ero facoltosa in confronto a quelli che tiravano avanti chiedendo l’elemosina nella zona pedonale tutte le sere.

Quanto possono essere differenti i gruppi sociali e quanto spesso comportamenti e modi di giudicare sono legati ai propri beni materiali molte persone non lo notano, fuorché quelle che riescono a salire la scala sociale. Se non fossi stata studiosa e fossi stata assegnata a una scuola secondaria inferiore nel nostro modesto quartiere, probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di essere povera. E dall’altro canto non mi sarei mai sentita agiata e avezza a una vita sicura, se un giorno non mi fossi stufata di fare la brava in mezzo a tutti i ragazzi benestanti della nostra scuola. I punk che passavano i loro giorni attaccati alle scalette del Reno mi aprirono un’altra veduta.

Ma anche la conoscenza di questa veduta non rende necessariamente tutto più facile. Anche nelle prossime fasi della mia vita – durante l’università, sul posto di lavoro – molto di rado incontravo persone con storie simili alla mia. Quindi a me non restava altro che continuare ad adeguarmi orientandomi a un ceto sociale più alto. Il che equivaleva quasi a doversi adattare a un’altra cultura: un altro livello significa altre abitudini, altri modi di parlare, altri status symbol.
Di solito stai attenta affinché nessuno noti che fai parte di un ceto diverso; però è difficile nascondere la scarsità di denaro. Se gli amici ti invitano a un viaggio insieme con loro o a un giro di shopping nelle loro boutique preferite e tu devi rifiutare perché non te lo potresti permettere, spicchi dalla massa. E anche se da adulti i benestanti non ti fanno più sentire che sono qualcosa di meglio con asserzioni impertinenti, rimane sempre una leggera incomprensione, e a volte anche condiscendenza.

In queste situazioni non serve riflettere che potresti stare molto peggio. Vorresti non essere estraniata da loro, ecco tutto. Solo che guarda caso, il gruppo di persone cui vorresti appartenere non solo è più colto (la cultura la puoi acquisire), ma dispone anche di più denaro. E noi esseri umani abbiamo una tendenza a giudicare le persone in base alla loro situazione finanziaria, sempre in relazione alla nostra situazione sociale. I poveri li riputiamo più stupidi, gretti e rozzi, mentre quando uno è ricco facilmente crediamo che sia più intelligente, di vedute più larghe e più sicuro di sé. Le prime caratteristiche secondo cui giudichiamo una persona sono i beni materiali. E questo atteggiamento comincia già quando siamo piccoli, secondo la mia esperienza.
Sono questi pregiudizi che rendono così difficile abbandonare il nostro ceto sociale, e non solo, creano anche difficoltà per quelli che ci vogliono entrare. Uno che riesce ad ottenere un titolo di studio più alto e un impiego migliore dei suoi genitori si sentirà sempre fuori luogo, non meno di uno che ha perduto il suo posto di lavoro e ora deve arrabattarsi tra indennità e ufficio di collocamento.

Forse ci aiuterebbe se potessimo sentirci più sicuri di noi stessi. Se ci accettassimo semplicemente come siamo, insieme al fatto che la nostra bici comprata al discounter ci va benissimo. Forse quelli che ci guardano dall’alto in basso (o al contrario dal basso in altro, con superfluo ossequio) si sentono semplicemente insicuri, e pensano di trovare sicurezza scavando mentalmente fossati tra gli uni e gli altri.

Per quanto riguarda me, abito nuovamente insieme con altre due persone e un cane su 70 metri quadri. E i criticoni che tengono il naso per aria ne possono pensare quello che vogliono.



Traduzione: ottobre 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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