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Traduzioni, Follie varie...

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view post Posted on 25/1/2017, 22:39     +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Parlando della decantata efficienza tedesca, un articolo scritto in questi giorni da un frustrato giornalista di Berlino...


I motivi per cui l’aeroporto di Berlino non si inaugurerà MAI
(Articolo comparso in questi giorni sul giornale tedesco “Welt”)

C’era da aspettarselo: ci hanno finalmente scodellato l’informazione che l’aeroporto di Berlino (detto BER) non aprirà i battenti quest’anno, come avevano progettato di fare.
Ma che bella notizia, avevamo già paura che andasse tutto troppo in fretta. E quando si tratta di decisioni affrettate e di soluzioni economiche, eh no, al berlinese questo non va. Quindi ringraziamo… chi… le porte??
L’aeroporto rinvia la sua inaugurazione per la (pressappoco) 83esima volta, perché LE PORTE NON FUNZIONANO? Secondo informazioni dell’agenzia di stampa tedesca, al futuro aeroporto della capitale si prevedono ulteriori ritardi, tra l’altro per via di problemi con l’apertura automatica di centinaia di porte nel terminale maggiore.
Ma dico, nelle paludi là fuori della grande città si trova magari un comitato che non ha altro da fare che inventare scuse idiote affinché nessuno capisca la verità, per quanto sia eclatante: che questa rovinosa costruzione non sarà mai accessibile? Senza porte non si entra, logicamente. E per l’anno prossimo, che scusa inventeranno?
„Ritardato il rifornimento di 400 panciuti turisti venuti da Mallorca con tanto di baffi e camicia hawaiana intenti a vagare in giro disorientati senza sapere dove sbarazzarsi delle lattine di birra. E senza di questi si sa che nessun aeroporto tedesco può sopravvivere.“ D’accordo. Quindi facciamo per il 2020. Cioè no, in alcuni gabinetti mancano gli scopini: allora vada per il 2022.
Le pietanze da servire negli aerei, preparate nelle cucine proprie dell’aeroporto, sono fresche e appetitose. Così non va, i viaggiatori si sentirebbero irritati essendo abituati alla solita poltiglia tiepida servita in ciotole di alluminio. Bisogna abbattere e ricostruire le cucine, ne avremo fino al 2024.
Se ora vogliamo domandarci per quale ragione in questo presunto paese degli ingegneri e del progresso, di cui sembra faccia parte anche Berlino (almeno sulla carta), possono accadere simili assurdità, andando per esclusione rimane solo questa spiegazione: mi sembra di vederli, in qualche stanzino appartato nel quartiere di Schönefeld, tre cinici artisti operativi che odiano la globalizzazione, immersi in un denso fumo profumato di canapa e vestiti in tenuta da jogging, intenti a grattarsi il fondoschiena, fumare canne, giocare a carte, chiamarsi compagnia gestrice del BER, mentre impiantano ridacchiando il più grande monumento commemorativo contro il progresso che il mondo abbia mai visto. Cioè, a parte il Nord Corea. Di quando in quando si fanno sentire con una nuova scusa per l’ennesimo rinvio. Roba da chiodi, dite? Allora spiegatemi voi il vero motivo.
Secondo me nessuno ha l’intenzione di aprire un aeroporto a Berlino, o qualunque altra cosa utile. E se questo non vi piace, andate pure a trovare quei secchioni di Amburgo ad ascoltare musica classica nella Elbphilarmonie (tempo e costi progettati per la costruzione: 6 anni e 77 milioni, alla fine ci sono voluti 12 anni e ben 789 milioni). E poi provate a prendere da lì l’aereo per le vacanze.
Intanto attendiamo che gli artisti antri-creatività, rispettivamente gestori (le cui gesta saranno ancora a lungo cantate) un bel giorno annuncino ufficialmente l’inaugurazione dell’aeroporto e diramino gli inviti per la cerimonia. Con una data fissa, perbacco.
La data è quella del giorno del giudizio. Cioè no, suona come un giorno di festa, e dopo c’è il ponte… allora il lunedì seguente.



Traduzione: gennaio 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


Per recensioni e commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=71738486&st=165
 
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view post Posted on 10/2/2017, 23:48     +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Let Me Be Your Valentine
Racconto umoristico


La grande domanda che tiene assiduamente in subbuglio la mente umana è, di solito: sono amato? San Valentino è il giorno perfetto per ottenere la risposta, almeno così sperano milioni di persone.
Il che ci rimanda alla prossima questione: con che regalo me lo dimostrerà la persona che mi ama?

Naturalmente molti di noi non lo ammetterebbero mai, in fondo lo sappiamo che San Valentino è stato un’invenzione di Fleurop e Lindt. Ma quando invece dei bomboloni carnevaleschi nelle vetrine si accavallano cuori di cioccolato impacchettati in tutti i modi e i fiorai compongono mazzi di fiori a dire poco drammatici, sappiamo che è ora di munirci di una prova tangibile del nostro amore.
A dire il vero, San Valentino deve essere stato inventato dai maschi: invece di dover parlare dei loro sentimenti possono semplicemente comprare rose rosse e cioccolatini, e l’armonia domestica è salva per il resto dell’anno.

Naturalmente ci sono anche donne che ritengono che per dimostrare i propri sentimenti non bastino un po’ di verdura e dei dolciumi. Marlene, per esempio.
Fino a qualche anno fa, era contenta quando suo marito ogni 14 febbraio le regalava una rosa rossa. Finché la sua migliore amica le sventolò davanti al naso un buono regalo per un fine settimana in Svizzera: tre giorni in un centro benessere, cena intima al lume di candela, e il giorno dopo colazione accompagnata da spumante.
„E tuo marito cosa ti ha regalato?” fu la domanda.
„A me basta una rosa per sapere che mio marito mi vuole bene,“ aveva risposto.
„Mah, se la vedi così…“
La pulce nell’orecchio cominciò a fare il suo effetto. Quando Martin, suo marito, quella sera le portò una rosa come ogni anno a San Valentino, Marlene non riuscì a trattenersi dal dire: “Oh, Martin, sempre fiori. Non potresti dimostrare un po’ più di fantasia?”
Martin deglutì nervosamente. Fantasia… Se solo avesse saputo con più precisione cosa sua moglie aveva in mente…

L’anno dopo, il bravo marito si era preparato. Non aveva risparmiato né denaro né fatica per sorprendere sua moglie: con un ritratto erotico che certamente l’avrebbe lasciata senza fiato.
„Be’, cosa dici?“
„Ahem… cosa rappresenta?“
„Me, naturalmente!“
„Te…?“
Incredula, Marlene girò il quadro da tutti i lati. Strettamente parlando raffigurava un uomo discinto composto da tanti cubetti.
„Non so cosa dire.“
Lui le rispose, orgogliosamente: „È stato fatto con stampini di patate, in stile sensuale. Un pezzo unico, solo per te.“
„Lo hai fatto tu?“
„Ma no, la mia collega Anna, il suo hobby è l’arte.“
„E tu le hai fatto da modello - senza i pantaloni?!“
„Sì, ma solo per renderti felice!“
„E questo sarebbe un regalo di San Valentino? Non illuderti che lo appenderò al muro!“ Il quadro scomparve in cantina, e per sempre.

L’anno seguente Martin decise di provarci con una cosa fatta da lui personalmente. Compose una canzone, e siccome non sapeva suonare altro, si accompagnò con un tamburo da sciamano.

„Alla tua attrazione io non resisto
A San Valentino, San Valentinooo…
Quando ti vidi per la prima volta,
Già mi avevi rubato il cuoooore...“

„Basta! Fermo! Stop!!“
„Ehm... cosa c’è? Non ti piace?“
„Eccome, già non ne posso più. Credi che ti abbiano sentito i vicini?“
„Se ti pare, posso cantarla anche a loro...“
„Caro, non fraintendermi, ma il canto non è proprio il tuo forte.“

Martin cominciava e sentirsi deluso. Ma da vero uomo era deciso a non farsi scoraggiare. E per il prossimo San Valentino ideò qualcosa di veramente speciale.
Marlene gli aveva a volte parlato entusiasticamente dello show dei Chippendales, che una volta aveva guardato insieme alle amiche. Ergo, si depilò il petto con le cerette a freddo, (sopportando stoicamente il dolore) si vestì solo con un cravattino nero al collo e studiò davanti allo specchio una breve coreografia - meno volgare, naturalmente. Era certo che questa volta avrebbe fatto colpo: a parte le proporzioni - spalle un po’ strette, fianchi un po’ larghi - faceva indubbiamente la stessa figura di un Chippendale.
„Siediti, cara, e goditi lo spettacolo. Questo è solo per te!“
Al vedere suo marito così bardato, Marlene sentì automaticamente il bisogno di sedersi.
Martin accese l’impianto stereo, chiuse gli occhi e cominciò il suo show roteando i fianchi. Quindi alzò drammaticamente le braccia, fece una giravolta, cascò sulle ginocchia – vabbè, l’ultima parte non era stata prevista. Decise di fare il meglio della sua gaffe rimanendo per terra e strisciando fino ai piedi della moglie, dove si aggrappò alle sue gambe mentre canticchiava la melodia di “My funny Valentine“.
Sdegnata, Marlene saltò in piedi e cercò di scuoterselo di dosso. „Ma cosa fai, sei impazzito?!“
„Una lettera d’amore ballata! Non è da impazzire?“
„Follia pura, sì. Potresti smetterla, per piacere?“
„Ma tu non capisci! Ho concertato un numero di spogliarello in stile dei Chippendales, e ho incorporato elementi di danza espressionistica nella coreografia, come allegoria al nostro rapporto.“
„QUESTO sarebbe il nostro matrimonio? Non avrei pensato che fosse in simili condizioni. Non sarebbe stato meglio andare semplicemente a teatro?“
Martin non si raccapezzava più. Dove aveva sbagliato?
Marlene gli prese la mano e gli disse: “Se davvero mi ami, fammi un piacere: non darti più tanta pena. Basta sorprese, per favore!“

Da allora Martin sa che è impossibile fare felice una donna. Anche se nel suo caso ora è facile: ogni anno a San Valentino regala a sua moglie una rosa rossa e una scatola di cioccolatini, punto. E lei è contentissima e non gli dice mai che in verità si sente sollevata, perché lui ha finalmente rinunciato a fare il Valentino.
Dipinti sensuali a base di patate… spogliarello espressionistico… suvvia… :innocent.gif:


Traduzione: febbraio 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



Recensioni, commenti ecc.: https://gonagai.forumfree.it/?t=71738486&st=165
 
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view post Posted on 10/3/2017, 20:31     +1   -1
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Il regno invisibile
Favola


In una piccola casa, a metà del monte e distante circa un quarto d’ora dal resto del villaggio, viveva un vecchio contadino insieme a suo figlio Giorgio. Non possedevano molto, ma insieme alla casa abbastanza campi e terre per non abbisognare di nulla. Dietro alla casa si ergeva la foresta, fatta di querce e faggi così vecchi che i nipoti di quelli che li avevano piantati erano già morti da almeno un secolo.
Davanti alla casa si trovava una vecchia e rotta ruota di mulino, che era finita lì chissà quando. Chi vi si sedeva aveva una bellissima veduta sulla vallata, del fiume che la attraversava e delle montagne al di là del fiume. Qui Giorgio veniva spesso di sera, dopo avere finito di lavorare nei campi, seduto con la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia, guardando la valle e fantasticando. E siccome non frequentava molto gli altri paesani ed era solito andare in giro silenzioso e introverso come uno che deve riflettere su tante cose importanti, la gente lo chiamava, scherzosamente, Giorgio il Sognatore.

Con il passare degli anni, Giorgio divenne un uomo più quieto che mai. Dopo la morte di suo padre e il funerale di questo sotto a una grande e vecchia quercia, Giorgio quasi non parlava più con nessuno.
Ma nonostante questo, non si sentiva solo. Quando era seduto sulla vecchia ruota di pietra - cosa che ora faceva ancora più del solito - e guardava giù nella magnifica vallata e osservava le nebbie serali salire da un lato e appoggiarsi lentamente sulle pendici dei monti, e il cielo diventare sempre più scuro finché le stelle e la luna cominciavano a scintillare in tutta la loro bellezza, si sentiva l’essere più felice del mondo. Quindi udiva le onde del fiume cominciare a cantare, prima piano, poi sempre più udibili, e raccontare dei monti da cui scendevano, del mare che volevano raggiungere, e delle sirene che vivevano nelle profondità del fiume. E la foresta si metteva a frusciare e stormire e gli raccontava le storie più belle. In particolare la vecchia quercia, dove si trovava la tomba di suo padre, ne sapeva molte di più degli altri alberi. E le stelle in cielo scintillavano e tremolavano come se non quasi non resistessero più dalla voglia di buttarsi nella foresta sempreverde e nel fiume blu. Ma si sentivano anche le voci degli angeli, che stando dietro alle stelle le trattenevano e sussurravano: „Stelle, stelle care, non fate sciocchezze! Siete troppo vecchie per buttarvi, avete già migliaia e ancora migliaia di anni sulle spalle! Rimanete dove siete, e siatene contente!“
Era una vallata davvero di rara bellezza. Ma il solo ad accorgersene era Giorgio il Sognatore. La gente che abitava giù nel villaggio neanche se lo immaginava, perché si trattava di persone perfettamente comuni. Di quando in quando abbattevano uno dei giganteschi alberi per farne ciocchi e trucioli, e quando avevano ammassato un bel mucchietto dicevano: „Questo basterà perché possiamo farci il caffè per un po’.“ E trovavano il fiume molto pratico per attingere l’acqua, e per lavare i panni. E delle stelle, quando scintillavano, dicevano solo: „Stanotte farà un bel freddo, speriamo che le patate non congelino.” Se magari Giorgio cercava di spiegare loro le cose come le vedeva lui, ridevano. Si vede che erano proprio persone comunissime, che pensavano solo alle cose di tutti i giorni.

Un giorno, mentre Giorgio si trovava nuovamente seduto sulla vecchia ruota di mulino ed era un po’ che pensava che era un peccato che fosse tutto solo al mondo, si addormentò e fece un bel sogno.
In sogno vide un’altalena d’oro appesa a due funi argentate, di cui ognuna era attaccata a una stella. E sull’altalena si trovava una graziosa principessa che dondolava così in alto da volare dal cielo in terra e poi tornare indietro. Tutte le volte che l’altalena raggiungeva la terra, la principessa batteva le mani e gli gettava una rosa. Ma tutt’a un tratto le funi si spezzarono, e l’altalena con la principessa volò in alto in alto nel cielo, finché Giorgio non poté più vederla. In quella si svegliò, e trovò vicino a sé sulla ruota di pietra un mucchietto di rose.
Il giorno dopo quando si addormentò fece lo stesso sogno, e al risveglio trovò nuovamente le rose vicino a sé.
La cosa continuò per un’intera settimana, e alla fine Giorgio si disse che doveva esserci del vero in questo sogno, siccome si ripeteva ancora e ancora. Quindi sistemò la sua tenuta, chiuse bene la porta di casa e si avviò nel mondo, alla ricerca della sua principessa.

Giorgio camminò e camminò per molti giorni, finché da lontano vide un paesaggio dove le nubi arrivavano fino al suolo. Incuriosito volle avvicinarsi, ma finì per perdersi in un grande bosco. Ad un tratto sentì dei gemiti e lamenti spauriti, e seguendoli trovò un vecchio dalla barba argentata steso sul suolo. Due uomini molto brutti e completamente nudi erano in ginocchio sopra di lui e cercavano di strangolarlo. Giorgio si guardò intorno per vedere se non c’era qualcosa da poter usare come arma, e non trovando di meglio staccò un gran ramo da un albero. Lo agguantò e si gettò addosso ai due uomini per prenderli a botte; spaventati, questi si misero a urlare, lasciarono il vecchio e corsero via.
Giorgio aiutò l’anziano signore ad alzarsi e gli chiese perché quei brutti ceffi ce l’avevano con lui. Allora il signore gli spiegò che era il re del Regno dei Sogni e che per sbaglio si era avvicinato troppo al regno del suo peggior nemico, il re del Regno della Realtà. Questi se ne era accorto e lo aveva fatto appostare da due servi affinché lo uccidessero.
„Ma Voi avete fatto del male al re del Regno della Realtà?“ domandò Giorgio.
„Figuriamoci!“ rispose il re. „Lui è sempre molto bellicoso con gli altri. Ha un caratteraccio, e nutre un odio particolare per me.“
„Ma quei due che dovevano uccidervi erano tutti nudi,“ fece Giorgio.
„Certo,“ rispose il re, „nudi come i vermi. È la moda nel Regno della Realtà. Lì vanno tutti in giro nudi, anche il re, e non si vergognano per niente. Abominevole gentaglia! - Ma siccome tu mi hai salvato la vita, come segno di gratitudine voglio farti vedere il mio regno. Vedrai, si tratta del reame più bello del mondo, e i sogni sono i miei sudditi.“

Al che il re dei Sogni si incamminò, e Giorgio lo seguì. Quando raggiunsero il punto dove le nubi toccavano la terra, il re gli mostrò una botola che era così ben nascosta sotto a un cespuglio che era impossibile trovarla senza conoscere la sua esistenza. Il re la aprì e i due scesero per una scala di cinquecento gradini.
In fondo si trovava una grotta illuminata, di dimensioni enormi e di una bellezza incredibile. Vi si trovavano castelli su isolette in mezzo a grandi laghi, e le isole non erano ferme ma navigavano come tante barche. Se uno voleva entrare in un castello, doveva solo avvicinarsi alla riva ed esclamare:
„Castello mio bello, avvicinati e fammi entrare!“
Allora il castello lentamente navigava verso la riva. Ma c’erano anche dei castelli in aria, che si trovavano sulle nuvole e fluttuavano. E quando uno diceva:
„Castello mio bello, scendi e fammi entrare!“, il castello si posava lentamente sulla terra. Inoltre c’erano giardini con dei fiori che di giorno profumavano e di notte splendevano, uccelli dal piumaggio incredibile che sapevano raccontare favole, e tantissime altre cose meravigliose. Giorgio non smetteva più di ammirare e meravigliarsi.
„Ora ti farò vedere i miei sudditi, i sogni,“ disse il re. „Ce ne sono tre: i sogni belli per le persone buone, i sogni brutti per le persone cattive, e i folletti, che a volte fanno degli scherzi alla gente, perché anche un re a volte deve divertirsi un po’.“
Per cominciare il re portò Giorgio a vedere un castello che aveva una forma così ingarbugliata da far ridere solo a vederlo. „Qui abitano i folletti dei sogni,“ gli disse, „sono piccoli, spavaldi e dispettosi. Non fanno del male a nessuno, però amano burlarsi della gente.“
„Vieni un po’ qua, piccoletto,“ disse a uno dei folletti, „e lascia perdere gli scherzi per un momento.“ Quindi il re si rivolse a Giorgio e gli disse: „Sai cosa fa questo briccone, quando gli permetto di salire sulla terra? Corre in una casa, piglia la prima persona che trova addormentata, la porta sul campanile e la butta giù. Poi corre velocissimo per la scala del campanile per arrivare per primo, lo afferra, lo riporta a casa e lo butta sul letto da far scricchiolare il legno, e allora il malcapitato si sveglia, si stropiccia gli occhi e pensa: ‘Cielo, mi è sembrato di cadere dal campanile! Meno male che era solo un sogno’.“
„Ah, è così?“ disse Giorgio il Sognatore. „Ha visitato anche me qualche volta! Ora che lo so, se ritorna lo piglio e non gliela farò passare liscia.“
Non appena ebbe parlato un altro folletto uscì da sotto a un tavolo. Sembrava quasi un cagnolino perché aveva indosso una giubba pelosa, e teneva la lingua penzoloni.
„Questo non è da meglio,“ disse il re dei Sogni, „abbaia come un cane ed è forte come un gigante. E quando i sognatori hanno paura di lui, li tiene fermi, così non possono muoversi e scappare via da lui.“
„Anche questo lo conosco,“ rispose Giorgio. „Quando uno se ne vuole andare, si sente come se fosse fatto di legno. Tenta di alzare un braccio ma non ci riesce, e poi prova con le gambe e anche quelle non si muovono. Però a volte non ha le sembianze di un cane, ma di un orso o un brigante o ancora di peggio.“
„Non gli permetterò più di venirti a trovare, Giorgio,“ lo tranquillizzò il re. „Ora arriveremo dai sogni cattivi, ma non temere, non ti faranno del male: questi sono fatti solo per le persone cattive.“
Così i due entrarono in uno spazio enorme racchiuso da un alto muro e da un altissimo portone. Qui pullulava di figure orribili e di mostri spaventosi. Alcuni erano metà uomini e metà bestie. Giorgio voleva andarsene, ma il re gli disse: „Non vuoi vedere cosa sognano le persone cattive?“ Così dicendo fece cenno a un sogno che si trovava lì vicino, un terribile orco che aveva una ruota di mulino sotto a ogni braccio.
„Racconta un po’ cosa farai questa notte!“ gli ordinò il re.
Al che l’orco fece cadere il suo capo tra le spalle, sogghignò allargando la bocca da un orecchio all’altro, scosse la schiena come se si divertisse un mondo e disse: „Vado a trovare un uomo ricco che ha fatto morire di fame suo padre. Una volta il vecchio si era seduto sulla scala di marmo davanti alla casa di suo figlio e gli aveva chiesto un tozzo di pane, e il figlio aveva detto alla servitù: ‘Mandatemelo via, questo vecchio burattino!’ Stanotte vado a lui e lo faccio passare attraverso le due ruote di mulino finché ha tutte le ossa rotte e non può più muoversi, e poi lo prendo per il collo, lo scuoto di qui e di là e gli dico: ‘Ma come ti dibatti bene, burattino che non sei altro!’ Allora lui si sveglia con i denti che gli battono e dice: ‘Moglie, dammi un’altra coperta, sento freddo.’ E non appena si è riaddormentato, lo faccio un’altra volta!”
Quando Giorgio lo sentì parlare in questa maniera, prese per il braccio il re e uscì in fretta dal portone, tirandolo dietro di sé ed esclamando: „Non rimango un attimo di più con questi brutti sogni. Mamma mia, che orrore!“
Allora il re lo portò in un magnifico parco dove le viuzze erano cosparse d’argento, le aiuole di polvere d’oro e i fiori erano fatti da pietre preziose intagliate. Questo era il posto dove i bei sogni passeggiavano quando il re non li mandava sulla terra. Il primo sogno che Giorgio vide era una bella donna alta e pallida, che portava un’Arca di Noè intagliata di legno sotto a un braccio, e sotto all’altro braccio una scatola di costruzioni.
„Chi è costei?“ domandò Giorgio il Sognatore.
„Questa donna va tutte le sere da un bambino malato, che ha perso sua madre. Di giorno è solo e nessuno si occupa di lui, ma di sera lei lo va a trovare, gioca con lui e veglia sul suo sonno per tutta la notte. Lui si addormenta sempre presto, per cui lei deve andare a trovarlo già ora. Gli altri sogni andranno molto più tardi. - Ma ora vieni, altrimenti non ce la faccio a farti vedere tutto.“

I due si persero nelle profondità del parco, in mezzo ai bei sogni. C’erano uomini, donne, vecchi e bambini, ma tutti vestiti bene e con un’espressione contenta in viso. In mano portavano tante cose belle, tutto ciò che si poteva desiderare.
A un tratto Giorgio si fermò e fece un’esclamazione tale che tutti i sogni si girarono a guardarlo.
„Che ti prende?“ domandò il re.
„Lì c’è la mia principessa, che ho sognato tante volte e che mi ha regalato le rose!” rispose Giorgio, felice.
„Certamente, è lei,“ rispose il re. „Ti ho mandato un bel sogno, vero? È uno dei miei sogni più belli.“
Giorgio si avvicinò alla principessa che era nuovamente seduta sulla sua altalena d’oro. Quando lo vide saltò giù e gli andò incontro. Giorgio le prese una mano e la portò a una panchina d’oro: i due si sedettero e si dissero com’era bello rivedersi. Si raccontarono un mucchio di cose, e quando ebbero finito ricominciarono di nuovo a parlare.
Intanto il re dei Sogni passeggiava tra le vie del parco, con le mani dietro alla schiena, e a volte guardava l’orologio perché i due giovani non la smettevano più di discorrere. Alla fine andò da loro e disse: „Basta adesso, ragazzi! Tu, Giorgio, devi tornare a casa; qui non ci sono letti per ospitarti, perché i sogni di notte lavorano. E tu, principessina, devi prepararti. Indossa un bel vestito rosa e poi vieni da me, che devo spiegarti da chi devi andare e cosa devi dirgli.“
Al sentire questo, il placido Giorgio si sentì forte deciso come mai in vita sua. Si alzò e disse con voce ferma: „Sire, io la mia principessa non la abbandono più. O mi lasciate qui insieme a voi o lei viene con me sulla terra; perché senza di lei non posso più vivere.”
„Suvvia, Giorgio,“ sospirò il re, „proprio lei, uno dei miei sogni più belli! - Ma tu mi hai salvato la vita, e vedo che anche lei ti vuole bene, allora prendila con te e siate felici, benedetti ragazzi. Quando sarete arrivati in cima allo scalone, toglile il velo d’argento dal capo e gettalo giù dalla botola, così diventerà una donna in carne ed ossa e non sarà più un sogno.“
Giorgio il Sognatore ringraziò cordialmente il re, ma quindi disse: „Caro sire, visto che siete così generoso, avrei ancora una richiesta. Vedete, ora avrò per moglie una principessa, ma non ho un regno da offrirle. E una principessa senza regno è una cosa che proprio non va. Non ne avete uno per noi, magari anche solo un regno piccolo?“
Il reg li rispose: „Di regni visibili, Giorgio il Sognatore, non te ne posso dare, ma invisibili sì. Ve ne darò uno, e sarà uno dei più belli che ho.“
Allora Giorgio gli chiese com’era questa cosa dei regni invisibili, ma il re li disse che se ne sarebbe accorto e si sarebbe meravigliato di come fossero belli i regni invisibili.
„Vedi, ragazzo mio, con i regni comuni e visibili spesso ci sono un sacco di problemi. Per esempio, se ora tu sei il re la mattina arriva già il primo ministro davanti al tuo letto e ti dice: ‚Maestà, ho urgente bisogno di mille denari da spendere per il regno.’ Allora tu apri la cassa di stato e la trovi vuota! E allora, che fai? Oppure il re di un altro regno ti dichiara la guerra, e se sei sfortunato quello vince, si sposa la tua principessa e ti fa buttare in carcere. In un regno invisibile queste cose non possono accadere.“
„Ma se non lo vediamo,“ domandò Giorgio un po’ confuso, „allora che ne facciamo del nostro regno?“
„Ragazzo strano,“ disse il re tenendo l’indice alla fronte, „tu e la tua principessa, voi lo vedrete benissimo il vostro regno. I castelli e i parchi, i prati e i boschi che fanno parte del vostro regno li vedete eccome. Voi ci abitate, ci passeggiate e fate tutto ciò che vi aggrada. Solo gli altri non lo possono vedere.“
Al che Giorgio fu molto contento, perché aveva già avuto un po’ paura che la gente del villaggio lo avrebbe guardato male se fosse tornato a casa con la sua principessa in guisa di re e regina. Commossi, i due si accommiatarono dal re dei Sogni, salirono i cinquecento gradini che portavano alla terra, e Giorgio prese dal capo della principessa il velo e lo fece svolazzare giù. Quindi voleva chiudere la botola, ma era pesantissima; non riuscì a tenerla e la botola si chiuse da sé, facendo un gran fracasso, e per un momento Giorgio perse i sensi.

Quando si risvegliò si trovava vicino alla vecchia ruota di mulino davanti alla sua casa, e la sua principessa era seduta vicino a lui. Era fatta di carne ed ossa come una persona normale. Gli teneva la mano, lo accarezzò e gli disse: „Mio buon Giorgio, ce ne hai messo per dirmi che mi vuoi bene! Avevi forse paura di me?“
Allorché sorse la luna e illuminò il fiume, e le onde batterono le sponde che sembrava musica, e il bosco stormiva. E i due erano ancora lì che si parlavano. Improvvisamente sembrò che una piccola nuvola nera si muovesse davanti alla luna, e una cosa cadde ai loro piedi che sembrava un pezzo di stoffa ripiegato. Un attimo dopo, la luna era nuovamente piena e brillava in tutto il suo splendore.
Giorgio e sua moglie sollevarono il pezzo di stoffa e cominciarono a spiegarlo: era di stoffa molto fina ma pesante, ripiegata molte volte, e ci volle un bel po’ per spiegarla tutta, e dovettero appoggiarla dappertutto, fin sui campi, l’orto e la casa. Quando ebbero finalmente finito videro che si trattava di una carta geografica: in mezzo si trovava un fiume, e a entrambi i lati si trovavano città, boschi e laghi.
Allora si avvidero che era davvero un regno che il buon re dei Sogni aveva fatto cadere dal cielo. E quando guardarono la loro casetta videro che si era tramutata in un castello, con le scale di cristallo, le pareti di marmo, tappeti di velluto e torrette appuntite con i tetti azzurri. I due si presero per mano ed entrarono nel castello, e trovarono domestici pronti a servirli che si inchinavano fino a terra. Risuonarono trombe e tamburi, dei paggi cosparsero di fiori il suolo davanti a loro, e fu così che i due divennero re e regina.

La mattina dopo i paesani ne parlavano tutti: che Giorgio il Sognatore era tornato a casa, e che aveva preso moglie.
„Figuratevi che tipo di donna sarà!“ dicevano.
„Io l’ho vista questa mattina,“ interruppe uno dei contadini,“ quando sono andato verso la foresta. Stavano insieme davanti all’uscio. Niente di speciale, una persona comune, piccola e minuta, e con un abito semplice indosso. Era da prevedersi - lui non ha nulla, e anche lei non possiederà niente!“
Così spettegolavano, gli sciocchi, perché nessuno aveva la facoltà di vedere che si trattava di una principessa, e che la loro casa si era trasformata in un grande e bellissimo castello.

Il regno di Giorgio era e rimase invisibile. Lui non si curò molto dai paesani ma rimase tranquillo e felice insieme alla sua amata principessa, e i due ebbero sei figli, uno più bello dell’altro, principini e principessine. Ma nessuno se ne accorse oltre a loro: la gente in paese era troppo sciocca per vedere la verità, e così ognuno rimase qual era.



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La città dove abito è rinomata per essere la più sicura della Germania. Magari anche la più benestante. Il che, ovviamente, ha i suoi svantaggi, come descritto in quest'articolo pubblicato qualche giorno fa sul giornale...

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Sono nato a Monaco di Baviera, e ho passato qui 25 dei miei 37 anni. Nei miei scritti ho lodato questa città mille volte e l’ho difesa mille altre volte. Ma negli ultimi 15 mesi ho viaggiato molto, e ho visto altri posti. Sono stato a New York, Londra, Berlino, Parigi, Milano, Vienna, Lisbona, Porto, Reykjavík, Roma, Stoccolma, Trieste, Budapest, Zurigo e Copenaghen. Non solo come turista, no, sempre per un po’ di tempo: ho vissuto in queste città, dormito, fatto la spesa, cucinato, bevuto, le ho girato di giorno in bici e di notte a piedi. E dopo ogni viaggio, tornando a Monaco mi sono svegliato un po’ più triste di prima, perché ho scoperto che in qualsiasi di queste città mi sentivo più a mio agio.
Nessuna era perfetta, per carità; ma tutte avevano qualcosa di genuinamente urbano che Monaco secondo me non ha. Una specie die addensamento, qualcosa di vivo, un polso storico, o anche solo una moderna piattaforma rotante. Ormai Monaco mi sembra diventata una sorta di quinta teatrale, portata in spalle da sei multinazionali del DAX. Gli scafisti che portano la gente qui si chiamano head-hunter e hanno creato una città dove si guadagnano soldi e si dorme, dove vanno e vengono persone per lavorare di settimana e passeggiare per le Alpi il sabato e la domenica. Con i quattrini prima si comprano una villa per dimostrare che possono farlo, poi un tradizionale abito bavarese, dopo una delle macchine nostrane, e quindi magari un altro appartamento; e non hanno più tempo per fare nient’altro, a parte forse andare al parco col cane, anche perché nei parchi di Monaco non è che ci puoi fare molto altro. I parchi sono illuminati male e vanno bene solo per i cani, non si gioca perché non ci sono campi adatti, e anche se ne trovi uno devi metterti in coda e quindi sperare che qualcuno abbia falciato l’erba.
Il Vecchio Giardino Botanico, proprio in centro: cosa ne farebbero altre città! Qui da decenni si vedono solo vecchi cespugli. Anche la piazzetta dietro al municipio praticamente la conosco solo sotto forma di cantiere. E le panchine, bruttissime (a Vienna, Londra e Parigi si trovano fitte ed eleganti in fila come poltrone, perché lì c’è qualcosa da vedere) sono rare quanto i cestini per i rifiuti, e seduta su ognuna si trova un pensionato tutto ben vestito che ti guarda in cagnesco solo perché osi passare da lì.
Tasche piene di soldi e appagamento zero. La riva del fiume, le colline con vista, i cortili interni, i marciapiedi larghi dieci metri – tutti posti esenti sia di persone che di gioia di vivere. A Stoccolma ti vendono i panini dolci alla cannella e il caffè anche nei piccoli treni regionali, Parigi è zeppa di pasticcieri, e non lasciatemi pensare a Roma o piango. Sulla riva dell’Isar invece riesci a passeggiare un’eternità prima di trovare uno che ti venda una breze, magari vecchia di due giorni, senza burro né niente.
Lo so, lo so, le città come le persone sono dotate di talenti differenti. Ma Monaco ormai mi sembra diventata la sentimentale idea di una bella città, che tutti hanno e per cui tutti leggono riviste e articoli su giornali specializzati, ma se guardi più da vicino non trovi quasi nulla. E perché? Perché tutto è proibito.
Guai a mettere una panchina su un sentiero, una seggiola su un prato, a suonare musica in un cortile, a piazzare da qualche parte una fioriera senza chiedere il permesso, a decorare un albero con una ghirlanda di luci, a organizzare un mercato delle pulci nelle stradine del tuo quartiere, e guai soprattutto a qualsiasi tipo di foodtruck. Prova un po’ a organizzare una vendita di merende in bici nel Giardino Inglese: dopo qualche mese molli il colpo. Non c’è margine di gioco, nessuno chiude un occhio, nulla può crescere spontaneamente, nessuno ha voglia di organizzarsi, e inoltre manca lo spazio. Nel cortile del Centro Culturale trovi mezza dozzina di sedie traballanti dove ti puoi sedere a mezzogiorno senza pagare, grazie tante. Se sei mai stato in Scandinavia lo sai come deve essere un centro culturale: sono fatti per persone vere, vogliono che tu ci vada, che tu ci lavori, mangi, incontri altre persone, le città ti incoraggiano a farlo, e sono pure carini da vedere. Lo spazio pubblico o cittadino a Monaco è sempre il punto più piccolo, povero e scalcinato che trovi.
E non puoi semplicemente andare a cena da qualche parte; ci sono forse due dozzine di ristoranti buoni, sempre sovraffollati, quindi se vuoi andarci devi prenotare con tre giorni di anticipo. E se esci dal cinema o dal teatro neanche a parlarne, perché i cuochi puntualmente alle 10 di sera spengono tutti i fornelli. Nella fantomatica città della birra questa bevanda non la trovi spontaneamente, no, ci vuole un’idea, devi fare un progetto. Se no, dopo lunghe camminate finisci in una delle osterie folcloriche dove vanno solo i turisti, o nell’ultima spelonca dove scovi ancora un posto libero. Dicono che Monaco sia la città italiana più del nord: ma in nessun luogo al mondo le pizzerie italiane all’angolo sono peggiori che qui, i menu più privi di fantasia, gli osti più svogliati. Lo so, ci sono eccezioni, ma non è di quelle che parlo; parlo di ciò che secondo me una grande città dovrebbe offrire ad abitanti e ospiti.
Non mi va di dovermi accontentare di una manciata di buoni esempi, di tre bei negozi in una città che vanta la bellezza di un milione e mezzo di abitanti. Dopo il lavoro quotidiano una città dovrebbe intrattenere chi sta qui, ammaliare, rilassare. Anche Londra è una città piena di uffici situati in alti edifici con le finestre a specchio, ma alle 6 di sera a Londra gli impiegati si tolgono giacche e cravatte, affollano le migliaia di pubs e bevono con solidarietà, tutti insieme appassionatamente, tutti trovano un bancone libero, nessuno li guarda storti e nessuno ha dovuto prenotare. A pranzo si va in uno dei numerosi locali o si visita uno dei banchi takeaway, che sono così curati, moderni, internazionali e interessanti che da noi dovresti prenotarci un panino con due mesi di preavviso.
Qui gli impiegati stanno a frotte davanti all’ultimo kebab rimasto nella loro strada. Il resto fa il bravo e rimane nella mensa, e si sente workhard-playhard. Eppure tutte le sere fanno i bravi e tornano a casa; chiamala casa, un piccolo appartamento con il soffitto basso e le finestre isolate, perché purtroppo settant’anni fa ci hanno bombardato mezza città e le nuove costruzioni sono tutte state fatte con uno spirito gretto da non dirsi. In Italia ti offrono un prosecco e un cicchetto a ogni angolo, a Vienna trovi fino a notte ristoranti con camerieri ben vestiti che ti portano un gulasch e un bicchiere di vino anche se non sei in abito da sera, a Lisbona puoi vettovagliare tutto il giorno in uno dei tanti minuscoli chioschi stile liberty e dopo scolarti un liquore all’amarena dopo l’altro, fino ad appiccicarti al suolo.
Santo cielo, non sono nozioni di base queste? Perché bisogna avere anche solo il bisogno di parlarne, in una comunità così grassa come questa poi? Ma qui se viene qualcuno a trovarti, o se vuoi passare spontaneamente mezz’oretta con un vicino, o intervistare qualcuno venuto da lontano in un bel locale o anche solo comprare una bottiglia di vino dopo le otto della sera, devi prima cercare su internet se c’è ancora quella stazione di servizio in città dove… no, ha chiuso.
Il metrò passa a intervalli di dieci minuti, per il treno interurbano ce ne vogliono venti. E dopo mezzanotte, scende la saracinesca ed entrambi chiudono i portoni. Scusate, ma i responsabili hanno mai visitato qualche altra città? E non sto parlando di Ratisbona. Aggiungi a tutto i ritardi quasi odierni. Sempre la stessa frase proveniente dagli altoparlanti: “Causa densità di traffico…” La città è sempre sia troppo piena sia troppo vuota. Non ama né le cose vecchie né quelle nuove. I vecchi tranvai sono stati rottamati, qualsiasi altra città ne farebbe un emblema, ma noi abbiamo già lo strafamoso carillon e quello deve bastare.
Anche a Londra il metrò è una catastrofe, lo so. Ma lì almeno i responsabili tutte le mattine scrivono cartelli informativi a mano, con messaggi originali e gentili, e tanto mi basta; c’è una risata generale in aria, si sente che gli operatori sono orgogliosi del loro lavoro; inoltre a Londra ti offrono un caffè a ogni angolo e per strada ogni seconda macchina è uno dei famosi autobus rossi. Monaco ha il senso dell’umorismo di una macchina a sei cilindri. Ma se già devi vivere in una sterile sei-cilindri, non può funzionare almeno?!
Le ultime case belle sono state sostituite da condomini a forma di scatolone. Diventeresti matto se non saresti già così intronato. Ci sono vasti quartieri in questa città dove sei già grato quando apre i battenti un nuovo panettiere, perché per chilometri e chilometri non vedi altro che uffici e isolati color giallo senape, costruiti con il gusto degli anni 70. Nient’altro. Sono cresciuto nel quartiere di Laim, e a suo tempo quando aprì il McDonald’s al crocevia ci fu scalpore. E non ci crederete, ma lo scalpore lo fa ancora. Poi dopo, prova ad attraversare la tripla corsia che porta dal centro a Pasing: dieci chilometri di edifici sterili. Ci dormono centinaia di migliaia di abitanti, orgogliosi perché l’appartamento è loro e non è in affitto; ma non c’è vita, solo marciapiedi vuoti, al massimo un parco giochi, minuscolo ma di certo fedele a ogni regola di sicurezza. E a ogni incrocio i soliti quattro supermercati, tutti delle stesse catene commerciali, per assicurarsi che nessuno muoia di fame.
Ti senti grato per ogni negozio di bibite rimasto dove non abbia ancora aperto un ambulatorio per psicologia infantile. Grato per una vecchia insegna che ti ricorda che un tempo qui ci abitava qualche essere umano. Per qualsiasi iniziativa che voglia fare più di ciò che è assolutamente necessario. Ma qualsiasi idea creativa diventa un affare politico, qualsiasi soluzione temporanea, qualsiasi festa da giardino diventa un punto d’onore, perché è così che siamo fatti qui. “Noi siamo noi” significa piuttosto “Io sono io”. Significa che “noi” tutte le mattine ci troviamo in un ingorgo, ma almeno in un BMW 5, e di sera la scena si ripete. Insomma, “noi” siamo degli stupidi.
Mamma mia, non chiedo botteghe di caffè, fiorai, negozi di pesce e di carne come a Vienna o a Milano li trovi ancora dovunque, o un vero caffè a ogni angolo come a Trieste. Ma se perfino Manhattan riesce a organizzare un’intera catena di campi sportivi attrezzatissimi per i suoi abitanti e se ci trovi un Seven-Eleven in ogni strada, dove ti vendono il necessario per vivere e il personale è sempre gentile nonostante lo stress, allora capisci. Capisci che Monaco in fondo non è una città, ma un campo prova per bidelli.
Certo, qui non siamo a Berlino, dove trovi tutto ciò che ti serve nella stessa strada e i negozi e i bar cambiano tanto in fretta quanto gli inquilini, queste cose qui non ci sono e non ci sono mai state. Frotte di gente, confusione, corri-corri, no, queste cose non ci saranno mai. Ogni centimetro quadrato è tirato a lucido e la prefettura lo supervisiona con occhi sospettosi. I dieci e mezzo abitanti che hanno ancora qualche idea creativa sono stati messi sotto la tutela dei monumenti, insieme ai quattro folli e i tre negozi tradizionali che hanno sopravvissuto. Prova un po’ a leggere i giornali regionali: per metà parlano di anziani che si sono fatti soffiare migliaia di euro da qualche furbone che si spacciava per lavoratore specializzato o poliziotto, e per l’altra metà di incidenti provocati dagli stessi anziani tamponando un BMW Mini con la loro Range Rover.
No, non desidero una sottocultura giovanile, lo so che sono sopravvalutate. Una città non ha bisogno di una scenografia stravagante per essere bella. Una città ha bisogno di bottegai, gastronomi, architetti, eccentricità, aziende di famiglia e mercati con i venditori che si sgolano da mane a sera. Ha bisogno di cultura, di richiesta eccessiva, di un bombardamento di stimoli esterni. O almeno di uno stile di vita. Hai mai visto come si festeggia una prima di teatro a Vienna? Come fanno le vasche a Milano tutte le sere? Come si accendono le luci a Lisbona quando cala il buio? Mentre quando i monacensi lasciano l’opera di sera non c’è nessun motivo per passeggiare, perché dove, poi? Sulla piazza antistante, dove si trova l’entrata al garage sotterraneo? Tempo dieci minuti e sono tutti in macchina, in fila indiana per tornare nelle loro case di campagna.
Dicono che Monaco sia ricca. Nulla in contrario. Ma per favore, da dove si nota questa ricchezza? Le belle vecchie scuole sono fatiscenti, per vedere un medico specialista devi aspettare due mesi, gli sportelli dei cittadini sono talmente antiquati, stretti e burocratici che te ne vergogneresti davanti a qualsiasi danese. C’è qualcosa di nuovo in città oltre ai due tunnel, perfettamente attrezzati, costruiti nel giro di 10 anni rompendo le p… ai vicini per tutto quel tempo? C’è un qualsiasi tipo di progresso, di generosità, di esperimento, qualcosa che ricorda che viviamo nell’epoca digitale? Sei orgoglioso di qualsiasi cosa che la città ha creato spontaneamente negli ultimi dieci anni? Se hai un ospite che si aspetta di vedere il motore del benessere europeo, cosa gli mostri - forse l’ingorgo delle utilitarie e le facce degli abitanti, tutte tirate causa esaurimenti multipli?
D’accordo, lo ammetto, in questo periodo la situazione mi scoccia particolarmente. Sì, questa città ha i suoi momenti e i suoi posti belli. Certo, qui si può vivere bene. Ma secondo me, bene solo nel senso di una persona che se vuole fare la spesa ha un buon supermercato sotto casa: sopravvive, ma non vive. Per passare il tempo libero va nei quattro bar, tre club, due teatri e un fiume come il resto del milione e mezzo di persone che abitano qui. Una volta l’anno si va al cinema all’aperto, e dopo essersi asciugati gli occhi dalla commozione causata da un film dove si vedeva Monaco com’era, si restituisce il bicchiere preso a pegno e si ritorna a casa, con i fanalini di coda ben funzionanti. Attraversando una città che, al contrario di New York, dorme sempre.


Traduzione: maggio 2017
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Edited by Delari - 11/5/2017, 09:41
 
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Articolo letto qualche giorno fa... e che mi ha dato da pensare.

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Almeno provate a sorridere ai bambini!

Sono madre da un anno e mezzo, e siccome vengo da Tel Aviv e abito a Berlino, mia figlia ed io viaggiamo avanti e indietro una volta il mese. Tutte le volte che torniamo a Berlino, la bambinaia mi dice: “Com’è di buon umore sua figlia!“ Ha ragione. E la risposta alla domanda perché Etta si sente tanto bene è che ha fatto rifornimento di relazioni umane in Israele. Almeno è così che io chiamo ciò che succede quando siamo a 4.000 chilometri di distanza dalla Germania.
Non appena saliamo sull’aereo della linea israeliana El Al, Etta è salutata affabilmente. No, non solo dalle assistenti di volo; da tutti. Attraversiamo il corridoio per giungere ai nostri posti e tutti, veramente tutti i passeggeri, almeno quelli israeliani, la guardano, le sorridono ed esclamano: „Chamuda!“ (Cioè “Dolcezza.”) Le chiedono quanti anni ha e come si chiama. Non appena l’aereo si trova in volo e i segnali per le chiusure delle cinture di sicurezza si spengono so che non dovrò più occuparmi di Etta: la intratterranno gli altri. L’assistente di volo israeliana la prende in braccio e intanto serve gli altri passeggeri, o le fa vedere il cockpit. La studentessa tre file più avanti le legge un libro, l’anziana signora cinque file dietro di noi le racconta di com’era la sua infanzia nell’Israele socialista. Gli scolari che hanno intrapreso una gita per visitare gli ex campi di concentramento in Germania e ora tornano a casa nella terra promessa fanno dei selfie insieme a lei. Intanto io mangio e leggo in pace e guardo fuori dalla finestra. Nessuno mi urla “Si occupi di sua figlia, quella corre su e giù per il corridoio e infastidisce gli altri passeggeri!“ All’uscita dall’aereo tutti si accommiatano da Etta, le danno la mano o dei bacini sulle guance.
E quello che ha cominciato in volo continua così a Tel Aviv. Sia quando passeggiamo semplicemente per la città e i passanti che incontriamo reagiscono a Etta con cenni allegri o sorrisi smaglianti, o quando ci troviamo in un caffè o ristorante. Non sono sola insieme a Etta, nessuno mi lascia sola. Né quando voglio mangiare in pace e la cameriera prende mia figlia e le fa vedere la cucina e la dispensa mentre io finisco tranquillamente la mia brioche, né quando Etta corre in giro e dopo ha bisogno di aiuto per ritrovarmi. Il ristorante intero si occupa di lei. Gli ospiti la prendono in ginocchio o per mano e dopo qualche giro a zigzag la riportano tranquillamente al nostro tavolo. E quando gli ospiti lo fanno non sono snervati o scioccati perché lascio correre libera mia figlia, no, mi dicono quant’è carina, e così faccio tante conoscenze simpatiche. Quando ci troviamo a Tel Aviv mia figlia sorride di più, chiacchiera di più, corre in giro liberamente e si siede senza cerimonie sulle ginocchia delle persone che le sono simpatiche, e rimane seduta ad ascoltare quello di cui parlano.
Al ritorno in Germania, Etta sorride a tutti quelli che incontra sul marciapiede e si aspetta che quelli la salutino, come c’è abituata da Tel Aviv. Ma nessuno reagisce. Nessuna risposta quando corre incontro a dei passanti, si ferma davanti a loro e fa un cenno di saluto. I passanti tedeschi vanno avanti come se fosse invisibile, senza uno sguardo né una qualsiasi reazione. Nel caffè per bambini al Prenzlauer Berg lascio correre Etta in giro come a Tel Aviv, ma nessuna delle madri presenti (che essendo madri dovrebbero capire meglio) interagisce con lei. Nessuno la guarda, nessuno le parla, nessuno la prende sulle ginocchia, nessuno le offre un pezzo di cialda quando lei lo chiede. Lo sguardo rigido e distaccato scompare dai visi delle donne solo quando si tratta dei loro propri figli. E a volte neppure allora.
Poco tempo fa Etta ed io siamo stati al museo. Anche lì la lascio sempre andare dove vuole. Etta parlottava - naturale, è un essere umano e gli esseri umani prima o poi imparano a parlare. E siccome anche i bambini sono esseri umani, a volte si fanno sentire. A Etta piace dire „Dideldideldideldi“ o „Graaaagraaa“, a volte anche „baubau“, anche se non c’è nessun baubau in vista, semplicemente perché le piacciono i cani. Da quando le ho insegnato come fanno i leoni, a volte imita anche quelli. Comunque, al museo si stava esprimendo secondo il suo solito, e un visitatore mi si è avvicinato e ha esclamato, su tutte le furie: „Prenda il suo marmocchio e se ne vada al campo giochi. Questo è un museo! Non vede che sta disturbando tutti?!“
Non me ne sono andata dal museo, no. E non me ne vado neppure dal caffè quando gli altri ospiti mi dicono di occuparmi di mia figlia, che si è avvicinata al loro tavolo e butta in aria le braccia. Non si accorgono che la bambina vuole essere presa in grembo? A volte glielo dico. Allora gli ospiti tedeschi mi guardano tra l’irritato e lo schifato. Come…? Sua. Figlia. Vuole. Sedersi. Sulle. Mie. Ginocchia? Sì, non è bello? Mia figlia la trova simpatica e le offre la sua amicizia.
L’Israele ha il tasso di natalità più alto di tutti i paesi occidentali: in media, una donna israeliana ha 3,1 figli. In Germania, per fare il paragone, sono 1,7, ma solo perché il tasso è salito un po’ negli ultimi anni, per molto tempo era fermo al 1,5. In Israele non nascono tanti bambini perché è forse un dovere religioso, no. Nascono perché i rapporti con i bambini in società sono tanto normali e i genitori non vengono lasciati soli con il loro compito di crescerli. I bambini sono i benvenuti, non disturbano, ovunque si trovino. Sono la normalità, non l’eccezione.
Dopo ogni ritorno a Berlino da Tel Aviv Etta finisce sempre in una leggera depressione per qualche giorno, e io insieme con lei: perché la gente ci oltrepassa come un branco di robot. All’inizio sorride e fa segni come al solito, ma siccome nessuno reagisce dopo qualche giorno ci rinuncia.
Qualche giorno fa eravamo sull’Auguststraße, e un gruppo di cinque uomini d’affari ci ha oltrepassate. L’insieme di folla e fretta ha fatto venire le vertigini a Etta, che è cascata per terra. Gli uomini si sono fermati per due secondi, l’hanno guardata stesa per terra e quindi hanno continuato per la loro strada. Come si fa a comportarsi così? Com’è possibile?
Non lo so. Davvero non lo so. Ma so che desidero tanto che questo atteggiamento cambi. Desidero che la gente interagisca con mia figlia. Che l’aiutino ad alzarsi se è caduta, che la prendano in grembo quando segnala che lo vuole. Che la guardino, le sorridano e le domandino come sta. Ma come stanno le cose, a dire il vero, non ho molta speranza.


Traduzione: maggio 2017
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Edited by Delari - 28/7/2017, 12:09
 
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Traduzione ispirata dal maltempo di questi giorni.

256 sfumature di grigio


La moglie si trova davanti al marito, con le mani sui fianchi.

Lei: Ebbene? Non hai ancora detto nulla.
Lui: Riguardo a cosa?
Lei: Riguardo al mio nuovo maglione.
Lui: Perché, è nuovo?
Lei: Nuovissimo. Ti piace?
Lui: Sei sicura che non lo hai mai avuto indosso finora?
Lei: Sì. Sicurissima.
Lui: Pensavo di avertelo già visto.
Lei: Insomma, ti piace o no?
Lui: È un po’… diciamo… grigio, non ti pare?
Lei: Cosa vuol dire, un po’ grigio?! E si può sapere perché rispondi sempre alle mie domande con un’altra domanda?
Lui: Perché, lo faccio…?
Lei: Appunto.
Lui: E va bene, mi arrendo. Lo ammetto, non so distinguere i tuoi maglioni. A me sembrano tutti uguali.
Lei: Si vede che non li guardi bene.
Lui: Certo che guardo. Ma secondo me sono tutti… be’, insomma, grigi.
Lei: Invece no. Questo è “grigio cincilla”.
Lui: Sempre grigio è, o no?
Lei: Si vede che non hai occhio. Vieni che ti faccio vedere.

La moglie lo porta davanti al suo armadio e apre la porta. Lo sguardo del marito cade su tre scompartimenti di pullover ben ripiegati, e un’asta dove sono appesi golfini e camicette - tutto in diverse sfumature di grigio.

Lo sapevi che la grafica vanta ben 256 toni di grigio diversi?
Lui: No, non ancora. Ma direi che fra poco li possederai tutti. E vuoi davvero indossarli tutti?
Lei: Li indosso già, solo che tu non te ne accorgi.
Lui: (Tira leggermente una manica, perplesso, poi un’altra.) Io qui vedo solo differenze tra - grigio pietra e grigio topo.
Lei: Ma che dici - questo per esempio è chiaramente “grigio Copenaghen”. E quello è “grigio cenere”.
Lui: Cenere…? Ma non dici sempre che è il colore dei tuoi capelli?
Lei: Sono biondi - biondo cenere!!
Lui: Questo non lo capisco. Per me io tuoi capelli sono… piuttosto…
Lei: Dì pure quello che pensi…!
Lui: Ahem… come dicevi ancora che è il colore di questo golfino?
Lei: “Grigio diamante sale e pepe, con gradazioni in ardesia.”
Lui: Dici sul serio? A me sembrano dei nomi fantasia, inventati da qualche stilista in un momento di noia.
Lei: Si vede proprio che non te ne intendi. (Toglie da una crocetta un cardigan di cashmere). Guarda questo: il “grigio calcedonio velato di verde” è l’ultimo grido.
Lui: A me sembra piuttosto “grigio tenda di osteria offuscato di giallo”. Ma mi ricorda anche un po’ “grigio malumore”.
Lei: Ma dai! Lo vedi questo? (Tira fuori un maglione girocollo.) Questo è “grigio ghiaccio”.
Lui: No, questo è certamente grigio pozzanghera!
Lei: Davvero non vuoi capirla, eh?
Lui: Certo, capisco sempre meglio! Dai, adesso lasciami indovinare: quello lì è sicuramente “grigio gas di scarico”, vero? E quell’altro “grigio maltempo”. Oppure no, aspetta: “grigio muffa”. No? Allora forse si tratta di “grigio colla”.
Lei: Va bene, ci provo un’ultima volta: che colore hanno i cerchioni dei tuoi pneumatici?
Lui: “Grigio titanio”. Ma solo per gli pneumatici invernali. Per quelli estivi, ci vuole “Metallic Himalaya”!
Lei: Vedi? Lo sapevo che c’era un modo di fartela capire.


Traduzione: luglio 2017
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Edited by Delari - 28/7/2017, 12:26
 
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Passerà anche questa
Al marito non manca nulla. Soprattutto un medico…

Lei: Allora, vieni a mangiare…? Mamma mia, ma come sei combinato? Sei tutto storto.
Lui: Solo un piccolo problema con la schiena.
Lei: Ancora lo stesso dolore?
Lui: No, prima sembrava che qualcosa mi tirasse. Adesso sembra che qualcosa mi punga.
Lei: Deve trattarsi di un nervo incastrato. Non è meglio se vai dal medico?
Lui: Mica vado dal medico per così poco! Vedrai che fra poco mi passa. (Lui tenta di sedersi.) Ahia!
Lei: Che c’è?
Lui: Credo che mangerò in piedi.
Lei: E io credo che sia meglio telefonare al dottore.
Lui: Finché mi fissano un appuntamento il dolore sarà già passato.
Lei: Con i dolori che hai, sono sicura che troveranno tempo per te domani.
Lui: Non parlare come se soffrissi di una frattura aperta!
Lei: Santo cielo, ma devi vedere una delle tue ossa all’aria aperta prima di andare da un medico di tua spontanea volontà?
Lui: Smettila di drammatizzare, per favore.
Lei: Vuoi dire come quella volta che hai ignorato la setticemia per giorni e alla fine per poco non dovevano amputarti la gamba?
Lui: Alla nostra età qualche volta si hanno dei dolorini. Non c’è niente di strano.
Lei: E tu ti senti normale? Guardati allo specchio, sembri una figura uscita da una casa di fantasmi. Messa insieme male, per di più.
Lui: Sono in ottima forma, te lo assicuro! Guarda qui! (Lui solleva una gamba e riesce a muoverla avanti e indietro, storcendo la faccia per il dolore).
Lei: Non c’è dubbio: qui ci vuole un medico.
Lui: Ti dico di no!! Quelli sono specializzati nel far ammalare la gente. Mi prescriverà solo qualche pomata o delle pillole, e giù con gli effetti collaterali. Li hai mai letti per intero i fogli illustrativi?
Lei: Adesso non dirmi che hai paura dei dottori.
Lui: Stupidaggini. Sono solo convinto che l’unico a stare meglio dopo una visita sarebbe il medico, non io.
Lei: Ma non sarebbe meglio dare un’occhiata con i raggi X? Solo per assicurarci che non si tratti dei dischi intervertebrali?
Lui: Neanche per sogno! Non mi espongo alla radioattività per così poco.
Lei: Ma così non saprai mai cos’hai.
Lui: Bah, come se lo potesse giudicare un medico. Si legge di diagnosi sbagliate ogni giorno, sui giornali. Magari quelli diranno che devono operarmi, e dopo dovrò passare il resto della vita sulla sedia a rotelle!
Lei: Caro mio, sulla sedia a rotelle ci finirai al massimo se continui a essere così ostinato. O come minimo, tutto ingessato. E alla responsabilità, non ci pensi? In fondo sei padre di famiglia.
Lui: Non sono ostinato! Guarda qui, mi sono già fatto una borsa per l’acqua calda.
Lei: Ci rinuncio. Proprio non vuoi sentire ragioni. Ma quando verranno a prenderti con la gru, non voglio sentire lamenti.
Lui: Con la gru…? E perché?
Lei: È vero, quella storia non la sai. È successo quando eri in viaggio per lavoro. Ti ricordi il signor Lentner del terzo piano? Hanno dovuto issarlo attraverso la finestra.
Lui: Mamma mia, ma perché?
Lei: Ernia del disco. All’inizio sentiva solo un lieve dolore… tirante.
Lui: Sul serio…?
Lei: Mi ha detto che si trovava disteso per terra senza riuscire a muoversi. Ha impiegato ore per strisciare fino al telefono, e il medico di guardia non è riuscito a trasportarlo per le scale: ha detto che bisognava a tutti i costi evitare altri scossoni. Alla fine sono arrivati i pompieri e lo hanno portato via con l’aiuto della scala girevole.
Lui: Ma è terribile!
Lei: Eccome. I vicini per poco non avrebbero avuto anche loro bisogno di un ortopedico, tanto si sono storti i colli dalle finestre per guardare. Sai che vergogna, poveraccio.
Lui: È per questo che ha cambiato casa?
Lei: Non lo so. Ma che vuoi, non pensarci. Almeno tu stai ancora in piedi.
Lui: Solo che non so ancora fino a quando.
Lei: Non ti preoccupare, passerà. A proposito, vuoi che ti metta il piatto sul davanzale, o preferisci mangiare il brodo direttamente dalla pentola?
Lui: Mi è passato l’appetito. Voglio un medico. E subito. Meglio se chiami subito il medico di guardia. Sbrigati, per favore!! Ahia, sento che il dolore sta già arrivando al cuore.
Lei: Ce n’è voluta per farti ragionare! Anche se i vicini di certo sarebbero stati contenti…


Traduzione: agosto 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



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Per tutti i sacchi di patate…!
(Articolo da un giornale bavarese)

Ma che, ho sbagliato stagione? Sabato non è stato l’inizio dell’Oktoberfest, ma quello di Carnevale? Altri non riesco a spiegarmi tutti i vestiti “tradizionali” che dall’altro ieri vanno in giro sul Prato di Teresa. I venditori e le riviste di moda amano presentare le loro creazioni con la frase “Per le vittime della moda (fashion victims)”. Solo che a volte uno si chiede chi è la vittima, e chi il perpetratore dell’orrendo crimine.

Quando l’esercito di abiti a minigonna in colori neon ricomincia a ballare sulle panche, senza indosso la camicetta ma in cambio grembiuli di poliestere-non-so cosa, tutti gli anni si avverte una cosa: che molti che abitano qua sono stranieri, anche se ci sono nati. A quanto pare, si può essere uno straniero nella propria città, dipende dall’atteggiamento; altrimenti una ragazza originaria di cui saprebbe automaticamente cos’è un “Dirndl”, e che questo abito non è nato per valorizzare abbigliamento intimo in pizzo (rispettivamente il suo contenuto arricchito dal silicone). Non si lascerebbe rifilare, da qualche venditore subdolo, abiti di taffetà marca “Schatzi” o “Herzi”, rifiniti con disegnini multicolori. O dimenticherebbe la sua camicetta a casa tutte le volte.

Cari i miei signori psicologi, queste donne hanno bisogno di aiuto! Vanno in giro in abiti confezionati da stoffe per tenda, o al massimo per costumi adatti al carnevale di Venezia. Non vogliatemene ma qui urge chiarire un paio di cose, giusto per averle dette.

Un abito bavarese si allaccia davanti sul corpetto, con dei gancetti o un nastro di velluto e delle asole. Se l’abito ha invece una cerniera, con molta probabilità si tratta di un completo party, che segnala che ‘sto vestito è alla facile portata di maschi interessati e alcolizzati, anche se sono già alticci o la coppia si è spontaneamente ritrovata sotto a una panca, o in altro luogo.
C’è una lunghezza minima per questi abiti, ed è all’altezza delle ginocchia. Vuol dire che lo stile ‘minigonna’ qui non c’entra. (Chi non si sente sicura controlli se la giarrettiera da 1,- € è ancora visibile guardandosi giù per le gambe.) E allungare, o tentare di allungare la gonna con orli di pizzo o di tulle non vale. Una sottogonna va bene, ma non mostrate l’orlo a meno che vogliate segnalare che siete facilmente abbordabili.

Per non parlare del tulle, aaargh. Forse è utile per decorare le finestre della roulotte, ma non per confezionare camicette! Una camicetta tradizionale ha le maniche corte, al massimo fino al gomito, ma certamente non le bretelline, e non scivola dalle spalle come a una danzatrice di flamenco (di quelle vestite male, intendo).

Ancora peggio sono gli abiti fatti di lino beige, che sembrano sacchi di patate e fino a qualche anno erano di gran voga (si chiamava “stile campagnolo”). Con le loro sottogonne a lembo svolazzante, drappeggiate su un lato, ricordavano piuttosto dei pellegrini medievali. Per fortuna questi abiti nel frattempo si sono quasi tutti trasferiti in posti più adatti, come le feste e i mercatini medievali appunto. O magari qualche volta le indossano delle massaie pacchiane, con l'intenzione di importare un po’ di fashion nelle loro villette a schiera.

Parlando del grembiule: sì, è solo una decorazione e non serve per asciugarsi le mani, ma non è un buon motivo per seppellire la stoffa sotto ai cristalli di Swarovski, o peggio ancora decorarla con le piume. Altrimenti non stupitevi se qualcuno vi domanda se lavorate per una delle bancarelle dove vendono il pollo arrosto. Inoltre il grembiule non dovrebbe ricordare un sari indiano o un abito da pastorella importato direttamente dalla Puszta. Deve andare bene con l’abito e basta. Il fiocco non va sulla schiena ma da un lato; quello sinistro se sei single, quello destro se sei sposata, fidanzata ecc.

Lo so che adesso alcune persone in vista che amano danzare sulle panche mi vorranno ammazzare: ma i tacchi a spillo o le scarpe spuntate, forse anche decorate con un disegno di frutta, non hanno nulla a che vedere con un abito tradizionale. Lo stesso vale per le scarpe stile ballerina, gli stivali (magari di gomma, con disegno di cervi), sneaker decorate con stoffa a quadretti per fare più bavarese, o sandali con la suola spessa in stile anni 70. Le scarpe bavaresi sono belle e comode, chiuse, foderate e con un laccio o una fibbia su un lato, e i tacchi non fanno venire le vertigini.

Un altro attentato al buon gusto sono i cappelli di feltro con le piume, preferibilmente in rosso cremisi. Nei film del commediante Heinz Erhardt, -anta anni fa, se li mettevano in testa i rompiscatole, i tizi troppo attaccati alla natura, rispettivamente i tedeschi del nord. I nostri nonni potevano ancora riderci sopra; oggi questi cappelli spesso completano i Dirndl, e il risultato sembra una battuta pietosa.
Quindi, per favore: i cappelli al massimo li indossano gli uomini, insieme ai classici pantaloni di cuoio. E le piume di fagiano non c’entrano, anche se forse hanno l’intenzione di simboleggiare virilità. Al massimo sfoggiano piumette di aquila, o un pennacchio con i peli di camoscio. E soprattutto, questi cappelli non sono rossi, o viola! Salvo che uno non voglia dare un’interpretazione del Kasperl, il nostro Arlecchino.

Adesso ditemi pure che sono borghese e autoritaria. Ma il “Dirndl”, il classico abito bavarese, è nato per essere l’abito tradizionale della regione, non un costume da circo. Chi fa galoppare troppo la fantasia farebbe meglio a travestirsi da „Happy Heidi“, per non lasciare dubbi.

D’altro canto, bisogna ammettere che dopo cinque boccali di birra (o di birra mista allo spumante, se si va al Käfer’s), si è sentito parlare di persone che hanno fatto cose ben peggiori che vestirsi senza gusto…


Traduzione: settembre 2017
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Edited by Delari - 22/9/2017, 10:19
 
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„Non sono qui per fare da selvaggina libera“
Vita dura quella delle venditrici di rose…

Avevo appena finito il liceo quando passai per caso davanti a un negozio di fiori dove c’era un foglio attaccato alla vetrina: “Cerchiamo venditori di rose per l’Oktoberfest”. Avevo 18 anni, volevo intraprendere un viaggio in Australia e mi ci volevano i soldi, quindi entrai nel negozio e mi lasciai assumere.
Me lo ero immaginato sin dall’inizio che sarebbe stato duro e faticoso vendere fiori in un tendone sovraffollato da gente che festeggia e spesso ha bevuto un po’ troppo. Ma avevo sottovalutato gli aspetti secondari: nel frattempo, sei anni dopo, ho capito che all’Oktoberfest molti uomini che vengono qui scambiano noi venditrici di rose per una sorta di selvaggina libera, un oggetto di desiderio abbordabile a tutti.

Posso ringraziare l’Oktoberfest se ho perduto gran parte della mia fede nel genere maschile. Mi ricordo per esempio che durante il mio primo anno in uno dei palchi sul balcone ci fu una proposta di matrimonio. Tutto il tendone acclamava, e io mi avvicinai al tavolo, immaginando di fare l’affare della mia vita. E lo sposo? Mi afferrò, mi sollevò da terra e mi diede due sonore pacche sul sedere. Un minuto dopo avere chiesto a un’altra se lo voleva sposare!
I maschi sembrano pensare che io sia una specie di oggetto di cui possono disporre quando e dove vogliono. E le loro mogli sono sedute lì vicino a guardare. Che io sono qui per lavoro, è una cosa che a molti non viene mai in mente. E questo dalla prima rosa che vendo fino all’ultima.
Lavoro su commissione, il che significa che per ogni rosa che costa la bellezza di 4,20 € ottengo 84 centesimi. In una giornata media vendo 150 rose al giorno. Quindi la maggior parte del mio denaro lo guadagno con le mance, e per questo vi incoraggio un po’, lo ammetto. Non appena prendo in mano il mio mazzo di rose divento un’altra persona. È come se fossi un’attrice: tutt’ad un tratto sono l’allegra venditrice di rose.

Il fatto è che con l’Oktoberfest ci sono solo due alternative: o lo odi o lo ami. Ed io provo entrambi questi sentimenti, con la stessa uguale passione.
Tutti gli anni quando si preannuncia la festa ho la stessa sensazione, una sorta di paura sociale. Più si avvicina il momento del primo stappo, più sento dentro di me ripetersi i pensieri: che non avrò mai il coraggio di parlare con dei perfetti sconosciuti, che mi ignoreranno, derideranno o mi dichiareranno matta. Che quest’anno non venderò neppure una rosa, neppure mezza. Sul serio, chi è che paga 4,20 € per un fiore?
Ma l’Oktoberfest è un altro mondo. È naturale che lì una rosa costi tanto, come è naturale che molti ne vogliano una lo stesso. E naturalmente ce la faccio. Alla fine mi trovo nella stanzetta dove vengono stipate le rose a fare una piccola colazione, conto i soldi di resto ancora una volta, mi allaccio la taschina, faccio un nodo fresco al grembiule e getto un ultimo sguardo allo specchio. Non ho nulla tra i denti, le trecce sono ordinate, il rossetto ha lo stesso colore delle rose. Andiamo, allora. Prendo in braccio le rose ed è come se scattasse una molla: un mazzo di rose fa di me un’altra persona.

Che cosa significa? Significa che divento il tipo di persona che vende la sua biancheria intima sotto agli occhi di tutti. Ancora e ancora, gli uomini mi chiedono se possono avere le mie mutandine o il reggiseno. All’inizio ero così irritata e spaventata da non sapere cosa rispondere. Oggi dico subito: “Certo, quanto offri?” Dovrebbero un po’ vedere le loro proprie facce! La maggior parte arrossisce violentemente e se la svigna. Alcuni accettano - chi lo sa perché - di pagare 50,- €. Faccio un buon affare e per questi casi ho sempre un po’ di biancheria in tasca, ben lavata di fresco.
Quando vendo rose io stessa mi trovo irresistibile. Ho una risposta a tutto e se necessario le sparo davvero grosse. Non c’è altro posto al mondo dove posso farlo, quindi ne approfitto.
E non mi lascio più irritare se uno mi chiede se gli permetto di estrarre la rosa appena comprata dalla mia scollatura. Certo! Fai pure, ma quella rosa ti costerà il doppio. Puoi anche estrarla con la bocca, ma a prezzo di 50,- €. Lo confesso, lo faccio perché voglio battervi con le vostre stesse armi. Perché spero che almeno qualcuno di voi si accorga della figura che fa.
„Vuoi uno sconto? Vabbè, la rosa costa 4,20 €, a te la do per 5,-. Vuoi il mio numero di telefono? Sì, se paghi. Le mie mutandine? Sei matto? Prima devi comprare tutte le rose che ho in braccio, fanno 84,- €. E aggiungine 50,- € per le mutande. Se puoi mangiarla, la rosa? Fai pure, è biologica e fair trade. Vuoi che me la mangi io? Nessun problema, sono vegetariana." - Queste e altre frasi le dico tanto spesso che alla fine anche a me danno la nausea.

Molte delle mie colleghe sopportano il loro lavoro solo alcoolizzandosi. Io non reggo tanta birra e quindi devo cercare appoggio morale: con il passare degli anni ho trovato lavoro sull’Oktoberfest a metà dei miei amici e parenti. Le rose si vendono meglio in gruppo, e insieme si soffre meno. Eppure a volte non ce la faccio più lo stesso, e allora devo ritirarmi e urlare, o mettermi a piangere come una bambina.
Lo so che all’Oktoberfest c’è un’atmosfera molto carica, di erotismo e di altro. Ma non appena vedono le mie rose, gli uomini sembrano dimenticare tutt’a un tratto le buone maniere e il lume della ragione tutti insieme. Non capiscono più che se una dice di no significa veramente no, che non sta bene tentare di sculacciarmi in pubblico o palparmi da qualche altra parte. Ragazzi!, finitela, e ragazze, non permetteteglielo. Se necessario chiamate l’usciere e fate buttare fuori gli screanzati, aprite bocca se qualcosa non vi va, e se ci vuole, le rose datele in testa a quelli che se lo meritano. Farà bene a loro e anche a voi, lo so per esperienza.
Quando domando ai maschi perché si comportano così, hanno sempre le stesse risposte idiote. Che a me interessa solo fare un affare, che parlo con loro sperando di vendere qualcosa, quindi avranno pure il diritto di flirtare un po’ con me. Ma cosa credete? Certo che voglio vendere qualcosa. Naturalmente devo utilizzare il fascino femminile, scherzare e anche flirtare, altrimenti non venderei nulla. Ma pensate davvero che mi diverta lasciarmi umiliare? Voglio guadagnare qualcosa e per questo tollero un mucchio di cose - come tutti quelli che lavorano qui.

Eppure, tutti gli anni divento un po’ malinconica quando la festa finisce. Perché non è che abbia solo lati negativi. Un sacco di visitatori sono gentili e ci sono momenti dove mi diverto un mondo. Molti sono veramente contenti quando gli regalano una rosa, e ci sono anche tanti clienti che vengono ogni anno e non vedono l’ora di rivedermi. Turisti che non sono mai stati qui, allibiti dallo choc culturale, comprano una rosa per puro principio e con gli occhi spalancati. Innamorati fanno il primo passo con il mio aiuto. Ragazzetti ancora imberbi regalano orgogliosamente alla loro prima ragazza la prima rosa. Donne regalano una rosa ai loro mariti. Sì, ci sono anche quelle, e gli uomini sono sempre contenti. Altre persone comprano una rosa da me perché vedono che sto facendo un lavoraccio infame. Altri sono abbastanza cortesi da dire semplicemente “No, grazie” quando non gli va di comprare fiori. E altri ancora mi fanno ridere perché hanno un modo di fare fresco e originale.

E all’improvviso arriva il momento dove so che ora la festa finisce. Mi trovo nel mezzo del tendone, ho venduto l’ultima rosa e mi sento spaesata. Ho perduto il mio ruolo, non ho più un compito, nessuno scudo dietro cui nascondermi, nessuna legittimazione per il comportamento a volte assurdo, nessun diritto di esistere. Mi sento come nuda e devo ancora digerire il bombardamento dei miei sensi e le esperienze delle ultime due settimane. Il complesso suona l’ultima canzone, tutti si abbracciano e poi il tendone si svuota, ed è strano vedere quanto accada in fretta. Tutti regoliamo i nostri conti per l’ultima volta e io so che non ce l’avrei fatta a tenere duro per un’altra giornata.

Il giorno dopo sono sorpresa nel vedere come le stesse persone si comportano una volta che sono ritornata nella realtà. Senza il mio mazzo di rose si danno tutti un contegno, sono premurosi o neppure mi fanno caso. O magari mi vogliono veramente parlare, di cose serie. Ma io non mi sono ancora riacclimatata e mi accorgo nuovamente come è facile dimenticare la realtà quando si va all’Oktoberfest.
Magari farò nuovamente la venditrice di rose, l’anno prossimo. Ma sarà davvero per l’ultima volta. Mi ero giurata di non farlo più, che questo sarebbe stato l’ultimo anno. Ma non lo avevo già detto l’anno scorso, e quello prima anche…?



Traduzione: settembre 2017
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Edited by Delari - 4/10/2017, 09:40
 
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Non sapevo che fossimo poveri. Prima di essere iscritta al liceo.
Traduzione da un recente articolo di giornale.


Il mio liceo si trovava in uno dei quartieri un po’ più agiati di Düsseldorf; il tipo di posto dove i ragazzi di buona famiglia arrivavano tutti i giorni a sfoggiare i loro abiti firmati. Alcuni scolari dell’ultimo anno erano alla guida della loro Mercedes nuova di zecca, mentre i maestri, più modestamente, si contentavano di venire in bici. Sparpagliati tra le classi si trovavano alcuni scolari piuttosto normali, né ricchi né poveri. Molto sporadicamente, si incontrava qualcuno appartenente a una famiglia meno agiata.
Io facevo parte dell’ultimo gruppo, giacché i miei sbarcavano il lunario come autisti o fattorini. Ma mi ricordo bene che spesso pensavo: non stiamo per niente male. Quando avevo 11 anni riuscimmo anche a traslocare dal nostro appartamento di 50 metri quadri in uno di 70, il che per me significava una bella e grande camera propria. Non era lusso questo?

Mi sbagliavo. Almeno fu quello che i miei coetanei mi dimostrarono senza indugio.
Durane l’intervallo tutte le ragazze si mettevano in cerchio e paragonavano le loro scarpe. Tutte indossavano scarpe di Adidas o Nike, possibilmente modelli simili.
Non immaginando nulla di male, schiacciai i miei piedi tra i loro e dissi orgogliosamente: „Le mie scarpe sono di Graceland!“ Per tutta risposta ottenni solo occhiatacce irritate.
Capii allora che era una sorta di blasfemia se le mie normalissime scarpe toccavano quelle firmate delle mie compagne. Un altro giorno arrivai a scuola in bici, come di consueto, e uno dei ragazzi mi rise in faccia: „La bici l’hai rimediata al discounter, vero?”
Mi meravigliai come avesse fatto un ragazzino di dodici anni a riconoscere subito dove avevo comprato la mia bici – finora non avevo mai riflettuto sugli attributi della mia bicicletta. Doveva funzionare e basta. Ancora una volta capii: non si compra la bici in un negozio di roba economica, se si ha un po’ di stima di se stessi.
Un giorno mi venne a trovare una compagna di scuola, ed io ero contenta di poter finalmente mostrare a qualcuno il nostro nuovo appartamento. Lei la girò tutta con passo pesante e quindi mi chiese, con gli occhi spalancati: „Ma come fate a vivere così?” Lei stessa naturalmente risiedeva in una villetta in periferia. Ancora una volta capii: un appartamento di 70 metri quadri non è degno di essere abitato da tre persone (per tacere del cane).
Scene come queste si ripeterono ancora e ancora durante i miei anni a scuola. Perché la mia salopette non era di Gap? Perché dovevo fare domanda di un contributo per poter partecipare a una gita scolastica? Perché non facevo parte allo scambio di studenti? Io stessa ero sempre dell’opinione di vivere abbastanza bene; era a confronto con gli altri che ero povera.

A 15 anni attraversai una fase di ribellione. Mi rifiutai di andare a scuola, mi tinsi i capelli di tutti colori del mondo e andai a passare il mio tempo sulle scalette del Reno, insieme ai punk e i drogati.
E tutt’a un tratto la frittata si rigirò: qui non ero più appartenente a una classe inferiore, neppure in grado di finanziare una gita scolastica, ma una ragazza ricca. Dal punto di vista di questa gente io stavo bene, perché avevo una dimora fissa e i miei genitori non sprecavano quello che guadagnavano per comprarsi alcool e canne.
Mi ricordo ancora quella volta che un punk sotto l’influsso di droghe si era seduto vicino a me, e, sbavando, mi aggredì chiamandomi una viziata figlia di ricconi. Andai su tutte le furie perché i miei avevano appena perduto i loro posti di lavoro e non mi sentivo per nulla come un membro di famiglia benestante. Mi vergognai lo stesso dei miei privilegi, del fatto che ero facoltosa in confronto a quelli che tiravano avanti chiedendo l’elemosina nella zona pedonale tutte le sere.

Quanto possono essere differenti i gruppi sociali e quanto spesso comportamenti e modi di giudicare sono legati ai propri beni materiali molte persone non lo notano, fuorché quelle che riescono a salire la scala sociale. Se non fossi stata studiosa e fossi stata assegnata a una scuola secondaria inferiore nel nostro modesto quartiere, probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di essere povera. E dall’altro canto non mi sarei mai sentita agiata e avezza a una vita sicura, se un giorno non mi fossi stufata di fare la brava in mezzo a tutti i ragazzi benestanti della nostra scuola. I punk che passavano i loro giorni attaccati alle scalette del Reno mi aprirono un’altra veduta.

Ma anche la conoscenza di questa veduta non rende necessariamente tutto più facile. Anche nelle prossime fasi della mia vita – durante l’università, sul posto di lavoro – molto di rado incontravo persone con storie simili alla mia. Quindi a me non restava altro che continuare ad adeguarmi orientandomi a un ceto sociale più alto. Il che equivaleva quasi a doversi adattare a un’altra cultura: un altro livello significa altre abitudini, altri modi di parlare, altri status symbol.
Di solito stai attenta affinché nessuno noti che fai parte di un ceto diverso; però è difficile nascondere la scarsità di denaro. Se gli amici ti invitano a un viaggio insieme con loro o a un giro di shopping nelle loro boutique preferite e tu devi rifiutare perché non te lo potresti permettere, spicchi dalla massa. E anche se da adulti i benestanti non ti fanno più sentire che sono qualcosa di meglio con asserzioni impertinenti, rimane sempre una leggera incomprensione, e a volte anche condiscendenza.

In queste situazioni non serve riflettere che potresti stare molto peggio. Vorresti non essere estraniata da loro, ecco tutto. Solo che guarda caso, il gruppo di persone cui vorresti appartenere non solo è più colto (la cultura la puoi acquisire), ma dispone anche di più denaro. E noi esseri umani abbiamo una tendenza a giudicare le persone in base alla loro situazione finanziaria, sempre in relazione alla nostra situazione sociale. I poveri li riputiamo più stupidi, gretti e rozzi, mentre quando uno è ricco facilmente crediamo che sia più intelligente, di vedute più larghe e più sicuro di sé. Le prime caratteristiche secondo cui giudichiamo una persona sono i beni materiali. E questo atteggiamento comincia già quando siamo piccoli, secondo la mia esperienza.
Sono questi pregiudizi che rendono così difficile abbandonare il nostro ceto sociale, e non solo, creano anche difficoltà per quelli che ci vogliono entrare. Uno che riesce ad ottenere un titolo di studio più alto e un impiego migliore dei suoi genitori si sentirà sempre fuori luogo, non meno di uno che ha perduto il suo posto di lavoro e ora deve arrabattarsi tra indennità e ufficio di collocamento.

Forse ci aiuterebbe se potessimo sentirci più sicuri di noi stessi. Se ci accettassimo semplicemente come siamo, insieme al fatto che la nostra bici comprata al discounter ci va benissimo. Forse quelli che ci guardano dall’alto in basso (o al contrario dal basso in altro, con superfluo ossequio) si sentono semplicemente insicuri, e pensano di trovare sicurezza scavando mentalmente fossati tra gli uni e gli altri.

Per quanto riguarda me, abito nuovamente insieme con altre due persone e un cane su 70 metri quadri. E i criticoni che tengono il naso per aria ne possono pensare quello che vogliono.



Traduzione: ottobre 2017
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Tarde rose

Ambientazione: Schleswig-Holstein, circa 1880


Mi ero recato, di quei tempi, in periferia di una città al Nord, nella casa di campagna di un amico. Avevamo trascorso insieme gran parte della nostra gioventù, finché, quasi alla fine di questa, la diversità delle nostre professioni ci aveva separati. Durante i vent’anni nei quali non ci eravamo visti lui aveva fondato ed era diventato il capo di una fiorente casa commerciale; io ero stato spinto dal destino a vivere in un altro paese, dove ero rimasto. Ma ora ero tornato a casa, per un breve periodo.
La moglie del mio amico non l’avevo ancora conosciuta. Non era più tanto giovane, ma le sue movenze avevano ancora la grazia della giovinezza, e i suoi occhi tranquilli avevano uno sguardo chiaro e franco come quello di una bambina. Non impiegai molto per notare che i coniugi si trattavano con un riguardo e una gentilezza come di norma si vede in una coppia in luna di miele: quando ella entrava nella sala delle colazioni, abbigliata in abito da mattina, come prima cosa cercava lo sguardo del marito e sembrava chiedergli, senza dire parola, se gli piacesse. Allora dalla fronte di lui per un breve momento scompariva la ruga profonda che la solcava, e accettava la mano che lei gli porgeva come se l’avesse appena ottenuta in sposa. Certe volte, quando lui sedeva nel suo studio davanti alla scrivania, la donna entrava silenziosamente dal salotto, o dall’antistante sala del giardino, e si sedeva per qualche minuto vicino a lui; o, invisibile, si avvicinava alla sua sedia e gli posava la mano sulla spalla, come ad assicurargli che gli era vicina, che era lì qualora avesse bisogno di lei.

Ciò di cui narra il mio racconto si svolse durante un chiaro pomeriggio di ottobre. Il mio amico era ritornato dalla città dopo avere svolto i suoi affari, e ora ci trovavamo, discorrendo dei tempi andati, sulla larga terrazza situata dinanzi alla casa, da dove si poteva guardare sul giardino antistante e oltre a questo si vedeva, dietro a un ricco prato verde, la scura acqua dell’insenatura del Mar Baltico e dall’altra parte di questo i boschi di faggi sulle loro dolci colline, che si stavano già tingendo di colori autunnali. Tutto questo insieme al profondo cielo azzurro autunnale era incastonato dagli alti pioppi che si ergevano ai lati della terrazza come enormi e oscure quinte teatrali. La moglie del mio amico era uscita dalla porta-finestra aperta del salone da giardino con la figlioletta più giovane alla mano, e ci aveva oltrepassati con il suo sorriso tranquillo; non voleva intrudere nel nostro mondo fatto di ricordi di cui non era partecipe. Ora si trovava, con la bambina in braccio, sul ciglio della terrazza, e insieme le due seguivano con lo sguardo una nave a vapore che con il rimbombo delle sue ruote aveva già da un po’ interrotto il silenzio della campagna. La sua alta figura e il delineamento del suo capo aristocratico si stagliavano nitidamente contro il cielo crepuscolare.
I nostri sguardi dovevano averla seguita senza che ce ne rendessimo conto, perché il nostro discorso si interruppe. Soprappensiero presi un grappolo d’uva che si trovava in un vassoio di cristallo sul tavolino di marmo dinanzi a noi.
„E così è dovuto accadere,” dissi infine, raccogliendo il filo del nostro discorso, „che io, che sin da bambino mi dilettavo di smerciare di tutto, perfino le castagne e i noccioli di ciliegia, sono divenuto un uomo di scienza; e quanto a te - cosa ne è diventato dei bei drammi che scrivevi al liceo?”
„La ragioneria italiana,” mi rispose egli sorridendo, „è una medicina sicura contro la poesia; e inoltre ho dovuto aggiungere molta forza di volontà affinché portasse i suoi frutti.”
Mi guardò con i suoi occhi bruni, che facevano ancora riconoscere il giovane idealista che era stato.
„Deve esserti costato molta fatica,” risposi.
„Fatica?” egli rispose lentamente. „Credo che sia stato il prezzo minore che io abbia pagato.” Dicendo così gettò uno sguardo alla moglie, così tenero e orgoglioso di saperla sua come se l’avesse portata all’altare solo poco tempo prima.
Al che mi venne in mente una scena accaduta il primo giorno del mio arrivo. Il mio amico, nel mostrarmi la sua casa, mi aveva fatto entrare nel suo studio, e il mio sguardo era caduto spontaneamente su un quadretto appeso vicino alla sua scrivania. Rappresentava una ragazza, dipinta in olio con colori freschi e chiari, e di una serenità e gioia di vivere che sembravano traboccare dalla tela.
Quando gli chiesi chi rappresentasse, mi rispose: „È un ritratto di mia moglie. Cioè,” aggiunse, „della fanciulla che divenne mia sposa e più tardi mia moglie. Era stato dipinto per i suoi nonni ed è tornato qui come eredità.”
Dicendo così anche lui si era avvicinato al quadro, mentre io mentalmente facevo il paragone tra questo ritratto e sua moglie, che avevo finora visto soltanto di sfuggita. Quando mi rivolsi verso di lui sul suo viso era dipinta una tenerezza al limite del dolore, che non riuscii a spiegarmi e ancora meno dopo avere passato qualche giorno sotto il suo tetto; in fondo la fanciulla era divenuta sua, era viva e vegeta al suo fianco e, a quanto pareva, lo rendeva felice oggi come aveva fatto allora.
In questo momento, quando la bella e tranquilla figura della donna scese dai gradini della terrazza per addentrarsi nel giardino insieme alla figlia, ed io non temevo più di toccare una ferita non risanata, non potei trattenermi dal comunicare la mia osservazione all’amico. „Cos’è successo, Rudolf?” chiesi stringendo lievemente la mano all’amico di gioventù. „Dimmelo se puoi.”
Egli guardò ancora una volta nel giardino, dove dal prato cominciava già a salire la nebbia serale; quindi passò una mano sulla fronte per ravviarsi i capelli, e mi disse, con il tono gentile e la voce che avevo conosciuto per tanto tempo: „Si tratta di qualcosa di intimo, ma nulla di grave o scandaloso. Posso anche raccontartelo - fino a dove si può raccontare una cosa simile.”

A suo tempo ti avevo scritto, nelle mie lettere, come avevo conosciuto la mia futura moglie, quasi quindici anni fa, nella casa dei miei genitori. Era venuta a trovare mia sorella, con la quale aveva stretto amicizia in occasione di una visita su un’isola dell’ovest, dove le nostre famiglie si trovavano per fare i bagni. Quel periodo della mia vita è stato il più faticoso e il più logorante; uno dei compagni, che con i suoi mezzi aveva appoggiato in parte la costruzione della nostra casa commerciale, si era improvvisamente ritirato; e il denaro mancante ora doveva essere ricavato in altri luoghi, e nel più breve tempo possibile. A questo si aggiungeva l’edificazione della nostra società per navi a vapore, che a quei tempi progettavo già, ma che veniva sempre impedita dalla gelosia dei nostri vicini. Dopo avere passato la giornata con lavoro estenuante e spossante, sentivo il bisogno di una partecipazione umana, di un rifugio onde far riposare il mio cuore: trovai entrambe queste cose nell’amica di mia sorella. Di sera, nel giardino dei genitori, mentre passeggiavamo tra i prati recintati di ligustro, i miei progetti e le mie preoccupazioni erano l’oggetto delle nostre conversazioni; ella ascoltava e a tutto aveva una risposta comprensiva. La semplicità e sicurezza della sua natura, che anche tu hai ammirato in lei sin dal primo giorno del tuo arrivo, si notavano in lei sin da allora.
Ma anche la spavalderia della gioventù non le mancava. Mi ricordo di una sera, dove mi trovavo seduto di fronte alle due ragazze, davanti al vecchio tavolo da giardino nel pergolato. Era stata una giornata nera, molte cose erano andate storte. In un momento di sconforto esclamai: „È al disopra delle mie facoltà!” In luogo di una risposta, ella posò il mento sulla mano senza parlare e mi guardò per un momento con uno sguardo sorpreso e un po’ stizzito. Quindi voltò il capo verso mia sorella e disse, sorridendo: „Lo vedi? Anche lui non ci crede più!”
E aveva ragione; nelle settimane che seguirono, mi avvidi che le mie forze erano sufficienti per risolvere le difficoltà.
Alla fine fu la cosa più naturale del mondo per lei posare la sua mano nella mia; come lo fu per me accettarla. Molti mi fecero dei complimenti per avere trovato una bella moglie; ma non era per quello che volli sposarla, e anche dopo il nostro matrimonio non diedi tanto peso alla sua bellezza. Ella divenne mia moglie, la compagna della mia vita, al mio fianco in ogni dovere che mi poneva la vita affinché lo risolvessi.
Ti ricorderai forse - perché te ne ho spesso scritto - come ora un problema dopo l’altro mi si presentò davanti, ma finiva sempre per essere risolto. Mi sembrava quasi che tutto accadesse grazie alla mano di mia moglie; perché ella sapeva sempre dove si trovava il suo posto, cosa dovesse fare e quando; aveva il dono di comprendere il linguaggio silenzioso delle cose, come la ragazza laboriosa nella favola di Fata Piumetta, che quando oltrepassa il melo lo sente chiamare: „Scuotimi, i miei frutti sono maturi!”
Dopo pochi anni potei acquistare questa casa in campagna e arredarla secondo i nostri semplici gusti. Con la fortuna dalla mia parte gli affari si moltiplicarono; non ero io a condurli, erano essi a condurre me, ed io ero come catturato da un’intricata tela di collegamenti di cui uno susseguiva all’altro, e tutte le energie della mia mente erano concentrate in questo compito, che occupava interamente le mie giornate.

Il mio amico interruppe il suo racconto: la sua figlia maggiore, di dodici anni, era uscita dalla casa e gli chiedeva dove si trovasse la madre. Egli la prese in braccio ed ascoltò i suoni provenienti dal giardino. Di là, proveniendo dalla serra che oltrepassava cespuglio e muro del giardino con il suo comignolo bianco, si sentiva ridere la figlia più piccola, e di quando in quando la voce della madre che la ammansiva.
„Va’, Jenni,” le disse sorridendo, „due grossi fichi sono maturi; potete prenderli.” Ella annuì, e via giù per la scala e attraverso le aiuole che si allargavano al disotto della terrazza, fino a scomparire di lato tra i cespugli. Il padre la seguì per un attimo con lo sguardo; quindi proseguì.

Era la primavera di una domenica pomeriggio; la ragazzina che abbiamo appena mandato da sua madre allora contava forse sei mesi. Il salone da giardino qui dietro alla terrazza era appena stato tinteggiato, il sole di primavera splendeva sul pavimento, e attraverso le porte aperte entrava il profumo delle foglie e gemme che germogliavano. Mi trovavo seduto sul divano e avevo preso in mano un libro del tipo che non avevo toccato da molto tempo; non so perché, forse mi ero ricordato di te e dei nostri alacri studi del tedesco antico, o forse volevo solo assicurarmi che qui fuori si trovasse un altro mondo per me, diverso da quello in città tra le opache pareti del mio ufficio.
Il libro che avevo aperto era il poema in versi su Tristano e Isotta, scritto dal maestro Gottfried. A un po’ di distanza, di fronte a me nella nicchia della finestra si trovava mia moglie intenta a cucire o ricamare; nella stanza accanto la nostra bambina dormiva nella sua culla. Era tutto molto quieto; nulla mi interruppe mentre mi imbarcai insieme ai due eroi del poema per attraversare il mare.

Le chiglie della nave solcano il mare; durante la solitaria ora di mezzogiorno Isotta è seduta in coperta. Il vento dell’estate spira attraverso i suoi biondi capelli, ma i suoi occhi sono bagnati, per la nostalgia della patria, per il timore dell’ignoto, del paese straniero donde è stata inviata ad essere la sposa dell’anziano re. Il cavalleresco Tristano vuole consolarla, ma lei lo respinge; lo odia perché in duello ha ucciso suo zio Morolt.
L’aria è afosa, la donna ha sete. Nella caminata della nave, malcelata, si trova la bevanda dell’Amore, che è stata data a Isotta affinché con il suo aiuto possa farsi amare dal suo vecchio sposo. La fantesca esclama: „Guardate, qui c’è del vino!” E Tristano, ignaro, offre il calice alla regina.
Ella beve, esitando; quindi offre il calice all’uomo, e anche lui ne prende un sorso.
Qui comincia la magia del vecchio poeta; e noi lettori viviamo con Tristano e Isotta, con i loro dubbi e il desiderio inarrestabile dei loro cuori, come non vogliono amarsi eppure devono, come ancora sperano di potersi liberare dei loro sentimenti eppure temono il momento in cui accadrà. I dolci versi incalzano, inarrestabili, e nella loro segreta magia ammaliano il cuore. Vedevo dinanzi a me la bella giovane coppia, appoggiata al bordo della loro nave, come guardano la distesa d’acqua per non dover vedere come le loro mani si toccano di nascosto, e mentre sono ebbri l’uno dell’altra parlano di cose che in quel momento sembrano fuori posto, dicono parole come mare e nebbia, aria e odore salmastro.

L’effluvio proveniente dal calice che il vecchio maestro sa descrivere così bene al lettore salì dalle pagine del libro, e anche in me la magia destò qualcosa. Il poema mosse qualcosa dentro di me che la mia vita fino ad ora aveva lasciato addormentato; non avevo conosciuto quest’altro mondo, che imponeva le proprie inesorabili leggi a Tristano e Isotta; il sentimento con il quale il poeta stesso, come dichiara al lettore all’inizio della sua opera, desidera degenerare e prosperare.
Alzai il mio sguardo dal libro e guardai mia moglie. In quei giorni sulle sue guance c’era ancora l’alito della giovinezza; attraverso la finestra le ombre delle foglie di pioppo cadevano sulla sua fronte e si muovevano lentamente, mentre gli occhi di lei erano chini sul suo lavoro. Non era ella forse bella come Isotta, una creatura fatta per essere amata? Oppure il calice dell’Amore era solamente un simbolo? Era veramente necessario prendere un sorso di una bevanda misteriosa per far nascere questa tenera follia?
In questo momento nella stanza accanto si svegliò la nostra bambina. La giovane madre si alzò, mettendo da parte il suo lavoro; ma mentre attraversava la sala mi guardò con i suoi begli occhi sereni e mi fece un cenno di seguirla.
Sorrisi tra me e me. ‘Cos’altro desideri?’ mi chiesi a mezza voce, e chiusi il vecchio e magico libro. Intanto lei era ritornata nella sala e mi portò la bambina, che spalancò i grandi e assonnati occhi al chiaro sole di primavera.

Così tutto rimase tra noi due come era sempre stato. Un anno dopo l’altro passò, e lentamente la bella giovane donna al mio fianco sfiorì. Non lo vidi subito; non notai come i lineamenti del suo bel viso perdettero la morbida forma della giovinezza, e i suoi capelli biondi perdettero il lustro che li aveva fatti sembrare di seta; ma il suo animo mi era vicino più che mai, lo osservai rinforzarsi sempre più, ed ero consapevole di amarla sempre più profondamente.
Tre anni fa ci fu donata un’altra figlia - ascoltala! Sono nella serra, sta bisticciando con sua sorella.
Nel frattempo, il mio lavoro si era agevolato; gli affari adesso andavano lisci, cosicché potevo lasciare alcuni compiti ad altre persone, e la mia vita finalmente ritrovò più tempo per altre cose. Dato che il necessario finalmente accadeva senza costrizione, l’umano desiderio per la bellezza ritornò a farsi sentire.
Donai al giardino la sua forma attuale, e lì in fondo lasciai allestire un giardino di rose. (Ti avevo già detto che mia moglie ama le rose più di ogni altro fiore.) L’anno dopo, dietro a questo costruimmo il padiglione in legno. Il mosaico di legno del pavimento, le poltroncine e il resto dell’arredamento li feci costruire da abili artigiani secondo i disegni di un architetto nostro amico; alle alte finestre appendemmo tende di seta in grigio chiaro, affinché diffondessero una luce soffusa e benefica.
Qui, in questo idillico giardino lessi per la prima volta senza interruzione i vecchi poemi che avevo sempre amato, l’Odissea e i racconti dei Nibelunghi; spesso ad alta voce, giacché ella era seduta vicino a me e mi ascoltava, e le sue mani industriose a volte inconsciamente lasciavano riposare il lavoro nel suo grembo.
Non dimenticammo di fare musica da casa; il mio lavoro non mi aveva concesso il tempo di eseguire un’arte, ma mia moglie sapeva cantare bene, e lo aveva spesso e volentieri fatto per me e per le nostre figlie. Con il passare del tempo si aggregarono altre persone esperte in questo campo; quasi senza che ce ne accorgessimo una piccola cerchia di amici interessati ad ascoltare o partecipare si formò intorno a noi.

Così, nel giugno scorso giunse il mio quarantesimo compleanno. Quel giorno mi svegliò il sole mattutino; il resto della casa era ancora addormentato. Mi vestii e, attraversata la casa silenziosa, uscii in terrazza. Il tappeto erboso al disotto di questa si trovava ancora in ombra; solo le punte degli alberi e il pomo dorato del padiglione del giardino scintillavano al sole; e dall’altra parte, sull’acqua si trovava ancora la bianca nebbia, da dove di quando in quando si vedeva, oscillante, l’albero di una nave. Scesi lentamente nel giardino, pervaso dalla sensazione della dolce e intoccata mattina; andavo in punta di piedi, come se temessi di svegliare il giorno.
La sera prima avevo nuovamente preso in mano il poema di Tristano e Isotta e mi ero perduto tra le pagine, le ultime che la leggiadra mano del poeta aveva tracciato.

Il filtro d’Amore ha fatto il suo effetto: la bella regina Isotta e il nipote del re, Tristano, non riescono a stare lontani l’uno dall’altra. Il vecchio e paziente re alla fine li ha esiliati; ma il poeta, pur di offrire soddisfazione al proprio cuore pulsante, conduce i suoi amati protagonisti in una foresta selvaggia, lontani dal resto degli uomini. Nessuno li ha seguiti; il sole splende, le erbe profumano; e nella sconfinata solitudine non ci sono che lui e lei, e intorno a loro il bosco sussurrante e, invisibile nell’aria, l’incessante canto degli uccelli. Nella luce del sole che cala essi passeggiano attraverso il prato dove si trova un pozzo di acqua fresca; insieme siedono sotto il tiglio e guardano verso la grotta tra le rocce, dove hanno trascorso la notte. Al sorgere del sole si recano a caccia a dorso di cavallo, attraversando la brughiera bagnata di rugiada; Tristano impugna la balestra, i cavalli si avvicinano uno all’altro, i capelli dorati di Isotta ondeggiano intorno alle spalle del cavaliere.

Nella tranquilla aria mattutina le immagini del poema salivano dentro di me come le figure di un sogno. Il tempo trascorse; il sole incominciò a illuminare e riscaldare i sentieri del giardino, la rugiada gocciolava dalle foglie, i profumi dei fiori si spargevano, e nell’aria si facevano lentamente e sommessamente udire le vocine degli insetti. La ricchezza della natura mi travolse e mi sentii improvvisamente giovane, come se il segreto della vita si trovasse ancora dinanzi a me, sigillato ma in attesa di essere scoperto. Accelerai il passo, camminai con più baldanza; inconsciamente allungai una mano e staccai un ramoscello fiorito da uno dei cespugli vicino al prato. Dabbasso, davanti al padiglione si trovavano ancora le sedie da giardino come le avevamo lasciate la sera prima; la rugiada cadeva lentamente dalle persiane chiuse. Presi la chiave dal suo nascondiglio sotto a uno dei gradini e aprii la porta affinché entrasse l’aria mattutina. Quindi tornai indietro, nel passare diedi una leggera scossa alla porta della serra per trovarla chiusa, e dopo un po’ attraversai il salone da giardino per entrare nel salotto, che da sempre era stato il dominio di mia moglie. In casa ancora non si muoveva nulla, la calma mattutina era sparsa in ogni angolo.
Ma un forte e fresco profumo di rose sembrava rivelarmi la vicinanza del posto dove avrei trovato i regali in onore del mio compleanno. Quando aprii la porta del mio studio il mio sguardo cadde su un ritratto a olio, in forma di un medaglione ovale, che si trovava appoggiato sulla mia scrivania. Raffigurava il profilo di una ragazza in grandezza naturale, e sopra alla cornice pesante e dorata che lo racchiudeva si trovava una ghirlanda fatta di ricche centifoglie rosse. Il capo della ragazza era leggermente gettato all’indietro, i lucenti capelli biondi sembravano appena lisciati da una mano leggera, e sulle labbra lievemente aperte era posata la dolce baldanza della giovinezza.

Trattenni il respiro mentre fissavo quel bel viso giovane; mi sembrava di dovermi tenere nascosto, come se un soffio inaccorto potesse far scomparire tutto in una nube profumata. Doveva essere un mondo pieno di luce primaverile, quello che guardavano questi occhi ridenti. Senza accorgermene, avevo chinato il capo. Vidi colei che era lei la mia musa, colei con cui sarei fuggito nel rifugio della solitudine che ogni cuore umano brama, almeno una volta nella vita…
E perché non lo era stata? Perché mi ero lasciato sfuggire l’attimo? Tu lo conosci, quel quadro. Ciò che avevo visto non era la fantasia di un pittore, non la bionda regina Isotta che forse non è mai esistita realmente. Questo viso che guardavo era stato parte della vita, della mia vita; così era stata lei una volta, colei che anni prima aveva riposto la sua mano nella mia, e che oggi viveva al mio fianco.
Alzai nuovamente lo sguardo, ma la sensazione non se ne andò; il profumo della bellezza mi pervase completamente. Mi venne in mente la prima frase di una vecchia canzone: „O giovinezza, o felice tempo di rose!” Lei stessa l’aveva cantata spesso, nella casa dei suoi genitori. Sentii l’impulso di trarre tra le mie braccia la fanciulla del ritratto, come se potessi farla ritornare, come se la dolce giovanile figura non fosse ancora scomparsa e divenuta parte del passato.

E mentre mi sentivo ancora ricolmo di rimpianto e di inutile languore, mi balenò in mente una felicità tanto indescrivibile quanto indubitabile. Colei che era stata questa ragazza non era un sogno, una chimera descritta in un libro, no; era una creatura vera, viva, che mi era vicina, ed io potevo trovarla ed esserle vicino ogni momento.
Lasciai la stanza, andai a cercarla; ma ella non si trovava in casa. Quando scesi nel giardino, mi venne incontro da sotto alla terrazza. Mi guardò sorridendo, come potesse leggere nei miei occhi la gratitudine per la corona di fiori che aveva intrecciato per il mio compleanno. Ma non le lasciai il tempo per le congratulazioni; le presi la mano e, silenziosamente, mi incamminai insieme a lei nel giardino. E mentre la guardavo nel suo semplice abito bianco, il modo in cui mi camminava accanto con il suo passo giovanile, che era rimasto quello di una fanciulla, i suoi occhi tranquilli mi guardavano con lieve sorpresa, domandandomi senza parlare cosa mi stesse succedendo; e al sentire la sua mano leggera nella mia, dove si concedeva come aveva sempre fatto, io non riuscii a resistere al desiderio di gettarmi ai suoi piedi, adorante; perché sentii la passione repressa di tutta una vita risvegliarsi in me e correrle incontro, impetuosa, inarrestabile.

Rudolf tacque per un attimo; quindi aggiunse a bassa voce, guardando dinanzi a sé il tramonto che stava giungendo al crepuscolo: „E così, anche noi abbiamo bevuto un sorso dalla coppa dell’Amore, un sorso profondo, delizioso… Tardi, ma non troppo tardi!”
Rimanemmo seduti insieme in silenzio, mentre intorno a noi inoltrava il buio della sera. Ormai nel giardino tutto taceva, ma nel padiglione erano state accese delle luci che mandavano bagliori attraverso il fogliame.
Un attimo dopo arrivò a noi l’accordo di uno strumento, seguito da una bella voce di contralto che penetrava la notte:

„O giovinezza, o felice tempo di rose!“



Traduzione: novembre 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 3/11/2017, 16:25
 
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Ce la faccio da sola, avevo detto…
Levatrice racconta di una sua paziente.

Non so più quando capii che era sola. Forse quando passò tanto tempo per guardare le copertine dei nostri opuscoli che le avevo dato da leggere - su di una si vedeva una coppia felice, dove lei si accarezza il pancione mentre lui sorride un po’ stupidamente. Sull’altra un neonato nudo adagiato tra i suoi genitori su un divano lussuoso, il tutto fotografato in un appartamento d’epoca inondato di luce. Sembrava che la donna paragonasse ogni dettaglio di queste immagini con la propria situazione, per poi giungere alla conclusione che non era per nulla così idilliaca.
Era completamente sola, me lo sentivo in qualche modo. E pensai che sarebbe ora di distribuire opuscoli nuovi nel nostro ospedale, del tipo che non raccontano di agiatezza e matrimoni felici come se fossero la cosa più naturale del mondo, quando spesso la verità non è così. Inoltre nei testi è automaticamente menzionato che il marito rispettivamente compagno naturalmente si trova sempre al fianco della donna in attesa. Perché non si può scrivere semplicemente „accompagnatore”?
Al secondo appuntamento la donna doveva compilare un catalogo di domande con il mio aiuto. „Ci viene richiesto di notare la situazione attuale della donna in attesa, per motivi di statistica,” le spiegai. „Attualmente è sposata e convive con qualcuno?” „Sto da sola,” sbottò lei. Come se si trattasse di confessare una colpa.
Naturalmente mi rompevo la testa su chi fosse il padre e perché non si facesse mai vedere. Anche la mia collega della ricezione mi chiese: „Sai qualcosa su di lei? Non ha nessuno?” Non era una domanda maligna, solo curiosità. Penso sia umano. Ma cosa fa questo chiacchiericcio con le donne sole, quando se ne accorgono? Quindi mi strinsi nelle spalle senza rispondere.

La società in cui viviamo sembra liberale, ma se aspetti un figlio e non fai parte del solito moglie-marito-figlio-tanto-desiderato devi sempre spiegarti, specie se sei nubile, o omosessuale. Come se fosse un dovere spiegare come è avvenuta la procreazione. Non è abbastanza risaputo da dove vengono i bambini, allora?
Ho visto spesso coppie in rapporti che oggi si chiamano disfunzionali, dove i due si trattavano con sgarbo, mancanza di rispetto, disinteresse; ma in questi casi nessuno si chiedeva „Come avranno fatto quei due a fare un figlio?” Se invece arriva una donna da sola, anche se è perfettamente serena, sembra che chiunque abbia il diritto di domandare chi è il tizio da cui è rimasta incinta, se forse ha avuto un rapporto con un uomo sposato, e via dicendo.
D’accordo, la donna in questione non era serena. Sentivo che la gravidanza non era stata programmata, che le aveva scombussolato la vita. E che anche se nel frattempo erano passate 36 settimane, la sua vita era come una casa con la porta sfondata dove dalle fessure entrava il vento freddo dell’incertezza.

Alcune settimane dopo dovetti avviare il parto, perché la data era ormai oltrepassata; e mentre aveva le doglie all’improvviso la donna si confidò con me. Forse perché appunto non le avevo fatto domande. Forse anche perché una sala parto diventa spesso un posto chiuso e raccolto dove le donne sono tra di loro e si sentono accettate, in tutti i sensi.
Aveva sempre desiderato un rapporto stabile, mi raccontò, solo che non le era mai andata bene. Gli uomini che si interessavano a lei volevano storie brevi e senza impegni. E spesso le era toccato il ruolo dell’amante, come nell’ultimo caso, un rapporto sporadico con un ex collega.
„Non volevo costringerlo ad accettare il figlio, sa cosa intendo? Mi sembrava una follia.” Annuii.
Era successo così, mi disse, non aveva mai preso i contracettivi regolarmente, e quella sera aveva bevuto troppo.
„All’inizio ho pensato a un aborto, ma non ne trovavo il coraggio. Non ci riuscivo. Mi capisce?”
Mi aveva guardata intensamente, come se si aspettasse che io le dicessi che aveva fatto la cosa giusta - io, la levatrice che stava per aiutarla a partorire il suo bambino.
Quel giorno per giunta ci fu un turno catastrofico e mi toccò fare la spola da una sala parto all’altra; sembrava che tutta la città avesse deciso di partorire proprio oggi. Andavo lo stesso regolarmente dalla donna solitaria; mi faceva male il pensiero che non ci fosse proprio nessuno con lei, neppure per portarle un bicchiere d’acqua o massaggiarle un po’ la schiena.

A un certo punto, quando era quasi ora e la donna aveva già le doglie molto forti, la mia collega bussò alla porta.
C’erano tre donne alla ricezione, disse: la madre della partoriente e due sue amiche. La quasi madre esclamò: „Avevo detto che ce la faccio da sola!” Ma vidi che sul suo viso si stava spargendo una luce.
Quando aveva preso appuntamento con me, la donna aveva detto sin dall’inizio che non sarebbe venuto nessuno, anche se le avevo detto ripetutamente che poteva portare chiunque volesse.
„Possono entrare?” mi chiese. La mia risposta diede il via alla fase finale del parto.

Le tre donne formarono subito una squadra dove una toglieva le copertine di plastica dall’armadietto mentre l’altra andava a prendere acqua calda per le compresse. Incitavano la partoriente neanche come se fossero state delle cheerleader professioniste; mancavano soltanto i pompon. Quando fece capolino il medico di guardia, sgranò tanto d’occhi: „Ma che fate qui, un party tra ragazze...?”
Poco dopo la neo nonna recise il cordone ombelicale. Piangevamo tutte e cinque, noi donne.

La neo madre non era stata sola. Questa volta, no.



Traduzione: novembre 2017
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Edited by Delari - 24/12/2018, 17:09
 
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“Suvvia, fai il tuo dovere…”
Racconto satirico


Quel giorno, quando Elena a colazione gli chiese di andare in cantina a prendere la cassetta con gli addobbi natalizi, Enrico gemette interiormente: addio, ricominciava la tortura.
Non era solo che sua moglie adorasse decorare la casa: andava matta per tutto ciò che luccicava. Puntualmente, ogni anno a dicembre andava in concorrenza con tutte le massaie del mondo, anche se secondo suo marito la sua collezione di addobbi natalizi era già superiore a quella di un grande magazzino. Non bastavano le palline per l’albero, alcune candele e un po’ di lametta, no no no: tutto doveva scintillare, luccicare, risplendere. In breve il pavimento di casa sarebbe stato cosparso da un’infinità di cavi elettrici necessari per rifornire le fonti di luce che avrebbero illuminato la casa dentro e fuori. Ormai Enrico si era convinto che sarebbe stato più efficiente togliere il fusibile centrale che organizzare ogni anno la famigerata conferenza globale e rompersi la testa su come impedire il crollo totale del clima.
Mentre beveva un punch alla frutta da una tazza rossa con le alette dorate (sarebbero tornati al caffè servito nelle tazze normali solo dopo il 6 gennaio), Enrico tentò di prepararsi mentalmente alle settimane seguenti. Per lui ogni anno significavano il preludio di una battaglia da cui non poteva mai uscire vincitore.
Il problema maggiore era quello dello spazio: sapeva che sua moglie lo avrebbe fatto traslocare in cantina, piuttosto che rinunciare al pupazzo di neve gonfiabile in entrata.
E il punto più cruciale di tutti era quello dell’albero natalizio. Guai se questa sera si fosse fatto vedere senza abete! O con un abete troppo piccolo. O non abbastanza verde. O non abbastanza diritto… L’anno scorso le aveva detto che forse sarebbe stato meglio se andasse lei a procurarlo. Ma lei gli aveva risposto che comprare l’albero era tradizionalmente il compito dell’uomo di casa, e che poteva anche lui fare il suo dovere, tanto per cambiare. E a parte quello, anche i mariti delle sue amiche ce la facevano, dunque dov’era il problema?
Non era proprio così: gli altri mariti andavano da un venditore di abeti, ne sceglievano uno non troppo costoso e abbastanza bello, lo pagavano e tornavano a casa, dove tutta la famiglia li accoglieva come eroi perché erano riusciti, sudando e respirando affannosamente, a trasportare un pezzo di natura nella grotta casalinga. Mentre nel suo caso doveva ritornare sui suoi passi almeno due volte, perché avrebbe potuto giurarci che Elena lo avrebbe rispedito dal venditore a trovare un altro albero, più grande, più bello, più diritto eccetera.
E alla fine non era mai soddisfatta: forse era per quello che lo nascondeva sotto a tutte quelle decorazioni. Qualche anno fa le aveva proposto che forse sarebbero bastati un paio di rami in un vaso, ma lei gli aveva solo gettato uno sguardo che lo chiamava un blasfemo, e aveva continuato ad assortire i fili argentati.

Quella sera quando Enrico tornò a casa armato di albero natalizio, notò subito che lo zerbino era stato scambiato con uno decorato da angioletti barocchi. Alla porta era stata appesa una corona con stelle di Natale rosse, frutti brinati e fiocchi dorati. Interiormente si preparò al peggio.
Era peggio ancora: non riuscì neppure ad aprire la porta. Chiamò la moglie attraverso la fessura della porta, ma lei non lo sentì perché dal salotto proveniva la melodia di „Rudolph the Red-Nosed Reindeer“ in stereo. Quindi Enrico spinse la porta con la spalla e, ritraendo molto la pancia, riuscì ad entrare. Scoprì che la porta non era agibile causa pupazzo di neve artificiale, gonfiato a più non posso e posto nell’ingresso. „Buona sera,” gli disse nel passare.
Veramente si erano messi d’accordo che avrebbero deposto questa mostruosità secondo lui disgustosa sul balcone, in mezzo alle ghirlande di luci e gli alberelli cosparsi di neve falsa. Ma probabilmente quest’anno il pupazzo non aveva più trovato posto, soppiantato magari da un furgone della Coca Cola con un Babbo Natale al volante. Enrico poteva solo sperare di non trovarselo a letto, un giorno.
Stava per svignarsela furtivamente quando lo vide sua moglie. „Ah, eccoti! E l’albero?“
Enrico riuscì a farlo entrare in salotto nonostante le decorazioni sparse, con il risultato di fargli perdere mezzo chilo di aghi. Quello che seguì se lo era già aspettato. „Coooosa, così piccolo! E tutto storto! Ma non ce ne erano di più belli? Dovevo saperlo che se mandavo te…”
Enrico sospirò tra sé e sé e rifletté che forse avrebbe fatto meglio a rifugiarsi dentro al presepe fino a Natale. In guisa di asino o di bue magari. Non che avesse fatto molta differenza, ma almeno sarebbe stato più tranquillo. Ma gli venne in mente la storia del criceto morto qualche anno prima: avevano pensato che fosse scappato, ma dopo qualche giorno lo avevano trovato in un angolino del presepe. A quanto pare aveva fatto indigestione di muschio artificiale e poi aveva fatto la classica fine del topo. Enrico si domandò quanto ci sarebbe voluto finché Elena, nella frenesia di addobbare la casa, si fosse accorta che anche suo marito era misteriosamente scomparso.
Chissà come si sentivano Maria e Giuseppe in mezzo a tutto questo sfarzo! A Betlemme erano certamente in una situazione più modesta, e anche più contemplativa. Nonostante gli abiti di seta e velluto, in confronto al resto della casa perfino i Re Magi sembravano un po’ underdressed.
Sopra al tavolo da cucina una cometa si accendeva e spegneva in giallo e rosso, illuminando il suo sguardo corrucciato che si posava su un angolo dell’appartamento dopo l’altro: Babbi Natale, palline decorative, renne, candelieri, rami decorati, chincaglierie dovunque. L’intera casa scintillava e luccicava.
Esausto, Enrico si lasciò cadere sul divano… e subito sentì uno scricchiolio sospetto. Si era seduto su un pezzo di decorazione, lasciando solo frammenti di vetro. Prima che riuscisse a farli scomparire con discrezione gli comparve davanti sua moglie: gli mostrò uno dei pezzi e gli chiese se forse non capiva cosa avesse fatto, che quella era stata la punta dell’albero natalizio, di vetro soffiato proveniente dalla Turingia e raffinata con un disegno argentato, al prezzo di 52,- €. Dopo avere deglutito, Enrico si era limitato ad andare a prendere paletta e ramazza. Intanto sua moglie aveva fatto miracolosamente comparire da un cassetto un’altra punta per l’albero, esattamente uguale. Quindi salì su una scaletta per appendere una ghirlanda sopra alla porta della camera da letto.

Enrico decise di fuggire di casa per fumarsi tranquillamente una pipa. Fuori faceva già buio; per poco non finì addosso al suo vicino, che stava appena tornando a casa con un abete sottobraccio.
„Ciao! Anche voi avete già l’albero?“ gli chiese.
Enrico si limitò a un lieve sorriso. Infilò la mano nella taschina interna del suo cappotto, accese la batteria, e il suo naso si illuminò di rosso come un semaforo. Quindi appoggiò una candela elettrica su ogni orecchio, si mise su una gamba e, canticchiando „Jingle Bells” davanti all’esterrefatto vicino, fece una piroetta.
Avrebbe anche fatto una buona figura, se non fosse scivolato e finito nella neve lungo e disteso…



Traduzione: dicembre 2017
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Maria e Giuseppe in versione moderna
Altra storia raccontata da una levatrice.


Quell’anno il piano di servizio era stato clemente con me: ultimo turno serale il 22 dicembre, primo turno la mattina del 23, quindi vacanza. Mi sarebbe toccato passare il Capodanno in ospedale, ma questo almeno significava che potevo passare la vigilia di Natale con la mia famiglia, distesa sotto all’albero ebbra di liquore all’uovo e intenta a dimenticare l’ospedale almeno per un paio di giorni.

Ma avvenne un imprevisto. Una mia buona amica era da noi in ospedale da qualche giorno: soffriva di preeclampsia (o gestosi), un problema che familiarmente viene chiamato avvelenamento da gravidanza. A me questa espressione non piace, perché il corpo della donna incinta non contiene nessun veleno: una preeclampsia è una sorta di sindrome autoimmunitaria che il corpo della donna sviluppa verso la placenta. Di norma compare durante la seconda metà della gravidanza e si riconosce soprattutto da tre sintomi - pressione alta, concentrazione di proteine nell’urina, e immagazzinamento di acqua. Le conseguenze sono complicazioni a volte pericolose, a cominciare da rifornimento insufficiente del feto fino a riduzione delle funzioni degli organi della madre, soprattutto dei reni.
La preeclampsia è tuttora uno dei maggiori motivi per cui donne incinte possono morire, soprattutto se si trovano in un paese con insufficiente assistenza medica. Esistono forme leggere o difficili; a volte appare poco prima della data di nascita (dove con un po’ di organizzazione si può risolvere abbastanza bene), oppure già dopo la 20sima settimana di gravidanza. Il che complica molto le cose.

La mia amica, la signora A., era già arrivata alla 36esima settimana, ma nonostante le medicine che aveva preso per abbassare la pressione non stava per nulla meglio. Solo in quest’ultima settimana in cui si trovava da noi aveva messo su otto chili, nient’altro che acqua. Le sue dita non avevano più nessun contorno, sembravano salsicce deformate, la pelle luceva tanto era tesa. E non riusciva più a piegare le gambe per via dell’acqua nei muscoli e nelle ginocchia.

Di norma la vigilia di Natale tentiamo di mandare a casa più pazienti possibile; nessuna operazione fuorché in caso di emergenza. Se possibile mandiamo in „vacanza“ le donne incinte, cioè le spediamo a casa a festeggiare per qualche ora prima di tornare da noi.

Il giorno 23 capimmo che la mia amica avrebbe dovuto passare la vigilia in ospedale: la situazione era troppo critica. Il giorno dopo sarebbe stato avviato il parto.
E io mi trovai in un dilemma: durante tutta la gravidanza ero stata al suo fianco con aiuti e consigli, come potevo abbandonarla proprio ora? La mia amica piangeva, per il dolore nelle gambe e per la paura che potesse succedere qualcosa al suo nascituro. E anche per il Natale.
„Adesso abbiamo comprato l’albero e non possiamo neppure festeggiare,“ disse.
Il suo fidanzato cercava di consolarla: „L’anno prossimo ne avremo uno nuovo e imprecheremo perché il nostro bambino ci intralcerà tutte le volte che vorremo addobbarlo, te lo assicuro!”
Ma la donna non si tranquillizzava.

Chiamai mio padre, gli spiegai che in ospedale c’era un’emergenza. Non ce l’avrei fatta per la vigilia, gli dissi, forse per il pranzo del 25. Non sembrava molto contento.

Durante i turni tornavo a visitare la mia amica il più spesso possibile. La vigilia di Natale mi telefonò dicendo che aveva le prime doglie; mi avviai all’ospedale in abiti civili, dato che questa volta non ero di turno.
Quando entrai nella sua stanza sgranai gli occhi: il suo fidanzato aveva trasportato l’albero di Natale da casa e lo stava decorando! Sul vassoio si trovavano biscotti fatti in casa e nel sottofondo si sentivano canti natalizi. La donna incinta si trovava in mezzo a questo miracolo di Natale, ingrossata come una palla e tutta rossa in viso. Questa volta il Natale era venuto da lei, o come cantava il rocker di „Love, Actually”: Christmas is all around you.

Bussò e l’infermiera portò la cena; sentii l’odore di carne e cavolo rosso spargersi. A Natale anche la cucina dell’ospedale prepara qualcosa di speciale. „Vi lascio a mangiare,“ dissi e uscii dalla stanza.

I colleghi nella sala di ritrovo avevano già incominciato i preparativi per la nostra cena sociale, è una vecchia tradizione. Di norma prepariamo una raclette o una fonduta e ognuno partecipa in qualche modo. Il resto dell’anno riusciamo al massimo a mangiare una mela o un panino al formaggio disdegnato da qualche paziente, ma la vigilia di Natale eccezionalmente mangiamo tutti insieme, e stando seduti. In altre professioni questo sembrerà normale, ma per noi accade solo in occasioni speciali.
Raccontai alle altre del fidanzato della signora A., che aveva decorato la sua stanza con gli addobbi natalizi, mentre mangiavamo e ridevamo insieme.

Dopo feci un giro attraverso i corridoi abbandonati; avevo un mucchio di tempo. Nelle stanze trovai solo le donne che avevano assolutamente dovuto rimanere.
Passai per il reparto cure intensive, dove si trovano i prematuri. Come sempre sulle incubatrici si trovavano delle copertine rosse… ma quelle cos’erano? Calze di Natale? Trovai dei berrettini fatti a maglia, uno per ogni bambino, dovevano averli fatti le infermiere. Che bellissima idea! Quando sarà ora per voi di uscire di qui ed entrare nel freddo mondo saranno preziosissimi, pensai. Guardai i fragili corpicini nelle incubatrici, sperando che ce la facessero tutti. Mi venne quasi da piangere, quindi continuai per la mia strada. Volevo dare un’ultima occhiata alla mia amica.
Ma mi aspettava un bello spavento: la sua stanza amorevolmente decorata era deserta, e anche del suo fidanzato nessuna traccia.
Corsi alla sala di ritrovo delle infermiere. „Dov’è la signora A.?“ chiesi a tutte insieme, in preda al panico.
„Sectio.”
Oh, maledizione.
Mi dissero che la pressione della partoriente era salito ancora di più e che causa le doglie la placenta non avrebbe più potuto ossigenare sufficientemente il bambino.

Fui presa dalla paura. Avrei voluto fare qualcosa, ma non ero di turno, non potevo semplicemente correre in sala operazioni. Non mi rimase altro che rimanere in sala d’aspetto, là dove di solito si trova la famiglia. Mi fece una strana impressione, questo scambio di ruoli.
Intanto fuori era notte profonda. Pensai alla mia famiglia, che probabilmente adesso stava si scambiando regali.

Infine la mia collega uscì dalla sala operatoria: lessi nel suo sguardo che era andata bene. „Il piccolo è nato poco dopo la mezzanotte. La madre sta bene, circostanze permettendo.” Per il sollievo le cascai tra le braccia.

Quindi andai dalla mia amica: era ancora un po’ frastornata perché alla fine era andato tutto così in fretta, ma sorrideva tutta felice. Come il padre, che aveva suo figlio in braccio. Sembravano Maria e Giuseppe.
„Be’, io vado allora,“ dissi e lasciai i tre soli.

A casa cascai nel mio letto e riuscii a dormire per qualche ora. Il giorno dopo partii per la stazione con la mia valigia e un sacco pieno di doni.
Driving home for Christmas. Finalmente.



Traduzione: gennaio 2018
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



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Edited by Delari - 10/1/2018, 12:50
 
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view post Posted on 16/1/2018, 12:44     +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Perché sono stufa di essere „cool“
Articolo di una blogger tedesca.


Ragazze, c’è una cosa in cui sono stata una frana tutta la vita: essere „cool“. Lo ammetto, non ci sono mai riuscita. Le ho provate tutte, a cominciare dagli occhi con i contorni neri spessi un centimetro, il giradischi stile anni 80 in salotto e i concerti electropop. E una volta ad un party ho intrapreso un esperimento con una polverina che sembrava zucchero a velo, wow.
Solo che non è servito a nulla. Il fatto è che per essere cool non basta corrispondere alle apparenze, si tratta di un atteggiamento. E io sono troppo effervescente, troppo impaziente, troppo nervosa e isterica („Aiuto, un ragno!!“), per essere veramente disinvolta e menefreghista, ovverosia cool. E ormai penso che non cambierò più. L’ultima speranza me l’ha tolta un funzionario pubblico che recentemente mi ha consigliato di vivere in maniera meno frenetica perché mi stavo facendo male alla salute.
D’accordo, potrei tentare di essere più imperturbabile. O almeno sembrare tale, facendomi fotografare per instagram con una sigaretta che pende da un angolo della bocca, o sgattaiolando di casa per frequentare un party alla moda, o scuotendomi di dosso le ingiustizie che mi capitano facendo spallucce. Ma alla mia età ho deciso di ammettere che non ne ho la minima voglia.

E poi, a dire il vero: se riflettiamo un po’ su cosa significa essere una donna cool, scopriamo che non è forse poi tanto appetibile.
Nello psychothriller Gone Girl di Gillian Flynn si trova la descrizione seguente: „Per gli uomini è come esprimere il più grande dei complimenti, dire che una donna sia cool. Significa che è desiderabile, furba, spiritosa, che ama il calcio, il poker, le barzellette spinte e i rutti, che gioca per ore al computer, beve birra di infima qualità e ha un debole per dubbie pratiche erotiche. Che non vive di altro che di hot dog e hamburger eppure entra nella taglia 34, perché una donna cool in primis è sexy. È la donna da cui gli uomini si sentono compresi.“
All’inizio sembra una barzelletta; ma continuando a leggere scopriamo che gli uomini del libro fanno tutti una brutta fine. Intanto perché salta fuori che la protagonista è una psicopatica senza scrupoli; e anche perché la donna cool, ammettiamolo, è innanzi tutto una fantasia maschile. È l’antitesi della classica donnina isterica, ipersensibile, ipercritica, insomma scomoda. L’una è quella che gli uomini sognano, l’altra è quella che hanno a casa. Un po’ come, ahem, guadare un film pornografico e poi volerci provare veramente: ci sono parallele, sì, ma tra la teoria e la pratica c’è di mezzo il mare.

All’inizio da brave perfezioniste abbiamo sperimentato tutte le tattiche per essere viste come cool. Cominciando dai capi di abbigliamento elementari per il „Cool Girl Look“, come giacche di cuoio nero, tank top bianchi e jeans strappati. Il tutto sperando che un giorno gli uomini al bar ci facessero giocare a biliardo insieme a loro. Guai ad ammettere che ultimamente avevamo letto una rivista di moda e dopo eravamo andate a fare shopping! Almeno non quando c’erano maschi in ascolto. Piuttosto tentavamo disperatamente di aprire una bottiglia di birra con i denti, con il risultato di spezzarci un molare.
Ammettiamolo, il dilemma della donna cool è proprio questo: non serve a niente sforzarsi di essere tale, perché solo il fatto che devi affaticarti prova che il tuo carattere è esattamente opposto all’intrinseco del coolness. In altre parole, tanta fatica che ti puoi risparmiare. E questa è una buona notizia.

Ce n’è un’altra: negli ultimi anni il mito della donna cool ha perso colpi. L’artista svedese Tove Lo ultimamente ha intonato il canto del cigno alla donna cool con la canzone „Cool Girl“, una parodia alla dimestichezza delle donne cool con i rapporti senza vincoli. Mentre canta „let’s keep it fun“ e „ice cold I roll my eyes at you, boy“ la donna del videoclip, alla faccia di cool, mette a fuoco la camera di un motel in uno scatto di gelosia.
Insomma, per il pop all’avanguardia scandinava la donna cool è diventata un cliché imbarazzante. Mentre un tempo si sghignazzava delle mogliettine in pantofole, oggi si fa la stessa cosa con le femmine che si ritengono particolarmente scafate. Come ad esempio certe donne di cinquant’anni che parlano ancora con entusiasmo dei party che davano a Berlino dopo la caduta del muro e che oggi si illudono di essere state loro a inventare la musica tecno, in appartamenti di edifici d’epoca privi di riscaldamento. Burn, cool girl, burn.

Secondo me, volere essere una donna „cool“ è roba sorpassata. Essere donna è già abbastanza dura, basta leggere qualche pagina di #bodyshaming e #metoo. E dovremmo passare anni della nostra vita a preoccuparci perché non corrispondiamo allo stereotipo „cool“? Ma va’. Ci sono veramente cose più importanti da fare, anche se si tratta di imparare HTML, collezionare francobolli o confezionare serbatoi da spezie per la cucina. Sempre meglio che rompersi la testa se l’usciere ci farà entrare in discoteca sabato sera senza porre domande strane. Nutrire dubbi su quanto sia cool o meno ciò che si fa è perfettamente superfluo.

Inoltre, osservando le odierne giovani donne di successo, si scopre che a molte di esse il tema „cool” non interessa affatto; al contrario, a volte fanno l’occhiolino alla loro „uncoolness”. L’attrice Emma Watson già all’età di 19 anni si descriveva come il „Toyota Prius“ delle sue coetanee: tranquilla, ragionevole e un po’ monotona. L’impresaria di lifestyle americana Emily Weiss ultimamente ha commentato un video su instagram dove tenta qualche goffo passo di danza con un bicchiere di birra in mano con le parole „Proof that I am not cool“. E Taylor Swift, una delle più grandi popstar del nostro tempo, se ne frega del coolness: il suo nuovo album „Reputation“ ha lo scopo di farla pagare a certe persone, i.e. Kanye West e tutti i suoi ex ragazzi, che secondo lei l’hanno fatta soffrire senza motivo. E questa non è precisamente l’ideale donna cool, impervia a ogni dolore perché incredibilmente rilassata dinanzi a qualsiasi avvenimento della sua vita.
Comunque sia, nel mondo delle persone in vista fra poco non ci sarà più nessuna donna adatta a servire il cliché del „cool girl”. Gli ideali sono cambiati: nessuno dice più che dobbiamo assolutamente essere o almeno apparire perfettamente noncuranti se vogliamo salvare la nostra anima, al contrario. Oggi si parla di self-awareness e di attenzione verso sé e gli altri. La donna di oggi è buona con se stessa, cura la propria salute, è attenta con i sentimenti suoi e altrui. Magari fa anche carriera. Certamente non si fa in quattro per coltivare l’illusione che non le importi di nulla al mondo.

Per finire in bellezza vi posso fornire la prova che la donna cool, un tempo la Fata Morgana preferita dei sogni etero-maschili, è sorpassata. Non ci si può fidare neppure di Kate Moss, un tempo l’icona del movimento „Chissenefrega di cosa le droghe fanno del mio corpo”, che ormai da tempo ha abbandonato lo stile di vita „live fast, die young”.
Ultimamente ha confessato al giornale „The Guardian” di avere scoperto la vita sana, ad esempio praticando sport almeno un’ora al giorno. Inoltre, di avere scoperto che ama cucinare. La sua specialità: un arrosto per tutta la famiglia, la domenica.


Traduzione: gennaio 2018
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