L’APRES-MIDI D’UN FAUNEBallets Russes di Diaghilev
Libretto e coreografia Vaslav Nijinsky, musica Claude Debussy, scena e costumi Léon Bakst
Primi interpreti: Vaslav Nijinsky (le Faune), Lydia Nelidova (la Grande Nymphe), Bronislava Nijinska, Tcherepanova, Olga Khokhlova, Maikherska, Leocadia Klementovicz, Kopyshinska (le Petites Nymphes)
Direzione: Pierre MonteuxLA TRAMA
Immerso nella calura di un afoso pomeriggio estivo, un fauno, disteso su una collinetta, suona a più riprese un flauto di Pan, si disseta con due grappoli d’uva, quando la sua attenzione è attratta da sette ninfe che avanzano per raggiungere la frescura di uno specchio d’acqua nelle vicinanze: prima tre, seguite da due, poi le due formazioni si dispongo in modo da inquadrare collinetta e fauno, ancora un’altra ninfa che completa il gruppo di due e, infine, dallo stesso lato entra la Grande Ninfa. Questa è aiutata dalle compagne a togliersi gli abiti per il bagno; incuriosito, il fauno scende dal rialzo e si avvicina per osservarle meglio: il suo aspetto in parte di ragazzo e in parte di animale stupisce ed allarma le ninfe. I suoi gesti e le sue movenze, in bilico tra innocenza, voluttà e violenza, non celano una certa eccitazione sessuale e, non appena egli tenta di entrare in contatto con le ninfe, esse fuggono impaurite, tutte tranne una: la Grande Ninfa. Questa, più arditamente, si trattiene ancora per qualche momento, invitante, permette al fauno di avvicinarsi, sembra corrispondere il corteggiamento dell’uomo-animale. Il fauno allunga le braccia una prima volta cercando di afferrarla ed ella si inginocchia, quasi in segno di sottomissione. Il fauno esulta esprimendo la sua eccitazione con un piccolo salto, il solo dell’intera coreografia, poi ripete il gesto di conquista allungando le braccia, ma, dopo un breve contatto, la Grande Ninfa si libera e anch'essa fugge perdendo la sua sciarpa. Il fauno, ormai solo, la raccoglie, mentre riappare in due riprese un gruppo di tre piccole ninfe, che tentano invano di recuperare la sciarpa. Il fauno torna col suo trofeo sulla collinetta, lo accarezza e lo bacia con voluttà come fosse il corpo della ninfa.
NOTA STORICA
Per le sue prime “stagioni russe” Diaghilev aveva voluto Fokine come coreografo della compagnia dei Ballets Russes e aveva portato al successo balletti basati sul colore locale di terre e tempi lontani. Dopo il 1910, l’impresario cominciò a progettare la trasformazione dei Ballets Russes in una sua compagnia stabile, cosa che sarebbe avvenuta nel 1911. Nel frattempo si era convinto che, invece di evocare i tempi andati col linguaggio accademico o col folklore, sarebbe stato meglio presentarli reinterpretati con un linguaggio espressivo del tutto nuovo. Così, dopo aver valorizzato le doti interpretative di Nijinsky, spinse quest’ultimo a cimentarsi anche nel campo della coreografia secondo queste direttive innovatrici, con l’idea che, una volta pronto, potesse sostituire Fokine nella progettata compagnia. La trasformazione di Nijinsky in coreografo avvenne prestissimo: fin dalla fine del 1910 il suo primo balletto fu completato, ma il pubblico lo avrebbe visto solo nella primavera del 1912.
Nel 1910, ancora all’epoca di questi progetti, le nuove tendenze culturali parigine avevano portato alla ribalta i nomi di Stéphane Mallarmé e di Claude Debussy, in quanto erano stati successivamente investiti dalla cerchia dei wagneriani del compito di realizzare il sogno del compositore tedesco: quello di un teatro totale, aspirazione in linea con il lavoro di Diaghilev. Non è, quindi, sorprendente che l’attento impresario accarezzasse l’idea di attingere alle creazioni di questi artisti alla moda per basarvi un nuovo balletto. Innanzi tutto egli si concentrò su un’idea in origine suggerita da Léon Bakst, il quale, impressionato dagli scavi archeologici visitati recentemente, aveva pensato alla realizzazione di un “bassorilievo greco in movimento”. Per una simile impresa, per la sua musica e per la sua drammaturgia, Diaghilev pensò genialmente di riprendere un precedente progetto di teatro strutturato in modo unitario, che aveva appunto coinvolto Mallarmé e Debussy. In un passato non troppo lontano a Debussy non era certo sfuggito che lo stile di Mallarmé accostava la poesia ad altre arti, come sarebbe stato proposto di lì a poco dalle successive avanguardie. A questo proposito, alla fine del 1890, il compositore era rimasto affascinato da una celebre egloga di Mallarmé del 1876, dal titolo L’aprés-midi d’un faune, proprio per le correlazioni tra le emozioni veicolate dalle parole del poeta e la posizione grafica che i versi occupavano sulla pagina: le sensazioni create dai versi sorprendenti dell’egloga erano rafforzate lasciando gli stessi isolati. Debussy aveva voluto scrivere un brano musicale da utilizzare, come sottofondo al poema, in uno spettacolo previsto per il febbraio 1891. Il compositore aveva inteso conservare l’unità di un’opera, che si esauriva in un solo atto, rinunciando alle strutture formali che imbrigliavano la musica dei balletti romantici. In effetti lo spettacolo del 1891 che avrebbe dovuto fondere le creazioni di Mallarmé e Debussy non andò mai in scena, ma nel 1892 Debussy riprese la composizione musicale, in passato solo abbozzata, e la sviluppò dandole il titolo di Prélude, Interlude et Paraphrase finale sur l'Après-midi d'un faune, che avrebbe successivamente cambiato in Prélude à l'après-midi d'un faune. In seguito ne sottopose una versione non definitiva ad alcuni amici, destando l’entusiasmo dello stesso Mallarmé. Il Prélude fu eseguito pubblicamente solo il 22 dicembre 1894 nella sala d'Harcourt della Société Nationale di Parigi, riscuotendo un successo tale da dover essere bissato.
Sebbene non abbia visto la luce il progettato spettacolo del 1891, che avrebbe dovuto unire i contributi artistici di Mallarmé e Debussy, la sua prevista struttura organica e unitaria non poteva lasciare indifferente Diaghilev, che comprese quanto l’egloga del poeta e il pezzo impressionista del compositore si prestassero come perfette fonti, drammaturgica e musicale, alla creazione di un balletto che, secondo l’idea di Bakst, facesse rivivere la civiltà ellenica.
Trovata musica e drammaturgia, Diaghilev affidò a Bakst la scena e i costumi, ancora oggi usati comunemente, incluso il celeberrimo costume a chiazze per il fauno. Bakst avrebbe assecondato la sua stessa idea di una composizione bidimensionale con un fondale privo di prospettiva, in cui alberi, rocce e una cascatella si amalgamavano tra loro senza ombre e senza contorni (il bozzetto di Bakst è riprodotto nella galleria Ballets Russes, prima fase: 1909 - 1914).
Inoltre, con l’audacia che ha sempre contraddistinto le sue scelte, l’impresario affidò la realizzazione coreografica appunto a Nijinsky. Secondo Richard Buckle egli iniziò a lavorarvi, collaborando con la sorella Bronislava Nijinska, addirittura nel 1910 e alla fine dell’anno la creazione era stata completata, ma Diaghilev decise di posticipare il debutto del suo protetto come coreografo, in parte per non inimicarsi completamente Fokine, in parte perché era in lavorazione Narcisse, un altro balletto di ambientazione greca.
Il grande ballerino, alla sua prima prova come coreografo, si era appoggiato all’idea iniziale di Bakst di creare un omaggio all’arte ellenica e, infatti, aveva estrapolato le pose del balletto che stava creando dalla scultura greca e dalle pitture vascolari ellenistiche, studiate al museo del Louvre; tuttavia avanzò una proposta di assoluto distacco sia dalla tradizione accademica, sia dalle teorie innovative di Fokine. Allo scopo aveva rielaborato profondamente, con la collaborazione della Nijinska, le figurazioni particolarmente spigolose scelte dall’arte ellenistica, in modo da accentuarne l’aspetto primitivo, caricandole, al contempo, di forte erotismo: quanto di più lontano dalla tradizione potesse essere messo in scena.
Il balletto stava ancora aspettando il suo debutto quando fu chiaro che la stagione primaverile parigina del 1911 sarebbe stata l’ultima in cui Ida Rubinstein avrebbe lavorato per Diaghilev: intendeva rivaleggiare con l’impresario presentando spettacoli suoi con una sua compagnia. Così Nijinsky dovette rinunciare all’idea originaria di affidare alla Rubinstein, quando fosse venuto il momento, il ruolo della Grande Ninfa; tuttavia rimase del parere che la parte necessitasse di una ballerina molto alta e, per questo, al momento del debutto, sarebbe stata scritturata la Nelidova direttamente dalla scuola privata della madre a Mosca.
Quando Diaghilev finalmente decise di presentare il balletto al pubblico, nella primavera del 1912, le prove si dimostrarono particolarmente difficoltose ed esasperanti anche per i più accaniti sostenitori di Nijinsky. Agli interpreti occorsero oltre 120 sedute per assimilare una creazione di soli 12 minuti, non tanto, come alcuni hanno detto, per la lentezza del coreografo nel creare, visto che la coreografia era pronta sin dal 1910, ma perché le ballerine facessero propri movimenti e posture del tutto inconsueti: braccia ad angolo, torso presentato frontalmente, testa, gambe e piedi, invece, visti di profilo. Inoltre, mentre per le ninfe Nijinsky volle un movimento fluido, per sé creò una danza ben ancorata al terreno. L’effetto bidimensionale fu accentuato dalla proposta di sole traiettorie rettilinee e laterali. Queste venivano percorse senza che il movimento fosse subordinato al ritmo della musica, usata, invece, per determinare l’atmosfera, e ciò creò le maggiori difficoltà durante le prove.
Il modo in cui Nijinsky aveva posizionato i corpi – torso frontale, testa ed arti di profilo – poteva richiamare l’arte egizia. A questo proposito Diaghilev diffuse un aneddoto, poi ripreso da Larionov, secondo il quale Nijinsky alla sua prima vistita al Louvre avrebbe sbagliato sezione e, affascinato dalle sculture egiziane, avrebbe lasciato Bakst ad aspettarlo inutilmente al piano superiore. È possible che ciò abbia un fondo di verità, tuttavia assai chiara è la spiegazione che successivamente fornirà la Nijinska a proposito di tali posture e movimenti: essi furono strutturati in modo da evocare la Grecia arcaica e non quella classica.
Questo nuovo linguaggio espressivo, i movimenti animaleschi, l’espressione primitiva erano così inconsueti da essere al limite dello scandalo, senza contare che sarebbero stati usati per rappresentare una sessualità primordiale, quasi bestiale, appagata con un esplicito atto sessuale solitario, venato di feticismo per l’uso della sciarpa abbandonata dalla ninfa. Diaghilev aprì la generale del 28 maggio alla stampa e a un gruppo selezionato di invitati, i quali accolsero la novità in assoluto silenzio. Il balletto fu ripetuto, perché – come comunicò Astruc – le sue novità non potevano essere apprezzate sin dalla prima visione. Il bis si guadagnò qualche applauso accennato, invece, la prima del balletto creò scandalo: non mancarono gli assensi, ma questi furono accompagnati da vibrate proteste. Per la prima volta un balletto di Diaghilev veniva fischiato. Come provocatoria reazione al parapiglia, Diaghilev ignorò le proteste e assecondò gli scarsi segni di gradimento facendo immediatamente bissare il pezzo, un po’ per convincere il pubblico e un po’ per rassicurare il coreografo. Parte della stampa si espresse tiepidamente a favore, ma la restante parte riprese lo scandalo per sottolinearlo vigorosamente; di rimando, lo scultore Auguste Rodin difese la creazione in un suo articolo, come fece il pittore Odilon Redon in una lettera indirizzata a Le Figaro, organo di stampa che si era mostrato particolarmente avverso al lavoro. A fronte dei contenuti fortemente innovativi e delle scandalose immagini mai osate in precedenza, c’è da aggiungere che l’aspetto complessivo del lavoro invece si sposava con la tendenza in voga da oltre un decennio di reinterpretare il mondo classico greco-latino non in chiave neoclassica, come era avvenuto in altri momenti storici, ma secondo un erotismo venato di orientalismo, in linea con l'Art Nouveau e con alcune proposte di Gustav Klimt, Arnold Bœklin, Aubrey Beardsley, Aristide Maillol, Lawrence Alma-Tadema.
Non è affatto vero, come è stato scritto, che, a causa delle recensioni negative apparse sulla stampa e dello sconcerto nel pubblico, il balletto uscì quasi subito dal repertorio dei Ballets Russes; anzi, forse grazie proprio allo scandalo, ogni parigino voleva vederlo. Poco dopo ebbe accoglienza favorevole a Berlino e, all’inizio dell’anno successivo, lo stesso accadde a Budapest. Nel 1913 il grande applauso del pubblico londinese stemperò qualche fischio e il lavoro ebbe l’approvazione della critica britannica: il Times proclamò addirittura l’inizio di una “nuova fase” nell’arte del balletto. Il balletto fu portato in America durante la prima tournée dei Ballets Russes negli Stati Uniti e, durante la seconda, venne ballato ancora da Nijinsky, che lo riprese poco dopo a Madrid. Diaghilev lo riprese nel 1922 e nel 1929 lo affidò per la prima volta a Serge Lifar, che ballò con un piede nudo e un sandalo all’altro, come in un disegno di Bakst (chi scrive ringrazia Toni Candeloro che ha corretto una svista, fornendo la corretta attribuzione del disegno citato); morto Diaghilev e scioltasi la sua compagnia, il balletto fu interpretato dai maggiori artisti della compagnia dei Ballets Russes de Monte Carlo e di quelle da essa derivate (si vedano Le Compagnie eredi dei Ballets Russes di Diaghilev: articolo I e articolo II). Con queste compagnie negli anni ‘30 David Lichine lo interpretò sovente con Tamara Grigorieva in una produzione con una scena del Pricipe A. Schervachidze e costumi di Bakst e lo portò anche in Australia, nella versione integrale e in una abbreviata. Lifar nel ’35 propose una sua variante in cui abolì le ninfe. Nel ’41 il balletto debuttò all’ABT, al Palacio de Bellas Artes a Mexico City, con George Skibine e negli anni '50 fu interpretato da Milorad Miscovitch e Alicia Markova.
Va, però, sottolineato che queste riprese e varianti si basavano sostanzialmente solo sui ricordi dei primi interpreti, aiutati dalle fotografie scattate dal Barone Adolf de Meyer all’epoca delle prime rappresentazioni; coerentemente, molto spesso gli stessi programmi di sala dei Ballets Russes del Colonnello de Basil indicavano che la coreografia era “tratta da” (after) Nijinsky, proprio per segnalare la sommaria aderenza alla coreografia originale. In seguito tali rivisitazioni si fecero sempre più rarefatte.
Tuttavia Nijinsky aveva annotato la sua coreografia nel 1915, approfittando del soggiorno forzato a Budapest, agli arresti con la famiglia, quale nemico di guerra. Aveva usato un sistema notazionale da lui elaborato sulla base del sistema Stepanov, imparato al Marijnsky secondo la revisione di Gorski. Sebbene le modifiche di Nijinsky alla notazione Stepanov abbiano reso i suoi quaderni di appunti per molti anni di difficilissima interpretazione, verso la fine degli anni ’80 essi poterono finalmente essere utilizzati per la prima ricrostruzione della coreografia che non si basasse esclusivamente sui ricordi dei vecchi interpreti. La studiosa Ann Hutchinson Guest, grande esperta di sistemi notazionali della danza, lavorando con Claudia Jeschke, nel 1987 era riuscita a decifrare il sistema notazionale di Nijinsky e ciò ha reso loro possible la ricostruzione, rappresentata per la prima volta nel 1989 da Les Grand Ballets Canadiens.
Il balletto è stato rappresentato da grandi interpreti: da Rudolf Nureyev a Charles Jude a Gheorghe Iancu, sovente esibitosi assieme a Carla Fracci nel ruolo della Grande Ninfa.
ALTRE VERSIONI SULLA MUSICA DI DEBUSSY
Nel 1935 Serge Lifar propone all’Opéra di Parigi una variante del balletto priva delle ninfe, concepita come assolo e arricchita da un sipario di Picasso.
Col titolo Afternoon of a faun il 14 maggio 1953 va in scena la versione completamente rinnovata di Jerome Robbins, presentata al City Center di New York dal New York City Ballet. Si tratta di un lungo passo a due, al debutto interpretato da Tanaquil Leclercq e da Francisco Moncion con scena e luci di Jean Rosenthal e costumi di Irene Sharaff. Robbins toglie al balletto ogni riferimento al mito e all’antica Grecia per dargli un’ambientazione moderna in una sala prove dominata da tinte azzurro e azzurro–polvere, con le sbarre alle pareti. Robbins ebbe l’ispirazione per questo passo a due osservando Edward Villella, quando era ancora giovane studente alla Scuola dell’American Ballet, mentre faceva stretching nel corso di una lezione.
Un giovane in calzamaglia nera, a torso nudo, giace a terra addormentato; si sveglia e con indolenza inizia un po’ di stretching ancora a terra, si flette, si inarca richiamando la posa orgasmica del Fauno di Nijinsky. Poi si alza per provare qualche passo di danza, osservandosi continuamente in uno specchio inesistente, virtualmente posto sulla quarta parete della stanza, quella che separa il pubblico dal palcoscenico. Una giovane, in grigio-azzurro, entra in sala intenzionata ad esercitarsi; si riscalda e accenna qualche passo, anche lei molto attenta al suo riflesso nello specchio ideale attraversato dallo sguardo del pubblico. All’improvviso ciascuno dei due si rende conto di non essere solo nella sala prove, percependo la presenza dell’altro non direttamente, ma vedendone il riflesso nello specchio. Il giovane scruta la ragazza con la stessa stupita curiosità del Fauno di Nijinsky per le ninfe; poi lei va alla sbarra e i due iniziano a relazionarsi toccandosi brevemente: lui la raggiunge, le poggia la mano sulla vita e la giovane gli concede di sollevarla e di farla girare. Mentre lavorano assieme, invece di guardarsi prestando attenzione l’uno all’altra, controllano continuamente e narcisisticamente il proprio movimento, riflesso nello specchio invisibile che separa il palcoscenico dal pubblico. Gradualmente i rapporti formali sfumano, tra i due c’è un primo sguardo, lentamente si stabilisce la loro attrazione attraverso un processo di mutua scoperta. Quando lui la solleva e la carica su una spalla, la donna distoglie lo sguardo dallo specchio e cerca quello del compagno. Il ragazzo accarezza i capelli sciolti e ondulati di lei, ma soltanto seguendone il contorno con la mano tenuta con stupore reverente a distanza dalla chioma. Ciò nonostante, quando lui cerca di baciarli, la giovane sembra percepire il tocco e si allontana. Un altro passaggio diventato una cifra caratteristica di questa versione è una presa ideata secondo una meccanica ingegnosa: il giovane poggia su una guancia della ragazza prima il palmo aperto di una mano, come per accarezzarla, poi l’altro in tal modo chiudendo le sue braccia in un cerchio che circonda la donna; lei infila le sue braccia in questo cappio e, mentre vi scivola dentro, come tuffandovisi, lui allarga il cerchio delle sue braccia, lo abbassa fino alla vita di lei e lo apre sorreggendo la donna orizzontalmente con un braccio sulla vita di lei e l’altro attorno alle sue gambe: per un istante il corpo femminile sembra fluttuare nell’aria senza peso.
Quando finalmente il ragazzo bacia la sua ninfa moderna sulla guancia, lei si allontana dal giovane tenendo una mano sulla guancia baciata ed esce dalla stanza, ormai diventata una giovane donna. Ma forse è stata solo un’illusione, un sogno. È stato un incontro di anime? O forse il ragazzo ha visto l’immagine del suo desiderio, la donna, riflessa nello specchio assieme alla sua stessa figura? Non gli resta che tornare a studiarsi nello specchio ancora una volta per poi reimmergersi nei suoi sogni.
Dopo averla presentata al Festival dei due Mondi di Spoleto del 1972, l’anno successivo Amedeo Amodio ha portato la sua versione alla Scala con Savignano e scena di Manzù, per poi proporla al Teatro dell’Opera di Roma, al Maggio Fiorentino, al Teatro Massimo di Palermo e in tour con Aterballetto. Il balletto è stato interpretato da Roberto Bolle e Greta Hodgkinson in occasione del ritorno a Mazara del Vallo del Satiro danzante. Si tratta di un pezzo per due ballerini, un ragazzo e una ragazza, ove ciascun protagonista inizia a ballare singolarmente, mentre l’altro siede o giace a terra; successivamente i due interagiscono in un passo a due di grande fisicità, in parte sviluppato a terra: a tratti l’uomo insinua il suo corpo sotto quello della donna disteso sul palcoscenico; di grande plasticità è la posa in cui l’uomo sostiene la partner a cavalcioni sulla sua schiena ed avvinghiata con una gamba al busto di lui.
Nel 1982 anche Roland Petit si accosta al pezzo musicale in una Soirée Debussy: La Mer/Jeux/L'après-midi d'un faune, balletto creato per il Ballet National de Marseille, con costumi di Giorgio Coltellacci e interpreti Dominque Khalfouni, Denys Ganio, Luigi Bonino, Jean Charles Gil.
Ogni riferimento al programma poetico di Mallarmé-Debussy è abolito da Jiří Kylián nella sua lettura della musica di Debussy. Il balletto, dal titolo Silent Cries, è un assolo femminile, creato nel 1986 per la sua compagna Sabine Kupferberg, prevalentemente danzato dietro un vetro chiazzato di gesso bianco. Esso pare l’ostacolo che sempre si frappone alla realizzazione di sé, ricercata dalla protagonista prima liberandosi di parte delle opacità bianche, cancellandole, e poi mediante il gesto coreografico, interferendo fisicamente col vetro con mani, piedi, torso e altre parti del corpo.
Lasciata Bruxelles alla fine del giugno 1987, sei settimane più tardi, Béjart inizia a provare a Losanna col nuovo Béjart Ballet, che diventerà il Béjart Ballet Lausanne. In questa nuova sede Maurice Béjart si lancia in una serie di creazioni: tra le prime c’è la sua versione de L’Aprés-midi d’un Faune, che presenta al Théatre de Beaulieu di Losanna, interpretata da Jania Batista e Serge Campardon.
Il 12 ottobre 1996 al Semperoper va in scena la rilettura di John Neumeier per il Balletto di Dresda, basata su tre danzatori, che al debutto furono: Laura Contardi, Vladimir Derevianko e Raymond Hilbert. Un uomo in pantaloni neri e camicia bianca dorme appoggiato al piedistallo di un’enorme statua classica, distesa a terra divelta; il profilo di altri colossi antichi si staglia in lontananza. Si avvicina all’uomo addormentato un giovane a piedi nudi, coperto soltanto da pantaloncini bianchi, recante in mano un cartoccio, che deposita sul piedistallo della statua. Il giovane scompare allorché il suo movimento sveglia l’uomo e costui, trovati grappoli d’uva nel cartoccio aperto, se ne disseta. Evidente è la citazione del Fauno di Nijinsky. Poi l’uomo inizia un assolo con pose e movimenti ora spigolosi, ora fluidi, singolarmente ben diversi da quelli congegnati da Nijinsky, ma che, nel loro complesso, sembrano usciti dalla stessa matrice, anche se il linguaggio coreutico contemporaneo è contrappuntato da qualche figura accademica; in secondo piano si muove una donna in abito verde. Torna il giovane e i due uomini ballano contemporaneamente da soli secondo gli stessi passi e gli stessi movimenti, dando l’idea di essere l’uno il doppio dell’altro. Forse Nijinsky-Fauno e Diaghilev? La loro simbiosi cessa allorché tra loro si inserisce la donna: i due interagiscono con lei in modi differenti sviluppando un articolato passo a tre, che si conclude allorché l’uomo è abbandonato dalla donna e dal giovane.
Nel 2001 Thierry Malandain trasforma il balletto in un assolo neoclassico creato per il Ballet Biarritz. La sua creatura non riposa su un’altura, ma sopra un’enorme scatola di fazzoletti di carta e raggiunge, solitario, l’appagamento del suo desiderio non nel concupire una ninfa, ma strofinando il naso su mucchi di fazzolettini.
Mike Salomon propone col suo Late Afrernoon of a Faun il proseguimento di quello di Nijinsky: il Fauno indugia sulla collinetta dopo essersi soddisfatto feticisticamente con la sciarpa persa dalla ninfa; la raccoglie e, dopo avervi giocato brevemente, la getta. Entra la ninfa per recuperare la sciarpa persa; la trova e se ne impossessa nuovamente; poi i due entrano in relazione e saliranno assieme sul rialzo.
La reinterpretazione di “Prelude à l’après-midi d’un Faune” di Victor Ullate mette in scena la scoperta da parte di un essere primitivo del desiderio e del piacere carnale, rappresentati da una donna serpente, in parallelo col binomio Adamo-Serpente, ossia virtù-tentazione.
Il Prelude ha ispirato molti altri coreografi che si sono voluti cimentare in una loro interpretazione del pezzo impressionista. Tra queste ci si limita a ricordare quelle di: Aurel Milloss; Raphael Bianco per Luigi Bonino; Marie Chouinard; l’interpretazione dalle venature afro di Georges Momboye.