Altro racconto recuperato.
LOVE HISTORY
Primissima infanzia
Nei giardini reali, all’ombra di un albero fiorito, seduta nel suo box, Naida guardò con estremo interesse il bimbetto che veniva fatto accomodare nell’altro angolo. Duke gettò uno sguardo svagato alla bimbetta dall’altra parte, e riprese a succhiare il suo ciuccio. Naida tentò un sorrisetto. Duke continuò a succhiare il suo ciuccio. Naida batté le manine, fece “ciao”. Duke continuò imperterrito la sua opera di succhiaggio. Naida rise, fece delle smorfie, tentò infine d’attirare l’attenzione con un tentativo di conversazione: – Giggle! Giggle! Duke non alterò nemmeno il ritmo di ciucciata. Naida afferrò il giocattolo più pesante e spigoloso che trovò a portata di manina, e con una mira notevole per una frugoletta lo scagliò addosso a Duke. Lui si strofinò l’occipite, guardò Naida con aria di rimprovero: – Pecché? Poi recuperò il suo ciuccio, e si rimise all’opera. Naida si trascinò fino da lui, gli afferrò la testa e gli fece dare una capocciata contro la parete del box.
Prima infanzia
Ai piedi d’uno degli alberi secolari che ornavano il giardino del palazzo reale, seduta nel bel mezzo d’una vasta pozza di fango, Naida giocava al pasticcere; accanto a lei, Duke sedeva con lo sguardo remoto, perso verso lontani orizzonti. Davanti a sé, lei aveva la bellezza di dodici torte di fango, tutte regolari, tonde, artisticamente eseguite. Prese la più bella, la più grossa e spessa, e la tese a Duke: – Totta. Vuoi? – Gracchie – rispose lui con la consueta buona grazia, e Naida gli depose la torta sulle ginocchia. Il fango prese a scorrergli in rivoli giù per le gambe, insinuandosi fino nei sandaletti; Duke parve non farvi caso e riprese a fissare l’orizzonte. Naida rimase in attesa: gli aveva donato una cosa sua, fatta con le sue mani, era naturale aspettarsi qualcosa in cambio. Duke continuava a fissare l’orizzonte, mentre la torta gli si squagliava in grembo. Naida gattonò verso di lui. Niente. Lei mise il viso a due centimetri da quello di lui. Duke le gettò uno sguardo interrogativo che era tutto un “ma che vuoi, adesso?”. Esasperata, lei si tese in avanti e gli schioccò un bacione sulla guancetta tonda. Duke prese ad ululare come se fosse stato scottato. Senza far motto, con l’aristocratica compostezza che le era propria, lei gli rovesciò in testa le altre undici torte di fango.
Seconda infanzia
A quell’ora del primo pomeriggio, il giardino del palazzo reale era praticamente deserto; Naida e Duke si ritrovarono sotto un grande albero fiorito. Cespugli in fiore li circondavano, il prato era una festa di corolle multicolori. L’animo femminile di Naida fu ispirato da un sì meraviglioso spettacolo: – Duke, giochiamo che tu eri un principe e io una belliffima principeffa? Lui era troppo ben educato per farle notare che una principessa non può essere bellissima quando le sono caduti i denti davanti: – Va bene. – Però poi veniva un cavaliere cattivo – continuò lei. – Va bene. – Il cattivo mi rapiva e tu venivi a falvarmi. – Va bene. – E poi tutto finiva bene, perché noi ci fpofavamo e vivevamo felici e contenti... Duke...? Si voltò dove un secondo prima si trovava lui. In vita sua, Naida non avrebbe mai visto nessun altro talmente veloce nella corsa dei trecento piani.
Adolescenza
Sotto il caldo sole estivo, il lago riluceva come uno specchio. L’aria era immobile, dai cespugli fioriti veniva un intenso, dolce profumo. Sdraiati l’uno accanto all’altra, Naida e Duke prendevano il sole: avevano fatto una lunga gita in barca, avevano fatto un lungo bagno (non si erano dedicati ad altre, proficue attività a due, ma purtroppo Duke da quell’orecchio ci sentiva pochino). In quel momento, si sentivano perfettamente in pace con sé stessi e con il resto del pianeta. Naida aprì un occhio, gettò uno sguardo a Duke: – Come si sta bene. – Proprio vero – ammise subito lui. Lei aprì entrambi gli occhi, azzardò uno sguardo più diretto: – Intendo che sto proprio bene… con te. – Anch’io – ammise subito lui. Naida raccolse il coraggio a due mani e si rialzò su un gomito: – Io… io ti amo, Duke. – …Eh…? Oh, certo, anch’io, sì – omise all’ultimo il “ci mancherebbe, che diamine”. Naida sentì il cuore scoppiarle di felicità: – Allora… ci siamo messi assieme…? – Suppongo di sì – fu la romantica risposta che ottenne. – Allora siamo fidanzati! – trepidò lei – Vivremo insieme, e un giorno ci sposeremo, e… Lui balzò subito a sedere: – Oh… non te l’ho detto? Che stupido… – Detto, cosa? – Sai Re Vega? Quel tizio odioso, quel tiranno della nebulosa di Vega…? – Allora? – Vuole allearsi con noi, e per questo vuole che io sposi sua figlia… Rubina, credo si chiami. Buffo, vero? Calma, si disse Naida – Duke, ma tu… tu cosa farai? Dovrai… sposarla…? Lui si strinse nelle spalle: – Non ho molta scelta, lo sai… nella mia posizione, purtroppo… – emise un sospiro molto artistico; poi, da quello sciagurato che era, disse l’ultima cosa che avrebbe dovuto anche solo pensar di poter dire: – Ma noi due resteremo sempre amici, no? Naida afferrò il remo della barchetta e glielo picchiò selvaggiamente sulla testa.
Giovinezza
Il giardino reale traboccava di fiori. Corolle odorose e coloratissime s’affacciavano da alberi e cespugli. Da ogni angolo giungevano dolci, romantici effluvi. – Mi dispiace che la tua storia con Rubina sia andata a finire male, Duke – disse Naida, con un tono afflitto che puzzava parecchio di falso. – Che vuoi… – mormorò lui, l’aria disillusa di chi ben conosce il mondo e le sue delusioni – Cose che succedono. Non volle dirle che essersi trovato ad un passo da confetti e marce nuziali e venirne salvato all’ultimo istante, dato che il futuro suocero aveva cambiato idea, era stato per lui un’esperienza terrificante: il sollievo era stato talmente forte da risultare traumatico. Certo, Rubina aveva fatto un po’ di capricci, ma presto si sarebbe consolata con qualche altro malcapitat… ehm, uomo fortunato. Quanto a lui, era libero. – Non ho più obblighi, adesso – esclamò, compiaciuto. Naida sentì la gioia traboccarle nel cuore: – Oh, Duke…! – Non sono più costretto a sposare Rubina… posso fare quello che voglio! Di scatto, lei gli balzò al collo: – Duke, è meraviglioso!!! …Quando ci sposiamo? Lui inorridì. Svegliarsi da un incubo per ritrovarsi in un altro ben peggiore è uno scherzo del destino ben crudele: – Ma Naida, io veramente… – Cosa vuoi dire? – esclamò lei, e sarebbe stato ben difficile scorgere un minimo di calore umano nel suo sguardo – Un tempo, tu amavi me! Me l’hai detto! – Sì, ma… – Poi è arrivata questa Rubina… Vega, gli obblighi dinastici eccetera… e va bene, l’ho accettato! – Certo, però… – Adesso Rubina se ne è andata, tu non devi più sposarla, sei libero… stai cercando di dirmi che non vuoi impegnarti con me? – Ecco, a dire il vero… – Insomma, Duke! – Naida lo mise letteralmente spalle al muro, o meglio all’albero, incantonandolo contro un tronco secolare – Voglio una risposta precisa! Vuoi sposarmi, sì o no? Duke esitò, mentre gelidi sudorini cominciavano a ruscellargli giù dalla fronte… e proprio allora, lontano ma inconfondibile, giunse il più spaventoso dei suoni. L’allarme. Vega aveva dichiarato guerra. – Quanto mi dispiace, devo andare subito – lui fece per svicolare, ma Naida, che se l’era aspettato, fu rapidissima ad acchiapparlo – Naida, non senti l’allarme? Io devo andare, Fleed ha bisogno di me… – IO, ho bisogno di una risposta! – ruggì lei, occhi baluginanti e denti digrignanti. – Non essere assurda… proprio ora… poi adesso c’è la guerra, rischieresti di restare vedova – assunse un’aria molto, molto nobile: – Non posso importi un simile sacrificio! – Ma Duke…! – Ne riparleremo a guerra finita, d’accordo? – finalmente riuscì a liberarsi dalla pervicace fanciulla e tentò una nuova fuga. Per terra giaceva un piccone, dimenticato da uno dei giardinieri. Naida lo prese e cominciò a lavorare con tutta la sua notevole energia.
Pochi minuti dopo, mentre sfrecciava con Goldrake nell’azzurro dei cieli, gli occhi che faticavano a fissarsi contemporaneamente sullo stesso soggetto e l’elmo che gli premeva dolorosamente sui bernoccoli fioriti sul cocuzzolo, Duke si disse che Re Vega era sì un tiranno, una carogna, un colossale fetente… ma in fatto di tempismo, tanto di cappello. Era la seconda volta che lo salvava in punto di morte… Se avesse potuto farlo, gli avrebbe stretto la mano.
Altro recupero.
Dedicato a Runkirya, pittrice dal meraviglioso talento, con grandissimo affetto e stima.
LO SCONTRO
– Sinceramente, penso che tu stia sbagliando – con la consueta calma, Procton sedette al suo scrittoio. Actarus si voltò a guardare il padre, sorpreso: – Pensavo che tu avresti capito le mie ragioni. – Certo che le capisco – Procton aprì un cassettino e ne estrasse la sua pipa favorita – Comprendo il tuo punto di vista. Però non sono affatto d’accordo con te. Actarus fece un gesto d’impazienza e si voltò a guardare fuori dalla finestra: le montagne apparivano candide e remote, rosate dalla luce del sole calante. – Venusia non deve combattere – sibilò, secco – È fuori discussione! – Ah, sì? – suo padre non alzò la voce, non sottolineò il suo dissenso con gesti violenti: proprio la sua calma fece capire ad Actarus che la battaglia sarebbe stata durissima – E per quale motivo hai deciso che Venusia non potrà far parte della squadra? Actarus spalancò le braccia in un gesto quasi esasperato: – Mi pare talmente ovvio...! Mi meraviglia che tu non lo voglia capire! Procton caricò con calma la sua pipa: – Vorresti spiegarmelo tu, allora? O pensi che sia tempo sprecato? – Scusami, non volevo dire questo – s’affrettò ad assicurare Actarus, ed era sincero – Ultimamente sono piuttosto teso... Venusia non vuole proprio capire, continua ad insistere; Alcor la spalleggia, è naturale, ed è una discussione dietro l’altra. Ma perché non comprendono? Procton lo guardò in silenzio per quello che ad Actarus parve un’eternità: improvvisamente, il giovane ebbe l’impressione di trovarsi su un vetrino, sotto la lente del microscopio, e non fu affatto un’impressione piacevole. – Venusia è venuta da me, stamattina – disse infine Procton, rigirandosi una penna tra le dita – Era sconvolta. – Mi dispiace – mormorò Actarus. – Mi ha raccontato di ieri... del vostro giro a cavallo. Actarus assentì e non rispose. Il giorno prima lui l’aveva trascinata in una folle galoppata, e lei gli aveva sempre tenuto dietro; poi lui aveva spinto il suo stallone a saltare da una riva all’altra del fiume, e lei non aveva osato seguirlo. In quel modo, Actarus ne era sicuro, Venusia aveva compreso di non essere alla sua altezza, di non essere abbastanza forte da poter combattere con lui. – Era proprio necessario umiliarla a quel modo? – chiese improvvisamente Procton, la voce tagliente come Actarus non l’aveva mai sentita. – Padre, tu sai che io non avrei mai voluto fare una cosa simile! – rispose animosamente il giovane – Però, lei non mi ha lasciato scelta! Non vuole capire... – Venusia non vuole capire! – solo una collera estrema fece sì che Procton, il correttissimo Procton, troncasse la parola in bocca al figlio – Venusia non vuol capire, Alcor non vuol capire, io non voglio capire... Actarus, non ti viene il dubbio che invece sia tu quello che non vuol capire? Actarus trasalì, come se le parole del padre fossero state uno schiaffo; inarrestabile, Procton riprese: – Credi davvero che Venusia non possa combattere con te perché non ha voluto saltare quel fiume? – Sapevo che non ne avrebbe avuto il coraggio – rialzò la testa, sicuro del fatto suo. – O forse, lei sapeva benissimo che il suo cavallo non era in grado di compiere quel salto – rispose Procton, secco – In questo caso, Venusia ha avuto l’intelligenza di non rischiare la vita solo per stare al tuo gioco. – Ma io l’ho fatto per dimostrarle... – Quella tua bravata ha dimostrato la maturità e il buon senso di Venusia, cosa che non si può certo dire di te – tagliò corto Procton – Che sarebbe successo, se lei fosse stata così impulsiva da seguirti? Pensa se al posto di Venusia ci fosse stato Alcor: lui ti avrebbe imitato senza esitare, e adesso... beh, prova un po’ a pensare a come ti sentiresti, adesso. Actarus sentì mancargli il fiato: sapeva che Alcor avrebbe saltato quel fiume, sapeva che pochissimi cavalli sarebbero riusciti in una simile impresa... improvvisamente, provò uno spasmo alla bocca dello stomaco: Venusia avrebbe potuto morire per tentare di seguirlo, e se fosse successo proprio lui, che avrebbe voluto preservarla da qualunque pericolo, sarebbe stato responsabile della sua fine. – Naturalmente, io sapevo che non avrebbe saltato – articolò, a mo’ di spiegazione; ma Procton non sembrava per nulla soddisfatto delle sue ragioni. – Actarus, tu vuoi negare a Venusia la possibilità di battersi perché pensi di poter affrontare da solo i mostri di Vega... – E non ho sempre fatto così? – esclamò energicamente il giovane – Non li ho sempre sconfitti? – Certo, l’hai fatto... finora. – Procton lo guardò in tralice – La verità è che gli attacchi di Vega si fanno sempre più violenti. – Goldrake ce la farà contro qualunque mostro di Vega! Procton scosse la testa: – Sembra di sentir parlare Alcor. Se solo penso a quante volte l’hai accusato di essere troppo impulsivo, di voler far troppo da solo... – si mise in bocca la pipa, ancora spenta, e rimase a braccia conserte, fissando la parete davanti a sé; poi, sempre senza alzare la voce, riprese: – Tante volte abbiamo visto come la combinazione tra te e Alcor sia stata vincente: in molti casi, hai vinto la battaglia proprio grazie al suo aiuto. – È vero – ammise con franchezza Actarus – Ho sempre detto che senza di lui sarei stato sconfitto più di una volta, ma non vedo come Venusia... – Venusia ci ha salvati tutti almeno in due occasioni – gli fece notare Procton – Ricordi quando il centro è stato assalito da Hydargos? Goldrake era fuori uso, Alcor, io e tutti gli altri eravamo stati catturati; da sola, Venusia è riuscita a creare un diversivo per tenere a bada Hydargos in modo da darti il tempo di riparare il robot. L’avevi dimenticato? – No, ma... – Poco tempo fa ha pilotato lei stessa Goldrake 2 mentre Alcor era fuori combattimento, e il suo aiuto è stato determinante. – È vero – riconobbe Actarus – Ma non credo che... – Oggi, poi, ha fatto anche di meglio – continuò Procton – Ha sventato l’attacco a sorpresa con cui i veghiani volevano distruggere il nostro centro. Da sola, usando la tua moto ha affrontato tre dischi. Tre, ripeto; e ne è uscita illesa. – Io non voglio negare la sua abilità e il suo coraggio! – esplose Actarus – Solo che lei sembra considerare il combattere come qualcosa di desiderabile, e non è giusto! La guerra è orribile, nessuno dovrebbe voler battersi solo per... – s’interruppe vedendo il padre scuotere la testa e guardarlo con commiserazione. – Conosci così male Venusia da pensare una cosa simile...! – mormorò, sconfortato – Possibile che tu non comprenda che lei vuole battersi per salvare tutto ciò che ama? Tu hai deciso di lottare per questo nostro pianeta; Venusia appartiene a questo mondo, è naturale che senta il desiderio di difenderlo dal nemico che vuol distruggerlo! Possibile che tu non capisca questo? – Ma certo che lo capisco – s’affrettò ad assicurare Actarus – Però non voglio che lei corra pericoli, lei è... – Parliamoci chiaramente, Actarus – sbottò Procton – Sappiamo entrambi che d’ora in poi sarà sempre peggio: i veghiani si faranno sempre più spietati, e i loro attacchi saranno sempre più difficili da sostenere. Se Goldrake dovesse soccombere, che ne sarebbe dei terrestri? Tu sai meglio di me cosa facciano i veghiani ai loro prigionieri! Actarus serrò i pugni: – Sono delle belve! – Infatti – Procton lo guardò direttamente negli occhi: – Al punto in cui siamo, Actarus, per Venusia non è meglio rischiar di morire in combattimento, piuttosto che cadere viva nelle mani di quei mostri? Actarus rabbrividì: già una volta Venusia era stata catturata da Hydargos, e ricordava ancora la furia impotente che aveva provato vedendola indifesa nelle grinfie del nemico. Sapeva che tra i prigionieri di Vega il destino peggiore toccava alle donne... no, meglio morta, senza dubbio! – Hai ragione – mormorò, e le parole gli vennero a fatica – Non avevo considerato questo. Procton si permise uno dei suoi rari, lievi sorrisi: – Ti eri solo fermato sul fatto che Venusia è una ragazza? Forse ti fa effetto pensare di dover cooperare con una donna...? Actarus trasalì, sorpreso: non pensava d’avere atteggiamenti maschilisti. Era forse questa l’opinione che poteva dare di sé? Provò a riflettere, scavando dentro di sé i ricordi che aveva di Venusia: lei che coltivava i fiori, che accudiva amorevolmente un cavallo malato, lei con in braccio un agnellino appena nato... in quegli anni, per lui Venusia era stata la serenità, la dolcezza, la bellezza di vivere. Tornare a casa dopo aver combattuto e vederla sorridente, sentire la sua voce dolce, era stato ciò che gli aveva ricordato che la vita non è solo lotta, sangue e morte. Si era sempre aggrappato a quell’immagine di lei come se fosse stata una sorta di angelo consolatore... ...ma anche gli angeli possono avere una spada e lottare. C’è un tempo anche per questo. – Non mi fa impressione combattere assieme a Venusia – affermò infine – Ho solo sperato che lei potesse restare lontana dal conflitto. – Non è più possibile, purtroppo – gli fece osservare Procton, in tono gentile – I tempi sono cambiati. – È vero – Actarus sospirò lievemente – Sono contento d’averne parlato con te, padre. Adesso capisco che stavo sbagliando. Penso davvero che Venusia potrà essere di grande aiuto, per noi. – Ma certo – soprattutto, dopo che avremo completato il nuovo mezzo che abbiamo in lavorazione e di cui non ho ancora voluto dirti nulla, pensò Procton. Mentre Actarus tornava a guardare verso le montagne, il professore sorrise tra sé, pregustandosi la sorpresa che avrebbe avuto Venusia quando le avrebbe annunciato d’aver pronto il nuovo... come chiamarlo? Squalo? No... Orca? Nemmeno... Delfino? Ecco, molto meglio. Con gesti misurati, Procton accese finalmente la pipa. Delfino Galattico...? No... Tirò una boccata di fumo, appoggiandosi con le spalle alla sedia. Di tante discussioni che aveva avuto con Actarus, questa era stata senza dubbio la più violenta, la più simile ad un vero litigio. Beh, era naturale che prima o poi sarebbe successo: è normale bisticciare, tra padre e figlio. Delfino Cosmico...? Bleah... Actarus gettò uno sguardo alla falce – argentea, non rossa – che stava spuntando dietro le montagne. – Mi chiedo – mormorò – se ci sarà mai la pace, nello spazio... Delfino Spaziale... e perché no? – Delfino Spaziale – mormorò Procton, e annuì. Suonava bene. Actarus si voltò: – Scusa, hai detto qualcosa? – Niente d’importante – Procton sorrise – Stavo parlando tra me. Delfino Spaziale. Approvato. Grazie al Cielo, anche questa era fatta...
Edited by H. Aster - 12/11/2016, 22:05
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