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H. ASTER's FICTION GALLERY

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view post Posted on 8/2/2011, 19:45     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Verona, città di Emilio Salgari.

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Nuova puntata, piuttosto corposa.

12 Vacanze

Per quanto esistessero anche su Zuul gli spettacoli olografici, né Zuril né Fritz sembravano particolarmente interessati ad assistervi: dopo mesi e mesi trascorsi su Vega in mezzo a schermi, comunicatori e ologrammi, l’unica cosa che padre e figlio desideravano era trascorrere il tempo libero in maniera diversa. Generalmente, Zuril dopo cena andava a rilassarsi in giardino; il più delle volte, Fritz e Kein facevano altrettanto. Non parlavano molto; o, se lo facevano, erano quasi sempre chiacchiere di poco conto.
Una sera, inaspettatamente, i loro discorsi presero una piega che Kein non si sarebbe mai immaginato. Fritz era andato a coricarsi presto; Kein e Zuril avevano cominciato a discorrere, quando una frase fece scattare istintivamente il ragazzo, che dimentico del rispetto dovuto al suo padrone alzò la voce come mai aveva osato fare prima.
Curiosamente, Zuril non parve farvi troppo caso: l’argomento lo interessava troppo, e la sfrontatezza di Kein in quel momento era passata in second’ordine.
«Dunque, assalire, depredare e tenere schiavi è sbagliato», disse Zuril. Non era polemico: voleva davvero comprendere il punto di vista di Fleed. Era uno scienziato, la diversità l’incuriosiva sempre.
«È sbagliato, sì!», gridò Kein, convinto. «Lo sappiamo tutti che è sbagliato! Aggredire gli altri è sempre un errore, non può funzionare!»
«Non funziona», ripeté Zuril, assorto. «Allora, secondo te, se davvero assalire gli altri è qualcosa che non funziona, perché contro Fleed abbiamo vinto noi?»
Kein annaspò. Sapeva d’aver ragione, tutto in lui gli urlava di essere nel giusto. Se Zuril l’avesse aggredito sbraitandogli le proprie ragioni, Kein avrebbe saputo difendere il suo punto di vista; trovarsi a dover parlare con calma, discutendo da uomo a uomo, lo lasciò completamente spiazzato, e le parole non gli vennero.
«Perché sì», mormorò infine; ricordò una frase che gli era stata ripetuta più e più volte, ed aggiunse: «La violenza è sempre un errore».
«Sempre?»
«Sì… »
«Insomma, se io ti assalissi, tu non potresti difenderti perché la violenza è male?», chiese Zuril.
Kein inghiottì: «No, se ci si deve difendere… se proprio non c’è altro mezzo…»
«Capisco», assentì Zuril. «Allora, almeno in un caso la violenza non è poi così negativa. Molto bene. Esistono anche altri casi?»
«Non… non so, io…»
«Ad esempio, se io uso la violenza per attaccare per primo, sapendo che altrimenti andrei incontro ad un assalto peggiore. Un attacco contro chi non mi ha ancora assalito ma lo farà sicuramente: è male?»
Kein rifletté. «Attaccare è male».
«Ma se il mio attacco evita qualcosa di peggio? Scegliere un male piccolo invece d’un grande male?»
Il ragazzo si sentiva sempre più confuso. Sapeva che la violenza è sbagliata, ma le argomentazioni di Zuril sembravano convincenti: un piccolo male al posto d’un grande male? Beh…


Cominciò così quella sera una lunga serie di discussioni tra Zuril e Kein, tra padrone e schiavo, tra Vega e Fleed.
Se Zuril avesse alzato la voce, dichiarato con violenza le proprie ragioni, Kein si sarebbe rinchiuso in sé stesso e avrebbe ignorato qualsiasi cosa gli fosse stata detta.
Non era però nello stile di Zuril comportarsi così: pur intimamente convinto delle proprie idee, come scienziato amava il dialogo, il confronto, lo scontro dialettico. Non dava torto: semplicemente, esponeva con sicurezza le proprie convinzioni. Non alzava la voce: parlava con molta calma e in tono ragionevole. Non mostrava disprezzo per le opinioni diverse dalle sue: le ascoltava con attenzione, senza però lasciarsene minimamente influenzare.
Kein era in quell’età in cui un ragazzo ha bisogno dell’approvazione di un adulto; Zuril gli appariva intelligente e autorevole. La sua opinione per lui contava, e molto. Senza rendersene conto, il ragazzo prese ad ascoltarlo, mentre Zuril gli spiegava con calma e ragionevolezza i propri punti di vista. Mai Zuril attaccò, derise o tantomeno sminuì la filosofia di Fleed: e Kein senza nemmeno rendersene conto, cominciò a comprendere la mentalità di Vega, muovendo i suoi primi, piccoli e stentati passi verso una direzione che mai avrebbe immaginato d’intraprendere.
Da parte sua, Zuril non agiva per calcolo: discutere con il suo schiavo di Fleed per lui era un passatempo piacevole, un utile scambio d’opinioni. Il pensiero di star plagiando il ragazzo non lo sfiorò nemmeno: del resto, uomo di Vega, mai avrebbe immaginato che convertire qualcuno alla mentalità veghiana potesse essere un danno.


I giorni successivi, Fritz e Kein continuarono le loro escursioni nei dintorni; a volte si unirono a loro un paio di ragazzi provenienti da una famiglia vicina, ma spesso i due andarono per conto proprio.
«Se preferisci stare con i tuoi amici…», cominciò Kein, che aveva avuto l’impressione di non essere molto gradito ai due ragazzi.
«Non sono miei amici, li conosco e basta», tagliò corto Fritz.
«Ma se vuoi andare con loro… se preferisci essere in compagnia…»
«Senti, Kein» Fritz lo guardò in viso, franco e diretto come sempre. «Dopo mesi passati in quella scuola, dove si vive sempre in gruppo, non desidero altro che un po’ di pace e solitudine. Quando avrai cominciato a frequentarla, capirai anche tu. Quei ragazzi non sono poi nemmeno così simpatici; preferisco mille volte stare con te».
Kein non fece più obiezioni.
Più volte, Fritz aveva parlato di fare una gita sul lago. Era però piuttosto distante, e avrebbero dovuto andarci assieme a Zuril, quando si fosse finalmente liberato del suo lavoro; e finalmente, quel giorno venne. Una sera, lo scienziato annunciò d’aver finito quel che doveva fare e di essere ormai in ferie. La gita fu organizzata, e così fu che un mattino Kein si ritrovò nella navetta, seduto tra Fritz e Zuril, in partenza verso quello che gli era stato promesso come un luogo meraviglioso.
Fritz non aveva esagerato. Kein rimase letteralmente a bocca aperta davanti al grande specchio d’acqua immerso tra le foreste; montagne verdissime si riflettevano nelle acque cristalline. Tutt’attorno non si scorgevano abitazioni o altre costruzioni dell’uomo… o forse, come era uso su Zuul, erano semplicemente ben camuffate nel verde.
«È… è meraviglioso», articolò Kein, senza fiato.
«Te l’avevo detto, no?», rise Fritz, sbarazzandosi in fretta dei sandali e andando a sguazzare nell’acqua. Kein gli tenne subito dietro.
La riva del lago era una vasta distesa di sabbia d’un bianco cristallino e scintillante. Il ragazzo ne raccolse una manciata e l’esaminò: era un miscuglio di minutissimi granelli candidi e trasparenti, in mezzo ai quali brillavano minuscole pagliuzze argentate. Era bellissima da vedere, e molto piacevole da calpestare.
Rimasto accanto alla navetta, Zuril guardò i due ragazzi giocare nell’acqua; normalmente li avrebbe richiamati per aiutarlo a scaricare gli zaini, ma in quel momento li vide talmente felici che preferì lasciarli ai loro giochi e fare da sé. Non aveva visto tanto spesso Fritz così allegro.
All’improvviso si udì un tonfo in acqua, e poi un suono che Zuril non aveva mai udito: esterrefatto, il ministro rimase immobile, uno zaino tra le mani, mentre ascoltava incredulo la risata di Kein.
Fritz si rialzò ridendo: era scivolato, e i vestiti gli pendevano addosso, fradici. Se li tolse e li stese sui rami di un albero, prima di spruzzare dell’acqua addosso a Kein che sembrava soffocare dal ridere. Il ragazzo rispose innaffiandolo a sua volta, e per qualche minuto i due non fecero altro che gettarsi addosso schizzi e schizzi d’acqua. Fu Kein, più piccolo e minuto, a cedere e arrendersi; si tolse poi anche lui i vestiti fradici e seguì l’amico tra le onde.
«Sai nuotare?», l’arrestò Zuril.
«Io…», sono cresciuto in riva ad un lago, nuotavo tutte le mattine e mia madre doveva sgolarsi per farmi uscire… «Certo, signore».
«Beh, fammi vedere quel che sai fare», disse Zuril, che evidentemente voleva essere sicuro.
Kein non se lo fece ripetere: si gettò in acqua e prese a nuotare con gran sicurezza. Tranquillizzato, Zuril finì il suo lavoro. Rimase poi ad osservare l’acqua scintillante alla luce, gli alberi altissimi, le rive verdi, la sabbia candida… era una giornata così calda… persino l’aria sembrava immobile, come in attesa…
Poco dopo, Kein udì il tonfo d’un corpo che si tuffava: incredulo, rimase ad osservare il suo padrone nuotare a grandi bracciate. Chissà perché, gli pareva impossibile che fosse proprio lui, il serio e severo Ministro delle Scienze…
Zuril nuotava senza sforzo apparente: amava profondamente l’acqua, e se c’era una cosa di cui sulla base lunare lamentava la mancanza era proprio una piscina. Raggiunse uno scoglio solitario che spuntava tra le onde, vi s’inerpicò agilmente; si guardò in giro ammirando lo splendido panorama, prima di tuffarsi di nuovo.
Tempo dopo, mentre giacevano tutti e tre sulla sabbia candida, Kein si ritrovò a riflettere su un paio di cose che gli parvero singolari.
Aveva nuotato, giocato, si era tuffato in quelle acque esattamente come avrebbe fatto nel lago sul suo pianeta; ma l’aveva fatto in compagnia di due individui che per lui avrebbero essere due nemici mortali.
Buffo: d’istinto, aveva giocato con Fritz esattamente come avrebbe fatto con i suoi amici di Fleed. Ancora più strano, Fritz aveva dimostrato di conoscere quei giochi. Ma allora? A quanto pareva, i ragazzi di Fleed e di Vega si divertivano alla stessa maniera.
Evidentemente, le similitudini tra di loro erano maggiori di quanto avrebbe mai pensato.
Eppure, erano nemici.
Come avrebbe potuto considerare nemico Fritz, così gentile ed affettuoso? E come avrebbe potuto fare altrettanto con suo padre, che l’aveva salvato da un destino orribile?
Sono veghiani, si disse. Mi hanno sempre detto che i veghiani sono predatori, gente crudele da cui bisogna guardarsi; eppure, il ministro Zuril mi ha trattato sempre benissimo, e Fritz è un ragazzo tanto simpatico… come possono essere miei nemici?


13 Nuova vita

La comunicazione della scuola arrivò puntualmente: Kein era stato ammesso, e per richiesta di Zuril sarebbe stato inserito nella medesima classe di Fritz.
Sorpreso, Kein esaminò le uniformi scolastiche stese con cura sul suo letto, i videolibri, il materiale che Zuril gli aveva procurato in vista dell’inizio della scuola. S’era aspettato oggetti usati, scadenti: in fondo, lui era solo uno schiavo, no?
Era tutto nuovissimo, fiammante. Le uniformi blu rifilate in bianco sembravano fatte su misura.
Quel che era stato procurato a Fritz, era stato dato anche a lui… Zuril non aveva fatto distinzione tra il figlio e il servo. Gli aveva persino regalato una bellissima robovaligia azzurro metallico, nuova fiammante.
Quasi con cautela, Kein prese una delle uniformi e se l’appoggiò contro: da quel che poteva vedere, doveva andargli a pennello.
“Avrai le stesse possibilità di un ragazzo di Vega…” Le parole riecheggiarono nella sua memoria.
Zuril non aveva parlato tanto per dire, e aveva mantenuto la sua promessa.
Ora, lui avrebbe dovuto fare la sua parte.
Non l’avrebbe deluso. Mai.


La scuola prevedeva una vita totalmente in comune con gli altri, il che gli spiegò il bisogno di Fritz di trovare pace e solitudine durante le vacanze.
Praticamente, non v’era momento della giornata in cui non si fosse in gruppo: dal risveglio mattutino ai pasti, dalle lezioni al momento dello studio, dalle ricreazioni fino al riposo notturno si era forzatamente in gruppo. Abituato su Fleed ad avere uno spazio tutto proprio, Kein faticò ad accettare di dividere persino la camera da letto: ma i dormitori erano concepiti per quattro allievi. Uno degli altri tre era fortunatamente Fritz; gli altri due erano due ragazzi che da subito fecero capire di non voler aver nulla a che fare con uno schiavo, fleediano per giunta.
Ce la farò, si ripeté la prima notte che trascorse nella scuola, mentre si rigirava insonne nel suo letto. Ce la devo fare.


Gli fu subito ben chiaro che nella scuola vigeva un rigido sistema di caste.
Al primo posto, i migliori in assoluto, i ragazzi provenienti da Vega. Poi, i veghiani provenienti dalle colonie, con l’eccezione di Zuul, i cui membri erano considerati come i veghiani autentici: non per nulla, Zuul aveva fama di mondo raffinato e all’avanguardia.
Poi venivano tutti gli abitanti dei pianeti cosiddetti alleati, vassalli in realtà.
Infine, coloro che provenivano dai mondi sottomessi; uno schiavo proveniente da Fleed era proprio all’ultimo gradino della scala, questo a Kein fu subito ben chiaro.
Altrettanto chiaro, gli fu il fatto di essere soggetto a qualunque forma d’attacco da parte di chiunque altro. Nessuno avrebbe trovato da ridire se qualcuno si mostrava sgarbato con lui, o se gli faceva un dispetto, o anche se lo colpiva.
La prima volta in cui ricevette un pugno da un compagno, Kein fece per agire come avrebbe fatto su Fleed, andando a denunciare la cosa da un insegnante; ma Fritz lo dissuase subito.
«Vuoi metterti nei guai?», esclamò. «Passeresti per una spia, e verresti punito».
«Punirebbero me? Ma se sono loro a…»
Fritz scosse la testa: «Dobbiamo cavarcela da soli. Andare da un insegnante significa che tu non sei in grado di badare a te stesso. Ti disprezzerebbero tutti».
«Dovrei farmi giustizia da me, insomma?» Kein era trasecolato: era proprio l’opposto di quello che gli avevano insegnato su Fleed…
«Ovviamente, devi stare attento a non farti beccare», spiegò Fritz; vide l’aria stupefatta del suo amico ed aggiunse: «Lo so, non piace neanche a me, ma qui è così. Devi abituartici, o avrai solo problemi».
Kein assentì: sarebbe stato alle regole.
Quando scesero in cortile per l’intervallo tra le lezioni, adocchiò il ragazzo che l’aveva colpito: era in un gruppetto di altri studenti. Chiacchieravano e ridevano.
Nessun insegnante in vista.
Kein puntò dritto sul ragazzo, l’afferrò per un braccio facendolo voltare verso di sé; quello gli rivolse un insulto, e Kein con un diretto preciso lo stese a terra.
Fece passare lo sguardo sui compagni del ragazzi, che avevano smesso di ridere e lo fissavano, increduli. Qualcuno ha qualcosa da dire?, chiesero i suoi occhi, divenuti gelidi.
No, fu la risposta che ottenne.
Ne ero sicuro.
Quel pugno gli diede un minimo di rispetto: se non altro, tutti capirono che lo schiavo era capace di reagire, non era un pappamolla. La maggior parte dei ragazzi prese perciò ad ignorarlo totalmente, pochi rimasero a dargli fastidio; ma quei pochi, gli rendevano davvero la vita difficile. Dispetti su dispetti, insulti gratuiti, derisioni feroci; però nessuno provò più ad alzare le mani su di lui.
Il più agguerrito contro di lui era Bradios, lo studente più temuto della scuola.
Era un ragazzo più grande d’un paio d’anni di Kein; era molto alto e robusto, addirittura colossale, e provvisto d’una forza fisica spaventosa. Tormentare gli altri, imporsi su tutti era per lui pane quotidiano; il fatto poi di essere il campione della scuola di lotta e di essere figlio del comandante Barendos lo rendeva ancora più arrogante.
Da subito, Kein imparò ad evitarlo il più possibile, a farsi di pietra davanti ai suoi insulti e alle sue provocazioni e soprattutto a schivare qualsiasi colpo gli venisse indirizzato. Più piccolo, sottile e scattante, Kein contrapponeva velocità e riflessi prontissimi alla forza bruta di Bradios: sapeva bene che uno solo di quei pugni grossi come magli avrebbe potuto mandarlo dritto in infermeria.
Se con i compagni le cose non erano facili, nemmeno con gli insegnanti i rapporti erano semplici. La maggior parte di loro lo considerava con malcelato fastidio, quasi si fossero sentiti sprecati nel dover impartire lezioni ad un essere inferiore come uno schiavo di Fle
 
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Nuova puntata, piuttosto corposa.

12 Vacanze

Per quanto esistessero anche su Zuul gli spettacoli olografici, né Zuril né Fritz sembravano particolarmente interessati ad assistervi: dopo mesi e mesi trascorsi su Vega in mezzo a schermi, comunicatori e ologrammi, l’unica cosa che padre e figlio desideravano era trascorrere il tempo libero in maniera diversa. Generalmente, Zuril dopo cena andava a rilassarsi in giardino; il più delle volte, Fritz e Kein facevano altrettanto. Non parlavano molto; o, se lo facevano, erano quasi sempre chiacchiere di poco conto.
Una sera, inaspettatamente, i loro discorsi presero una piega che Kein non si sarebbe mai immaginato. Fritz era andato a coricarsi presto; Kein e Zuril avevano cominciato a discorrere, quando una frase fece scattare istintivamente il ragazzo, che dimentico del rispetto dovuto al suo padrone alzò la voce come mai aveva osato fare prima.
Curiosamente, Zuril non parve farvi troppo caso: l’argomento lo interessava troppo, e la sfrontatezza di Kein in quel momento era passata in second’ordine.
«Dunque, assalire, depredare e tenere schiavi è sbagliato», disse Zuril. Non era polemico: voleva davvero comprendere il punto di vista di Fleed. Era uno scienziato, la diversità l’incuriosiva sempre.
«È sbagliato, sì!», gridò Kein, convinto. «Lo sappiamo tutti che è sbagliato! Aggredire gli altri è sempre un errore, non può funzionare!»
«Non funziona», ripeté Zuril, assorto. «Allora, secondo te, se davvero assalire gli altri è qualcosa che non funziona, perché contro Fleed abbiamo vinto noi?»
Kein annaspò. Sapeva d’aver ragione, tutto in lui gli urlava di essere nel giusto. Se Zuril l’avesse aggredito sbraitandogli le proprie ragioni, Kein avrebbe saputo difendere il suo punto di vista; trovarsi a dover parlare con calma, discutendo da uomo a uomo, lo lasciò completamente spiazzato, e le parole non gli vennero.
«Perché sì», mormorò infine; ricordò una frase che gli era stata ripetuta più e più volte, ed aggiunse: «La violenza è sempre un errore».
«Sempre?»
«Sì… »
«Insomma, se io ti assalissi, tu non potresti difenderti perché la violenza è male?», chiese Zuril.
Kein inghiottì: «No, se ci si deve difendere… se proprio non c’è altro mezzo…»
«Capisco», assentì Zuril. «Allora, almeno in un caso la violenza non è poi così negativa. Molto bene. Esistono anche altri casi?»
«Non… non so, io…»
«Ad esempio, se io uso la violenza per attaccare per primo, sapendo che altrimenti andrei incontro ad un assalto peggiore. Un attacco contro chi non mi ha ancora assalito ma lo farà sicuramente: è male?»
Kein rifletté. «Attaccare è male».
«Ma se il mio attacco evita qualcosa di peggio? Scegliere un male piccolo invece d’un grande male?»
Il ragazzo si sentiva sempre più confuso. Sapeva che la violenza è sbagliata, ma le argomentazioni di Zuril sembravano convincenti: un piccolo male al posto d’un grande male? Beh…


Cominciò così quella sera una lunga serie di discussioni tra Zuril e Kein, tra padrone e schiavo, tra Vega e Fleed.
Se Zuril avesse alzato la voce, dichiarato con violenza le proprie ragioni, Kein si sarebbe rinchiuso in sé stesso e avrebbe ignorato qualsiasi cosa gli fosse stata detta.
Non era però nello stile di Zuril comportarsi così: pur intimamente convinto delle proprie idee, come scienziato amava il dialogo, il confronto, lo scontro dialettico. Non dava torto: semplicemente, esponeva con sicurezza le proprie convinzioni. Non alzava la voce: parlava con molta calma e in tono ragionevole. Non mostrava disprezzo per le opinioni diverse dalle sue: le ascoltava con attenzione, senza però lasciarsene minimamente influenzare.
Kein era in quell’età in cui un ragazzo ha bisogno dell’approvazione di un adulto; Zuril gli appariva intelligente e autorevole. La sua opinione per lui contava, e molto. Senza rendersene conto, il ragazzo prese ad ascoltarlo, mentre Zuril gli spiegava con calma e ragionevolezza i propri punti di vista. Mai Zuril attaccò, derise o tantomeno sminuì la filosofia di Fleed: e Kein senza nemmeno rendersene conto, cominciò a comprendere la mentalità di Vega, muovendo i suoi primi, piccoli e stentati passi verso una direzione che mai avrebbe immaginato d’intraprendere.
Da parte sua, Zuril non agiva per calcolo: discutere con il suo schiavo di Fleed per lui era un passatempo piacevole, un utile scambio d’opinioni. Il pensiero di star plagiando il ragazzo non lo sfiorò nemmeno: del resto, uomo di Vega, mai avrebbe immaginato che convertire qualcuno alla mentalità veghiana potesse essere un danno.


I giorni successivi, Fritz e Kein continuarono le loro escursioni nei dintorni; a volte si unirono a loro un paio di ragazzi provenienti da una famiglia vicina, ma spesso i due andarono per conto proprio.
«Se preferisci stare con i tuoi amici…», cominciò Kein, che aveva avuto l’impressione di non essere molto gradito ai due ragazzi.
«Non sono miei amici, li conosco e basta», tagliò corto Fritz.
«Ma se vuoi andare con loro… se preferisci essere in compagnia…»
«Senti, Kein» Fritz lo guardò in viso, franco e diretto come sempre. «Dopo mesi passati in quella scuola, dove si vive sempre in gruppo, non desidero altro che un po’ di pace e solitudine. Quando avrai cominciato a frequentarla, capirai anche tu. Quei ragazzi non sono poi nemmeno così simpatici; preferisco mille volte stare con te».
Kein non fece più obiezioni.
Più volte, Fritz aveva parlato di fare una gita sul lago. Era però piuttosto distante, e avrebbero dovuto andarci assieme a Zuril, quando si fosse finalmente liberato del suo lavoro; e finalmente, quel giorno venne. Una sera, lo scienziato annunciò d’aver finito quel che doveva fare e di essere ormai in ferie. La gita fu organizzata, e così fu che un mattino Kein si ritrovò nella navetta, seduto tra Fritz e Zuril, in partenza verso quello che gli era stato promesso come un luogo meraviglioso.
Fritz non aveva esagerato. Kein rimase letteralmente a bocca aperta davanti al grande specchio d’acqua immerso tra le foreste; montagne verdissime si riflettevano nelle acque cristalline. Tutt’attorno non si scorgevano abitazioni o altre costruzioni dell’uomo… o forse, come era uso su Zuul, erano semplicemente ben camuffate nel verde.
«È… è meraviglioso», articolò Kein, senza fiato.
«Te l’avevo detto, no?», rise Fritz, sbarazzandosi in fretta dei sandali e andando a sguazzare nell’acqua. Kein gli tenne subito dietro.
La riva del lago era una vasta distesa di sabbia d’un bianco cristallino e scintillante. Il ragazzo ne raccolse una manciata e l’esaminò: era un miscuglio di minutissimi granelli candidi e trasparenti, in mezzo ai quali brillavano minuscole pagliuzze argentate. Era bellissima da vedere, e molto piacevole da calpestare.
Rimasto accanto alla navetta, Zuril guardò i due ragazzi giocare nell’acqua; normalmente li avrebbe richiamati per aiutarlo a scaricare gli zaini, ma in quel momento li vide talmente felici che preferì lasciarli ai loro giochi e fare da sé. Non aveva visto tanto spesso Fritz così allegro.
All’improvviso si udì un tonfo in acqua, e poi un suono che Zuril non aveva mai udito: esterrefatto, il ministro rimase immobile, uno zaino tra le mani, mentre ascoltava incredulo la risata di Kein.
Fritz si rialzò ridendo: era scivolato, e i vestiti gli pendevano addosso, fradici. Se li tolse e li stese sui rami di un albero, prima di spruzzare dell’acqua addosso a Kein che sembrava soffocare dal ridere. Il ragazzo rispose innaffiandolo a sua volta, e per qualche minuto i due non fecero altro che gettarsi addosso schizzi e schizzi d’acqua. Fu Kein, più piccolo e minuto, a cedere e arrendersi; si tolse poi anche lui i vestiti fradici e seguì l’amico tra le onde.
«Sai nuotare?», l’arrestò Zuril.
«Io…», sono cresciuto in riva ad un lago, nuotavo tutte le mattine e mia madre doveva sgolarsi per farmi uscire… «Certo, signore».
«Beh, fammi vedere quel che sai fare», disse Zuril, che evidentemente voleva essere sicuro.
Kein non se lo fece ripetere: si gettò in acqua e prese a nuotare con gran sicurezza. Tranquillizzato, Zuril finì il suo lavoro. Rimase poi ad osservare l’acqua scintillante alla luce, gli alberi altissimi, le rive verdi, la sabbia candida… era una giornata così calda… persino l’aria sembrava immobile, come in attesa…
Poco dopo, Kein udì il tonfo d’un corpo che si tuffava: incredulo, rimase ad osservare il suo padrone nuotare a grandi bracciate. Chissà perché, gli pareva impossibile che fosse proprio lui, il serio e severo Ministro delle Scienze…
Zuril nuotava senza sforzo apparente: amava profondamente l’acqua, e se c’era una cosa di cui sulla base lunare lamentava la mancanza era proprio una piscina. Raggiunse uno scoglio solitario che spuntava tra le onde, vi s’inerpicò agilmente; si guardò in giro ammirando lo splendido panorama, prima di tuffarsi di nuovo.
Tempo dopo, mentre giacevano tutti e tre sulla sabbia candida, Kein si ritrovò a riflettere su un paio di cose che gli parvero singolari.
Aveva nuotato, giocato, si era tuffato in quelle acque esattamente come avrebbe fatto nel lago sul suo pianeta; ma l’aveva fatto in compagnia di due individui che per lui avrebbero essere due nemici mortali.
Buffo: d’istinto, aveva giocato con Fritz esattamente come avrebbe fatto con i suoi amici di Fleed. Ancora più strano, Fritz aveva dimostrato di conoscere quei giochi. Ma allora? A quanto pareva, i ragazzi di Fleed e di Vega si divertivano alla stessa maniera.
Evidentemente, le similitudini tra di loro erano maggiori di quanto avrebbe mai pensato.
Eppure, erano nemici.
Come avrebbe potuto considerare nemico Fritz, così gentile ed affettuoso? E come avrebbe potuto fare altrettanto con suo padre, che l’aveva salvato da un destino orribile?
Sono veghiani, si disse. Mi hanno sempre detto che i veghiani sono predatori, gente crudele da cui bisogna guardarsi; eppure, il ministro Zuril mi ha trattato sempre benissimo, e Fritz è un ragazzo tanto simpatico… come possono essere miei nemici?


13 Nuova vita

La comunicazione della scuola arrivò puntualmente: Kein era stato ammesso, e per richiesta di Zuril sarebbe stato inserito nella medesima classe di Fritz.
Sorpreso, Kein esaminò le uniformi scolastiche stese con cura sul suo letto, i videolibri, il materiale che Zuril gli aveva procurato in vista dell’inizio della scuola. S’era aspettato oggetti usati, scadenti: in fondo, lui era solo uno schiavo, no?
Era tutto nuovissimo, fiammante. Le uniformi blu rifilate in bianco sembravano fatte su misura.
Quel che era stato procurato a Fritz, era stato dato anche a lui… Zuril non aveva fatto distinzione tra il figlio e il servo. Gli aveva persino regalato una bellissima robovaligia azzurro metallico, nuova fiammante.
Quasi con cautela, Kein prese una delle uniformi e se l’appoggiò contro: da quel che poteva vedere, doveva andargli a pennello.
“Avrai le stesse possibilità di un ragazzo di Vega…” Le parole riecheggiarono nella sua memoria.
Zuril non aveva parlato tanto per dire, e aveva mantenuto la sua promessa.
Ora, lui avrebbe dovuto fare la sua parte.
Non l’avrebbe deluso. Mai.


La scuola prevedeva una vita totalmente in comune con gli altri, il che gli spiegò il bisogno di Fritz di trovare pace e solitudine durante le vacanze.
Praticamente, non v’era momento della giornata in cui non si fosse in gruppo: dal risveglio mattutino ai pasti, dalle lezioni al momento dello studio, dalle ricreazioni fino al riposo notturno si era forzatamente in gruppo. Abituato su Fleed ad avere uno spazio tutto proprio, Kein faticò ad accettare di dividere persino la camera da letto: ma i dormitori erano concepiti per quattro allievi. Uno degli altri tre era fortunatamente Fritz; gli altri due erano due ragazzi che da subito fecero capire di non voler aver nulla a che fare con uno schiavo, fleediano per giunta.
Ce la farò, si ripeté la prima notte che trascorse nella scuola, mentre si rigirava insonne nel suo letto. Ce la devo fare.


Gli fu subito ben chiaro che nella scuola vigeva un rigido sistema di caste.
Al primo posto, i migliori in assoluto, i ragazzi provenienti da Vega. Poi, i veghiani provenienti dalle colonie, con l’eccezione di Zuul, i cui membri erano considerati come i veghiani autentici: non per nulla, Zuul aveva fama di mondo raffinato e all’avanguardia.
Poi venivano tutti gli abitanti dei pianeti cosiddetti alleati, vassalli in realtà.
Infine, coloro che provenivano dai mondi sottomessi; uno schiavo proveniente da Fleed era proprio all’ultimo gradino della scala, questo a Kein fu subito ben chiaro.
Altrettanto chiaro, gli fu il fatto di essere soggetto a qualunque forma d’attacco da parte di chiunque altro. Nessuno avrebbe trovato da ridire se qualcuno si mostrava sgarbato con lui, o se gli faceva un dispetto, o anche se lo colpiva.
La prima volta in cui ricevette un pugno da un compagno, Kein fece per agire come avrebbe fatto su Fleed, andando a denunciare la cosa da un insegnante; ma Fritz lo dissuase subito.
«Vuoi metterti nei guai?», esclamò. «Passeresti per una spia, e verresti punito».
«Punirebbero me? Ma se sono loro a…»
Fritz scosse la testa: «Dobbiamo cavarcela da soli. Andare da un insegnante significa che tu non sei in grado di badare a te stesso. Ti disprezzerebbero tutti».
«Dovrei farmi giustizia da me, insomma?» Kein era trasecolato: era proprio l’opposto di quello che gli avevano insegnato su Fleed…
«Ovviamente, devi stare attento a non farti beccare», spiegò Fritz; vide l’aria stupefatta del suo amico ed aggiunse: «Lo so, non piace neanche a me, ma qui è così. Devi abituartici, o avrai solo problemi».
Kein assentì: sarebbe stato alle regole.
Quando scesero in cortile per l’intervallo tra le lezioni, adocchiò il ragazzo che l’aveva colpito: era in un gruppetto di altri studenti. Chiacchieravano e ridevano.
Nessun insegnante in vista.
Kein puntò dritto sul ragazzo, l’afferrò per un braccio facendolo voltare verso di sé; quello gli rivolse un insulto, e Kein con un diretto preciso lo stese a terra.
Fece passare lo sguardo sui compagni del ragazzi, che avevano smesso di ridere e lo fissavano, increduli. Qualcuno ha qualcosa da dire?, chiesero i suoi occhi, divenuti gelidi.
No, fu la risposta che ottenne.
Ne ero sicuro.
Quel pugno gli diede un minimo di rispetto: se non altro, tutti capirono che lo schiavo era capace di reagire, non era un pappamolla. La maggior parte dei ragazzi prese perciò ad ignorarlo totalmente, pochi rimasero a dargli fastidio; ma quei pochi, gli rendevano davvero la vita difficile. Dispetti su dispetti, insulti gratuiti, derisioni feroci; però nessuno provò più ad alzare le mani su di lui.
Il più agguerrito contro di lui era Bradios, lo studente più temuto della scuola.
Era un ragazzo più grande d’un paio d’anni di Kein; era molto alto e robusto, addirittura colossale, e provvisto d’una forza fisica spaventosa. Tormentare gli altri, imporsi su tutti era per lui pane quotidiano; il fatto poi di essere il campione della scuola di lotta e di essere figlio del comandante Barendos lo rendeva ancora più arrogante.
Da subito, Kein imparò ad evitarlo il più possibile, a farsi di pietra davanti ai suoi insulti e alle sue provocazioni e soprattutto a schivare qualsiasi colpo gli venisse indirizzato. Più piccolo, sottile e scattante, Kein contrapponeva velocità e riflessi prontissimi alla forza bruta di Bradios: sapeva bene che uno solo di quei pugni grossi come magli avrebbe potuto mandarlo dritto in infermeria.
Se con i compagni le cose non erano facili, nemmeno con gli insegnanti i rapporti erano semplici. La maggior parte di loro lo considerava con malcelato fastidio, quasi si fossero sentiti sprecati nel dover impartire lezioni ad un essere inferiore come uno schiavo di Fleed. Da subito pretesero da lui più che non dagli altri allievi: Kein era costretto a sgobbare molto di più sui libri dei suoi compagni, ricavandone però dei voti decisamente bassi. Non che fosse colpa sua: bastava una risposta imperfetta, a volte anche una piccola esitazione per fargli calare il voto. Il più agguerrito era l’insegnante di fisica: l’aveva preso talmente in antipatia da interrogarlo regolarmente ad ogni lezione, per il gusto di mortificarlo con voti bassi. La volta in cui Kein riuscì a rispondere perfettamente a tutte le domande, anche le più minuziose, l’insegnante gli assegnò un voto ridicolmente basso “perché non mi piace il tuo atteggiamento insolente”.
L’unica lezione che Kein veramente apprezzava era quella di k’rahi, la lotta corpo a corpo.
«K’rahi non è semplicemente una tecnica di combattimento», spiegò la professoressa Rowan il primo giorno di lezione. «K’rahi è una disciplina completa, una filosofia di vita. Se pensate che si tratti solo di un modo per gettare in terra l’avversario, non avete capito nulla della complessità e dell’importanza del k’rahi».
I ragazzi si scambiarono sguardi perplessi: sapevano che si trattava d’una materia ritenuta fondamentale, ma non gliene era molto chiaro il motivo. Non era forse una semplice disciplina sportiva…?
Che il k’rahi fosse qualcosa di più, Kein lo comprese da subito. L’insegnante, una donna piccola e spiccia dai capelli violetti corti e ritti sul capo, spiegò che la base della disciplina era la comprensione di sé stessi per capire meglio l’avversario e trovarne i punti deboli; fu evidente che alla maggior parte degli alunni interessava solo imparare come afferrare il nemico per gettarlo a terra, il resto era considerato un trascurabile dettaglio.
Rowan mostrò la posizione di guardia: un piede più avanti, uno più indietro, mani a protezione di viso e torace.
«Da questa posizione potrete sia attaccare, sia arretrare, sia rimanere in attesa di una mossa del vostro avversario», spiegò. «È fondamentale che la impariate correttamente. Uno sbaglio, una mano o una gamba messe in posizione errata, e siete esposti agli attacchi».
Sparpagliati nella palestra, gli allievi provarono a riprodurre la posa di base, mentre l’insegnante passava tra di loro controllando e correggendo. Non c’era chi non avesse una gamba inclinata male, o un braccio, una mano con un’angolazione scorretta. Solo davanti a Kein, la donna aggrottò le sopracciglia; gli girò attorno, controllò minuziosamente la posizione. Non c’era nulla da correggere.
Lei mostrò ai ragazzi come passare dalla posizione base alla prima posizione d’attacco. Ancora una volta dovette correggere l’intera classe. Persino Fritz, che pure era uno degli allievi più attenti e diligenti, commise qualche piccolo errore. Non Kein, che passava in tutta scioltezza dalla posizione di guardia a quella d’attacco. Gli pareva che ogni cosa, nel k’rahi, avesse una sua logica che gli saltava agli occhi in tutta evidenza.
«Tu hai già fatto k’rahi», quella di Rowan non era una domanda; Kein si trovò costretto a scuotere il capo.
«Oggi è la prima volta, signora».
Lei inarcò un sopracciglio: «Davvero? Molto bene, allora».
Da quel giorno, le lezioni di k’rahi furono per Kein una vera gioia, un sollievo dopo le altre ore in cui veniva ignorato o maltrattato. La sua insegnante, che evidentemente non condivideva i pregiudizi dei colleghi, non aveva difficoltà ad incoraggiarlo e lodarlo. «Hai l’istinto», gli diceva; ed era vero, Kein imparava in tutta facilità quello che per gli altri era astruso o semplicemente complesso. Se gli altri non comprendevano il perché del meditare su sé stessi, se non capivano come passare rapidamente da un assalto a una ritirata brusca… per Kein tutto faceva parte di un unico disegno che comprendeva perfettamente.
Nelle altre materie però le cose andavano tutt’altro che bene, e non certo per scarso impegno da parte di Kein. Studiava assieme a Fritz, lavoravano duramente, si preparavano aiutandosi l’un l’altro; ma ciò che al primo fruttava lodi e buoni voti, per il secondo era solo causa di amarezze e scarsi risultati.
A parte il k’rahi, in cui aveva ricevuto il massimo, i suoi voti erano un disastro.
Fu un Kein pieno di vergogna quello che presentò a Zuril i risultati di metà anno: il suo padrone lesse i voti e poi si voltò a guardarlo, un’espressione indecifrabile sul viso.
«Non è colpa sua», s’affrettò a dire Fritz. «Kein studia, forse più di tutti noi; ma…»
Zuril continuò a fissare Kein, che si sentì trafiggere dal suo sguardo fermissimo: «Pensi davvero di impegnarti abbastanza?»
Kein allargò le braccia in un gesto di impotenza: «Io… non so, studio e studio, ma… forse, non sono abbastanza bravo per questa scuola», chinò la testa: adesso Zuril gli avrebbe detto che l’avrebbe mandato in un campo di lavoro, o peggio…
«…O forse, vieni trattato così perché non sei di Vega», disse Zuril.
Il ragazzo osò alzare timidamente lo sguardo: s’era aspettato un’esplosione di collera, invece… forse…?
«Ho visto i tuoi lavori», continuò Zuril. «Erano decisamente buoni. Ti sei davvero impegnato, non meriti dei voti così bassi».
Sentendosi un piacevole calore scorrergli nel petto, Kein drizzò finalmente la testa: «Non sei arrabbiato con me?»
«Proprio per niente», Zuril gli batté su una spalla: «M’aspettavo che t’avrebbero trattato così. Tu adesso devi solo tener duro: dimostra di potercela fare, e vedrai che cambieranno atteggiamento. E comunque», aggiunse, come soprappensiero «tu hai un ottimo voto in k’rahi: sai che è una materia fondamentale, che ti farà acquistare crediti anche nelle altre».
Fritz sorrise: «Kein era convinto che l’avresti tolto dalla scuola».
«Non ci penso nemmeno», Zuril guardò Kein dritto negli occhi: «Quest’anno i voti saranno quel che saranno; pazienza. Noi sappiamo che non è colpa tua. Tu però continua a studiare ed impegnarti, vedrai che le cose cambieranno. Soprattutto, è importante che tu continui a prendere voti buoni nel k’rahi.».

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Fratello di Trinità e Bambino

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Altra puntata corposa con tanto di evento epocale (!).

14 Persecuzione

La seconda metà dell’anno riprese in maniera meno tremenda: la tenacia di Kein, e anche una visita tutt’altro che di cortesia che Zuril aveva fatto al preside, fecero sì che gli insegnanti cominciassero a trattare meno peggio quel loro sgradito alunno. I voti non furono bellissimi, ma non furono nemmeno il disastro che erano stati fino ad allora.
I professori cominciarono a dire tra di loro che l’allievo era migliorato, che stava ambientandosi; unica tra tutti, Rowan, che aveva litigato con i colleghi pur di dare a Kein almeno in k’rahi il voto che gli spettava, sbottò tra i denti che quei discorsi erano tutte sciocchezze. Il ragazzo era bravo ed era stato maltrattato, altrochè. Il preside, che aveva ben vivo il ricordo della gelida sfuriata che gli aveva fatto Zuril, calmò gli animi ed invitò tutti a trattare Kein in modo equo; come per miracolo, i voti aumentarono in blocco.
Se con gli insegnanti le cose erano migliorate, i rapporti con i compagni continuavano ad essere disastrosi.
Evitato nella migliore delle ipotesi, maltrattato e deriso nella peggiore, Kein continuava a venire isolato e respinto dal resto del gruppo; l’unica eccezione continuava ad essere costituita da Fritz e da pochi altri ragazzi, che però si mostravano amabili verso di lui solo ed unicamente per riguardo a Fritz stesso.
Derisioni e dispetti erano all’ordine del giorno; una volta in cui Kein sorprese un compagno nell’atto di strappargli i fogli con i compiti appena terminati, si scatenò una zuffa che vide il giovane fleediano battere l’avversario senza eccessive difficoltà utilizzando una delle tecniche di k’rahi appena imparate. Quella sera, mentre risaliva dall’aula di fisica dove aveva seguito l’ultima lezione della giornata, Kein venne assalito alle spalle. Solo contro cinque, non ebbe alcuna possibilità di cavarsela: rapidi e silenziosi, i compagni lo lasciarono a terra in un lago di sangue.
Fu Fritz a ritrovarlo: non l’aveva visto arrivare nella sala mensa per la cena, e s’era preoccupato. Inorridito, il ragazzo diede l’allarme, chiamò gli insegnanti: rimase sconvolto vedendo che la notizia del pestaggio di Kein veniva accolta con totale freddezza. Corse all’infermeria, interpellò il medico della scuola: venne redarguito. Non poteva disturbare il dottore per una simile sciocchezza.
Dopo aver cercato inutilmente almeno la professoressa Rowan, ed aver scoperto che quello era il suo giorno libero, Fritz non poté far altro che aiutare Kein a trascinarsi fin nel dormitorio. I loro due compagni di stanza, vedendoli entrare, l’uno pesto e sanguinante e l’altro che lo reggeva a malapena, agirono come su comando voltando loro le spalle con ostentata indifferenza.
Fritz non aveva conoscenze mediche: tentò di pulire le ferite e tamponò il sangue come poté, mentre Kein stringeva i denti per non emettere il minimo gemito. Poi il giovane fleediano si sdraiò a letto, tremando e battendo i denti: sapeva che l’indomani l’avrebbero rimproverato perché aveva lordato di sangue le lenzuola.
In preda ad una furia cieca, Fritz fece quel che normalmente non avrebbe mai fatto: frugò tra i suoi effetti personali, recuperò il proprio comunicatore e in barba alle regole che vietavano di mettersi in contatto con le famiglie durante le ore notturne chiamò suo padre.


«Perché Kein non è stato portato in infermeria?», più era in collera, più Zuril parlava a voce bassa; in quel momento, stava letteralmente sibilando.
Il medico lo guardò come si guarda chi dice una stupidaggine: «Perché è uno schiavo. Gli schiavi non hanno diritto ad essere assistiti, lo sapete».
«Voi avete il dovere di curare gli alunni di questa scuola» rispose Zuril, sempre controllato. «Kein è un alunno come gli altri, paga una retta piuttosto costosa per frequentare questo posto: ha diritto all’assistenza medica, né più né meno di qualsiasi altro allievo.»
«Resta sempre uno schiavo» tagliò corto il dottore, alzando le spalle. «Se permettete, adesso avrei da fare: mi aspettano dei pazienti veri… dei liberi cittadini».
Zuril era un uomo ragionevole, sempre pronto alla discussione e allo scambio di opinioni; in quel momento, capì che la diplomazia era inutile, e preferì agire. Afferrò il dottore per il camice e lo sbatté contro la parete, inchiodandolo spalle al muro: «Manda subito a prendere quel ragazzo e comincia a darti da fare, o giuro che ti faccio buttar fuori a calci da questa scuola e ti tolgo qualsiasi possibilità di venire assunto, qui o altrove. Mi hai capito?».
Semisoffocato, il medico annaspò nel vano tentativo di fargli allentare la presa: «…Ministro…!»
Zuril accentuò la stretta: «Mi hai capito?»
Ormai cianotico, il medico s’affrettò ad annuire. Zuril lo lasciò subito, disgustato, e l’uomo si piegò in due, respirando affannosamente a bocca spalancata.
«Sarà meglio che tu faccia di tutto per guarirlo», aggiunse Zuril. Aveva parlato in un tono freddo che fece venire i brividi al medico. Un ruggito gli sarebbe parso molto meno minaccioso di quella gelida calma.
«Sì, signore», rantolò.


Nel suo letto d’ospedale, Kein appariva ancora più magro e minuto di quanto realmente non fosse; vedendolo così inerme, col viso tumefatto e il corpo costellato di lividi, Zuril provò un nuovo attacco di collera. Si contenne, come sua abitudine, e lesse il display sulla testiera del letto.
Frattura allo zigomo. Lieve trauma cranico. Ecchimosi a livello dell’orbita destra e della mascella. Tre costole incrinate, una fratturata. Slogatura al polso sinistro e microfrattura al metacarpo. Trauma, apparentemente poco importante, alla colonna vertebrale…
Eccetera eccetera. Zuril strinse i pugni. Pensare che non volevano nemmeno visitarlo…!
«Signore…?»
«Sono qui», Zuril gli prese delicatamente la mano sana che il ragazzo aveva teso verso di lui. «Chi è stato?»
Kein esitò, strinse le labbra: «Sono… caduto».
Zuril non rispose. Disapprovava il metodo scolastico che prevedeva che i ragazzi aggiustassero tra di loro le proprie divergenze, ma le regole erano quelle… non era possibile cambiarle. Kein non gli avrebbe mai fatto i nomi dei colpevoli.
Gettò un’occhiata al viso del ragazzo: nonostante i maltrattamenti subiti, aveva un’espressione dura, decisa.
Bene, pensò Zuril. Se niente niente ho imparato a conoscerti, non vorrei essere nei panni di chi ti ha fatto questo.
«Stai attento a quel che farai», mormorò.


Nonostante il notevole impegno del medico, ci vollero due settimane perché Kein fosse nuovamente in grado di seguire le lezioni, e più del doppio perché il suo corpo riacquistasse forza ed agilità; in quel frattempo, accaddero alcuni curiosi incidenti ad alcuni allievi. Uno di essi cadde malamente da una rampa, un altro vide spezzarsi la corda su cui stava arrampicandosi durante un’esercitazione e piombò a terra da un’altezza considerevole, altri due si fecero male in incidenti mai del tutto chiariti. Infine, un ultimo, lo stesso che parecchio tempo prima aveva strappato i compiti di Kein, venne ritrovato pesto e malconcio ed accompagnato immediatamente in infermeria. Era caduto, dichiarò, anche se si mantenne molto vago sulle circostanze del suo incidente.
Curiosamente, Kein non venne più molestato dai compagni. Attorno a lui si creò una sorta di barriera invisibile, che se da un lato lo proteggeva dalle angherie, dall’altro lo isolava completamente dagli altri.
Il resto dell’anno scorse senza eccessivi incidenti, e i voti che Kein poté mostrare a Zuril furono nettamente migliori.
Per le vacanze i due ragazzi tornarono su Zuul; dopo mesi e mesi di vita scolastica e di panorami desolati, a Kein non parve vero di poter stare in solitudine e di poter vedere verde e le foreste.
Con Fritz i rapporti erano sempre ottimi; quanto a Zuril, non era certo un uomo espansivo, ma Kein sapeva di poter contare su di lui, e questo pensiero gli dava una grande sicurezza.
Il ritorno a scuola fu meno spiacevole di quanto Kein avesse temuto: i compagni, se proprio non lo rispettavano, almeno lo evitavano, e questo era già tanto. In più, era sicuro dell’appoggio di Zuril, e questo lo faceva sentire meno solo: sapeva che in caso di bisogno avrebbe potuto rivolgersi a lui.
L’anno scolastico si svolse senza eccessivi incidenti: gli insegnanti, pur non amandolo, almeno avevano preso a trattarlo con maggior equità. In più, Kein stava rivelandosi veramente abile nel k’rahi: la professoressa Rowan, che pure non era tipo da perdersi in complimenti, era a dir poco entusiasta di lui. I voti altissimi in k’rahi facevano automaticamente acquistare crediti, e tutto il suo rendimento scolastico ne fu avvantaggiato. I risultati che Kein poté mostrare a Zuril a fine anno scolastico gli valsero una lode e una piccola somma di denaro da spendere come gli fosse piaciuto: uomo razionale, il suo padrone credeva molto nell’incoraggiamento e all’occorrenza in qualche premio come incentivo.
Le vacanze si svolsero come gli anni precedenti: il soggiorno su Zuul, con la casa immersa nel verde, le foreste silenziose e i laghi di cristallo fu un vero balsamo per tutti e tre, saturi di aria inquinata, polveri violacee, plastica e metallo ovunque.


15 Liao

L’inizio dell’anno scolastico, a detta di tutti il più duro dell’intero ciclo di studi, portò un’importante novità: Shazira, ritenuta in assoluto la più bella studentessa della scuola, da subito mostrò il suo apprezzamento per Fritz.
A dirla tutta lei, che apparteneva ad una famiglia aristocratica quanto decaduta, era stata fortemente indecisa se indirizzare le sue attenzioni su Fritz, figlio del Ministro delle Scienze Zuril, o su Bradios, il rampollo del comandante Barendos. Le era bastato considerare la rozzezza del secondo per puntare con decisione sul primo.
Il giovane, per quanto fosse un tipo posato e razionale, non poteva certo restare insensibile a quella splendida ragazza, per cui la natura fece il suo corso. La conseguenza fu che Kein, che fino ad allora aveva avuto in Fritz il suo unico amico, si trovò improvvisamente solo. In tutta onestà, riconosceva che sarebbe stato assurdo da parte di Fritz lasciarsi scappare un’autentica bellezza come Shazira, ma... ma...
Dovette così rassegnarsi a passare in solitudine le ore che gli rimanevano libere dallo studio; gli altri studenti uscivano dalla scuola, si recavano con il trasporto pubblico nel più vicino centro abitato, un posto sufficientemente sicuro per degli studenti minorenni; lui, Kein, rimaneva a ciondolare nell’edificio scolastico semideserto. A che scopo uscire, da solo?
Rispetto alle altre ragazze, che lo ignoravano o gli ridevano in faccia, Shazira era quantomeno educata con lui; era però evidente che era Fritz a calamitare tutto il suo interesse, per cui Kein si teneva prudentemente in disparte. Se avesse avuto una ragazza anche lui, almeno un’amica, una conoscente disposta ad accompagnarlo… beh, allora avrebbero potuto uscire in quattro.
Quanto a Fritz, divenuto l’invidia di tutti i maschi della scuola, nei giorni di vacanza usciva con la sua bellissima conquista, facendo ritorno poi con in viso l’espressione sorridente e un po’ vacua tipica di chi è ormonalmente in subbuglio.
Kein ascoltava le sue confidenze con una punta d’invidia: anche a lui sarebbe piaciuto trovarsi una ragazza, se non carina quantomeno simpatica: ma era uno schiavo e un fleediano. Chi avrebbe potuto volere uno come lui?


Come sempre, a fine lezione fu Kein a dover raccogliere e portare via i videolibri: nessun ragazzo di Vega avrebbe svolto un simile compito, quando era presente uno schiavo di Fleed. Non esistevano turni, per certe mansioni: semplicemente, erano di Kein e basta.
Mentre gli altri sciamavano fuori dalla classe, il ragazzo prese ad ordinare tutti i libri: doveva spicciarsi, o avrebbe tardato per la successiva lezione e si sarebbe pure preso un rimprovero.
Uno spintone nella schiena, e i videolibri gli sfuggirono di mano, cadendo a terra. Kein impallidì di collera, mentre un paio di ragazzi si allontanavano sghignazzandogli in faccia.
Me la pagheranno, pensò. Prima o poi, me la pagheranno.
Si chinò per raccogliere i videolibri (“Se poi qualcuno si è danneggiato è a me che daranno la colpa”), ed incrociò lo sguardo d’una ragazza che lo osservava con aria seria.
«Ti stai divertendo?» sbottò, brusco.
«Mi chiedevo se avresti accettato il mio aiuto», rispose gentilmente lei, «o se mi avresti tirato addosso qualcosa».
«Posso fare da solo», bofonchiò lui, in tono molto meno aggressivo; la ragazza si chinò e cominciò a raccogliere anche lei i videolibri, che poi impilò ordinatamente e gli tese.
«Ti chiami Kein, vero?», chiese lei.
«Sì», Tanto vale dire tutto subito… «Sono di Fleed. E sono uno schiavo».
La fissò in viso con aria di sfida, in attesa di un moto di disappunto, di un gesto di disgusto… ma lei non fece nulla di tutto questo e continuò a sorridergli.
«Sei stato fortunato a poter studiare, allora». Non c’era cattiveria nella sua voce: stava solo constatando un dato di fatto, e davvero sembrava lieta per lui. Era la prima volta da che era su Vega che una ragazza gli parlava non come ad uno schiavo, un disprezzabile inferiore, ma semplicemente come un ragazzo… dietro la sua maschera impassibile, Kein era sbalordito. Le gettò un’occhiata di sottecchi: era piccola e minuta, con una lunga treccia di folti capelli viola, occhi grandi e nerissimi tagliati obliqui che contrastavano con la pelle candida. Sorrideva con aria timida, un po’ impacciata.
Kein rimase incantato a guardarla.
«Devi aver trovato un buon padrone», continuò lei.
«Molto». Kein esitò un attimo, poi non resistette: «Non ti fa effetto restare a parlare con uno schiavo, per di più non di Vega?»
«Neanch’io sono di Vega», sorrise lei. «Provengo da Ruby, e come te sono… un elemento poco desiderabile. Nemmeno noi di Ruby siamo considerati granché».
«Però tu sei libera?»
«In un certo senso», un’ombra di tristezza passo nei grandi occhi scuri di lei. «Siamo considerati inferiori, gente da poco, da trattare con condiscendenza in modo da sentirsi superiori. Ruby è definito alleato, in realtà ci hanno invasi». Controllò l’ora: «Devo andare, o arriverò in ritardo alla lezione».
Kein la trattenne: «Non mi hai nemmeno detto come ti chiami!»
Gli occhi di lei brillarono come stelle: «Non ti ho detto tantissime altre cose… comunque, mi chiamo Liao» e si allontanò di corsa.


Nei giorni successivi, Kein ebbe spesso l’occasione di incrociare Liao in cortile o nei corridoi – bisogna dire che lei faceva di tutto per farsi incontrare. Ogni volta lei gli sorrideva e lo salutava a voce alta, quasi a sfidare chiunque avesse avuto da ridire per quella sua sconveniente amicizia; e sconveniente doveva esserlo davvero, se le sue compagne, incontrando Kein, si limitavano a guardarlo male, se non a voltare deliberatamente la testa dall’altra parte. Allo stesso modo agivano anche i ragazzi, salvo il gruppetto di amici di Fritz; ma Kein era sicuro che lo salutassero più per un riguardo verso Fritz, che non per interesse verso di lui. Con gli schiavi non è affatto necessario essere gentili; e che lui fosse uno schiavo, era un qualcosa che nessuno a scuola sembrava fosse disposto a dimenticare.
Liao comunque non dava peso alle frecciate delle compagne, e continuò a mostrarsi gentile ed espansiva con lui. Fu un giorno, un giorno straordinario, in cui Kein osò trovare il coraggio di chiederle se le avrebbe fatto piacere, prima o poi, uscire con lui… ma naturalmente, se lei avesse avuto altri impegni… lui avrebbe capito, ovviamente.
Lei, che da tempo aspettava che lui si decidesse ad invitarla, quasi non lo lasciò finir di parlare: accettò con entusiasmo, e fu così che Kein si ritrovò ad attendere spasmodicamente il primo fatidico giorno festivo.
La grande giornata arrivò dopo un tempo che gli parve interminabile. In preda all’angoscia (“Di cosa le parlerò?”), Kein raggiunse Liao nel cortile dove si erano dati appuntamento; fatte scorrere sul sensore le loro tessere personali su cui era registrato il loro permesso per uscire, si recarono subito all’imbarco per la navetta che li avrebbe trasportati a Raskeen, il vicino centro abitato.
Con suo grande stupore, Kein si rese conto che parlare con Liao non era più difficile che parlare con Fritz: dopo un breve momento d’imbarazzo, i due ragazzi presero a chiacchierare come se si fossero conosciuti da sempre.
E così davvero gli sembrava. Stare con lei lo faceva sentire bene, come se tra di loro ci fosse una familiarità di lunga data; allo stesso tempo, la novità di quella situazione gli toglieva il fiato.
Scesero dalla navetta, ritrovandosi tra edifici molto meno alti di quelli che Kein aveva visto nella zona in cui abitava Zuril: qui le costruzioni avevano un aspetto più antico. Le linee erano meno severe ed essenziali, e qualche facciata era costruita in pietra. Kein trovò quel centro molto più gradevole di quanto aveva già visto… ma forse era solo la presenza di Liao a rendergli tutto più bello. Persino quel cielo violaceo e caliginoso che tanto odiava gli pareva più luminoso del solito.
Presero a passeggiare per le vie, senza meta: più che altro non facevano che chiacchierare dicendosi di tutto, dai loro più alti ideali fino alle informazioni circa il proprio colore preferito, e man mano che parlavano scoprivano d’avere idee, principi molto simili. Sembrava impossibile, irreale, fantastico… e allo stesso tempo, assolutamente naturale.
Entrambi scoprirono d’amare molto la frutta, decisamente troppo scarsa a loro parere nella dieta della scuola; del resto, era piuttosto costosa, visto che su Vega gli alberi da frutto erano coltivati in serra. Kein, che aveva con sé del denaro che gli aveva mandato Zuril e che lui non aveva mai speso per sé stesso, si precipitò in un negozio uscendone con un contenitore pieno di frutti assortiti; fecero merenda spartendosi fino all’ultimo, minuscolo chicco. Poi s’accorsero che ormai era ora di tornare verso l’imbarco della navetta.
Proprio allora, Liao s’accorse d’avere la treccia che stava allentandosi, e fece per rimettersi i capelli in ordine.
«Oh…!» costernata, Liao raccolse da terra il suo fermaglio: s’era spezzato, lasciando libera la treccia che aveva preso subito a sciogliersi, quasi i capelli avessero voluto ribellarsi al venire costretti. Un colpo d’aria, e Liao ebbe un’aureola viola cupo attorno al viso.
«Non posso tornare a scuola così!», esclamò lei, contrariata.
Una delle regole scolastiche imponeva alle ragazze di tenere i capelli corti, oppure raccolti. Una mancanza a questa regola, come a qualsiasi altra, comportava una punizione.
«Ti rifarai la treccia prima di rientrare», disse Kein, incantato a guardarla. «Intanto, resta così. Sei bellissima».
«Che sciocco», arrossì, ma gli sorrise. Una ciocca le volò sugli occhi e lei, spazientita, la rigettò indietro: «Però mi danno fastidio, così… non sono abituata».
«Aspettami qui». Kein sparì in un negozietto che vendeva un po’ di tutto. Liao tentò ancora di ravviarsi i capelli, ma si era alzato un venticello che continuava a gettarglieli sugli occhi…
«Ecco!» Kein uscì trafelato dal negozio e le tese un pacchettino.
Era una piccola visiera triangolare, metallica, color argento.
«Ti piace?», chiese ansiosamente il ragazzo. «È un po’ lo stesso colore del tuo vestito».
Liao gli sorrise, indossandola: adesso i capelli non le ricadevano più sulla fronte ma le incorniciavano il viso. D’impulso, lei gli diede un rapido bacio sulla guancia, ritraendosi subito; Kein sentì un gran calore irradiarglisi giù per la schiena, mentre la testa gli sembrava così leggera, così leggera… Le sorrise, beato, prendendola per mano: erano assieme, erano felici, e soprattutto, lei indossava il suo regalo… era un po’ come se avesse voluto dire all’intero universo che lui, Kein, lo schiavo di Fleed, era diventato il suo ragazzo.


«Sono state ancora quelle streghe?», sbottò Kein, mentre Liao si sforzava di ricacciare le lacrime.
Lei non si sentiva affatto sicura della propria voce, per cui si limitò ad annuire: come tante altre volte, le sue compagne l’avevano pesantemente presa in giro.
«Ti tormentano perché ti sei messa con uno come me… uno schiavo di Fleed!», ringhiò Kein.
Troppo onesta per negare, Liao assentì ancora: il mento le tremava, ed aveva gli occhi lustri.
«Maledette…!»
«A me importa chi sei, non quello che sei», disse in fretta Liao. «Non devi badare a quelle stupide!»
«Invece, ci bado. Non voglio che tu debba vergognarti per esserti messa con me…»
«Kein, io non mi vergogno!» lei scandì ogni parola, come per sottolineare l’importanza di quel che stava dicendo. «Sono orgogliosa di te, e non m’importa di quel che dicono! Sono solo invidiose, perché tu sei uno dei migliori, a k’rahi». Improvvisamente, Liao lo strinse tra le braccia come se avesse avuto paura di perderlo, gli nascose il viso contro il petto: «Siamo felici insieme, ci comprendiamo, ci amiamo… cosa importa il resto?»
Importa, si disse Kein mentre la stringeva a sé, protettivo. Importa. Se il fatto che io sia uno schiavo ti fa soffrire, se ti rende un’emarginata, se ti fa diventare un bersaglio per la cattiveria altrui… importa.



Chi fu autenticamente felice della nuova piega che aveva preso la vita di Kein fu Fritz. Il giovane si complimentò con l’amico, riservandosi dentro di sé il giudizio per quando avrebbe conosciuto meglio Liao, che aveva intravisto solo qualche volta in mensa o nelle ore in comune trascorse in cortile.
Fu lei stessa a salutarlo direttamente una volta in cui s’incontrarono per caso in un corridoio. La prima impressione che Fritz ne ricavò fu ottima: lei gli parve per quel che effettivamente era, semplice e trasparente. Gli bastò poi vederla assieme a Kein per intuire la profondità del legame che s’era rapidamente instaurato tra di loro.
«Sei fortunato», disse a Kein, e non c’era la minima traccia d’invidia in lui. «Liao è una ragazza come ce ne sono poche».
Impacciato, Kein intrecciò le dita facendo crocchiare le nocche: «Non ho mai capito che cosa trovi, in me».
«Nemmeno io», Fritz gli assestò una pacca sulla schiena. «Però lei sa benissimo cosa farsene d’uno stupidone come te, te l’assicuro».
Molto meno felice fu invece Shazira: già la sua relazione con Fritz non andava per il verso che aveva auspicato, visto che lui non era completamente assoggettato a lei come si era aspettata. E sì che altri ragazzi avrebbero dato chissà cosa per essere al suo posto! Ma lui aveva in sé un qualcosa d’inafferrabile, d’incomprensibile… e lei non era affatto sicura d’averlo conquistato, nonostante avesse fatto di tutto per trattenerlo.
Adesso poi ci si metteva pure quello schiavo con la sua amichetta di Ruby! Pareva impossibile che Fritz… Fritz, figlio del Ministro delle Scienze Zuril… potesse mischiarsi con simile gentaglia! Quando lui le propose un’uscita a quattro, lei tentò una protesta; subito, lui assunse quella sua aria remota, fece una battuta di spirito ed accennò in tono gentile al fatto che se la cosa le fosse così sgradita, sarebbe potuta rimanersene lei a casa.
Incredula, Shazira fece subito marcia indietro; il risultato fu un orribile pomeriggio in cui s’annoiò da morire. Erano andati a mangiarsi una crema fredda in una delle cremerie di Raskeen, e per tutto il tempo i due ragazzi avevano chiacchierato con Liao; quanto a lei, spilluzzicava la sua crema, nella vana attesa che qualcuno notasse il suo silenzio e le dedicasse attenzione.
Vista inutile la sua tattica, Shazira provò ad inserirsi nella conversazione; disgraziatamente, dopo aver sentito i brillanti discorsi di Liao, le sue osservazioni apparvero talmente scontate da risultare penose alle sue stesse orecchie, per cui Shazira si richiuse nuovamente nel silenzio nel sollievo generale.
Peggio che peggio, quando quella sera rimase sola con Fritz, e tentò di osservare quanto Liao fosse a suo parere antipatica, visto che aveva voluto su di sé tutta l’attenzione, il giovane non la lasciò nemmeno finir di parlare: a suo parere, la ragazza era stata una compagnia molto piacevole e divertente. Shazira dovette mandar giù veleno; comunque, da quel giorno le uscite a quattro furono nettamente diradate.



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Nuovi capitoli, la storia prosegue.

16 Padre e figli

Nei loro discorsi, i due ragazzi parlavano spessissimo del loro futuro. Kein diceva di voler diventare comandante di un’astronave; Liao invece aveva idee diverse.
«Mia sorella è comandante, ma io non sono come lei», gli disse la prima volta in cui affrontarono l’argomento. «Voglio studiare per diventare ufficiale scientifico».
«Ce la farai», disse Kein, convinto: Liao era la migliore del suo corso. Una scienziata… chissà che avrebbe detto Zuril.
In fretta, Kein respinse il pensiero del suo padrone: non gli aveva ancora parlato di Liao. E se non fosse stato contento? Se si fosse opposto? Avrebbe potuto portarlo via dalla scuola, separandoli così per sempre…
Eppure, dovrò dirglielo, si diceva ogni giorno il ragazzo, che si sentiva rimordere dai sensi di colpa; ma ogni giorno, trovava un valido motivo per tacere, per aspettare.
Nonostante i due giovani avessero idee diverse per le loro carriere, consideravano però come assolutamente naturale il fatto che sarebbero vissuti assieme.
«Ma io sono uno schiavo», osservò Kein.
Liao alzò le spalle: «Io sono una sporca rubiana, se è per questo. Kein, non dobbiamo preoccuparci per queste cose: per i veghiani, noi siamo e saremo sempre gente da poco. È un pensiero con cui dovremo convivere».
«Ma io non sono libero», insisté lui. «Se il mio padrone non volesse che tu e io… »
«Non vuole?», chiese Liao, che era un tipetto spiccio che andava subito al sodo.
«Non… non lo so. Non gliel’ho detto», Kein chinò la testa, e i suoi capelli azzurri gli ombreggiarono il viso. «Non so come reagirebbe».
Liao sedette accanto a lui, riflettendo.
«Ti permette di studiare», osservò infine. «Kein, pochissimi veghiani lo farebbero. Cattivo, non dev’essere».
Cattivo...?
Non credere che mi piaccia l’idea di eliminare quella gente, per quanto inutile e dannosa possa essere… Era stato proprio Zuril a pronunciare quelle parole, un tempo che gli parve lontanissimo… deglutì. «Con me è sempre stato gentile».
Liao non poté cogliere il significato di quella risposta e sorrise: «Penso che faresti bene a dirglielo, Kein».
«Va bene», cedette lui. Non aveva mai avuto segreti per Zuril, fino ad allora: in un certo senso, parlargli di Liao gli avrebbe fatto davvero piacere. E poi… beh, sarebbe stato quel che sarebbe stato.
Con suo enorme sollievo, Zuril reagì nel migliore dei modi alla notizia che aveva trovato una… amica, come aveva frettolosamente farfugliato il ragazzo. Gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi, chiese come si chiamasse la ragazza, e non storse il naso davanti all’umile condizione di lei, nativa di Ruby.
«La sua sorella maggiore è ufficiale», aggiunse Kein, ansioso di mostrare Liao sotto la sua luce migliore. «Comandante di squadriglia. Si chiama Mineo, la conosci?»
Zuril frugò rapidamente nella memoria, e il suo computer oculare gli corse in aiuto inviandogli una serie di dati su Mineo. Aveva avuto occasione d’incontrarla, tempo prima, e ne aveva un buon ricordo. «Superficialmente, ma mi ha fatto una buona impressione. La prossima volta in cui potrò venire a trovarvi, mi farai conoscere questa Liao».
Kein sentì stringerglisi la gola alla sola idea. Tempo prima, Fritz aveva presentato Shazira, tutta miagolii ed adulazioni, al padre, e come sua abitudine, Zuril era stato cortesissimo con lei. Che Shazira non gli fosse piaciuta, anzi, che gli fosse stata sommamente odiosa, Kein l’aveva compreso subito.
«È molto bella», così lo scienziato aveva risposto alla domanda di rito del figlio.
«Ma…?», aveva chiesto Fritz.
«Ma, non so se ti guarderebbe se tu non fossi figlio del Ministro delle Scienze di Sua Maestà», aveva aggiunto Zuril, che non era uomo da girare attorno alle questioni più spinose.
Kein aveva trattenuto il fiato, aspettandosi un’esplosione di collera da parte di Fritz, o almeno un’accorata difesa, una negazione totale, un… inaspettatamente, Fritz era scoppiato a ridere: «Papà, mi sa che l’hai capita subito».
Davanti allo stupore dei suoi cari, il ragazzo aggiunse: «Non sono cieco, papà. Non mi sono mai fatto illusioni su di lei, so quel che vale».
«E allora», aveva chiesto suo padre, ripresosi dallo stupore, «se non te ne importa, perché perdi tempo con quella…?»
Fritz si era stretto nelle spalle, gli occhi brillanti: «L’hai detto anche tu. È molto bella».
Per un attimo, Zuril era rimasto come sospeso, guardando il figlio con un’espressione che Kein non era riuscito a decifrare; poi aveva annuito: «Beh, è una motivazione sufficiente».
Adesso, Kein avrebbe dovuto presentargli Liao, la sua Liao… e se Zuril non l’avesse trovata di suo gusto, l’avrebbe detto senza complimenti.
La sola idea lo faceva star male.


Il momento temutissimo giunse fin troppo in fretta, come tutti i momenti paventati.
Kein s’impappinò facendo le presentazioni; Liao, le guance un po’ arrossate, salutò con la consueta franchezza l’uomo che poteva decidere vita e morte del suo fidanzato e Zuril la ripagò trattandola con una cortesia infinitamente più cordiale di quella che riservava a Shazira. Anzi, proprio sotto gli occhi inveleniti della ragazza, Zuril chiacchierò amabilmente con Liao, che fu perfettamente all’altezza della situazione. Praticamente, per tutto il tempo in cui si trattenne con i quattro ragazzi, Zuril non fece che conversare con Liao, mentre Shazira ribolliva di collera, Kein soffriva atrocemente sentendosi a disagio e Fritz rideva tra sé e sé dell’ira impotente della sua compagna. Shazira aveva fatto di tutto per conquistarsi Zuril a suon d’adulazioni; Liao, che la piaggeria non sapeva nemmeno che cosa fosse, in pochi minuti aveva ottenuto quel che lei in mesi e mesi non era riuscita ad avere.
«È molto carina, Liao», disse Zuril a Kein quando fu il momento di salutarsi.
«…‘azie…», fu tutto ciò che il ragazzo riuscì a mormorare.
Zuril si rivolse al figlio: «Adesso mi rendo conto che praticamente non ho detto due parole a Shazira. Mi spiace, non volevo essere scortese».
«Ti è antipatica», sorrise Fritz, alzando le spalle.
«Temo che t’avrò causato dei problemi», continuò Zuril. «Sarà piuttosto seccata…»
«Furiosa, vorrai dire», rispose Fritz, che sembrava divertirsi come non mai. «Il bello è che non potrà farmi una scenata, perché ha troppa paura che la pianti. Mi fa impazzire, quando si mostra tanto dolce e carina, e in realtà si vede benissimo che vorrebbe cavarmi gli occhi. Troppo divertente».
Divertente vedere quella strega trattenersi dal fare una sfuriata?
Zuril aprì la bocca come per dire qualcosa; poi, saggiamente, la richiuse. Suo figlio sapeva il fatto suo, e lui non voleva mettersi a fare il padre impiccione.
Divertente…?
Mah.
Mentre saliva sulla sua navetta, Zuril si disse che il senso dell’umorismo di Fritz era a volte un po’ difficile da comprendere.


17 Il rifugio

Era una stanza abbandonata, un polveroso deposito di oggetti che nessuno avrebbe mai più cercato.
Lontana dalle zone più frequentate della scuola, evitata da tutti fino ad essere completamente dimenticata, era il rifugio ideale per chi avesse voluto evitare la compagnia degli altri, di chi, emarginato, avesse desiderato crearsi uno spazio tutto suo.
Liao aveva scoperto quella stanza un pomeriggio in cui, stanca delle frecciatine velenose delle compagne, aveva cercato un po’ di pace nella solitudine; trovare quel posto ed eleggerlo a proprio nascondiglio segreto era stato un tutt’uno.
Farlo conoscere anche a Kein le era parso più che naturale.
Emarginati da tutti, in quel posto i due ragazzi si erano sentiti finalmente al sicuro, un luogo in cui finalmente non esistevano più le cattiverie, i dispetti, le perfidie di chi si sentiva superiore; quel posto era loro, solo loro. Là, niente e nessuno avrebbe potuto far loro del male.
Finalmente soli, senza l’incubo di doversi sorvegliare, di dover nascondere i propri veri sentimenti, i due ragazzi s’abbandonavano a lunghe chiacchierate, ridevano per un nonnulla, si divertivano a sbeffeggiare i compagni prepotenti o gli insegnanti troppo severi... e poi, in tutta naturalezza, i loro incontri presero un’altra direzione. Un giorno, si ritrovarono a parlarsi con fatica, entrambi impacciati come se fossero stati al loro primo incontro: eppure, si conoscevano già bene! Perché provavano quella strana inquietudine, perché non riuscivano più a guardarsi negli occhi... perché s’erano seduti tanto vicino l’uno all’altra... perché provavano entrambi un incontenibile bisogno di toccarsi, di abbracciarsi, stringersi...?
Incapace di dominarsi, Kein allungò una mano, sfiorò un braccio di Liao. S’era aspettato un rifiuto, un rimprovero; invece, lei gli afferrò la mano, gliela strinse. I loro sguardi finalmente s’incontrarono... si ritrovarono l’una nelle braccia dell’altro, intenti a scambiarsi il loro primo bacio. Erano totalmente inesperti entrambi, ma l’eccitazione, la passione fecero dimenticare l’imperizia.
Non andarono oltre: spaventati dalla violenza delle loro emozioni, preferirono fermarsi al bacio, almeno per il momento.
Ci sarebbe stato il tempo per tutto il resto.


Il tempo venne, e prima di quando si fossero aspettati, anche se le cose presero una piega del tutto inaspettata.
Erano nel loro rifugio, completamente soli, e tutto successe all’improvviso.
Liao si protese in avanti, chiuse gli occhi e lo baciò sulle labbra: un bacio dolce, cui Kein rispose con un misto di timidezza ed eccitazione. Lei lo attirò a sé: il contatto con quel corpo morbido parve incendiare Kein, che quasi con precauzione fece scorrere le mani su di lei. Fattosi più sicuro, osò carezzarle lievemente il seno; lei sospirò di piacere, gli guidò la mano verso la scollatura della severa uniforme. Era una chiusura a tocco, bastava una pressione del dito per aprirla; Kein interrogò Liao con lo sguardo, prima di far scorrere il polpastrello sulla chiusura.
Con un colpo di spalla lei aprì maggiormente la casacca: lui trattenne il fiato, guardandole il seno, piccolo ma rotondo. Liao gli prese una mano, se la posò sul petto, gli sorrise… ma Kein non la guardò nemmeno.
In preda ad una spaventosa vertigine, continuava a fissare la propria mano sulla morbida pelle di lei, e intanto rivedeva una scena mostruosa che non aveva mai saputo dimenticare… mani oscene che artigliavano le carni di sua madre, gettata in terra, umiliata, orrendamente violata… con un urlo, Kein si strappò dalle braccia di Liao, si alzò allontanandosi di qualche passo, scosso alla nausea.
Cadde in ginocchio, lottando contro i conati che gli squassavano lo stomaco: non voleva vomitare, non davanti a lei!
Infine, accasciato a terra, madido di un sudore diaccio osò finalmente parlarle, senza però guardarla: «Perdonami…»
Pallidissima, Liao lo fissava senza dir nulla, gli occhi spiccavano enormi e nerissimi nel viso cereo: «Ho… ho fatto qualcosa che non va?»
Lui s’asciugò la fronte, riprese fiato: «Tu non hai niente che non va».
Liao incrociò le braccia sul petto: «So di non essere bella, sono troppo magra, ma…»
«Tu sei bellissima!», esclamò impulsivamente lui. «Ti giuro, mi piaci, mi piaci da impazzire… vorrei tanto… ma… sono io… io che sono sbagliato. Io».
Per un attimo, Kein fu sicuro che lei si sarebbe arrabbiata, avrebbe pianto, avrebbe fatto una scenata; invece, Liao gli corse vicino, s’inginocchiò accanto a lui e lo strinse tra le braccia.
Kein osò incrociare il suo sguardo: s’era aspettato orrore e disprezzo, trovò amore e comprensione.
«Sei stato catturato su Fleed», mormorò lei. «Sei stato prigioniero. Devi aver patito l’inferno».
Allora Kein sentì come sciogliersi qualcosa dentro di sé, e non poté più trattenersi: i ricordi, che per anni aveva negato gli tornarono alla mente, e le parole fluirono inarrestabili. Raccontò con voce rotta la conquista di Fleed, i soldati che assalivano la sua casa… suo padre morto, gettato in un angolo del salotto, la mamma assalita e barbaramente violata… lui stesso…
Nemmeno con Zuril, con Fritz, aveva raccontato ciò che in quel momento stava dicendo a Liao; lei taceva e ascoltava, tenendolo stretto tra le braccia e piangendo silenziosamente con lui. Quando infine Kein tacque e scoppiò finalmente in quel pianto che si era negato per anni e anni, lei lo cullò tra le braccia come avrebbe fatto con un bambino da consolare. Rimasero così per un tempo che parve interminabile, lui che provava un misto di vergogna e sollievo, e lei ancora più innamorata di quel ragazzo che le aveva aperto il cuore.
«Pensavo che mi avresti disprezzato», mormorò infine Kein.
«Sciocco, non mi conosci proprio», Liao gli diede un bacio leggero, gli sorrise.
Sbalordito, Kein guardò quell’incredibile ragazza che invece di prendersela perché non avevano fatto l’amore gli parlava con dolcezza. Quante altre al suo posto l’avrebbero respinto, deriso?
Ma Liao era unica, lui l’aveva capito da quando l’aveva conosciuta.
«Io ti amo, Liao», mormorò Kein.
Radiosa, lei gli gettò le braccia al collo, gli si strinse al petto: «Ce ne hai messo, per dirmelo!»
Fu come aver aperto una finestra in una stanza buia, polverosa: la vergogna, il freddo e il dolore scomparvero, lasciando in entrambi una gioia profonda, mai provata prima d’allora.


Per la prima volta, la fine dell’anno scolastico non fu per Kein il sollievo che era sempre stato. Il pensiero di allontanarsi da Liao, di non poterla più vedere, non poterle parlare, non averla vicino a sé gli era a dir poco insopportabile; ma non c’erano alternative. Per tutta la durata delle vacanze sarebbero rimasti separati, lei su Ruby e lui su Zuul. Non c’era modo di evitarlo. Se almeno avessero potuto comunicare in qualche maniera...! Ma Kein non possedeva un comunicatore, e quello di Fritz era un vecchio modello, inutilizzabile per le chiamate intra-planetarie.
Bisognava rassegnarsi... ma Kein si sentiva male, quasi avesse dovuto strapparsi via una parte di sé stesso.
Anche Liao soffriva, ma tentava coraggiosamente di non darlo a vedere. Lei possedeva un comunicatore, aveva tanto sperato... ma lui non l’aveva, e questo rendeva le cose impossibili. Non avrebbero potuto parlarsi.
Fu un Kein insolitamente mogio quello che salì sulla navetta con Fritz e Zuril. Il viaggio gli parve straordinariamente lungo e noioso, Zuul gli apparì grigio e scipito, la casa gli sembrò fredda, estranea, e la sua camera...
Sorpreso, guardò il pacchetto posto sul suo tavolino: era per lui?
«Non l’avrei messo lì se non fosse tuo, ti pare?», gli fece notare Zuril, con il consueto buon senso.
Sconcertato, Kein lo aprì: un comunicatore. Nuovo fiammante, ultimo modello... intra-planetario.
Senza fiato, alzò gli occhi su Zuril, che appariva serissimo come sempre... a parte un luccichio nell’unico occhio: «Ho pensato che t’avrebbe fatto piacere scambiare due parole con qualcuno dei tuoi compagni di scuola. Ho sbagliato?»
Kein scosse lentamente il capo: aveva la bocca totalmente asciutta, avrebbe avuto tantissime cose da dire, ma le parole non gli venivano. «Io... grazie, signore, è...», deglutì, «È bellissimo... ma io non pensavo che...».
«Meritavi un premio, i tuoi voti non erano niente male», Zuril gli batté leggermente su una spalla: in effetti, Kein aveva riportato dei risultati veramente notevoli. Aveva lavorato duro, era giusto dargli un riconoscimento.
Kein si sentiva soffocare: lui stesso non sapeva bene cosa stesse provando, gioia, commozione, un senso di oppressione al petto che però non era causata dal dolore... mai avrebbe immaginato che la felicità potesse essere quasi dolorosa... e mai avrebbe immaginato di provare il desiderio di abbracciare un veghiano. Dovette trattenersi per non farlo: era uno schiavo, non poteva permettersi una cosa simile.
Proprio in quel momento, Fritz fece capolino dalla propria stanza, anche lui con un comunicatore nuovissimo tra le mani: «Grazie, papà! Il mio cominciava a non funzionare più tanto bene... ma hai fatto una follia, questo è intra-planetario!».
Zuril parve rabbuiarsi: «Prima o poi penso che dovrò andare a lavorare via da Vega; almeno così potremo parlarci».
«Tu... via da Vega?», Fritz era sinceramente stupito.
«È a causa di Terra, quel nuovo pianeta che stiamo esaminando», spiegò suo padre. «Un autentico gioiello. Sono anni che sto facendo di tutto perché venga conquistato senza l’uso di armi al vegatron, sarebbe un delitto. Per ora lo stiamo solo studiando, ma credo che dovrò andare sul posto, prima o poi».
«Pensi che i terrestri potranno opporci resistenza?», si meravigliò Fritz.
Zuril fece un cenno di diniego con la mano e lasciò cadere l’argomento. Quel pianeta sembrava una conquista facilissima: non erano certo i terrestri, con la loro tecnologia arretrata, a costituire un pericolo per le armate di Vega... pure, per quanto l’occupazione del pianeta fosse stata affidata ad un ufficiale esperto come Hydargos, qualcosa gli diceva che Terra non sarebbe stata una facile preda. Non avrebbe potuto dare una spiegazione di questo; però lui, il razionalissimo Ministro delle Scienze, non era uomo da ignorare i presentimenti.
La Terra ci costerà cara.


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Nuovi due capitoli.
Avverto da subito: non ho descritto praticamente nulla, ma è "tosto".


18 Violenza

La prima comunicazione interplanetaria fu ovviamente per Liao: Kein fu felicissimo di vedere lo stupore di lei trasformarsi in autentica gioia nel sapere del nuovo comunicatore che avrebbe permesso loro di parlarsi nonostante la distanza che li separava; distanza comunque relativa, visto che Ruby e Zuul appartenevano allo stesso sistema planetario.
Anche Fritz usò il comunicatore per salutare Shazira… ma bisogna dire che le chiamate di Fritz furono molto meno lunghe e frequenti di quelle di Kein per Liao.
Quando non chiacchierava con Liao, Kein trascorreva con Fritz la maggior parte del tempo. Dopo mesi e mesi di scuola, saturi di confusione e d’orari zeppi d’impegni, i due ragazzi non sognavano altro che solitudine, silenzio immersi nella natura, e avere ore e ore a disposizione per oziare, o semplicemente per trascorrerle come piaceva a loro, senza compiti, ordini e doveri pressanti.
Ritornarono a scuola molto più rilassati di come erano partiti e pronti per riaffrontare gli studi; ma quel nuovo anno da subito si preannunciò più duro del precedente, e non solo perché il programma era più impegnativo.
Da subito, fu chiaro che il problema sarebbero stati i loro compagni.
Per qualche motivo, durante le vacanze doveva essere serpeggiata la voce che Kein non avrebbe più frequentato la scuola; ritrovarlo al nuovo anno fece scattare in molti studenti il malumore. Pareva impossibile che dovessero ancora sopportare d’avere con loro uno schiavo, questo era l’atteggiamento più comune.
Kein venne subito isolato dal resto dei compagni; quanto a Fritz, si ritrovò quasi subito tagliato fuori da quelli che erano stati i suoi amici.
“Ci dispiace, ma finché resti con quel lurido schiavo noi non possiamo più avere a che fare con te”, questo era ciò che il giovane lesse negli occhi degli altri ragazzi; come immediata conseguenza, Fritz fece subito quadrato con Kein. Andassero pure all’inferno gli altri, non aveva certo bisogno di amici come quelli.
Chi soffriva maggiormente di tutto ciò, strano a dirsi, fu Shazira.
Dopo un’estate in cui era sempre stata lei a cercare Fritz, e quasi mai il contrario, la ragazza aveva maturato un gran terrore di vederselo sfuggire: era il figlio del potentissimo ministro Zuril, non poteva farselo scappare! D’altra parte, un’aristocratica come lei provava orrore all’idea di far comunella con un sudicio schiavo.
Il risultato fu che lei dovette inghiottire una serie di bocconi amari, uno dietro l’altro: non poteva avere Fritz se non era disposta anche ad accettare Kein, questo le fu evidente… e Kein voleva dire Liao. In quel periodo, l’odio che Shazira provava per la giovane rubiana giunse al parossismo; disgraziatamente, lei non poteva lasciar trapelare i suoi veri sentimenti. Doveva sorridere, sorridere e subire, cosa questa che non rientrava proprio nelle sue abitudini.
Per Liao le cose non andavano meglio: le compagne avevano preso ad ignorarla, la tagliavano fuori dai loro gruppi, la facevano bersaglio dei loro dispetti. Sempre più spesso, Kein la trovava con gli occhi rossi e le labbra tremanti. Colto dall’ira, il giovane avrebbe voluto andare dalle ragazze che tormentavano Liao per dar loro quel che si meritavano, ma sapeva che poi tutti i torti sarebbero ricaduti su di lui, e di conseguenza anche su Liao stessa. Non poteva far altro che incoraggiarla, consolarla ripetendole che l’anno successivo la scuola sarebbe finita e sarebbero andati via da lì… ma intanto, bisognava restare. E subire.
Era quello che continuava anche a ripetere a sé stesso, mentre stringeva i denti per non ascoltare le canzonature dei compagni, Bradios in testa: tutto questo un giorno sarebbe finito, e allora avrebbe fatto vedere a quei veghiani cosa poteva valere uno schiavo di Fleed. Avrebbe protetto Liao dalla cattiveria, la malizia, l’invidia; e lei sarebbe stata davvero orgogliosa di lui.


La tragedia esplose, del tutto imprevista, ad anno scolastico quasi concluso.
Al termine della lezione di k’rahi, Liao entrò per ultima nei bagni: come sempre, le era stato impedito di lavarsi fino a quando l’ultima delle sue compagne non avesse indugiato a lungo sotto la doccia. Sentendosi sporca e puzzolente, Liao poté finalmente scivolare sotto il getto tiepido. Si lavò con cura: poteva perdere un po’ di tempo, ormai l’orario di lezione era finito, per quel giorno.
Quando mise la testa fuori dalla doccia, fu accolta da un silenzio che le parve gelido: naturalmente, nessuna delle altre ragazze aveva pensato d’aspettarla, e non c’era più nessuno oltre lei nell’intera palestra. S’asciugò in fretta e cominciò a vestirsi: normalmente era ben felice d’essere sola, ma quel giorno provava una strana inquietudine che… che non…
Aveva appena finito di pettinarsi, quando alzò istintivamente gli occhi e fissò attonita l’enorme massa di Bradios, che sembrava riempire l’intera porta.
«Che ci fai, qui?», esclamò. «Questo è lo spogliatoio femminile, e…» le parole le morirono sulle labbra, mentre Bradios avanzava lentamente. All’improvviso, Liao si sentì molto piccola e molto sola: lui non aveva detto nulla, non faceva altro che avanzare, fissandola, e lei provava un terrore crescente, inarrestabile.
Fu un attimo: Liao balzò in piedi, e una delle mani enormi di lui le artigliò la treccia, strappandole un urlo di dolore.
«Pensare che ti sei persa dietro quel finocchietto di Fleed!» esclamò Bradios, tirandole brutalmente i capelli per torcerle la testa verso di lui. «È il tuo giorno fortunato, tesoro: stai per conoscere un vero uomo».


Sconcertato, Kein girò per la sala mensa, cercando Liao nei vari tavoli; non la vide, e nessuno seppe, o volle, dirgli dove fosse.
Anche Fritz appariva preoccupato: tagliati fuori dagli altri ragazzi, loro tre avevano preso l’abitudine di mangiare assieme, e non era normale che Liao non si fosse presentata senza dir niente.
Kein si sentiva sempre più inquieto; quanto a Fritz, non finse di non essere preoccupato. Magari lei era assente per colpa di uno stupido scherzo, forse…
Presero a cercarla entrambi, dividendosi. Mentre Fritz andava all’infermeria per vedere se lei si fosse magari sentita poco bene, Kein corse ai dormitori femminili: non poteva entrare, ma poteva sempre chiedere a tutte le ragazze che incontrava se Liao fosse là dentro. Ricevette molte rispostacce e varie risate in faccia; poi una delle ragazze, impietosita, andò a controllare. Non c’era. A dire il vero, era un bel po’ che non la vedeva… vediamo… dall’ora di k’rahi…?
Kein uscì dall’edificio scolastico principale: la palestra era in un padiglione separato, in fondo al cortile. In preda ad un’ansia crescente, Kein si precipitò di corsa verso l’ingresso, a forza di bussare quasi sfondò la porta dello spogliatoio delle ragazze; poi la spalancò.
Su una panca, vide subito una sacca azzurra, che riconobbe immediatamente. Fece un passo avanti, un altro…
Vide la pozza di sangue, poi il corpo bianco e sottile gettato in un angolo, come spezzato, i vestiti a brandelli sparpagliati tutt’attorno… Un’altra spaventosa immagine affiorò con prepotenza dai ricordi che aveva voluto obliare: il corpo straziato di sua madre, abusato e scaraventato via come un rifiuto…
Urlò, urlò, urlò fino a restare senza fiato.


Seguì un trambusto in cui ogni cosa si fondeva orrendamente con le altre: grida, gente che accorreva… il viso pallidissimo della professoressa Rowan… Fritz che correva ad abbracciarlo, poi il medico della scuola che si faceva avanti a gomitate. Vennero spinti tutti fuori dello spogliatoio.
Si ritrovò seduto in un corridoio, tremante e con i denti che gli battevano; accanto a lui, Fritz tentava inutilmente a convincerlo a bere qualcosa di caldo.
Ragazzi andavano e venivano, e frasi smozzicate gli giungevano alle orecchie:
«Quasi dissanguata…»
«Un miracolo che non sia morta…»
«Violentata…»
Ogni parola, ogni frase erano come una coltellata. Non gli avevano permesso di vederla: il medico stava visitandola, finché non avesse finito non avrebbe potuto andare a trovarla.
Fritz lo costrinse ad alzarsi e seguirlo: «Devi sdraiarti, Kein. Non puoi continuare così».
Docile, lasciò che l’amico lo riportasse in camerata. Si sdraiò sul letto: in quel momento si sentiva estenuato. Quando Fritz gli mise un bicchiere contro le labbra, bevve senza quasi accorgersene: realizzò troppo tardi che quel sapore un po’ amarotico indicava che nell’acqua erano state sciolte un po’ delle gocce che prendeva abitualmente per dormire.
Fece per rialzarsi, ma la stanchezza, l’emozione e il narcotico fecero il loro effetto: ricadde sul letto senza nemmeno accorgersene e piombò in un sonno pesantissimo, senza sogni, da cui si sarebbe svegliato solo molte ore dopo.


Kein arrivò di corsa, finendo a sbattere contro la porta metallica d’ingresso dell’infermeria: era chiusa.
Provò a bussare, continuò a farlo sempre più forte, ma nessuno venne ad aprirgli.
Disperato, colpì a calci la porta, ma non accadde ancora nulla.
Vide un pulsante sulla parete: un campanello. Vi s’attaccò, pigiando con il dito, e continuò fino a quando finalmente l’uscio non si aprì e il medico non fece la sua comparsa.
L’uomo lo riconobbe subito – e come avrebbe potuto averlo dimenticato? – e fece una smorfia che non prometteva nulla di buono.
«È il modo di suonare?», sbottò il medico, cui non parve vero avere il pretesto per sgridarlo.
«Mi spiace, signore... sono venuto per Liao. Posso vederla? Anche solo per un attimo?»
Il medico parve riflettere e sorrise: «Direi proprio di no. Sparisci».
«Ma Liao vorrà che io... Sono il suo ragazzo, e...»
«E allora? Potresti essere anche sua madre, e non ti lascerei entrare. Vattene».
Kein deglutì: «Posso almeno sapere se sta bene...?»
«Bene?», il medico scoppiò a ridere; poi sbottò, tutto d’un fiato: «Quella ragazza è stata violentata e picchiata selvaggiamente! Ha varie fratture al viso, quattro costole incrinate e un braccio rotto, senza contare gli ematomi, i danni interni e l’emorragia... e non ti ho detto il meglio. Trauma cranico grave, con frattura dell’osso temporale. È in coma, non so quando, e soprattutto se, si riprenderà. E tu vieni a chiedermi se sta bene?», e gli sbatté la porta in faccia.


Kein non si mosse più dal corridoio che portava all’infermeria. Piazzato su una sedia, lo sguardo ostinatamente fisso sulla porta d’ingresso, attese in silenzio delle notizie che nessuno pareva disposto a dargli. Il medico lo evitava, gli infermieri che gli passavano davanti gli gettavano qualche sguardo furtivo, ma evidentemente avevano degli ordini da rispettare. Intanto il tempo passava, e Kein continuava ad aspettare.
Fritz venne a trovarlo, naturalmente: gli portò da mangiare e da bere, dovette insistere parecchio perché ingollasse qualche boccone e bevesse un sorso, e per il resto rimase accanto a lui, in quel silenzio che non ha bisogno di parole che solo i veri amici sanno avere.
Le ore trascorsero, dalle finestre del corridoio la luce lasciò il posto al crepuscolo e poi al buio della notte; in tutto quel tempo, nessuna notizia.
Nessuno apparve nemmeno più nel corridoio: Kein non ignorava che l’infermeria avesse anche un’uscita di servizio. Evidentemente, era stato dato ordine di usare solo quell’ingresso.
Nonostante avesse fatto di tutto per restare sveglio, Fritz crollò dal sonno, finendo con la testa appoggiata contro al muro; Kein lo guardò con affetto, e poi riprese a fissare la porta.
Fu un’eternità dopo – o era stato un attimo? L’impressione che aveva era di essersi appisolato – che le porte si aprirono scorrendo di lato e lasciando passare una donna alta e bella dai corti capelli viola. Gli bastò notare con un’occhiata i gradi di ufficiale e la forte somiglianza con Liao perché Kein capisse di trovarsi al cospetto del comandante Mineo.
La donna guardò il viso pallido, gli occhi arrossati e gonfi: «Tu devi essere Kein».
Il ragazzo si alzò sulle gambe malferme: «Sì, signora. Questo che è con me è mio frat… il mio amico».
«Lascialo dormire». Mineo scrutò in viso Kein e assentì, mentre il viso teso le si raddolciva: «Sei come Liao ti aveva descritto».
«Come…», esitò, prese fiato: «Come va? Non hanno voluto dirmi niente…»
Mineo scosse lentamente il capo, e Kein chiuse gli occhi, sforzandosi disperatamente di mantenere il controllo. Respirò a fondo, strinse i pugni fino a far dolere le nocche e si morse le labbra: avrebbe voluto urlare e urlare, ma non poteva… non poteva…
Quando riaprì gli occhi, incrociò lo sguardo scuro e pieno di compassione di Mineo.
«Vorresti vederla?»
«Non mi hanno mai permesso di entrare!»
«Lo so. Stavolta però ci sono io. Vieni».
Mineo riaprì la porta e rientrò nell’infermeria, e Kein le tenne dietro. Percorsero un lungo corridoio, ignorarono gli sguardi colmi di disapprovazione degli astanti ed entrarono in una stanzetta.
Un lungo contenitore di plastica trasparente e metallo… lei era lì dentro, il corpo straziato trafitto da aghi e sondini. Tubicini erano collegati con le sue braccia, sensori erano applicati alla sua testa e al torace.
Kein si chinò per osservare quella figura immobile: sotto la gran fasciatura che le copriva il capo, il viso appariva più minuto di quanto non fosse. Gli occhi erano tumefatti, il naso aveva perso la sua linea elegante, attraverso le labbra gonfie e semiaperte si intravedevano gli incisivi spezzati. Sulle braccia nude campeggiavano ecchimosi e segni di morsi. Sotto il lenzuolo che ricopriva il corpo, si notava che una caviglia aveva una piega innaturale per una giuntura sana.
Un misto di dolore e furia oppresse il petto di Kein, che scoppiò in singhiozzi come un bambino; si riprese quasi subito e si asciugò rapidamente gli occhi, gettando uno sguardo colmo di vergogna verso Mineo. Lei gli mise una mano sulla spalla, gliela strinse, e per un poco rimasero entrambi in silenzio, persi ciascuno nel proprio dolore.
«Non…?», chiese Kein, sapendo che era una follia illudersi.
Mineo scosse la testa. No.
Era solo una questione di tempo, allora…
«Posso fare una cosa sola, per lei», sussurrò Mineo dopo un attimo. «Posso riportarla su Ruby, perché riposi sul suo pianeta».
Kein assentì: sapeva quanto Liao avesse amato la sua patria.
Si schiarì la voce, che però gli tremò violentemente: «Mi farete avere notizie?»
«Certo. Ci terremo in contatto» Mineo lo guardò in viso: «Vuoi restare un poco da solo con lei, prima che la porti via?»
Incapace di parlare, Kein assentì; Mineo chiuse la porta dietro di sé e lui rimase solo con quello che ormai non era che l’involucro che imprigionava lo spirito della ragazza che lui amava tanto.
Si lasciò cadere su una sedia, gli occhi fissi su quel viso ormai irriconoscibile: dolore, disperazione, collera, furia vendicativa… in quel momento, non sentiva più niente, più niente.
Muto, immobile come una statua, continuò a fissare Liao.
C’erano infinite cose che avrebbe voluto dirle, che non le aveva detto… ormai era troppo tardi.


Mentre tornava al dormitorio, quasi andò a sbattere in Bradios, che veniva dalla parte opposta. Kein si tirò istintivamente indietro, aspettandosi un attacco: sorpreso, s’accorse che l’altro lo guardava, un largo ghigno dipinto sul volto.
Sulla sua fronte, brillava una visiera d’argento.


19 Caduta e risalita

«Coma irreversibile», sussurrò Fritz, a conclusione di quanto aveva appena raccontato.
Nello schermo, il viso di Zuril appariva più tirato e serio del solito. Per un minuto buono lo scienziato rimase in silenzio: Kein aveva perso la ragazza di cui era innamorato, e lui sapeva bene cosa significa non avere più la persona che si ama.
«Quel ragazzo patirà l’inferno», mormorò infine Zuril, la voce atona e l’occhio fisso su nulla in particolare. «So quel che dico».
«Credo che Kein voglia vendicare Liao», continuò Fritz.
«È naturale», assentì Zuril. «Di chi è figlio, il colpevole? Barendos? Non credo che ci sia molto da sperare nella giustizia, allora».
«Ma lui non…»
«Non puoi impedirglielo, come se fosse un bambino», tagliò corto Zuril. «Tu e io possiamo parlargli, naturalmente; resta il fatto che quel bastardo gli ha violentato e ridotto in coma la sua ragazza. È ovvio che Kein voglia fargliela pagare. Spero solo che non si cacci nei guai per questo».


Quanto successo a Liao gettò l’intera scuola in uno stato di attonito panico. Inchieste, interrogatori, investigazioni, tutto ciò che doveva essere fatto fu fatto: tranne che puntare il dito contro quello che tutti sapevano più o meno coscientemente che fosse il colpevole.
Fu ben presto chiaro che nessuno, mai, avrebbe fatto il nome di Bradios: nessuno voleva inimicarsi il potentissimo comandante Barendos. Nonostante Mineo avesse tempestato nello studio del preside, nonostante avesse tentato d’avere un minimo di giustizia per la sorella, fu ben presto chiaro che nulla sarebbe stato fatto. Per un tacito accordo, tutti presero a parlare di incidente, e non d’aggressione. Cominciarono a circolare voci su un qualche esterno malintenzionato visto gironzolare attorno alla palestra, si cominciò a gettare la colpa su qualche rassicurante sconosciuto, e si cominciò ad insabbiare più o meno coscientemente il tutto. L’unica insegnante che non volle allinearsi con i colleghi, la professoressa Rowan, fu trasferita d’urgenza in un altro istituto.
Gli allievi sembravano inebetiti: non si udivano più nei corridoi chiacchiere allegre e passi di corsa, ma sussurri spaventati e passi felpati. Quanto a Bradios, unico tra tutti girava per la scuola a testa alta, il torace enorme orgogliosamente gonfio e una piccola visiera argentea tra i capelli.
Nessuno gli chiese perché improvvisamente indossasse quell’oggetto, nessuno osò dire che somigliava stranamente alla scomparsa visiera di Liao, nessuno osava nemmeno guardarlo negli occhi, figuriamoci rivolgergli la parola. Era diventato il padrone della scuola.
Fritz ribolliva letteralmente di rabbia: avesse badato a sé, avrebbe affrontato Bradios di petto, figlio o meno di Barendos.
«No», disse subito Kein. «È il doppio di te. Ti ammazzerebbe». Abbassò la voce e aggiunse: «E poi, è mio».
Fritz, più alto e robusto del suo più esile compagno, scosse il capo: «Scusa se mi permetto, Kein; ma se io sono la metà di Bradios, tu, allora…»
Kein lo guardò dritto in viso: i suoi occhi azzurri erano divenuti grigio chiarissimo, quasi incolori. Due schegge di ghiaccio. «Penserò io a lui, ma non subito. Quando sarò pronto a farlo. Lo farò a pezzi».


«Certo, quello che è successo è molto spiacevole», disse Shazira qualche giorno dopo, ad un imbronciato Fritz «Cerca però di vederne i vantaggi».
Lui riemerse dai propri pensieri e guardò attonito quella che ormai era stufo di considerare la sua ragazza: «Quali vantaggi, scusa?»
Shazira alzò le spalle: «Mi spiace tanto dirlo, ma a me quella Liao non è mai piaciuta».
«Me n’ero accorto», ringhiò il giovane.
Lei era troppo soddisfatta per badare al malumore del compagno, per cui continuò a parlare a ruota libera: «Lo so che a te era simpatica, ma io la vedevo per quel che era: una smorfiosa incapace di restare al suo posto».
«Oh. E qual era il suo posto?», chiese Fritz, pericolosamente calmo.
Trionfante, Shazira gettò all’indietro i magnifici capelli azzurri e si permise un sorriso sprezzante che mai prima d’allora aveva osato davanti a Fritz: «Ma per piacere, caro! Una ragazzetta di Ruby! Già trovo vergognoso che le sia stato permesso venire in questa scuola…»
«Anche Kein frequenta questa scuola», come suo padre, più Fritz era in collera più la sua voce si abbassava.
Shazira alzò ancora le spalle: «È solo uno schiavo». Non aveva la minima importanza, era evidente.
Fino ad allora, Fritz l’aveva sopportata perché era bellissima e perché lei si era sempre curata di celargli certi lati del suo carattere, che pure lui aveva intuito. Vederla così tronfia della sua meschinità, così assurdamente stupida, lo riempì di disgusto.
Non impiegò molto per dirle esattamente quel che pensava, e molto meno impiegò ad andarsene mentre lei, inorridita, restava a bocca aperta, incapace di articolare una risposta.
«L’ho mollata», disse a Kein.
«Mi dispiace molto», rispose il ragazzo, stringendogli affettuosamente un braccio. «Come ti senti?»
Fritz si sentì stringere il cuore. Kein chiedeva a lui come si sentiva…!
Decise di dirgli quella che era l’assoluta verità: «Libero».


L’anno scolastico continuò e finì senza incidenti, in un clima di gelo totale. Fu deciso all’unanimità di abolire la consueta festa di fine anno; gli studenti, che normalmente avrebbero protestato, accolsero la notizia con sollievo. Il clima da incubo che regnava nella scuola avrebbe reso qualsiasi festeggiamento fuori luogo, questo lo compresero persino quegli studenti, Shazira in testa, che avevano detestato Liao.
Assorto, apparentemente indifferente a tutto, Kein concluse l’anno scolastico senza battere ciglio: i professori erano divenuti molto più gentili con lui, i voti erano anche più generosi di quelli, pur altissimi, che avrebbe meritato… ma lei non c’era, e nulla contava più per lui.
Gli restava solo una cosa.
Ti vendicherò, Liao, fosse l’ultima cosa che faccio.


L’anno scolastico era finito, i bagagli erano pronti, sui letti. I due ragazzi stavano aspettando Zuril, che da un momento all’altro doveva venire a prenderli, quando il comunicatore di Kein trillò.
Gli bastò vedere il viso distrutto di Mineo per comprendere.
Adesso era davvero solo.


Zuril scambiò uno sguardo con il figlio.
È morta?
Sì.
Kein non parve nemmeno farvi caso: restò indietro, curvo e ripiegato su sé stesso, il viso sfatto distorto in una smorfia di sofferenza. Per quanto non fosse certo un uomo espansivo, Zuril si fece avanti, lo prese per le spalle: «Kein...»
Annaspò cercando qualcosa da dirgli, ma le parole non vennero. E cosa si può dire, in casi simili, che non sia banale, scontato? Tacque, ma Kein comprese ugualmente: «Grazie, signore».
Zuril si rivolse al figlio: «Io ero venuto per portarvi su Zuul, ma se Kein preferisce... voglio dire, se pensate che fare qualcosa di diverso, restare con i vostri amici, o magari fare un viaggio...»
Kein scosse il capo: «No, signore. Vorrei solo venire a casa».


Zuul, con il suo verde pallido, il suo cielo azzurro, fu per Kein come il porto sicuro in cui tornare dopo la tempesta. Pallidissimo e magro, il ragazzo alternava momenti di crisi con lunghi, apatici silenzi. Accanto a lui, Zuril e Fritz erano due presenze attente e discrete.
«Non si è mai veramente sfogato», disse Fritz al padre, una delle prime serate. «Tiene tutto dentro. Se piangesse, magari…»
Zuril assentì. «Lo capisco».
Fritz tacque, rimanendo in attesa: suo padre pensava alla mamma, questo era evidente.
Il viso inespressivo, Zuril alzò lo sguardo verso le stelle. Kein era andato a letto presto, e loro erano in giardino: normalmente avrebbero passato il tempo chiacchierando, ma quella sera tutto sembrava così difficile…
«Non so se riuscirà a dimenticarla», aggiunse Fritz, a mezza voce. Ricordava bene come Kein e Liao si guardavano: lo stesso sguardo che aveva visto negli occhi di suo padre e sua madre. E suo padre era lì con lui, solo dopo anni e anni di vedovanza… nessuna donna aveva preso il posto che era stato di sua madre.
Cominciava a temere che per Kein nessuna ragazza avrebbe mai potuto sostituire Liao.


I giorni successivi, Kein continuò a mostrarsi sempre più apatico. I meravigliosi paesaggi, le foreste, persino il lago cristallino lo lasciarono indifferente.
Fu proprio allora, vedendolo così amorfo, che Zuril decise d’intervenire. Bastò una semplice frase lanciata come per caso all’ignaro Fritz… poche parole… per rivedere Kein drizzare improvvisamente la testa, gli occhi incandescenti.
«Non ditemi che la dimenticherò!», gridò Kein, con violenza. «Non ditemi che sono giovane, che potrò rifarmi una vita, incontrare un’altra ragazza... lei era unica! Unica!»
Incrociò lo sguardo di Zuril, e rimase esterrefatto: il suo padrone appariva improvvisamente invecchiato di almeno dieci anni.
«No, Kein», mormorò, «Non lo farò mai. Sono l’ultima persona che potrebbe dirti una cosa simile».
Improvvisamente, il ragazzo ripensò ai ritratti che Zuril conservava ancora nella sua stanza, all’estrema solitudine in cui viveva, al silenzio di cui aveva avvolto il ricordo della moglie. L’uomo di Vega e il ragazzo di Fleed si guardarono, e improvvisamente si compresero come non era mai accaduto prima d’allora.
Kein barcollò, poi si voltò di scatto e scomparve tra i cespugli.
«Vai con lui», disse Zuril; e Fritz lo seguì.
Ritrovò Kein gettato a terra sull’erba, le spalle scosse da singhiozzi convulsi. Fritz sedette accanto a lui, lo strinse tra le braccia e gli rimase vicino, condividendo il dolore come solo un vero amico può fare.
Kein pianse a lungo: un pianto dirotto e salutare, che gli tolse dal petto quel peso che da giorni l’opprimeva senza pietà. Sfinito, rimase a lungo sdraiato nell’erba accanto a Fritz: si sentiva senza forze, completamente svuotato, ma stava meglio.
Cominciarono a parlare: dapprima qualche breve frase stentata, poi qualche discorso più articolato. Da subito, Kein parlò di Liao: fino ad allora, non aveva detto quasi nulla, di lei. Parlarono e parlarono, ricordandola… poi, inevitabile, si giunse a quel che era successo con Zuril poco prima, e i discorsi presero ben altra piega.
«Ma a te non darebbe fastidio vedere un’altra donna al posto di tua madre?», chiese Kein.
Fritz rifletté prima di rispondere: «Un po’». Rifletté ancora, e aggiunse: «Però mio padre è solo da troppo tempo. Se trovasse un’altra donna, non potrei dargli torto... poi magari se lei fosse una persona piacevole... perché no? In fondo, mio padre è ancora giovane, ha diritto a rifarsi una vita».
E tu sei come lui, pensò Kein con un sorriso. Molto logico e ragionevole.
«Ma voleva bene a tua madre?», chiese, sorpreso. Faticava ad immaginarsi perdutamente innamorato il suo controllatissimo padrone...
«Mio padre adorava la mamma» asserì Fritz. «Adesso forse ti parrà impossibile, ma è così. È tanto cambiato da allora... tu non hai idea di quanto fosse diverso. Anche con me» chiuse gli occhi, mentre immagini mai dimenticate gli turbinavano nella memoria: si rivide bambino correre incontro al padre, che lo sollevava ridendo tra le braccia... e poi rivide il sorriso che il papà aveva solo per la mamma. Quante volte li aveva visti abbracciarsi, capirsi al volo con uno sguardo, ridere assieme come solo le persone profondamente innamorate possono fare? Poi c’era stata la malattia della mamma, e poi... poi tutto era irrimediabilmente cambiato.
«Sì, l’adorava», ripeté Fritz. «Lavoravano assieme, sai? Lei era la sua assistente. S’intendevano alla perfezione».


Quando tornarono da Zuril, molto tempo dopo, apparivano entrambi molto pallidi e col viso segnato; ma gli occhi di Kein non erano più cupi ed indifferenti, e lo sguardo che rivolse al suo padrone fu pieno di gratitudine.
Zuril fece uno dei suoi lievi sorrisi a Kein, scambiò un’occhiata d’intesa con il figlio; appariva molto calmo, ma dentro di sé esultava.
Kein stava ricominciando a vivere.


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Nuovi due capitoli, con la seconda apparizione di Mineo.


20 Compagni di scuola

L’anno successivo, l’ultimo che avrebbero trascorso in quell’edificio che ormai odiavano, si trascinò pesantemente in una coltre di gelo totale: da una parte, Kein e Fritz, dall’altra il resto della scolaresca.
Più tronfio che mai, Bradios continuava a pavoneggiarsi, ostentando come un trofeo la visiera argentea; Kein stringeva i pugni ogni volta che lo vedeva, ma s’imponeva di non reagire. Doveva solo aspettare il suo momento, e allora…
Chi invece cominciò ad avere dei problemi, fu Fritz. Evitato dai compagni l’anno precedente, ora veniva fatto segno di derisione. Gli scherzi si sommarono agli scherzi, gli insulti si fecero sempre più pesanti: inutilmente Kein l’esortava a farsi di pietra, Fritz non era disposto a fare da bersaglio alle frecciate dei compagni.
«Finirai nei guai, prima o poi», ripeteva Kein; e aveva ragione.


Il messaggio arrivò all’improvviso, e subito il suo computer oculare ne rilevò l’urgenza e inviò il contenuto direttamente alla sua mente. Zuril trasalì e rimase immobile, in ascolto.
«Signore...?» lo richiamò gentilmente uno dei tecnici con cui stava lavorando.
Zuril si guardò rapidamente attorno come se fosse appena riemerso da un incubo: «Mi spiace molto, ma sono richiamato altrove. È un’emergenza».
Non era certo abitudine di Zuril lasciare un lavoro a metà, questo i suoi sottoposti lo sapevano benissimo: tuttavia uno degli scienziati osservò: «Signore, il comandante Gandal in persona sta venendo qui per prendere visione della robustezza dell’akton, la nostra nuova lega metallica. Se voi...»
«Mi scuserò personalmente con il comandante Gandal», Zuril ripose rapidamente i suoi strumenti nella valigetta. «Quanto al resto, potete illustrargli voi i vantaggi della nostra scoperta, li conoscete quanto me».
«La vostra scoperta», insisté lo scienziato.
«Mia, vostra, è stato un lavoro di squadra». Zuril chiuse la valigetta e si diresse rapidamente fuori dal laboratorio, andando quasi a sbattere proprio in Gandal: «Sono di fretta, scusami. Devo correre alla scuola. Ti spiegherò poi».
«Problemi con quel tuo schiavo?», chiese il collega, e dovette camminare a grandi passi per tenergli dietro.
«Stavolta no. È mio figlio».
«Fritz?!», Gandal era a dir poco trasecolato: quel ragazzo così tranquillo, così studioso...
«Il preside mi ha mandato un messaggio... un piccolo incidente, dice. Cosa dovrei credere, secondo te?»
«Ahia...»
«Appunto».
Avevano ormai raggiunto la terrazza parcheggio. Zuril aprì la sua navetta e si girò verso il collega: «Penseranno i miei scienziati a mostrarti la nostra nuova scoperta. Mi spiace davvero andarmene così, ma... ».
«Nessun problema», rispose Gandal, ed era sincero. Non aveva figli, non avrebbe mai potuto averne, e per lui l’argomento era una questione delicata. Capiva.
Rimase immobile a guardare la navetta alzarsi in volo e sfrecciare via verso l’orizzonte; poi rientrò dirigendosi verso il laboratorio. Il lavoro era lavoro, e lui doveva visionare l’akton.
Sicuramente qualcuno – e qui gli venne in mente Dantus, o l’odioso Barendos – avrebbe avuto da ridire sul comportamento del collega, che aveva anteposto la famiglia al lavoro: non lui.
Al posto di Zuril avrebbe fatto la stessa cosa.


«Un incidente, vero?», Zuril esaminò rapidamente il display medico sul letto del figlio: contusioni varie, lussazione a una spalla, ecchimosi... fortunatamente, nessuna frattura. Non era nelle condizioni in cui era stato ridotto Kein qualche anno prima, ma era stata comunque una brutta batosta. Stavolta, per lo meno, il ricovero in infermeria era avvenuto senza problemi.
«Un incidente», lo sguardo di Fritz era supplichevole, ma suo padre non si lasciò intenerire.
«Non m’importa di questa dannata abitudine di tacere che c’è in questi casi», sbottò seccamente Zuril. «Io non sono uno dei tuoi insegnanti, sono tuo padre, e voglio la verità».
Fritz tacque, mordendosi il labbro e facendosi male visto che era rotto e gonfio.
«Devo pensare che c’entri Kein?», proseguì Zuril.
Il ragazzo sbarrò gli occhi: «No, no! È stata tutta colpa mia, lui non... non ha fatto niente. Sono stato io, io ho assalito quei tre imbecilli».
Come no, si disse Zuril. Ti credo sulla parola.
«Papà, davvero! Lui non c’entra! Sono stato io!»
«D’accordo. Sono felice di vederti così solidale con lui; però adesso vado a fare due chiacchiere con Kein», e Zuril uscì di scatto dalla stanza, sordo ai richiami del figlio.


L’uniforme blu e bianca di studente lo faceva apparire ancora più smilzo di quanto non fosse; accanto a Zuril, alto e dalle spalle larghe, la figura d’adolescente di Kein appariva particolarmente fragile, minuta.
Camminavano fianco a fianco, l’uomo a testa alta, lo sguardo ritto davanti a sé, e il ragazzo a capo chino, occhi a terra. Percorsero in silenzio l’ampio cortile esterno alla scuola; generalmente serviva per le esercitazioni fisiche, ma a quell’ora del tardo pomeriggio era completamente deserto: gli studenti erano all’interno dell’edificio intenti a prepararsi per le lezioni dell’indomani.
Zuril s’arrestò ad una certa distanza dalla scuola, lontano da occhi e orecchie indesiderabili; Kein chinò maggiormente la testa ed attese.
«Allora, che succede?», Zuril era uomo da venire subito al punto, e lo fece col consueto tono freddo. «Tu hai sempre avuto problemi con i tuoi compagni, questo lo sappiamo, ma è la prima volta che capita la stessa cosa anche a Fritz. Lui è sempre stato un ragazzo tranquillo e socievole; adesso che ci sei tu, anche lui ha problemi disciplinari. Devo pensare che hai una cattiva influenza su di lui?»
Kein s’era aspettato accuse, insulti, forse addirittura percosse: quella voce controllata e razionale lo ferì più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi altro rimprovero. Terrorizzato, non osò guardare in viso quell’uomo che aveva l’autorità di toglierlo dalla scuola, punirlo atrocemente, trasferirlo in un campo minerario, ucciderlo… deglutì penosamente, ma le parole non gli vennero.
«Ho parlato con Fritz, naturalmente», continuò Zuril, sempre in tono pacato. «Non ha voluto spiegarmi nulla… o meglio, ha voluto addossarsi la colpa di tutto. Tipico, da parte sua».
Un’ondata di calore invase il petto di Kein: Fritz era un vero amico.
«Io però sono sicuro che c’entri anche tu», aggiunse Zuril. «Posso sapere cos’è successo, da far sì che mio figlio abbia assalito e picchiato tre suoi compagni? Proprio lui, che è sempre stato un ragazzo tranquillo e per nulla aggressivo?»
Kein sentì bruciargli gli occhi: «Fritz non c’entra!», esclamò d’un fiato. «Lui è… è un bravissimo ragazzo».
«Questo lo so da me».
«È… tutta colpa mia!»
Zuril assentì: «Ne ero sicuro. Cos’hai combinato?»
Ci volle tutto il suo coraggio perché Kein riuscisse a guardare in viso il suo padrone: stava dicendo la verità, e voleva che Zuril lo capisse.
«Io non volevo fare proprio niente», cominciò esitando, e continuò con maggior sicurezza nella voce: «Però quei ragazzi non mi lasciavano mai in pace. Continuavano a tormentarmi, a prendermi in giro…»
«E perché lo facevano?»
«Perché sono di Fleed».
«Non perché pensavano che sei debole, sei un vigliacco?»
«Lo dicevano, una volta», Kein drizzò orgogliosamente la testa, e gli occhi azzurri gli scintillarono. «Hanno tentato di picchiarmi; io li ho pestati. Tutti e tre. Adesso non dicono più niente del genere perché sanno che potrei batterli ancora».
Zuril ebbe un moto d’ammirazione che però represse subito. Tuttavia, il fatto che Kein si fosse fatto valere con quei suoi compagni l’inorgoglì non poco.
«Nessuno dice più che sono un vigliacco», concluse Kein. «Sanno che gliela farei pagare».
Zuril si trattenne dal battergli una pacca sulla spalla: «E allora? Che è successo?»
«Mi hanno… preso in giro. Fritz si è arrabbiato e mi ha difeso. Loro lo hanno assalito e io l’ho aiutato a dar loro quel che si meritavano. Ecco tutto, signore».
«Non è tutto. Cos’hanno detto per prenderti in giro?»
Kein impallidì: «Io… preferirei non ripeterlo, signore».
«È un ordine, Kein». Zuril aveva parlato con la massima calma, ma il ragazzo percepì chiaramente la sua autorità.
Kein chiuse gli occhi, prese fiato: «Dicevano che… che sono il tuo protetto, e che tu… e io… noi siamo…», gli morì la voce, l’imbarazzo gli aveva stretto la gola; quanto a Zuril, assentì tra sé. Già, avrebbe dovuto aspettarselo.
«Capisco», mormorò.
«Io non potevo lasciar correre, signore», continuò Kein, che ora che aveva detto il peggio sentiva le parole fluirgli più liberamente. «Tu con me sei sempre stato corretto, mi hai trattato come un…», “un figlio”, avrebbe voluto dire, ma non poté pronunciare quella parola e continuò in fretta: «Loro continuavano a dire... Io non ho potuto sopportarlo, e nemmeno Fritz. Gli ha detto il fatto loro, quelli gli sono saltati addosso, tre contro uno e l’hanno picchiato, e io sono corso in suo aiuto. Ecco la verità, signore. Giuro che è andata così».
Zuril gli mise una mano sulla spalla, gliela strinse: «Mi spiace, ragazzo».
«Fritz era furibondo… e anch’io. Non potevamo sopportare che dicessero… dicessero…»
«Certo, capisco», Zuril gli arruffò i capelli in una ruvida, inaspettata carezza e subito ritrasse la mano. «Questo cambia parecchio le cose».
«Signore, sei arrabbiato con noi?»
«Nemmeno per sogno. Sono orgoglioso, invece».
Il ragazzo ammutolì: mai prima d’allora Zuril si era mostrato così espansivo.


«...Orgoglioso...?», esclamò Fritz, stupefatto.
«Ha proprio detto così», rispose Kein.
Fritz fece per emettere un fischio, ma il suo labbro rotto fece valere le proprie ragioni. Guardò Kein e scoppiarono entrambi a ridere, sollevati: s’erano aspettati una solenne lavata di testa, e venivano a scoprire che Zuril di tutt’altro avviso... da non credere.
«Pensavo che papà avrebbe detto che non bisogna mai perdere il controllo», osservò infine Fritz.
«Non l’ha detto», rispose Kein.
Fritz si tastò la mascella dolorante. «È quasi valsa la pena farsi picchiare, allora».


21 Vendetta

Le scalinate del campo sportivo andavano lentamente riempiendosi di folla: studenti, genitori, amici. La festa di fine anno della scuola attirava sempre un gran numero di persone.
Seduto al suo posto riservato nella tribuna d’onore, Zuril si guardò oziosamente in giro, chiedendosi dove fossero seduti Kein e Fritz. Non aveva ancora potuto vedere nessuno dei due ragazzi; li avrebbe incontrati a cerimonia terminata.
All’estremità opposta della tribuna sedette Barendos, venuto ad ammirare le prodezze del figlio che, come ogni anno, in qualità di campione di k’rahi avrebbe accettato di combattere contro chiunque tra i suoi compagni avesse avuto il fegato, e l’incoscienza, di sfidarlo. Barendos gettò un lungo sguardo di sfida a Zuril, che lo ripagò con una gelida occhiata: i loro rapporti, mai stati ottimali, erano divenuti pessimi da dopo il disastro di Fleed.
Il direttore, giunto in quel momento, si guardò attorno, costernato: i suoi due ospiti più ragguardevoli avevano preso posto alle estremità opposte della tribuna. Fece per invitarli a scegliere due poltrone più centrali, ma percepì la tensione tra i due e decise di lasciar perdere.
In quel momento, con suo grande stupore Zuril vide il comandante Mineo, pallida e severa nella sua impeccabile uniforme, guardarsi attorno con aria incerta. Barendos, che l’aveva scorta a sua volta, girò ostentatamente il capo da un’altra parte. Zuril fu rapidissimo ad andarle incontro per porgerle le proprie condoglianze.
«Non avrei mai pensato d’incontrarvi, oggi», disse, e la sua sorpresa era sincera.
«Infatti, fosse stato per me non sarei mai venuta», rispose la donna a denti stretti. «Vogliono consegnarmi non so che premio in memoria di mia sorella; ma è solo una mossa per far finta che sia tutto a posto, tutto dimenticato».
«Una buffonata» convenne Zuril.
«Sono d’accordo con voi, ministro, una vera buffonata. Fossi padrona di me stessa, mi sarei rifiutata di farne parte, e oggi non sarei mai venuta; purtroppo, questo è un lusso che non posso permettermi. Dal mio comportamento possono derivare conseguenze serie anche per altri».
Perché sei di Ruby e non di Vega, si disse Zuril. Hai ragione. Siete sudditi di seconda categoria, liberi solo nominalmente.
Incrociò lo sguardo beffardo di Barendos ed accennò alla poltrona vuota accanto alla propria: «Posso avere l’onore della vostra compagnia?»
Senza fiato, Mineo non ebbe il coraggio di far notare che sarebbe stata lei, non veghiana, di rango infinitamente più basso, a doversi sentire onorata. Sedette, ancora incredula: era abituata a venir trattata con un misto di sufficienza e sprezzo. La cortesia di Zuril l’aveva completamente spiazzata.
Intercettò l’occhiata di fuoco di Barendos, quella di superiorità di Zuril, che in fondo si era assicurato la compagnia della donna più attraente che in quel momento sedesse in tribuna, e comprese d’aver trovato un alleato contro un comune nemico. Rincuorata, si dispose ad assistere con maggior serenità a quella cerimonia che fino a pochi minuti prima aveva considerato un autentico incubo.


Ritti l’uno di fronte all’altro, il confronto non avrebbe potuto essere più stridente. Grande, grosso, dai possenti muscoli guizzanti, Bradios; più basso e sottile Kein. Fu evidente a tutti che non appena Bradios avesse messo le mani addosso al suo avversario, lo scontro sarebbe finito.
Il viso di pietra, Zuril strinse i pugni: solo ora che erano stati annunciati gli sfidanti era venuto a conoscenza di chi fosse l’avversario di Bradios… quel pazzo di Kein!
Certo, nessuno avrebbe trovato da ridire in uno scontro di k’rahi: in effetti la pensata era buona, Kein avrebbe potuto vendicarsi senza che lo si potesse biasimare. Ma come sperava di salvarsi contro quel bestione grosso il doppio di lui?
«Quel povero ragazzo...!», gemette Mineo. «Non dovrebbero permetterlo... si farà ammazzare!»
«Ha accettato la sfida», rispose Zuril, cupo. «Adesso, può solo perdere, o abbandonare... a meno che non vinca».
«Contro quel mostro?», Mineo si torse le mani. Kein non aveva speranze: anche lui sarebbe finito sconfitto, magari distrutto... proprio come Liao...
Bradios scoppiò a ridere in faccia a Kein, voltandosi poi verso il pubblico per invitarli ad unirsi alla sua ilarità. Sordo alle risate che gli echeggiavano attorno, Kein si mise in posizione di guardia.
Dal suo posto all’ingresso dell’arena, tesissimo, Fritz non lo perdeva d’occhio un solo secondo. Aveva tanto pregato Kein di rinunciare, tanto insistito; niente, il ragazzo era stato irremovibile.
«Lo distruggerò davanti a tutti», aveva dichiarato, con una calma spaventosa che aveva gelato l’animo di Fritz; e ora, eccolo davanti a quel nemico animalesco, più alto e più forte di lui. Un nemico che aveva già ucciso, e che avrebbe potuto farlo ancora.
Bradios continuò a ridere, fino a quando lui stesso non comprese l’idiozia di sghignazzare in faccia ad un avversario totalmente impassibile. Improvvisamente, lanciò un ruggito in faccia a Kein: abituato ad avere davanti oppositori che lo temevano, godeva nello spezzar loro i nervi.
Con sua grande sorpresa, Kein non mosse un muscolo: vigile, il viso inespressivo, continuò a mantenere la posizione di guardia.
Bradios cominciò a girargli attorno, e Kein si limitò a ruotare lentamente su sé stesso in modo da averlo sempre di fronte a sé.
Bradios fece il gesto di sistemarsi i capelli, e si aggiustò deliberatamente la visiera color argento.
La vuoi? Prenditela, se ci riesci!
Kein rimase impassibile.
Come sua abitudine, Bradios accennò qualche passo come di danza, con l’evidente intento di deridere il suo avversario; vista la totale indifferenza di Kein indicò ancora la visiera, passandosi oscenamente la lingua sulle labbra.
«Porco schifoso…!» ringhiò Mineo; Zuril le batté un colpetto d’ammonimento sul braccio e accennò a Barendos, che poco più in là rideva sguaiatamente, dando poi un’occhiata nella loro direzione. Mineo si ricompose subito, stringendosi convulsamente le mani in grembo.
A lungo Bradios continuò a deridere e provocare Kein, ma questi rimase assolutamente impassibile, come congelato nella posizione di guardia.
«Va bene, finocchietto. Vediamo che sai fare», si spazientì Bradios, tentando una finta: Kein non batté ciglio. Un primo colpetto per saggiare l’avversario: Kein parò, rimettendosi subito in guardia.
A quel punto, la stragrande maggioranza degli avversari di Bradios cominciava a dare segni tangibili di nervosismo: la paura prendeva il sopravvento, e quasi tutti tentavano un attacco disperato che era sempre l’inizio della loro fine... perché quel moscerino non si muoveva?
Zuril, che aveva azionato silenziosamente il suo computer oculare, ascoltò i dati che gli venivano inviati direttamente al cervello e sogghignò: «Penso che avremo una sorpresa».
Mineo lo guardò senza capire, poi tornò a fissare l’arena, angosciata.
Dal suo posto, Fritz sentì la tensione serrargli il respiro. Purché Kein non perdesse il controllo…
Proprio in quel momento, mentre Bradios continuava a girare attorno all’avversario in cerca di una smagliatura nella sua difesa, senza alcun preavviso Kein attaccò, fulmineo: le sue mani si mossero con la velocità del lampo, una finta e un pugno secco, preciso, in pieno volto, prima di rimettersi in posizione di guardia.
«Bel colpo», commentò Zuril.
Bradios barcollò all’indietro, sbalordito: sentì un dolore spaventoso al viso, e con orrore s’accorse d’avere un fiume di sangue che gli usciva dal naso fratturato.
Ancora incredulo, tornò a guardare Kein, ma questi lo prevenne nuovamente: un balzo, e con un calcio preciso gli centrò un ginocchio, facendogli lanciare un urlo che tutta l’arena dovette sentire.
«E due», sorrise Zuril.
Un boato percorse il pubblico. Tutti si erano aspettati di assistere al solito macello cui Bradios li aveva abituati: quel cambiamento di programma li aveva lasciati sorpresi. Vedere un piccoletto smilzo colpire il campione della scuola era qualcosa di totalmente assurdo.
Senza fiato, Barendos fissava il figlio senza nemmeno riuscire a spiccicar parola.
Bradios sentì crescere in sé una furia omicida: basta scherzare, adesso avrebbe fatto sul serio. Si precipitò in avanti, deciso a ghermire l’avversario. Kein scartò di lato, schivando per un soffio la sua presa: ruotò a mezz’aria, e gli sferrò un potente calcio nell’altro ginocchio.
In preda ad un dolore atroce Bradios dovette arretrare, mentre Kein, che sembrava non avere alcuna fretta, si rimetteva in posizione di guardia.
Un certo stupore percorse il pubblico: perché Kein non approfittava del vantaggio, perché non attaccava subito, mentre il possente Bradios era stordito dal dolore?
Totalmente incredulo, Fritz trovò la risposta che suo padre aveva già intuito: perché non voleva solo sconfiggerlo... voleva umiliarlo pubblicamente, distruggerlo poco per volta. Era il suo modo per vendicare Liao.
«Ti arrendi?», chiese Kein, a voce alta perché tutti potessero udirlo.
«Arrendermi... a te?», Bradios sputò sangue ai piedi di Kein. «Mai!»
Lo scontro proseguì: Bradios tentava ogni volta un attacco, ma i colpi che Kein gli aveva appositamente sferrato alle ginocchia gli causavano un dolore acuto che lo rallentava. Il suo avversario, velocissimo e scattante, aveva ottimo gioco nello schivare i suoi assalti sempre meno coordinati e percuoterlo deliberatamente in modo da aumentare sempre più il proprio vantaggio.
Con gelida freddezza, Kein aveva colpito all’inizio il naso, per stordire l’avversario e indebolirlo con la perdita di sangue. I colpi successivi erano stati per le ginocchia: anche l’uomo più possente ha il suo punto debole nelle giunture. Kein sapeva esattamente come e dove colpire, in modo da infliggere il maggior dolore possibile: in quel momento, non sentiva alcuna pietà per il suo avversario. Voleva annientarlo e l’avrebbe fatto, lentamente, con freddezza, davanti a tutti.
Ormai azzoppato, Bradios poteva solo restare fermo dov’era, in difesa; fu allora Kein a cominciare a girargli attorno in una sorta di danza mortale, spiando il momento adatto e colpendo senza pietà non appena ne scorgeva l’occasione. Scattava in avanti, agiva fulmineo e balzava nuovamente indietro, sfuggendo alle mani adunche del suo avversario.
Intontito, dolorante in più punti, Bradios aveva ormai le gambe incapaci di spostare il suo corpo massiccio: Kein oltre alle ginocchia l’aveva colpito anche alle caviglie. Solo stare in piedi era uno sforzo tremendo; in più, il naso fratturato continuava a colargli sangue sulla bocca, rendendogli difficile respirare.
Kein non commise l’errore di sottovalutare l’avversario: nonostante fosse azzoppato ed intontito, Bradios conservava ancora una forza spaventosa nelle braccia. Doveva stare attento.
Scattò in avanti, e subito Bradios fece per ghermirlo; rapidissimo, Kein si curvò passandogli sotto al braccio e con una gamba gli uncinò una caviglia, facendolo crollare pesantemente al suolo, e balzando subito indietro.
Un nuovo boato s’alzò dalla folla: nessuno avrebbe tifato Kein di Fleed, ma molti esultavano per colui che stava ridicolizzando lo studente più temuto e detestato della scuola.
Bradios si rimise faticosamente in ginocchio; quando si rialzò, tutti videro che le gambe gli tremavano in modo incontrollato. Una salva di fischi lo accolse. Barendos si guardò attorno con occhi di fuoco in cerca dei colpevoli, ma un nuovo urlo della folla lo distrasse: Kein aveva assalito l’avversario tentando un calcio al viso, e in un lampo di lucidità Bradios era riuscito ad afferrargli la caviglia. Fritz urlò ed urlarono in molti altri; Kein si gettò rapidamente di lato, facendo perno proprio sulla mano di Bradios che lo tratteneva, e con l’altro piede lo colpì sull’orecchio. Bradios s’insaccò al suolo, urlando.
Un’esplosione d’applausi salutò la prodezza di Kein; chi batté le mani più forte di tutti fu Mineo, entusiasta.
«È un’indecenza!», sbottò Barendos. «Direttore, fateli fermare: quello schiavo maledetto non si sta battendo secondo le regole!»
«Sono spiacente», si scusò il direttore, umile ma fermo. «Non ci sono state violazioni al regolamento».
«Tuo figlio le sta prendendo secondo le norme», disse soavemente Zuril, con una voce talmente squillante che risuonò nell’arena. Uno scroscio di risa seguì il suo intervento.
«Arrenditi!», intimò ancora Kein.
Bradios, che si era rimesso faticosamente in piedi, scosse il testone. Arrendersi ad un fleediano? Sarebbe morto, piuttosto.
Con un ruggito, tentò una carica disperata; preso alla sprovvista, Kein lo colpì con una gomitata sul naso spappolato. Bradios ricadde a terra carponi, e vomitò.
Kein si guardò rapidamente in giro, e vide quel che cercava. Andò a raccogliere la visiera argento che era caduta più in là e andò a piazzarsi davanti a Bradios. Il metallo scintillava nella luce.
Si guardarono: Kein era praticamente illeso, Bradios aveva il viso ridotto un’irriconoscibile maschera di sangue. Kein alzò la visiera perché Bradios potesse vederla.
Si compresero senza bisogno di parlare.
Tutto questo è per Liao. Lo capisci?
Bradios assentì.
«Arrenditi», disse ancora Kein.
Bradios scosse il capo: avrebbe perso la faccia davanti a tutti, si sarebbe coperto di vergogna di fronte a suo padre… non poteva cedere.
«Dovrai… uc…cidermi», si rialzò in ginocchio e gli sputò in faccia.
Kein lo colpì con un calcio in pieno viso. Bradios s’accasciò a terra e vi rimase, il sangue che gli colava tra gli incisivi spezzati.
Per un istante, Kein ebbe l’impressione di vedere un altro volto devastato: un volto che aveva adorato più di ogni altro. Ora l’assassino giaceva sconfitto, incredibilmente simile alla sua vittima.
Kein alzò verso il cielo la mano che stringeva la visiera: aveva vinto.
Un’esplosione di gioia accolse la sua vittoria: non c’era studente, tra i moltissimi che Bradios aveva tormentato, che non esultasse. Fritz applaudiva frenetico, mentre Mineo, lanciato un ululato selvaggio, sentiva riempirsi gli occhi di lacrime. Accanto a lei, Zuril sogghignò guardando Barendos, cupo in volto, allontanarsi rapidamente dalla tribuna.


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Nuova puntata.

22 Il dono

Il medico era giunto e aveva fatto portar via Bradios, tra gli ululati festanti degli alunni; Kein voltò le spalle all’arena e s’allontanò con Fritz, che l’osservava incredulo.
«In tutto questo tempo… da quando lei è… insomma, tu avevi pensato a questo?», chiese il giovane.
Kein alzò il mento: «Sempre».
Fritz annaspò, cercando le parole. Kein aveva atteso e atteso la sua vendetta, che poi aveva consumato con un piacere gelido. Ora, Bradios era stato umiliato e distrutto davanti a tutti. Liao era stata vendicata, certo, ma…
Un senso di dispiacere attanagliò lo spirito gentile di Fritz: sentiva che era tutto sbagliato. Il Kein che aveva conosciuto non avrebbe mai fatto nulla di simile.
Guardò di sfuggita il profilo del suo amico: così severo, così freddo… Che ti è successo, Kein? Non ti riconosco più…


«Mi aspettavo molto, da te», cominciò Zuril quella stessa sera, mentre Kein, l’animo in subbuglio, restava immobile davanti a lui. «Devo dire che non mi hai deluso. Tutt’altro».
Kein sentì crescere in lui l’agitazione. Sapeva di essersi meritato quelle lodi, visto che accanto alla medaglia di campione di k’rahi appena conquistata portava appuntato sul petto il fregio d’oro destinato allo studente migliore dell’anno; ma sentiva anche che gli esami erano stati dati, l’ultimo anno scolastico si era concluso e che l’esperimento era finito. Aveva paura di quel che sarebbe stato di lui, ormai.
«A dirla tutta», continuò Zuril, «tu hai fatto molto più di quanto io mi fossi aspettato, nelle mie più rosee previsioni». Gli mise le mani sulle spalle, lo guardò dritto negli occhi: «Kein, se tu fossi figlio mio non potrei essere più orgoglioso di te».
Il ragazzo sentì mancargli il fiato, e un capogiro lo colse: il suo padrone aveva detto... possibile...?
«Hai completato la tua istruzione», continuò Zuril. «Ad essere sinceri, all’inizio pensavo che a questo punto ti avrei trovato un’occupazione; sei però un allievo troppo brillante per sprecarti con qualche incarico di poca importanza. Meriti di più. Ho iscritto anche te all’Accademia».
«Io... come Fritz...?», fu tutto ciò che Kein riuscì a dire.
«Te lo sei guadagnato, ragazzo».
Kein boccheggiò: lui avrebbe frequentato il corso per ufficiali superiori? Mai, nemmeno nei suoi sogni più folli... mai... «Signore, io... io... grazie!»
«Un’altra cosa», riprese Zuril. «Se ti ricordi il nostro patto, io ti avevo promesso che se tu mi avessi dimostrato il tuo valore io ti avrei ricompensato; bene, ho un dono per te».
«Per me...? Ma signore, mi hai già iscritto...»
«Con dei voti come i tuoi, dovevo iscriverti», tagliò corto Zuril, mettendogli in mano un plico. «Questo invece è il regalo che avevo in mente per te».
Le mani gli tremavano, e Kein faticò ad aprire la busta; osservò i fogli come se non li potesse vedere, e gli ci volle qualche secondo perché le parole che leggeva assumessero per intero tutto il loro significato: «Signore, ma questo... questo è...?»
«Un atto legale», spiegò Zuril. «Ti ho affrancato. Da questo momento in poi non sei più mio schiavo. Sei libero, a tutti gli effetti».
Kein deglutì: libero...
«Sei ancora minorenne, però», continuò Zuril. «Sarò il tuo tutore fino a quando non entrerai nella maggiore età; poi, sarai completamente svincolato da qualsiasi obbligo nei miei confronti».
Un tuffo al cuore: avrebbe dovuto allontanarsi da loro, perdere l’amicizia di Fritz...? «Signore, vuol dire che allora dovrò andarmene?»
«Solo se desidererai farlo. Spero però che non sarà così», vide l’evidente sollievo sul viso di Kein e in uno dei suoi rari momenti di espansività gli batté su una spalla: «Non sono più il tuo padrone: puoi smetterla di chiamarmi “signore”».
Kein sentì girargli la testa. Aprì la bocca, ma le parole gli morirono in gola. Come avrebbe dovuto chiamarlo? Zuril? Non avrebbe potuto mai.
«Va bene… uh… ministro Zuril», articolò.
L’uomo che era stato il suo padrone lo guardò e scosse il capo con aria di compatimento: niente da fare, era incorreggibile.


Quella stessa sera, seduto sul letto, Kein si tolse la visiera e se la rigirò tra le mani, la mente piena di ricordi: grandi occhi scuri, una dolce voce musicale...
L’angoscia gli premette sul petto, ma come ormai accadeva da molto tempo le lacrime non vennero.
Liao, amore mio, sono libero... adesso non dovresti più vergognarti di me.



23 Corso di perfezionamento

L’Accademia Superiore si rivelò da subito un piacevole miglioramento rispetto alla scuola cui Kein era ormai abituato: nessuno tra i ragazzi o gli insegnanti aveva assunto nei suoi confronti l’aria di superiorità che tanti guai gli aveva causato. L’atteggiamento generale era un misto di cameratismo e indifferenza: nessun allievo veniva infatti ammesso all’Accademia se non si era rivelato più che valido, e questo creava una sorta di legame; allo stesso tempo, i ragazzi guardavano agli altri come a futuri possibili rivali, e ciò intiepidiva molto i rapporti. C’era quindi la tendenza a trattarsi con fredda cortesia: i ragazzi non dimenticavano mai di essere la futura elite di Vega. Nonostante la sua provenienza da un mondo sconveniente come Fleed, entrando in quella scuola Kein era stato ammesso nella classe dominante, per cui meritava considerazione.
Anche i rapporti con gli insegnanti si erano fatti molto più formali: abituato a venir maltrattato e deriso, Kein sobbalzò le prime volte in cui sentì un insegnante chiamarlo “signore”. Poi s’accorse che così venivano chiamati anche i suoi compagni, e pian piano cominciò ad abituarsi.
Con suo grande stupore, anche al di fuori della scuola gli veniva mostrato rispetto: il ragazzo che era stato uno schiavo umiliato e deriso ora veniva trattato con il riguardo che meritava un giovane futuro comandante di Vega. Vedere i soldati, quegli stessi soldati che l’avevano terrorizzato per anni, scattare sull’attenti, riempì Kein di una gioia selvaggia; controllatissimo come sempre, il giovane stava ben attento a non mostrare questo suo sentimento che riteneva puerile, e trattava la truppa con distaccata superiorità, quasi avesse voluto mettere un chiaro confine tra sé stesso e loro.
Le lezioni risultarono interessantissime: corsi di strategia e tattica militare, oltre naturalmente a chimica e fisica, perfezionamento di k’rahi e soprattutto ciò che Fritz aveva tanto desiderato, il corso teorico e pratico di volo.
Da subito, il giovane si distinse come il migliore della classe. Figlio di due brillanti scienziati, Fritz pareva nato per pilotare, non esisteva mezzo che lui non riuscisse a comandare con estrema facilità. Suo padre, uomo logico e ragionevole, avrebbe trovato assurdo opporsi alle inclinazioni del figlio; e se ne provò delusione, la tenne per sé.
Meno abile come pilota, Kein continuò ad eccellere invece nel k’rahi, e dimostrò d’avere notevoli attitudini al comando. Gli insegnanti non sembravano nutrire pregiudizi verso di lui, e i primi voti che il giovane poté mostrare a Zuril furono decisamente buoni.


Uno dei maggiori privilegi per gli allievi del corso superiore all’Accademia era la possibilità di incontrare alcuni dei più famosi comandanti di Vega, che venivano invitati a tenere una lezione ai giovani allievi. Ufficiali del calibro di Hydargos, Gorman, Dantus, lo stesso Zuril, addirittura il Comandante Supremo Gandal, si erano resi disponibili per istruire quelle che sarebbero state le nuove leve delle alte gerarchie dell’esercito di Vega. Ognuno di loro aveva tenuto una lezione; alcuni si erano mostrati anche particolarmente disponibili nel rispondere alle domande, come aveva fatto Zuril, altri, Gorman in testa, avevano serbato un atteggiamento decisamente più freddo. La lezione tenuta da Barendos, che aveva illustrato la strategia impiegata per conquistare il pianeta Fleed, era stata per Kein fonte di sofferenza atroce: sentire quella voce ironica descrivere gli assalti a tradimento, l’uso spregiudicato dei prigionieri per piegare la resistenza dei sopravvissuti, la decisione di bombardare a tappeto il pianeta distruggendone ogni forma di vita… no, per Kein tutto questo era stato veramente troppo. Si era sforzato di restare impassibile, ben sapendo che i suoi compagni di corso avrebbero riso della sua sofferenza; accanto a lui, non potendo fare assolutamente nulla per aiutarlo, Fritz l’aveva guardato con un misto di vergogna e dolore. La fine di quella lezione era stato un vero sollievo per entrambi.
Erano ormai gli ultimi giorni del corso, appena prima degli esami, quando venne annunciato un evento che nessuno avrebbe mai ritenuto possibile: il comandante Markus, il famoso eroe di tante battaglie, aveva accettato di tenere una lezione.
L’annuncio portò un notevole scompiglio tra gli allievi; il giorno in cui finalmente si ritrovarono tutti nell’aula, regnava un clima d’eccitazione che non c’era mai stato con nessuno dei precedenti comandanti.
E sì che Markus non è veghiano, si stupì Kein, che come il solito preferiva tenersi i propri dubbi per sé.
Gli bastò vederlo entrare a passo spedito nell’aula, sentirlo cominciare a parlare per capire che Markus era una persona fuori dal comune: alto, asciutto, dai modi spicci, aveva il modo di parlare di chi sa infiammare le folle. Un leader carismatico capace di entusiasmare i suoi uomini… Kein non faticava ad immaginarselo alla testa dei suoi soldati, mentre si lanciava urlando alla carica come avveniva nei tempi antichi.
Riscuotendosi dal suo momentaneo sogno ad occhi aperti, il giovane si concentrò sulla lezione di strategia di Markus: non perse una sillaba, sentì che anche i suoi compagni facevano altrettanto. Quando Markus terminò di parlare, gli parve impossibile che il tempo fosse così volato; poi cominciarono le domande, e il comandante diede a tutte una risposta, piuttosto rapida com’era nel suo stile. Non era certo uomo da perdersi in chiacchiere.
Fu una vera pioggia di richieste: pareva che praticamente tutti gli allievi volessero una spiegazione, un chiarimento, e ci volle parecchio tempo perché Markus potesse accontentare tutti; ad un certo punto il preside tentò di salvare l’ospite da quell’assalto.
«Adesso basta, lasciate in pace il comandante», disse ai ragazzi; ma Markus, pur evidentemente stanco, fece un secco gesto di diniego.
«È per questo che sono venuto qui», disse, brusco. «Hanno il diritto di fare domande, ed è mio dovere rispondere».
Il preside ammutolì e si fece da parte, mentre dai ragazzi si levava un boato misto ad applausi. Markus tagliò corto con gli entusiasmi: uomo schivo, non amava venire acclamato. «Chi è il prossimo?»
Quando finalmente l’ultima domanda venne posta, come era sempre avvenuto ospite e allievi si ritrovarono in sala mensa per un rinfresco.
Attorno a Markus s’era creato un vero capannello di gente: il direttore, gli insegnanti e un nutrito gruppo di allievi gli facevano corona attorno. Non capita certo tutti i giorni di vedere da vicino un autentico eroe!
In disparte, Kein e Fritz sbocconcellarono qualcosa, mentre commentavano entusiasti la lezione; avevano rinunciato ad avvicinarsi a Markus, era impensabile riuscire a superare il muro di gente.
«Fritz, il comandante vuole parlare con te».
Il giovane si girò di scatto: davanti a lui stava una delle insegnanti, e dall’aria stupita che aveva pure lei sembrava incredula di quello che gli aveva appena riferito.
«Con… me?», Fritz era a dir poco trasecolato.
«Spicciati, non far perdere tempo al comandante», e la donna lo sospinse verso il gruppo di persone che circondavano Markus.
Come su comando la gente fece ala, fissando quasi con aria ostile il fortunato mortale convocato da un simile eroe (“Per forza, è il figlio del ministro Zuril…”, ebbe la bontà di osservare qualcuno, a voce non troppo bassa).
Markus fulminò con un’occhiata l’importuno che aveva fatto quel commento, gettò uno sguardo rapido al giovane che aveva davanti e si rivolse al direttore: «C’è un posto in cui possiamo parlare liberamente?»
«Il mio ufficio», rispose subito l’uomo, e poco mancò che non s’inchinasse. «Vi faccio strada».
Mezzo minuto dopo, un Fritz irrigidito sull’attenti si trovò solo al cospetto di un’autentica leggenda vivente.
«Vengo subito al punto», disse Markus, spiccio. «Ho visto dai tuoi voti che sei il pilota migliore del tuo corso».
«Grazie, signore».
«Non ringraziarmi: non ti sto facendo un complimento, sto solo dicendo un dato di fatto».
«Sì, signore».
Markus sbuffò: «Riposo».
Fritz obbedì, anche se non gli era certo facile star rilassato davanti ad un vero eroe.
«Dai dati su di te», continuò Markus, «risulta che non solo sei un pilota molto abile, ma anche che non sei un impulsivo senza cervello. Questo è il difetto di moltissimi giovani: sono audaci, fin troppo. Per quanto abile possa essere un pilota, da morto non serve a nulla».
«Sì, signore», convenne Fritz.
«Ti sto proponendo di venire alle mie dipendenze», continuò Markus. «Bada bene, non lo faccio perché sei figlio di tuo padre: io ho bisogno di piloti che sappiano il fatto loro, non di inutili cocchi di papà».
Fritz impiegò tutto il suo autocontrollo per non sbarrare gli occhi: il grande eroe Markus lo voleva con lui…? Non era possibile…
«Signore, io…», deglutì penosamente.
Lo sguardo azzurro di Markus parve trafiggerlo: «La cosa non t’interessa?»
«No, signore… cioè sì, signore! M’interessa moltissimo! Sono solo stupito, io… io non…»
«Magari preferisci parlarne con tuo padre», continuò Markus, rabbonito. «Aspetterò la tua risposta per la fine del corso. Puoi andare».


«Markus…?», nonostante la sua consueta impassibilità, lo stupore di Zuril era evidente.
«Non riesco ancora a crederci», esclamò Fritz, entusiasta. La scuola era in totale fermento: nessun altro oltre lui aveva ricevuto una simile offerta. Le malelingue si erano subito messe all’opera, naturalmente, ma Fritz era troppo felice per farvi caso. «È l’occasione della mia vita!»
Dall’altra parte dello schermo, Zuril assentì: «Certamente».
«Non ti dispiace che io accetti?», chiese Fritz, un po’ a disagio. Aveva sempre pensato che avrebbe lavorato con suo padre…
Se tu lavorassi con me, non ci sarebbe scampo: prima o poi ti metterebbero su un mostro e ti manderebbero contro quell’assassino di Duke Fleed, si disse Zuril. Nessuno è mai uscito vivo da un combattimento contro di lui; con Markus, saresti da tutt’altra parte della galassia e correresti molti meno pericoli.
«Non mi dispiace affatto», rispose infine, calmo come sempre. «Anzi, sono davvero contento per te. È un’occasione da non perdere».


«Hai deciso cosa farai, quando avrai finito il corso?», chiese Zuril. Mancava ormai molto poco al termine degli esami, ed era venuto alla scuola per trovare i suoi due ragazzi prima che Fritz partisse per raggiungere il comandante Markus.
Kein scosse la testa. Fritz aveva già la sua strada tracciata davanti, altri ragazzi avevano ricevuto offerte, anche se meno allettanti; lui, pur essendo uno dei migliori non era stato contattato da nessuno.
Sei di Fleed, ragazzo. Nessuno ti vuole, guarda in faccia la realtà...
«No», rispose infine. «Ancora non so... non ho deciso...», incrociò lo sguardo di Zuril e non poté tacere più la verità: «Non c’è nessuno che mi abbia offerto nulla, signore. Vedrò da me cosa fare, io...» Gli si spezzò la voce: sapeva di essere migliore di tanti altri, sapeva che se solo avesse potuto dimostrarlo...
«Ti piacerebbe lavorare con me?»
Incredulo, Kein rimase senza parole.
«Potresti essermi d’aiuto», continuò Zuril. «Non aspettarti molto, all’inizio. Ho bisogno di qualcuno di cui possa fidarmi per controllare la sezione tecnica: l’arrivo dei materiali, la puntualità nei tempi di lavoro, eccetera. Pensi che potrebbe interessarti?»
Lavorare con il Ministro delle Scienze... lui! «Io... io...»
L’unico occhio di Zuril scintillò d’umorismo: «Guarda che la mia è una proposta seria».
Kein deglutì: «Signore... cioè, ministro Zuril... Ti ringrazio, io non so che dire...»
«“Accetto” è più che sufficiente».
Finalmente, Kein riuscì a sorridere: «Accetto, allora!»


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24 Ufficiale di Vega

La fine del corso superiore segnò una nuova svolta nella vita di Kein.
Trasferitosi nell’appartamento del suo tutore, il ragazzo prese da subito a lavorare con lui al Centro Scientifico: non desiderava di meglio che rendersi utile, mettere a frutto le conoscenze che aveva acquisito in quegli ultimi anni. Cooperare con Zuril, che lo stimava e che lo trattava con rispetto, era per il giovane uno stimolo anche maggiore.
Fin da subito, Zuril cominciò ad affidare a Kein incarichi d’una certa importanza nell’ambito della costruzione dei mostri di Vega: generalmente, era compito del ragazzo sovrintendere ai lavori dei tecnici, controllare che i materiali venissero consegnati e che i tempi di lavoro venissero rispettati. In quel modo, Kein poteva imparare l’arte di comandare senza i rischi in cui sarebbe incorso se si fosse trovato a capo di una squadriglia di minidischi, che era di norma uno dei primi incarichi affidati ad un giovane ufficiale.
Zuril, uomo abituato a lavorare con gran cura, aveva trovato in Kein un aiuto attento e scrupoloso; lo scienziato aveva preso così ad affidare al ragazzo incarichi di sempre maggior responsabilità, lieto di avere maggior tempo da dedicare alla progettazione, che da sempre era il suo campo preferito. Quanto a Kein, non gli pareva vero di potersi rendere utile a Zuril: almeno, in quel modo avrebbe potuto estinguere in parte il debito di gratitudine che provava per il suo tutore.
Fu in quel periodo in cui cominciarono le ostilità con il pianeta Terra. Dalla base Skarmoon, Hydargos aveva fatto sapere che Duke Fleed era ancora vivo e che proprio su quel mondo azzurro aveva trovato rifugio: le armate di Vega avrebbero dovuto vedersela con il suo letale robot, Goldrake. Era stata una notizia sgradita, ma fino ad un certo punto: popolo di guerrieri, i veghiani amavano lottare, conquistare, vincere.
Stranamente, il fatto che Vega fosse in guerra contro Goldrake non diede troppi problemi a Kein: dentro di sé il ragazzo aveva dato un taglio netto con il passato, cui cercava di non pensare mai… altrimenti, non avrebbe più potuto provare ammirazione per Zuril, affetto per Fritz. Per lui, Duke Fleed non era il principe del suo pianeta: era un vigliacco che era scappato con l’unica arma capace di difendere Fleed. Era un nemico. I terrestri non erano un popolo innocente che stava per subire la furia devastatrice di Vega: i terrestri erano... no, Kein non voleva pensare ai terrestri.
La guerra contro la Terra era iniziata da un certo tempo quando Kein, del tutto casualmente, venne a sapere che il comandante Mineo era deceduta.
Fu un discorso che aveva sentito per caso tra i soldati, che stavano facendo i nomi di coloro che avevano perso la vita contro quel macellaio di Duke Fleed; Kein si trattenne dal trasalire alla notizia, e si sforzò di non chiedere. Mai avrebbe voluto mostrare la sua angoscia a quei mostri.
Mineo era morta. Una delle poche persone che l’avessero trattato con considerazione e rispetto... non c’era più.
Poco dopo, nel chiuso della propria camera, Kein consultò febbrilmente il terminale del computer per avere notizie.
Dovette rileggere due volte il testo, mentre vedeva le righe ballargli davanti agli occhi.
Il tutto risaliva a mesi prima. Inviata contro Goldrake... missione fallita... tentativo di fuga (non era una vera veghiana, faceva intuire l’articolo che stava leggendo, una veghiana non sarebbe scappata)... colpita alle spalle da Goldrake mentre cercava di mettersi in salvo.
Morta. Colpita vilmente alla schiena mentre non poteva difendersi...
Batté il pugno sul tavolo. Solo un vigliacco avrebbe potuto fare una cosa simile!
Mentre respirava affannosamente nel tentativo di calmarsi, Kein rifletté febbrilmente.
Duke Fleed aveva ucciso Mineo a tradimento. Non c’erano altre parole per definire quanto era accaduto.
Ma Duke Fleed era anche lo stesso uomo che era scappato con Goldrake invece di difendere il suo pianeta. Se mai aveva avuto dubbi sulla sua codardia, bene: adesso aveva solo certezze.
In quel momento, Kein avrebbe potuto chiedersi se le cose fossero andate davvero così, se quell’articolo avesse raccontato fedelmente quel che era accaduto: non lo fece.
Odiare Duke Fleed era infinitamente più semplice che farsi domande, spostare su di lui tutto il suo rancore era molto più facile che riflettere, tentar di capire, mettersi in discussione.
Duke Fleed non solo era un traditore: era stato anche talmente vigliacco da colpire alle spalle una donna inerme... una donna che andava ad aggiungersi alla lunghissima lista di coloro che erano morti per mano sua.
Che razza di uomo sei diventato, Duke Fleed? Pensare che da bambino ti ammiravo...!
Kein scosse il capo, spegnendo rabbiosamente il computer.
Duke Fleed era stato ospitato dalla gente della Terra... un popolo che accoglieva un simile assassino e lo considerava un eroe, non valeva nulla.
Zuril diceva che sterminare i terrestri era un atto sgradevole ma necessario; bene, probabilmente aveva ragione.
In fondo, non erano altro che umani.


Nei tempi successivi, Kein lavorò ancora più alacremente con Zuril; qualsiasi scrupolo avesse avuto verso i terrestri, era scomparso.
Kein non si faceva problemi: o meglio, non voleva farsene.
Relegava la propria coscienza nell’angolo remoto in cui l’aveva ingabbiata, eseguiva i suoi compiti ansioso di compiacere il suo tutore, avido di una lode, uno sguardo d’approvazione. La sera beveva le sue gocce, senza le quali il suo sonno sarebbe stato tormentato dagli incubi più spaventosi, e la mattina si rialzava, pronto a svolgere come ogni giorno le sue mansioni di uomo di Vega.
Era diventato chiuso, taciturno: a parte Zuril e Fritz, gli altri avevano ben poca parte nella sua vita. I veghiani lo ignoravano quanto era loro possibile, e lui li ripagava della stessa moneta. In particolare, sapeva essere sgradevole con i soldati: non aveva mai potuto dimenticare cosa alcuni di loro gli avevano fatto, e li trattava tutti con durezza e sprezzo. Si diceva che dietro quei loro cappucci verdi potevano nascondersi gli stessi mostri che avevano massacrato la sua famiglia e dava il peggio di sé stesso, divenendo crudele e arrogante.
Zuril non mancò di rimproverarlo: «Questo atteggiamento è controproducente, Kein».
«Ma sono solo...», fece una smorfia colma di disprezzo, «...soldati».
«Appunto», l’unico occhio di Zuril parve trafiggerlo. «I soldati vivono per te. Si battono per te. Muoiono per te. Il minimo che puoi fare per loro è trattarli come persone, non come animali».
«So come si comportano», si ostinò Kein, il viso di pietra. «Li tratto come meritano».
Zuril scosse la testa: «Finché non cambierai le tue maniere, loro non ti stimeranno; e se non ti stimeranno, non sarai mai un buon comandante».
In quello stesso periodo, Kein venne a conoscenza di quello che era stato il destino di Bradios. Dopo quel famoso giorno in cui l’aveva sconfitto davanti a tutti, Kein l’aveva cancellato dalla sua mente, come aveva fatto per tutti i suoi compagni di scuola, e avrebbe continuato a farlo se Zuril non gli avesse chiesto un curriculum del comandante Barendos, e in cui si parlava ovviamente anche del suo unico figlio.
Scorse in fretta le righe che lo riguardavamo: in coma in seguito alle ferite riportate in un combattimento di k’rahi… stato vegetativo… dopo il periodo previsto dalla legge, gli erano stati tolti i supporti vitali e i suoi tessuti erano stati impiegati a scopi scientifici, su autorizzazione del padre.
Kein rilesse lentamente ogni cosa: non sentiva pietà, non sentiva rammarico, non provava orrore. Bradios era morto, lui era la causa della sua fine; ma lui, lui non provava assolutamente nulla.


Ruby un tempo era stato un mondo fertile e verde, ricchissimo di minerali preziosi: proprio quest’ultima caratteristica ne aveva segnato la sorte. Vega ne aveva fatto la propria miniera, la fonte principale di materia prima cui attingere a piene mani. L’intero mondo era in pratica divenuto un’enorme campo di lavoro, il ricchissimo sottosuolo veniva sfruttato senza scrupoli. Là erano inviati gli schiavi più robusti, destinati a scavare e raccogliere i minerali che sarebbero serviti per costruire armi, astronavi, l’intera dotazione bellica dell’esercito di Vega.
Varie volte Zuril si era recato di persona sul pianeta per verificare la qualità delle materie prime che venivano inviate ai suoi laboratori. Non poteva sintetizzare il gren, la robustissima lega metallica il cui segreto era scomparso assieme agli ultimi scienziati di Fleed, ma poteva sempre contare su altri materiali: lo shulkon, ad esempio, la lega metallica con cui fino a non molto tempo prima erano stati costruiti i mostri da combattimento… o, meglio ancora, la sua stessa scoperta, l’akton, costoso perfezionamento dello shulkon, resistentissimo ed elastico, anche se purtroppo non paragonabile al gren.
Kein cominciò ad accompagnare Zuril anche su Ruby.
«La scelta delle materie prime è d’importanza vitale. Quando puoi, verifica sempre di persona ciò che ti preme maggiormente», gli disse un giorno il ministro.
«Non ti fidi dei tuoi aiutanti?», chiese Kein.
Zuril lo guardò fisso un istante, prima di rispondere: «Di alcuni. Di altri, proprio per nulla… ma non glielo vado certo a dire». Vide Kein chinare il capo ed aggiunse: «Non ti avrei raccontato questo se non avessi fiducia in te, Kein».
Raggiante, il ragazzo l’aveva gratificato con il più luminoso dei suoi sorrisi.
Fu durante uno di questi controlli che Kein ebbe modo di conoscere il suo tutore da un differente punto di vista.
Avevano appena finito di verificare la qualità dei metalli che erano venuti a prendere per costruire un nuovo mostro con cui affrontare Goldrake; i materiali erano stati caricati sull’astronave che li avrebbe riportati su Vega, quando nell’hangar era giunta la principessa Rubina in persona, venuta a prendere la propria navetta per recarsi a conferire con il proprio imperiale genitore.
I soldati presenti si erano disposti su due file, irrigiditi sull’attenti, facendo ala alla principessa che incedeva splendida e leggera come una creatura fiabesca, irreale. Attonito, Kein la fissò riconoscendo in quel pallido viso di giovane donna la bellissima adolescente che aveva incontrato un’infinità di tempo prima... una vita precedente... su Fleed.
«Ma è la... la principessa Rubina...?», mormorò, incredulo.
«Proprio lei», qualcosa nella voce di Zuril lo costrinse a voltarsi verso di lui.
Mai aveva visto il freddo, controllatissimo Ministro delle Scienze fissare così una donna: sembrava del tutto incapace di staccare lo sguardo dalla principessa. Quanto a lei, appariva così immersa nei suoi pensieri da non far minimamente caso a quanto stava accadendo.
Rubina passò accanto a Zuril, del tutto ignara della tempesta di cui era la causa involontaria, e lo salutò con cortesia; lui rispose con il rispetto che l’altissimo rango di lei gli imponeva, e solo Kein percepì l’emozione che vibrava nella voce perfettamente controllata del suo tutore. Lei passò avanti, lo splendido viso di marmo, gli occhi incupiti persi nel vuoto, la mente chissà dove (com’era diversa dalla fanciulla animata e felice che Kein ricordava!); Zuril restò in piedi, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso sulla figurina sottile di lei, e così rimase finché Rubina non fu scomparsa dalla sua vista.
Lo scienziato parve riscuotersi, tornare in sé stesso. Kein abbassò la testa per fingere di non aver visto, non essersi accorto di nulla, ma incrociò lo sguardo di Zuril.
Desiderio folle, disperazione e un enorme senso di colpa, di vergogna... il giovane si sentì soffocare, ma non poté far finta di nulla. Il suo tutore doveva aver capito di essere stato scoperto.
Per un attimo, pensò che si sarebbe infuriato; invece Zuril sostenne il suo sguardo tornando immediatamente l’uomo impassibile che Kein conosceva così bene. Il cambiamento avvenne talmente in fretta, che il giovane arrivò persino a dubitare di quel che aveva visto, e si chinò rapidamente sul suo lavoro, sentendosi le guance in fiamme e il cuore che gli pulsava contro le costole.
Zuril voleva Rubina, era evidente; altrettanto evidente era il fatto che sapesse benissimo come lei, principessa imperiale ed erede al trono di Vega, fosse totalmente al di fuori dalla sua portata.
Kein alzò timidamente la testa e sogguardò Zuril che lavorava accanto a lui, chino sul monitor del suo computer: appariva serio, teso, completamente concentrato nel suo lavoro.
C’era però in lui qualcosa... qualcosa di diverso, di infinitamente... triste...? Possibile...?
Kein si sentì mancare il fiato. Ripensò al fatto che Zuril fosse ormai vedovo e solo da tantissimo tempo, che ancora tenesse nella sua camera i ritratti della moglie perduta, di cui non voleva mai parlare; poi rivide l’espressione con cui pochi minuti prima aveva guardato la principessa e improvvisamente capì che anche il gelido, logico Ministro delle Scienze non era altro che un uomo.


Non era mai riuscito a dimenticarla.
Conosceva Rubina da anni, da quando era stata inviata, adolescente, su Fleed per incontrare il giovane erede al trono, Duke. Il suo promesso sposo.
Era solo una ragazzina, all’epoca; Zuril l’aveva sinceramente ammirata, aveva invidiato il principe di Fleed e poi si era tuffato nel suo lavoro, deciso a spegnere la sua passione sotto un cumulo di progetti ed impegni.
Il lavoro l’aveva completamente assorbito, e lui aveva pensato d’aver cancellato completamente quella sua follia: uomo logico e razionale, l’irrazionalità dei sentimenti lo sconcertava ed irritava al tempo stesso.
Per anni, s’era illuso d’essersi completamente liberato di Rubina.
Ora, ritrovarsela inaspettatamente davanti, sentire la sua voce, rivedere quegli occhi così azzurri era stato a dir poco sconvolgente: s’era sentito totalmente inerme, davanti a lei. Una sensazione detestabile, per un uomo come lui, abituato al perfetto dominio di sé stesso.
Zuril rientrò nel proprio alloggio, chiudendovisi dentro e dando l’ordine di non venir disturbato; non pensò nemmeno ad ordinarsi la cena – mangiare era proprio l’ultima delle sue priorità, in quel momento – e si precipitò nell’olocamera. Un istante dopo si ritrovò immerso in una liquida luce azzurrina, mentre decine di pesci argentei nuotavano attorno a lui. Una musica lenta, un po’ ovattata, cominciò a scorrergli lentamente addosso; ma Zuril non riuscì a rilassarsi, quella calma che tante volte gli era stata suscitata da quelle immagini, quel giorno non venne.
Non riusciva a togliersi Rubina dalla mente.
Erano anni che non la vedeva: era divenuta una bellissima giovane donna, ormai.
È una principessa, si disse. Tu non sei nobile, non sei nessuno. Sei uno scienziato, un ministro, ma non hai una grande famiglia alle spalle.
Tentò di concentrarsi sui pesci, ma l’acqua azzurra non faceva che riportargli alla mente due occhi ancora più azzurri.
Devo ricordarti che lei è meravigliosa, mentre tu sei un cyborg monocolo?
Provò a normalizzare il respiro: gli riusciva sempre, controllare il fiato lo rilassava regolarmente… tranne quella volta.
È giovanissima. Potrebbe essere tua figlia, aggiunse, impietoso.
Doveva avere un anno o due più di Fritz… possibile che lui, il logico ministro Zuril, non potesse dominare quei pensieri assurdi? Lui per primo sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare, mai… anche solo pensare a Rubina era un’assurdità.
Spense rabbiosamente il proiettore olografico: i pesci scomparvero, la musica tacque.
Era sicuro che nemmeno la visione del suo acquario avrebbe potuto calmarlo.
Rimase seduto nell’oscurità, intento a cercar di riprendere il dominio su sé stesso.
Odiava sentirsi tanto indifeso, tanto vulnerabile. Perché Rubina aveva un simile potere, su di lui? Cos’aveva fatto, per meritarsi di soffrire così?
Ricorse all’ultima difesa che gli restava: evocò il volto amatissimo di sua moglie. Ne rivide gli occhi, scuri e luminosi, il sorriso dolce, risentì la sua voce musicale, e provò come sempre uno spasmo di dolore, là, in mezzo al petto.
Un istante dopo, con orrore s’accorse che quei lineamenti che tanto aveva amato sembravano svanire, mentre ne apparivano altri… più giovani, più belli… più nitidi.
Emise un gemito strozzato e si coprì il viso con le mani. Nemmeno il ricordo di sua moglie poteva aiutarlo. La stava dimenticando? Possibile?
La vergogna lo sopraffece.
Amore mio, perdonami. Sono rimasto solo per troppo, troppo tempo.


Kein spense il comunicatore.
Aveva tentato di mettersi in contatto con Zuril, e aveva scoperto che il ministro aveva chiuso qualsiasi comunicazione. Non era possibile raggiungerlo.
Non era mai successo, prima. Zuril era sempre reperibile.
Ripensò a quanto aveva visto quel giorno, e trovò la sua risposta.
Non ci voleva una gran fantasia per immaginare quanto Zuril stesse soffrendo… lui poteva capirlo perfettamente.


Per quanto fosse piccolo, era il suo alloggio personale.
Era un ufficiale di Vega, ed era divenuto maggiorenne: basta con le camerate, basta con la convivenza forzata con il suo ex padrone – per quanto, Kein non si fosse mai trovato male con Zuril. Ma ormai era adulto, e aveva diritto ad un quartierino tutto suo.
Allungatosi sul suo letto, Kein si guardò in giro: una stanza minuscola, almeno secondo il metro di Fleed. Metallo, plastica, vetro; tutto molto anonimo. Ma suo.
Sentì il cicalino del suo comunicatore. Zuril.
«Ho bisogno di parlarti, Kein. Sono qui fuori. Posso entrare?»
Il ragazzo aprì subito la porta: dal tono di Zuril, doveva trattarsi di qualcosa di urgente e poco piacevole.
Gli bastò guardare in viso il ministro per capire d’aver indovinato. «Che cos’è successo?»
«Hydargos è morto, in uno scontro con Goldrake. Anche Gandal è stato ferito».
«Se la caverà?»
Zuril assentì. «Sono ustioni gravi, ma curabili». Prese fiato, guardò Kein dritto negli occhi: «Sua Maestà mi ha appena ordinato di andare su Skarmoon, ad affiancare Gandal. Te la senti di venire con me?»
«A combattere contro Goldrake? Certo!», Mineo, potrò vendicarti!
«Nemmeno per sogno», gli tarpò le ali Zuril. «Tu non ti farai ammazzare da quel macellaio!»
«Ma io…»
«Tu pensi d’essere in gamba, vero?», Zuril sedette, guardandolo di sotto in su. «Anche Hydargos lo era, e molto. Un ottimo pilota. Non è bastato».
Kein strinse i pugni: «Non hai fiducia in me!»
«Ne ho, e molta» rispose Zuril, calmissimo. «Ti considero un elemento troppo importante, per essere sacrificato contro Duke Fleed. Io ho bisogno di te, Kein; però non voglio che tu corra rischi. Se accetti di venire con me su Skarmoon, sarai il mio aiuto più prezioso; ma non combatterai in prima linea, questo lo escludo da subito».
Kein si voltò da un lato; quando parlò, aveva il viso in ombra, cosicché Zuril non poté scorgere la sua impressione: «Non ti fidi perché sono un fleediano come Duke».
Zuril rispose scegliendo con gran cura le parole: «Non posso dirti di non aver pensato a questo… ma no, io sono sicuro che combatteresti ugualmente con tutto te stesso».
«E allora…!»
Maledizione, Kein! Non voglio perderti! Non lo capisci? «Duke Fleed è un combattente molto esperto. Non avresti possibilità, contro di lui. La faccenda è fuori questione. Se vuoi venire con me, sarai il mio braccio destro; ma niente combattimenti in prima persona. Spero sia chiaro».
Un attimo di tensione. «Va bene, ministro Zuril. Verrò con te».
«Grazie», Zuril s’alzò, andò alla porta per uscire, ma Kein lo fermò sulla soglia.
«Un momento… se Hydargos è morto, che ne è stato di Naida?»
Zuril trattenne il fiato, mentre la rivedeva crollare urlando a terra, dibattersi nel suo stesso sangue mentre perdeva il suo unico figlio… un episodio della sua vita di cui non andava fiero, e di cui il ragazzo non sapeva nulla. In quel periodo lui, Zuril, era andato con Sua Maestà su Skarmoon, e aveva lasciato Kein da solo ad occuparsi dei lavori nella Sezione Scientifica; gli era stato ordinato di condizionare la mente di Naida, e aveva obbedito. Peccato che le cose non fossero andate come previsto...
«Ministro Zuril...?», lo richiamò Kein.
Prese fiato: «È morta».
Kein sbarrò gli occhi: «Anche lei? Come…?»
«Re Vega ha voluto inviarla contro Duke Fleed, perché l’uccidesse», mormorò. «Ha fallito».
«L’ha uccisa lui?», esclamò Kein, rabbioso.
Non era quel che Zuril aveva voluto dirgli… per un istante, fu sul punto di lasciarglielo credere, sarebbe stato più conveniente. Ma non gli aveva mentito mai prima d’allora, e non l’avrebbe fatto ora. «No. Era stata condizionata mentalmente; se ne è liberata, e si è scagliata con la sua nave contro il nostro mostro».
Naida morta per Duke Fleed… ne era stata innamorata, chissà cos’aveva provato ritrovandolo diventato un assassino sanguinario. Per forza che s’era uccisa…
«Io sarò con te, ministro Zuril», rispose Kein, con voce sorda. «Farò di tutto per aiutarti contro quell’assassino. Spero che riusciremo ad ucciderlo. Spero che potremo vendicare Naida e Mineo!»

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Fratello di Trinità e Bambino

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25 - La base sottomarina

La catastrofe di Vega giunse assolutamente inaspettata, come tutti i disastri annunciati.
Inquinato al massimo, roso dalle radiazioni, destabilizzato oltre ogni limite, il mondo collassò su sé stesso. Dapprima cominciarono le esplosioni su uno dei satelliti, su cui erano state stoccate quantità enormi di scorie nucleari; poi, come infettato da uno spaventoso morbo, Vega stesso cominciò la sua agonia. Le esplosioni iniziarono a devastare la zona disabitata ai poli, dove altre quantità enormi di scorie erano state riposte. Il Ministro della Difesa Dantus, che aveva previsto il disastro ma non aveva osato insistere troppo con Sua Maestà, fino ad allora sordo a qualsiasi allarme, dovette suggerire al sire di lasciare il mondo che aveva ereditato dai suoi padri, il mondo su cui era nato e cresciuto: stavolta il sovrano ascoltò il suo consigliere, e fuggì con la sua astronave, abbandonando al loro destino milioni di civili inermi.
Dalla base Skarmoon, Zuril e Gandal non poterono far altro che ascoltare agghiacciati la notizia: il pianeta Vega presto non sarebbe esistito più. L’intera popolazione civile era stata uccisa dalle radiazioni.
Zuril, che per anni aveva tentato inutilmente di far ragionare Sua Maestà annunciando la catastrofe, sentì un’improvvisa stanchezza coglierlo: ormai non poteva più nemmeno provare ira, rancore per non essere stato ascoltato, dolore per la popolazione sterminata. A dire la verità, in quel momento non riusciva a sentire proprio niente.
Avevo ragione, naturalmente, si disse, massaggiandosi le tempie. Per una volta tanto, mi sarebbe piaciuto essermi sbagliato.
L’esplosione di Vega si ripercosse naturalmente fin nelle ultime propaggini dell’impero: mentre alcuni pianeti si schierarono apertamente con il sovrano, dichiarandogli la loro imperitura fedeltà, su molti altri cominciò un moto più o meno sotterraneo di rivolta, a partire dai mondi le cui popolazioni erano state maggiormente oppresse. I primi focolai esplosero su pianeti come Ruby, ridotto ad una sorta di campo di lavoro per schiavi deportati, o su Galar, importantissimo mondo minerario la cui popolazione era sempre stata ostile all’invasione di Vega. Non per nulla, in quel sistema stazionava perennemente un comandante abile come Markus.
Zuul, come molti altri pianeti considerati di scarsa importanza, non venne toccato dalle rivolte: la popolazione viveva libera e felice, il pianeta godeva di una discreta autonomia ed era governato con intelligenza: se l’impero di Vega si fosse ridotto in nulla, possibilità che si faceva sempre più concreta, sarebbe stato uno dei pianeti che avrebbero sofferto di meno del cambiamento. Nonostante la stanchezza che l’opprimeva, Zuril provò un brivido d’orgoglio al solo pensarci.
La guerra contro la Terra continuava ormai da troppo tempo: non fosse stato per la necessità di procurare un pianeta abitabile per i superstiti della sua gente, Re Vega avrebbe da tempo dato l’ordine di bombardare a tappeto quel mondo, distruggendovi ogni forma di vita.
Pareva impossibile che Goldrake, supportato solo dai primitivi mezzi terrestri, fosse in grado di tener testa alle pur decimate forze di Vega, ma così era. Sconfitte s’aggiungevano a sconfitte, e ogni volta Zuril era costretto a ricominciare pazientemente da capo e studiare una nuova strategia con cui affrontare il suo nemico. Intanto, Re Vega sbottava, dichiarando che al prossimo fallimento l’avrebbe fatto sostituire da qualcun altro; ma la minaccia non veniva mai concretizzata. Sua Maestà sapeva bene che era proprio Zuril il più geniale e preparato tra i suoi scienziati: se non fosse riuscito lui a battere il nemico, nessun altro ce l’avrebbe fatta. Persino Dantus, che aveva provato a sua volta a sconfiggere Goldrake grazie ad un mostro di sua creazione, il colossale King Gori, aveva perso ed era eroicamente caduto sul campo... o almeno, questa era la versione ufficiale che era stata data a Sua Maestà.
Restava solo Zuril, quindi; e il ministro, uomo capace di apprendere dai propri errori, continuava a studiare il suo avversario, cercando il modo migliore per sconfiggerlo.
Dall’altra parte della galassia, al seguito di Markus, Fritz era impegnatissimo; questo però non gl’impediva di comunicare frequentemente con Zuril e Kein, di cui sentiva la mancanza. Alle volte provava una punta di gelosia verso il fratellastro, che poteva lavorare con il padre; poi la sua natura generosa prendeva il sopravvento e Fritz si scrollava di dosso i pensieri negativi. Non era nella sua natura portare rancore, ed era sinceramente affezionato a Kein.
Quel che però l’infastidiva – lo faceva star male, in realtà – era il fatto che suo padre gli impedisse di prendersi un periodo di licenza, cui avrebbe avuto diritto, per raggiungerli su Skarmoon. Possibile che non comprendesse il suo desiderio di rivedere la sua famiglia? Ma Zuril era sempre categorico: mai, e per nessun motivo, Fritz avrebbe dovuto avvicinarsi alla base lunare.
Mi spiace, ma finché resterai lontano di qui non correrai il pericolo di venir inviato contro Goldrake, si disse Zuril chiudendo la comunicazione con il figlio cui aveva negato ancora una volta il permesso di venire su Skarmoon.
Non aveva potuto mettere al sicuro anche Kein: ma almeno, Fritz sarebbe rimasto fuori da quella guerra folle.
In tutto quel tempo, Kein aveva lavorato senza risparmiarsi: il suo compito principale era quello di controllare la sezione tecnica, fare la voce grossa quando i tempi di costruzione si dilatavano ed accertarsi che i tecnici potessero disporre di tutto il materiale necessario. Il suo lavoro gli piaceva abbastanza, ma fremeva dal desiderio di avere un incarico di maggior responsabilità. Se solo avesse potuto condurre lui un attacco contro Goldrake! Ma Zuril si mostrava irremovibile.
«È un assassino spietato, Kein», diceva. «Sono stati battuti guerrieri molto più esperti di te: Hydargos, Gorman, persino Gauss… per non parlare di Dantus», e qui la sua voce aveva avuto un’inflessione strana che Kein non era riuscito a decifrare. «Sei un ragazzo in gamba, ma contro di lui non hai possibilità».
«Non farò mai esperienza se non provo a combattere!», obiettava Kein, cocciuto.
«Non te la faresti nemmeno finendo ammazzato da quel macellaio», tagliava corto Zuril; e a Kein non restava altro che sospirare e cedere. Ma prima o poi avrebbe avuto il suo momento…
Quel momento parve arrivare quando Zuril fece costruire la base sottomarina: nel mare, Goldrake risultava molto svantaggiato. Solo laggiù si sarebbe potuto affrontarlo con buone garanzie di successo.
Come sempre, fu Kein a supervisionare la realizzazione della base; da là, Zuril, affiancato dal comandante Gandal, cominciò a preparare la trappola che avrebbe causato la caduta di Duke Fleed.
Dapprima, le cose andarono nel migliore dei modi: uno sciame di palloni, ciascuno che portava una bomba, venne sganciato e fatto dirigere sul laboratorio di Procton, nel tentativo di stanare Duke Fleed e i suoi collaboratori.
La situazione ebbe poi uno sviluppo insperato: Alcor aveva impulsivamente tentato di reagire attaccando a sua volta, ed era stato catturato. A quel punto, Zuril aveva contattato Duke Fleed per proporgli uno scambio: avrebbe accettato di consegnarsi in cambio del suo amico? In caso contrario, Alcor sarebbe stato giustiziato.
Zuril si sentiva al sicuro, ormai: la base sottomarina era a più di mille metri di profondità, e Goldrake non poteva scendere oltre i quattrocento senza perdere la sua potenza distruttiva. Questa volta, ne erano stati tutti più che certi, Duke Fleed era spacciato.


Veder arrivare Goldrake a bordo d’un mezzo sottomarino nuovo fiammante fu la peggiore delle sorprese; a Zuril bastò scorgere quell’inaspettato nemico per comprendere subito che la base era perduta.
Diede rapidamente ordine di attaccare: quella volta aveva a disposizione ben due mostri, ma qualcosa gli stava dicendo che non sarebbero bastati.
«Pensi che i due mostri ce la faranno?», chiese Gandal, che sembrava condividere il suo pessimismo.
Zuril scosse lievemente il capo: «Non potevo sapere che Procton avesse costruito un nuovo mezzo sottomarino…»
«Ma sono sempre due contro uno!»
Zuril scosse ancora il capo. Avevano perso, e lo sapeva bene.
In quel momento, Goldrake sparò un colpo contro il mostro a forma di paguro, scaraventandolo decine di metri più in là. Come prevedibile, il nuovo mezzo stava rivelandosi temibile.
«È solo questione di tempo», mormorò Zuril.
Aveva perso, aveva perso…! Il suo piano, elaborato con la massima cura, era fallito! Trascinare Goldrake sott’acqua sarebbe stata una mossa vincente, se… se…
Invece di provare collera, sentì un’ondata di fatalismo invaderlo. Era stato sconfitto troppe, troppe volte… e stavolta, da un qualcosa di assolutamente imprevisto e imprevedibile.
Forse era vero che Goldrake era invincibile…?
«Dobbiamo andarcene di qui!», gridò Gandal.
Zuril rimase impassibile: «Vattene tu! Io non mi muovo».
«Cosa ti prende? Non sai riconoscere una sconfitta neanche quando ce l’hai sotto al naso?»
«Questa è la mia base», rispose seccamente Zuril.
«Ma certo!», Gandal si fece sarcastico. «Casomai non te ne fossi accorto, la tua base sta per essere completamente distrutta!»
Zuril indurì il volto, assumendo un’aria caparbia: «Non me ne vado. Intendo restare sulla Terra e continuare a combattere da qui».
«Sei pazzo! Sarà la tua fine!»
Zuril si voltò di scatto, fronteggiandolo; quando parlò, lo fece in tono offensivo: «Se anche fosse, comandante Gandal, non sarete certo voi a versar lacrime».
«No, infatti», ringhiò Gandal, passando lui pure a quel modo di parlare formale che suonava straordinariamente oltraggioso. «Non ho mai conosciuto un uomo più orgoglioso e ostinato di voi».
«Allora non vi conoscete affatto, comandante».
«Maledizione, Zuril…!»
«Non volevate andarvene? State perdendo tempo».
«Infatti. Non vale la pena discutere con voi». Gandal fece per andarsene, ma s’arrestò sul limitare della porta per un’ultima frecciata: «Siete un uomo morto».
«Questo vi dispiace molto, non è vero?»
Gandal sapeva che Zuril, con la sua lingua tagliente, non gli avrebbe mai lasciato l’ultima parola; sapeva anche di dover affrettarsi a salire sulla propria nave per andarsene da quegli abissi marini che s’erano rivelati una trappola mortale… con un’ultima smorfia di sprezzo verso l’ostinato collega, Gandal se ne andò, lasciandolo solo ad affrontare Goldrake.
Freddo ed efficiente come sua abitudine, Zuril ordinò l’evacuazione immediata della base: dal suo monitor, controllò le navi che s’allontanavano, badando che tutti i suoi uomini si mettessero in salvo. Non se ne sarebbe andato finché non fosse partita l’ultima nave, e solo allora…
«Andiamo», disse alle sue spalle una voce.
Zuril si voltò: Kein.
«Sono partiti tutti», continuò il ragazzo. «Andiamocene».
Ha paura che voglia morire con la mia base, comprese Zuril, che in effetti quel pensiero l’aveva avuto.
Si riscosse: non era ancora sconfitto. Avrebbe potuto tentare di nuovo, e questa volta avrebbe vinto il suo nemico. Si sarebbe salvato e avrebbe riacquistato il suo onore sconfiggendo Goldrake una volta per sempre.
Non perse tempo a gettar sguardi malinconici d’addio alla sua base, e seguì Kein fuori della sala comando. Dovevano raggiungere il piano superiore dov’era l’hangar, e naturalmente non avrebbero potuto usare gli ascensori: non col rischio che mancasse la corrente mentre erano chiusi là dentro.
Ebbe un fuggevole pensiero per Alcor, prigioniero nelle viscere della base: sarebbe stato un prigioniero utile, ma non avrebbero fatto in tempo ad andare a prenderlo senza rischiare seriamente di morire. Senza contare che, se niente niente conosceva Duke Fleed, era proprio là che si sarebbe diretto, per salvare il suo amico.
Affogato o liberato, Alcor restava comunque fuori della loro portata.
Un boato scosse la base fin nelle fondamenta: Goldrake doveva essere riuscito a perforare le paratie per entrare.
Dovevano far presto.
Cominciarono a salire le rampe – mancavano due piani. Un rombo lontano cominciò a farsi sentire sempre più forte, man mano che salivano… ancora un piano…
«Cos’è?», ansimò Kein. Più basso di statura, faticava a tener dietro al compagno.
«Corri!», Zuril accelerò l’andatura.
«Non… posso…»
«Sì che puoi! Corri!»
Il rombo era sempre più forte… no, sembrava uno scroscio… Acqua.
L’acqua stava invadendo la base.
Kein si sforzò d’ignorare il terrore che cercava di raggelarlo, continuò a correre dietro a Zuril, mentre una nuova serie di scosse, meno forti delle precedenti ma regolari e continue, scuotevano la base fin nelle fondamenta. Goldrake stava continuando diligentemente la sua opera di distruzione.
Mancava un solo piano, ma Kein sentiva ormai le gambe farsi pesanti, pesanti, mentre un dolore acuto gli trapassava il fianco… poi una stilla d’acqua scintillò giù dal soffitto, sgocciolando sulla rampa. Un’altra. Un’altra ancora. Un rivoletto continuo.
Salirono e salirono, mentre un vero e proprio ruscello d’acqua cominciava a scrosciare giù dalla rampa… un ruscello d’acqua che pareva ingrossarsi ad ogni istante che passava…
«Presto!», con un ultimo sforzo, Zuril trascinò Kein su per la rampa, giungendo finalmente nel vasto, deserto hangar. Una sola navetta era là, in attesa; dalla parte opposta a loro, attraverso una crepa nella cupola scrosciava una cascata d’acqua. Presto, molto presto la cupola avrebbe ceduto del tutto.
Una nuova scossa, ancora più violenta; Kein sentì uno schianto sopra di sé, ma prima che avesse potuto anche solo alzare la testa per guardare venne afferrato e gettato da parte, mentre un corpo si frapponeva tra lui e la parete che stava crollando.
Stupefatto, guardò le macerie franate esattamente dove s’era trovato un istante prima; poi guardò Zuril, che gli aveva fatto scudo con sé stesso.
Una trave metallica gli era piombata addosso, inchiodandolo al pavimento. Il ragazzo corse subito a sollevarla; Zuril gemette, mordendosi le labbra per non urlare. Con orrore, Kein vide allargarsi sulla tunica del suo tutore una macchia rossa, vide sgocciolare il sangue sul pavimento…
Zuril si sforzò di prendere fiato, ma il dolore al torace era spaventoso. Per un attimo, pensò d’essersi spezzato la schiena; s’impose di stare calmo e provò cautamente a muovere le gambe, prima l’una e poi l’altra…
Rispondevano. Non era paralizzato.
Tentò ancora un respiro più profondo: il dolore esplose in lui. Non ce l’avrebbe mai fatta a rialzarsi…
«Va’ via, Kein», rantolò.
«Certo», il ragazzo lo liberò dagli altri detriti «Ma tu vieni con me».
«Non… posso…», un nuovo spasmo di dolore. Zuril strinse i denti. «Vattene… ti prego…»
«Non ti lascio», il tono di Kein non ammetteva repliche. Il ragazzo afferrò Zuril sotto le braccia, nel tentativo di rialzarlo; ma gli fu subito evidente che non ce l’avrebbe mai fatta, da solo. Pure, non se ne sarebbe andato, non l’avrebbe lasciato a morire in fondo a quelle acque gelide e oscure.
La determinazione di Kein fu la salvezza di entrambi: visto il ragazzo deciso a non abbandonarlo, Zuril comprese che l’unico modo di salvarlo era sforzarsi lui stesso di rialzarsi. Non c’era altro mezzo.
Aiutato da Kein, si rimise faticosamente in piedi. Il sangue scorreva dalla ferita sul petto, dolori spaventosi gli artigliavano la schiena, le vertigini non gli davano tregua e ci vedeva a malapena: ma mosse qualche passo verso la navetta. Non poteva permettere che Kein morisse.
Zuril s’appoggiò al ragazzo, barcollando verso la navetta: avevano l’acqua oltre alle caviglie, quasi al ginocchio, e continuava a salire… ghiacciata, che mordeva le carni, intorpidiva i muscoli…
La navetta era a pochi metri, ormai – avevano l’acqua ai fianchi. Kein armeggiò con un telecomando e il portello s’aprì, rivelando una passerella che calò sollevando schizzi gelidi. Cinque metri… quattro…
Un boato spaventoso, e centinaia di metri cubi d’acqua si riversarono nell’hangar. Con la forza della disperazione, Kein trascinò Zuril su per la passerella, dando nel contempo il comando di chiusura. La passerella si sollevò, catapultandoli all’interno della nave proprio mentre l’acqua la travolgeva, scaraventandola contro la cupola di plastivetro che s’incrinò per l’urto.
Kein si rialzò, aggrappandosi alle pareti per non cadere e muovendo nel buio assoluto verso la cabina di pilotaggio; un paio di comandi vocali e le luci si accesero dentro la nave, unico punto luminoso sul fondo dell’oceano. I motori rombarono.
Aggrappato alla maniglia del portello, Zuril si sentì scaraventare contro un armadietto di plastica, per poi finire sul pavimento; intontito per la violenza del colpo, rimase a terra, semisvenuto, mentre la nave riacquistava il suo equilibrio. Kein era finalmente riuscito a porsi ai comandi.
La nave si mosse, opponendosi alle correnti che l’avevano sbatacchiata fino ad allora; Kein sparò contro la cupola, infrangendola, e sfrecciò all’esterno a tutta velocità.
Alle loro spalle, Goldrake fuoriuscì dalla base e le diede il colpo di grazia: l’esplosione fece da copertura alla piccola nave di Vega, che sparì non vista nelle acque oscure.

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26 - Inverno

Sotto la neve, il profilo severo del laboratorio di Procton aveva assunto un aspetto magico, irreale. Spinti dal vento, i fiocchi leggeri turbinavano nell’aria, cadendo lenti e silenziosi.
Incurante del freddo, ritta in piedi sull’estremità della terrazza Maria fissava il cielo con aria trasognata: il tempo sembrava avesse perso ogni significato, per lei, che restava immobile a fissare quei minuscoli, candidi cristalli.
«Ma cosa fai qui, sotto la neve?», la voce di Alcor parve riscuoterla dalle sue fantasticherie.
Lei si riscosse, ma invece del sorriso che si era aspettato gli rivolse un viso pallido, teso.
«Ehi, cosa c’è che non va?» chiese, preoccupato.
«Non so cosa mi stia succedendo», lei scosse la testa, e fiocchi di neve caddero dai suoi capelli. «Sto qui a guardare la neve, e ho la sensazione che qualcosa torni dal passato…»
«Dal passato?» si stupì lui. Maria aveva sempre detto di ricordare pochissimo della sua infanzia.
«Sì, da molto lontano» ancora quel tono un po’ trasognato. «Dai giorni in cui ero bambina».
Guardò ancora i fiocchi di neve: piccole cose bianche che parevano galleggiare nell’aria… le aveva viste anche allora, su Fleed. Ma allora non era neve… erano petali candidi portati via dal vento… e poi il fuoco, le esplosioni, l’allarme… le urla disperate…
Maria si coprì gli occhi con i pugni chiusi, e i ricordi scomparvero, inghiottiti nella voragine oscura che era la sua memoria.
Alcor la prese dolcemente per le spalle: «Tutto bene?»
Lei ricacciò indietro le lacrime: «Non ricordo niente… solo le esplosioni, e un inferno di fuoco… le grida, tante grida! E poi buio. Nei miei ricordi non c’è nulla di così bello come questa neve».
Impacciato, Alcor cercò una qualsiasi frase da dirle per rassicurarla: «Coraggio, Maria. I ricordi belli torneranno».
«Lo credi davvero?»
No, ma me lo auguro… «In questo momento hai la sensazione che qualcosa stia tornando dal passato», disse lui, che aveva l’impressione di arrampicarsi su uno specchio. «Sono i bei ricordi che stanno per tornare».
Lei si asciugò gli occhi: «Speriamo…»


Per quanto tutti sapessero che quel vulcano fosse spento da tempo immemorabile, nessuno s’azzardava ad avvicinarsi a quel monte alto, a forma di cono, il cui cratere deserto incuteva ancora timori di esplosioni, fuoco, morte.
Ciò che ora vi si annidava dentro non era più una massa minacciosa di magma incandescente, ed anzi poteva apparire assai più innocua: ma sarebbe stato un gravissimo errore di valutazione. Un’astronave madre di Vega, per quanto ferma ed inerte, costituiva sempre un grave pericolo.
Occultata nel profondo dell’antico cratere, semisepolta sotto uno spesso strato di neve, la nave era praticamente invisibile; ma dentro l’attività vi ferveva, frenetica.
L’unica persona che pareva non aver nulla da fare, solo stringere i denti per l’impazienza, era proprio Kein: nella base sottomarina aveva dovuto accontentarsi di compiti di second’ordine, più che altro il suo era stato un ruolo di controllo per verificare che gli ordini impartiti da Zuril fossero eseguiti correttamente; ma ora, il ragazzo avrebbe voluto un incarico di maggior rilievo. Sapeva di essere già molto fortunato ad essere stato scelto da Zuril nel suo staff personale, ma…
Kein sospirò, scendendo le scale che portavano agli hangar dei minidischi: soldati andavano e venivano, tecnici, piloti, tutti sembravano avere compiti urgentissimi da svolgere; tutti, tranne lui. Si lasciò cadere sui gradini, testa bassa e braccia serrate attorno al corpo, e rimase immobile, silenzioso, ignorando completamente quello che gli stava accadendo attorno.
«Kein!», il soldato era sembrato materializzarsi accanto a lui, tanto s’era avvicinato senza far rumore. «Il ministro Zuril vuole parlarti».
Kein non lo degnò nemmeno d’uno sguardo: era solo uno sporco soldato, un animale. Lui sapeva bene che razza di gente era. S’alzò e gli voltò le spalle, dirigendosi subito verso la sala comando.
Il milite lo guardò con odio: «Dannazione, non si degna nemmeno di rispondere!»
Altri soldati avevano seguito la scena: «Quello lì crede di essere superiore a tutti noi solo perché è il cocchino di Zuril!»


Attraverso il monitor, Zuril osservava la neve che continuava a cadere: era quanto aveva atteso, una nevicata abbondante che avrebbe paralizzato il Giappone. Finalmente avrebbe avuto l’occasione di rifarsi per lo smacco subito con la distruzione della base sottomarina.
Una fitta al petto gli ricordò bruscamente che non solo il suo orgoglio era rimasto ferito durante la distruzione della base: era stato colpito da una trave d’acciaio, ricavandone tre costole rotte e una lungo taglio superficiale ma dolorosissimo e molto esteso, che gli attraversava il torace impacciandogli i movimenti e facendogli scorrere nel corpo scariche di dolore vivo. Anche solo camminare gli era difficile: aveva una caviglia che gli cedeva, ed era costretto – lui, l’orgoglioso ministro Zuril! – ad appoggiarsi a qualcuno per spostarsi.
Ora, avrebbe dovuto affidare ad un altro un compito che normalmente avrebbe svolto di persona; ma è prerogativa dell’uomo intelligente riconoscere i propri limiti, e Zuril era tutt’altro che uno stupido.
Serrò le mascelle, mentre si sforzava di reprimere l’agitazione che sentiva crescere dentro di sé e che si faceva sempre più difficile da dominare.
Non sono più io, ammise con franchezza. Sono troppo stanco, e ne ho passate troppe… ma non sono ancora finito.
In tutta la sua carriera, era convinto d’aver fatto un buon lavoro; anzi, aveva fatto del suo meglio, impegnandosi con tutto sé stesso, come sempre.
Ora, doveva ammettere che tutto questo non era bastato.
Zuril si strofinò l’occhio, pose il mento nel cavo della mano, lasciando vagare lo sguardo sull’ampio schermo davanti a lui.
Fin da quando era intervenuto in quella guerra, lui aveva cercato il modo più razionale per sconfiggere Goldrake: aveva studiato con cura l’avversario, individuandone i punti deboli – il tutto mentre Re Vega e Gandal tempestavano perché, secondo loro, lui stava perdendo tempo. Possibile che quei due non capissero che non si può sconfiggere un nemico come Duke Fleed senza un’adeguata preparazione?
No, gli era stato chiaro da subito che il vero ostacolo contro cui avrebbe dovuto lottare sarebbe stata proprio l’ottusità di colleghi e superiori. Una vera sfortuna.
Sfortuna, già.
Ne aveva avuta, e molta. Quante volte si era visto vanificare un piano ben congegnato? Quante volte all’ultimo istante il suo avversario aveva rivelato di possedere nuove risorse di cui lui mai avrebbe potuto essere a conoscenza?
Di questo, però, nessuno teneva conto, e la sconfitta veniva sempre imputata a lui, Zuril, reo di non aver previsto anche ciò che era imprevedibile.
Era appunto successo anche con la base in fondo all’oceano: lui, Zuril, non poteva sapere che Goldrake disponeva d’un nuovo mezzo sottomarino. La sconfitta era dovuta interamente a questo.
Inutile nasconderselo: va malissimo, si disse Zuril. Praticamente, da quando Dantus è morto la situazione va precipitando.
Dantus, già.
Non gli piaceva ripensare al suo defunto collega, e non era facile convivere con certi sgradevoli ricordi; ma era necessario farlo.
Da sempre, lui e Dantus erano stati in contrasto: erano entrambi brillanti scienziati, anche se lui, Zuril, aveva perennemente surclassato il collega. Poi, il colpo di genio: Dantus aveva trovato il modo di creare mostri di Vega partendo da animali vivi. Ne venivano autentiche macchine da guerra dotate dell’istinto e dei sensi propri degli animali, esseri decisamente superiori ai meri mostri meccanici. Quell’invenzione era stata la fortuna e allo stesso tempo la fine di Dantus, che si era guadagnato il favore di Re Vega.
Zuril strinse le labbra. A lui e a Gandal era stato evidente da subito che non ci sarebbe stata scelta: l’ascesa del rivale sarebbe stata la loro fine. O lui, o loro. Eliminarlo era stata una tragica necessità... una cosa di cui non andava fiero e di cui non aveva mai voluto parlare ai suoi ragazzi.
Da allora, tutto era sempre andato peggio: più lui aveva escogitato piani contro Goldrake, più la malasorte era sembrata accanirsi contro di lui. Non era superstizioso, tutt’altro, ma riconosceva d’aver avuto molta, troppa sfortuna; come non bastasse, sentiva d’essere arrivato ormai al limite.
Il suo fisico, fortissimo fino ad allora, stava cominciando a cedere.
Era sempre teso fino allo spasmo. Dormire era diventato un ricordo, ormai; le poche volte in cui riusciva ad addormentarsi, quasi sempre si svegliava di soprassalto, il cuore che sembrava impazzito. Poi, la tensione continua stava logorandolo: aveva lo stomaco contratto, e faticava a digerire quel poco che riusciva a mangiare. Con un sorriso amaro, si guardò le mani: tremavano, irrefrenabili. Sentiva – temeva – di non riuscire a dominarsi, lui, proprio lui, che era sempre stato fierissimo del proprio ferreo autocontrollo.
Se avesse perso la calma, se... se... ma non voleva nemmeno pensarci.
Strinse i denti, rialzò orgogliosamente il mento: ce l’avrebbe fatta.
A qualsiasi costo.


«Mi volevi, ministro Zuril?», Kein si fece avanti, il viso impassibile.
Zuril accennò al monitor: «A quanto pare, la stagione della neve è cominciata. Non appena ci sarà una violenta tormenta… e penso che ciò avverrà molto presto… faremo entrare in azione il nostro mostro che costruirà una nostra base sull’isola di Hokkaido».
«Signorsì».
«Ho da affidarti un compito della massima importanza», Zuril si voltò verso il ragazzo, fissandolo dritto negli occhi. «Vorrei nominarti comandante in seconda per questa missione. Sarai il mio braccio destro».
Lui… il braccio destro di… possibile…?
Ora che quanto aveva tanto bramato era a portata di mano, Kein sentì un timore irrazionale stringergli le viscere: «Signore, ma ne sarò all’altezza?»
«Ma certo». Intuitivo come sempre, Zuril comprese il timore del ragazzo ed aggiunse: «Tu non sarai di Vega, ma sei intelligente e coraggioso, e l’hai già dimostrato più volte. Ho fiducia in te, e lo sai. Questo progetto dovrà essere completato nella massima segretezza, per cui sfrutta al meglio la tempesta di neve che sta per abbattersi sul Giappone. So che non mi deluderai, Kein».
«Io… grazie per avermi dato quest’occasione» esclamò animosamente Kein, gli occhi azzurri che gli brillavano. «Farò del mio meglio per portare a termine la missione che mi hai affidato!»
Uscì, seguito dallo sguardo di Zuril.
Di tutti i suoi uomini, nonostante l’estrema giovinezza Kein era senz’altro quello che gli ispirava maggior fiducia; gli altri, gli uomini validi ed esperti, erano stati tutti uccisi da Duke Fleed, decimati come insetti. Uomini che avevano avuto coraggio, capacità, esperienza… tutti scomparsi da tempo, ormai. Ora, lui era costretto a riporre le sue ultime speranze in un ragazzino che, per quanto abile e coraggioso, era pur sempre giovanissimo ed inesperto… se avesse fallito…
Sarei finito anch’io, si disse Zuril, col suo freddo realismo. Aver perso la base sottomarina è già stato un colpo gravissimo per la mia carriera; un’altra sconfitta, e sarei definitivamente tagliato fuori. Pensare che non posso andare io… che sono costretto a mandare un ragazzino… tutto per colpa di queste dannate ferite!
Il petto gli pulsò dolorosamente, e Zuril vi premette sopra una mano, nel tentativo di lenire il dolore. Non voleva imbottirsi di medicinali, doveva restare lucido, efficiente.
Colpa tua, Duke Fleed. Ma non mi hai ancora sconfitto!


Nel laboratorio all’interno dell’enorme astronave, l’attività era a dir poco frenetica: il mostro era ormai ultimato, e gli scienziati stavano sottoponendolo agli ultimi test; ma secondo Kein, si stava intollerabilmente perdendo tempo. Zuril contava su di lui, non voleva deluderlo!
«Fate più presto!», continuava a ripetere. «Non abbiamo molto tempo!»


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27 – L’UFO nella tormenta

Incuranti del gelo, i cavalli galoppavano nell’ampio recinto, offrendo un meraviglioso spettacolo all’unica persona che in quel momento li stava osservando: sotto la sua ruvida scorza, Rigel celava un animo poetico, e quei meravigliosi animali scuri che si stagliavano contro un paesaggio bianco ed incantato gli parvero qualcosa di meraviglioso.
Decisamente, quel viaggio si stava rivelando ancora migliore di quanto aveva sperato.
«Sul serio, Hokkaido è un meraviglioso paradiso bianco!», nonostante non ci fosse nessuno ad ascoltarlo, Rigel non poteva fare a meno di cianciare a ruota libera. «Bene, scattiamo qualche foto ricordo…»
Estrasse dalla custodia in similpelle la sua vecchia, fidata polaroid: mai avrebbe acquistato un modello più moderno, lo sanno tutti che le cose vecchie sono quelle che funzionano meglio!
Puntò l’obiettivo verso il gruppo di cavalli e cominciò a scattare.


Ben nascosta sotto un’ampia coltre di neve, l’astronave madre sembrava un predatore in agguato che attende il suo momento.
Lo spostamento sull’isola di Hokkaido era avvenuto nel migliore dei modi: la tempesta notturna di neve era stata un’eccellente copertura, e Kein era molto soddisfatto per come era riuscito a completare questa prima parte della sua missione. Ora era necessario sguinzagliare il mostro perché preparasse la zona in cui avrebbero costruito la nuova base di Vega.
«Signore», annunciò il soldato addetto alle comunicazioni, «è stato eseguito il rifornimento d’energia. Il mostro è pronto».
«Va bene», Kein celò la sua emozione dietro la consueta maschera impassibile. «Partenza immediata!»
«Signorsì!», il soldato digitò un comando. «Mostro da combattimento, via!»


«Magnifico, con queste foto vincerò un super premio!», Rigel esultava, incurante del vento che cominciava a sferzarlo: il meraviglioso paesaggio, gli splendidi cavalli, la vacanza, tutto contribuiva a fenderlo euforico, incurante della tormenta che stava per abbattersi su di lui. Una sventata più forte delle altre parve finalmente farlo rinsavire: «Ma come mai questa bufera? Io detesto le tormente senza preavviso!»
Continuando a borbottare tra sé, Rigel corse verso la casa: era un ambiente rustico, tutto in legno, proprio come piaceva a lui. Un piacevole tepore proveniva dal caminetto acceso; scoprendosi improvvisamente intirizzito, Rigel andò subito a scaldarsi. Per il momento, non era più il caso di restare fuori, al freddo.
Deciso a consolarsi con i suoi capolavori, Rigel gettò un’occhiata alle foto: era così comoda la polaroid! Non bisognava andare a portare le pellicole dal fotografo, si sviluppavano da sole, e si poteva guardarle subito… imprecò mentre guardava l’ultima. Aveva puntato ad un bellissimo stallone, ma l’animale all’ultimo istante si era spostato, venendo tagliato fuori dall’inquadratura. Avrebbe dovuto essere l’immagine più bella, ed era irrimediabilmente rovinata per colpa di quello stupido animale…
Gettò la foto sul tavolo, furioso.
Se l’avesse osservata meglio, avrebbe notato qualcosa, nel cielo… qualcosa che non avrebbe dovuto esserci.


Sfrecciando tra i fiocchi di neve che turbinavano nell’aria, il mostro di Vega sorvolò le montagne di Hokkaido a bassa quota, in modo da non venir tracciato dai radar della base militare sull’isola.
Puntò verso i fianchi innevati di una montagna, e con le grandi ali fendette la neve, facendola rovinare verso il piccolo paese indifeso giù a valle.
Mentre la valanga piombava sulle abitazioni, il mostro puntò proprio sulla base militare.
La tormenta stava aumentando d’intensità, e le sirene mandavano l’allarme; i soldati stavano tenendosi pronti per qualsiasi intervento, ma non erano certo preparati a quello che stava per succedere.
Il mostro piombò su di loro; pochi colpi precisi, e gli aerei sulle piste vennero distrutti.
Un raggio azzurrino fuoriuscì dalle fauci del mostro, inondando la base che scintillò innaturalmente.
Il mostro volò via.
Alle sue spalle, la base militare era completamente ricoperta di uno spesso strato di ghiaccio.


Nonostante la sua freddezza professionale, un certo turbamento traspariva dal tono dello speaker del radiogiornale:
«…La tormenta che ha colpito Hokkaido ha letteralmente sepolto la base delle forze di difesa, gli edifici isolati e il villaggio vicino. Sono interrotte tutte le comunicazioni con la zona, e non riusciamo ad avere informazioni precise. Si presume che le perdite umane siano elevate e i danni considerevoli. Con il prossimo radiogiornale daremo ulteriori notizie”.
Venusia guardò in viso i suoi amici: «Non l’avrà provocata un mostro di Vega?»
«Se fosse stato così», osservò Actarus, «io credo che la base militare se ne sarebbe accorta e ci avrebbe avvertiti».
«Poi, la radio ha parlato solo di una bufera di neve», aggiunse Alcor.
Venusia scosse il capo. Sulla sua fronte liscia si era formata una piccola ruga: «C’è qualcosa che non mi convince».
«La radio ha detto che è una nevicata eccezionale», disse Maria. «Pensa che ha sepolto un intero paese!»
«Accidenti…!», esclamò di colpo Alcor.
Maria lo guardò, sorpresa: «Che diavolo ti è preso?»
Alcor non le rispose nemmeno, troppo preso dalla sua idea: «Venusia! Rigel si trova a Hokkaido a comperare dei cavalli!»
«Come!», esclamò Actarus. «Rigel si trova là?»
«Sì», la voce di Venusia suonava tranquilla, troppo tranquilla: «Ma il ranch dove è andato papà si trova piuttosto distante dal paese. Io non credo che ci sia motivo di preoccuparsi».
Lei stava parlando con calma nell’evidente tentativo di autoconvincersi che non ci fosse da temere; ma la realtà era che invece di paura per suo padre Venusia ne aveva, e molta. Actarus la guardò negli occhi, vi lesse un gran bisogno di rassicurazione, di sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene.
«Ma sì, sarà nel ranch», disse, cercando di non pensare a che guaio sarebbe stato se… se…
«Già, che ci farebbe, in città?», rispose lei, in tono leggero, mentre sentiva un brivido scorrerle per la schiena.


Proprio in quel momento, Rigel stava chiudendo dietro di sé la porta, deciso a restarsene al caldo e all’asciutto finché la tormenta non fosse calata d’intensità. Si guardò attorno con aria d’approvazione: pareti di legno, mobili rustici, un caminetto con un gran fuoco. Proprio il genere di ambiente in cui si sentiva maggiormente a suo agio.
Si liberò del giaccone, andando poi a scaldarsi le mani presso il camino: i proprietari del ranch, che lo conoscevano da anni, si erano assentati per un paio di giorni lasciandolo padrone di casa, in modo che lui avesse la possibilità di studiare bene i cavalli e scegliere quali acquistare. Se non fosse stato per quella dannata tormenta... ma non c’era nulla da fare, il tempo era troppo brutto per permettergli di esaminare per bene i cavalli. Si versò perciò una gran tazza di té caldo e sedette presso il fuoco.
Riprese in mano le fotografie: alcune erano davvero belle, le montagne ricoperte di neve erano riuscite proprio bene; sarebbe stata splendida anche quella con il gran cavallo baio, se solo quell’animale non...
«E questo cos’è?», Rigel osservò meglio la foto: proprio di fianco al cavallo, nel cielo si scorgeva un qualcosa che volava... un uccellaccio? Sembrava un po’ troppo grande. Lo esaminò meglio... «Un mostro di Vega! Devo avvertire subito Procton!»
Cianciando tra sé e sé, visto che nemmeno quand’era solo riusciva a stare zitto, Rigel si precipitò al telefono. Alzò la cornetta: nessun suono. La linea doveva essere interrotta.
«Proprio adesso non funziona! Mi toccherà correre subito in città!», rimise gli stivali, infilò il giaccone e si cacciò in tasca la fotografia. «Con questo tempo, poi...!»
Uscì nella bufera.


In piedi in file ordinate, i soldati di Vega ascoltavano Kein che li stava arringando; i cappucci mascheravano le espressioni di rabbia e disgusto sui loro visi. Venir comandati da un fleediano, un inferiore, era per loro qualcosa di francamente difficile da sopportare.
Del tutto indifferente al malanimo dei suoi uomini, Kein continuava il suo discorso.
«La zona prescelta è ora completamente ricoperta di neve e ghiaccio. Aspetteremo una giornata prima d’intervenire, mentre tutti i terrestri sorpresi dalla bufera moriranno assiderati; poi andremo là e costruiremo la base».
Un fremito passò nelle file dei soldati, ma il giovane non vi fece caso. Rigidamente eretto nella sua non eccessiva persona, Kein continuò: «Dobbiamo agire con la massima segretezza; per questo, rinforzeremo le nostre pattuglie».
Le file s’agitarono maggiormente: dovevano obbedire a uno che non era della loro razza...!
Gli occhi color ghiaccio di Kein passarono sui soldati senza nemmeno vederli: «Catturerete chiunque si trovi nella zona e lo porterete da me al comando».
Si voltò di scatto e s’allontanò, senza un gesto, un saluto, un qualsiasi congedo.
Erano solo animali in forma umana, e non meritavano di più.


Tremando per il freddo, Rigel avanzava nella neve, gli occhi semichiusi per tenerli protetti dai fiocchi di neve che gli frustavano il viso. Attorno a lui, il mondo sembrava divenuto irreale: solitudine, buio, il biancore quasi innaturale della neve, il silenzio rotto solo dal sibilo del vento... sarebbe stato tutto molto poetico, se non fosse stato per l’emergenza che l’aveva costretto a lasciare il ranch caldo e accogliente per mettersi in cerca di un telefono funzionante.
Camminava nella neve alta fin quasi al ginocchio, e la stanchezza poi cominciava a farsi sentire. Ogni passo sembrava pesargli più del precedente... ancora uno... ancora uno... uno...
Inciampò e cadde in avanti nella neve, stremato. Avrebbe dovuto rialzarsi subito, ma si sentiva così stanco... così stanco... solo un attimo, solo un...
...campanelli...?
Non poteva sbagliarsi, quel suono argentino erano dei sonagli... questo poteva indicare solo una cosa: una slitta! C’era qualcuno, lì vicino!
Si rialzò faticosamente, dimenando le braccia e gridando; attraverso il velo dei fiocchi di neve, apparve la sagoma di una slitta trainata da due cavalli.
«Vi prego, potete farmi una cortesia?» esclamò. «Potete darmi un passaggio fino in città? A piedi, chissà quando ci arriverei!»
I due uomini sulla slitta lo guardarono, stupiti: «Ma perché avete tanta fretta?»
«È un’emergenza, ecco perché!»
«Ah, un’emergenza», il guidatore scambiò uno sguardo d’intesa con il suo collega, «Ma certo, salite pure».
«Grazie, siete molto gentili!», Rigel s’inerpicò sulla slitta; la frusta schioccò, i cavalli ripartirono, i sonagli tintinnarono. Infreddolito, sentendosi un autentico blocco di ghiaccio, Rigel non notò l’insolito aspetto dei suoi due salvatori, entrambi dal viso singolarmente aguzzo... non percepì nulla di strano in loro, non si chiese nemmeno perché si trovassero con una slitta in piena tormenta.
Guidati da mani sicure, i cavalli imboccarono la strada principale del paese, fermandosi davanti ad un grande albergo: «Potete telefonare da qui».
«Grazie infinite!», Rigel smontò dalla slitta, precipitandosi all’interno dell’hotel.
«Perché l’hai lasciato andare?», sbottò l’uomo a fianco del guidatore. «Kein ha detto di fermare tutti!»
«Sapremo che ha scoperto sentendo la sua telefonata», rispose l’altro, con l’aria di chi sa il fatto suo. «Non possiamo permettere che Kein si prenda tutto il merito. Ascolteremo quel che ha da dire l’umano, e lo riferiremo direttamente a Zuril».


Si sa che gli squilli del telefono sono tutti uguali: in quello, chissà perché, sembrava risuonare l’urgenza. Procton s’affrettò a rispondere, e subito comprese d’aver avuto un’intuizione esatta. L’urgenza c’era, eccome.
«Quale mostro di Vega?», esclamò, stupefatto, mentre Rigel s’affrettava a spiegargli l’accaduto. «Sei sicuro? L’hai visto?»
«Sì, non ho il minimo dubbio, l’ho visto con i miei occhi!», esclamò Rigel, felice di ricevere una volta tanto l’attenzione che si meritava. «Veramente l’ha visto la mia macchina fotografica: c’è nella foto che io...»
La linea cadde all’improvviso.
Stupefatto, Rigel alzò gli occhi sull’uomo che gli aveva interrotto la comunicazione: era lo stesso che poco prima aveva guidato la slitta fino all’albergo: «Ma che state facendo?»
«Basta con le telefonate. Vieni con noi».
Forse fu la voce fredda dell’uomo, forse il lampo gelido che gli illuminava lo sguardo... Rigel improvvisamente lo vide per quel che era: «Voi due siete scagnozzi di Vega!»
«Bravo, hai indovinato», l’uomo gli puntò contro una pistola: «Cammina!»
Tenendo l’arma nascosta contro il fianco, in modo da non mostrarla alle altre persone presenti nella hall dell’albergo, l’uomo sospinse Rigel all’esterno, dove l’attendeva il suo compagno.
«Adesso dammi quella foto che hai nascosto in tasca», ordinò l’uomo. «Sbrigati!»
Rigel assunse un’aria molto indifesa, da anziano un po’ confuso: «Ma di che foto parli?»
Istintivamente, l’uomo abbassò un poco la guardia; fulmineo, Rigel lo centrò con una gomitata allo stomaco. Prima che il compagno si riprendesse dallo stupore, Rigel colpì anche lui, facendolo cadere tramortito nella neve.
«Mi avevate creduto un idiota, vero?», sghignazzò, balzando sulla slitta. Fece schioccare la frusta, e i cavalli partirono al galoppo.


«Cos’ha detto, papà?», esclamò Venusia, la voce che le si spezzava dall’angoscia. Allora era vero, suo padre era in pericolo...
«Rigel ha visto un mostro di Vega», il viso serio di Procton appariva ancora più severo. «Sembra anche che l’abbia fotografato».
«Bisogna scoprire per quale motivo i veghiani sono scesi nell’isola di Hokkaido», intervenne Actarus. «Partiremo subito!»
In silenzio, la fronte solcata da una profonda ruga, Procton guardò partire di corsa quei quattro ragazzi che ormai amava come figli propri.


La frusta schioccò, e sui visi dei due veghiani apparvero due strisce scarlatte di sangue vivo.
«Idioti! Ve lo siete lasciato scappare!», gridò Kein, furioso.
«Era armato...», tentò di giustificarsi uno dei due, subito zittito da una nuova sferzata sul viso.
«Vi farò punire per questa mancanza!», urlò Kein livido di rabbia. Zuril aveva riposto tutta la sua fiducia in lui, e quei due... quei due...
«Comandante», intervenne un sottufficiale, tentando di calmarlo, «Lo troveremo! Lo giuro!»
Kein scosse il capo: «Il piano deve essere portato a termine nella massima segretezza. Non ammetto errori!», gettò uno sguardo colmo di disprezzo verso i due uomini che aveva frustato: avevano tentato di scavalcarlo, incuranti degli ordini che avevano ricevuto. «Quando disubbidite a me, disubbidite al ministro Zuril! Ricordatevelo!»
I due si rimisero in ginocchio, tentando di spiegarsi, ma Kein troncò le loro scuse ordinando con un gesto secco ai soldati di portarglieli via da davanti: in quel momento, si sentiva talmente furioso che avrebbe levato loro la pelle a suon di scudisciate.
Mentre i soldati eseguivano l’ordine, Kein fece un gesto secco con la frusta verso il sottufficiale, che subito si fece avanti in attesa di ordini: «Comandate, signore!»
«Cercate quell’uomo», ringhiò Kein, salendo su una slitta meccanica. «Dovete ritrovarlo ad ogni costo!»


La slitta sfrecciava rapidamente sulla neve, ma Rigel non faceva che incitare i cavalli perché corressero più veloce, più veloce...


Nonostante i fiocchi continuassero a cadere, la slitta di Rigel era passata da troppo poco tempo perché le tracce fossero state coperte. Sul manto immacolato, le strisce lasciate dai pattini spiccavano nettissime.
In piedi sulla sua slitta meccanica, Kein aguzzava lo sguardo nell’oscurità, cercando, cercando...
«Eccolo là!», ruggì, esultante.
Le altre slitte che l’accompagnavano ebbero come un balzo in avanti, lanciandosi sulla traccia freschissima della loro preda, che aveva imboccato un sentiero in salita, nel tentativo di mettersi in salvo tra le rocce della montagna.
«Signore, lo volete vivo?», chiese il sottufficiale.
«Non ci occorre», Kein fece una smorfia sprezzante. « Uccidetelo!»
I fucili vennero spianati: raggi vennero sparati contro la slitta, facendo imbizzarrire i cavalli. Rigel strinse le redini, nel vano tentativo di dominare i due animali impazziti dal terrore: alla sua destra si apriva un crepaccio, uno scarto troppo brusco e i due cavalli l’avrebbero trascinato verso morte sicura. Incoraggiò i cavalli, spronò, pregò supplicò... un colpo di fucile più preciso degli altri uccise sul colpo il cavallo di destra, che cadde scivolando sulla neve verso il ciglio del burrone. L’altro cavallo inciampò, cadde; con un nitrito disperato, seguì il cadavere del compagno giù, nell’abisso.
Kein fece arrestare le slitte; scese, corse fin sull’orlo del baratro e guardò giù: in fondo, semisepolti nella neve vide i cadaveri dei due cavalli e quel che restava della slitta. L’umano non si vedeva, sbalzato chissà dove.
«Dobbiamo scendere a controllare?», chiese il graduato.
«Non credo che sopravvivrà, dopo essere caduto là sotto». Soddisfatto, Kein si diede un colpetto di frusta sul palmo della mano: «Torniamo indietro!»


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28. Screzi

Nel suo studio privato dentro l’astronave, Zuril sedeva serrandosi con una mano le costole doloranti: ogni fitta di dolore gli sembrava ancora più vivida, perché gli ricordava impietosamente la sua sconfitta.
Non si era mai sentito così impotente: sapeva di essere sul punto di perdere il favore di Re Vega, e sapeva anche di non poter contare più sul suo corpo, ferito ed indebolito dal troppo sangue perso. Nonostante avesse ancora conservato intatto il suo spirito combattivo, Zuril non si faceva illusioni: si sentiva letteralmente la morte addosso. Se almeno fosse riuscito a far costruire a Kein la base sulla Terra...
Un colpo di tosse gli squassò il petto, facendolo spasimare: odiava sentirsi così impotente. Pure, il dolore fisico non era nulla di fronte all’umiliazione che Duke Fleed gli aveva inflitto. Quando la base sottomarina era stata attaccata, Zuril aveva creduto di morire; e così infatti sarebbe avvenuto, se non fosse stato per Kein. Ma la vergogna bruciava, e molto.
Duke Fleed si stava rivelando un nemico ancora più temibile di quel che aveva mai immaginato; e sì che lui, prudente per natura, non faceva certo lo sbaglio di sottovalutare i propri nemici... ma il principe di Fleed era un avversario letale. Quanti giovani comandanti di Vega erano stati uccisi da lui? Non voleva pensarci.
Zuril serrò le mascelle: almeno, era riuscito ad allontanare Fritz da quel conflitto... a fianco di Markus, sarebbe rimasto lontanissimo da lì, al sicuro.
Peccato non aver potuto mandar via anche Kein: purtroppo, la sua origine fleediana era stata un ostacolo enorme. Nessun comandante l’aveva voluto con sé, nonostante gli ottimi risultati conseguiti all’Accademia.
Finora aveva potuto proteggerlo; ma adesso era stato costretto a metterlo in mezzo. Non aveva avuto scelta, lui era il solo di cui potesse fidarsi... Pensare che tutta la sua preziosissima carriera, pazientemente costruita in anni e anni di lavoro, era praticamente nelle mani di un ragazzino…!
«Signore!»
Zuril riemerse in fretta dai propri pensieri e si voltò verso il milite apparso sulla soglia del suo ufficio: «Cosa c’è, soldato? Avevo dato ordine di non venir disturbato».
«Chiedo scusa, signore», l’uomo deglutì, spaventato. «Sta... sta arrivando Goldrake!»
«Cosa?», Zuril accese il suo monitor: l’inconfondibile sagoma del mortale nemico di Vega si stagliava nettamente contro il cielo biancastro, gonfio di neve. «Ma che sta facendo, Kein?»
Il soldato tossicchiò: «Sta dando la caccia ad un terrestre, signore».
Zuril sentì mancargli il respiro: «Un terrestre...?»
«Pare che abbia visto il nostro mostro in azione», rispose il soldato, cui non pareva vero di mettere nei guai l’odioso schiavo bastardo di Fleed. «Dicono anche che abbia dato l’allarme: e infatti, ecco arrivare Goldrake».
Goldrake, sempre Goldrake... ora cominciava a comprendere la vera e propria ossessione che aveva funestato gli ultimi mesi di vita del defunto comandante Hydargos. Davvero, quell’uomo era una vera nemesi.
E la base non era stata ancora iniziata...!
Zuril serrò i denti. Non poteva permettersi il lusso di perdere altro tempo! Avrebbe inviato il mostro a colpire la zona che avevano scelto per costruirla, e non appena avvenuta l’esplosione avrebbe dato il via ai lavori... ma prima, avrebbe regolato un conto con Kein, che si era dimostrato così ottusamente incapace.


Allineati in varie file, i soldati ascoltavano in malmostoso silenzio Kein che stava esponendo la situazione: dopo aver illustrato i passi fatti per la costruzione della nuova base, accennò a quali fossero i lavori più urgenti, in attesa che da Skarmoon venissero inviati i materiali richiesti dal ministro Zuril.
«Avete fatto un buon lavoro, sono davvero soddisfatto», concluse Kein. «Adesso potrete riposarvi, fino a nuovo ordine».
«Un momento!»
Kein conosceva molto bene quella voce, ma non l’aveva mai udita così sferzante; stupefatto, si voltò verso Zuril, che stava entrando nella sala, sorretto da due soldati. Era pallidissimo, zoppicava vistosamente e si stringeva una mano sul petto ferito, ma in lui ardeva una collera gelida che gli fece scorrere un brivido giù per la schiena: «Ministro Zuril…?»
In vita sua, Zuril era sempre stato un uomo profondamente riflessivo, per nulla incline a montare in collera: quell’ennesima delusione, e proprio causata da Kein, di cui si era fidato, fu troppo anche per lui.
«Incapace!» Nonostante si reggesse a malapena in piedi, gli allungò un manrovescio che lo fece vacillare. «Avevo raccomandato la massima segretezza! E ora, per la tua stupidità Goldrake è a conoscenza del nostro piano!»
Kein era talmente stupefatto da non sentire nemmeno il dolore al viso: «Ma… ma è impossibile!»
«Hai sbagliato in pieno!» La voce di Zuril si ridusse ad un ringhio gelido. «Nonostante tu fossi uno schiavo di Fleed, avevo avuto fiducia in te, ti avevo affidato un compito della massima importanza… mi sono sbagliato! Credevo che crescendoti come un veghiano saresti divenuto un buon comandante… mi sono sbagliato! Pensavo che anche voi fleediani poteste diventare dei veri guerrieri… mi sono sbagliato!»
Un fremito passò tra i soldati: vedere Kein, così altezzoso e scostante, strapazzato come si meritava fu motivo di vera gioia per ognuno di loro.
Le guance che gli bruciavano di vergogna, Kein aprì la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa; ma non poté parlare, Zuril aveva ragione, lui aveva sbagliato tutto, aveva mandato a monte un piano perfetto… era un fallito. Era rimasto lo schiavo di Fleed, non avrebbe mai potuto divenire un vero comandante di Vega.
«Combatterò contro Goldrake», mormorò infine, sforzandosi di mantenere ferma la voce. «Prenderò dei minidischi e lo affronterò tenendolo occupato, in modo da dare la possibilità al mostro di abbatterlo. Vi prego, signore, permettetemi di andare!»
Nella sala cadde un silenzio pesante. Affrontare Goldrake era l’unico modo che Kein aveva a sua disposizione per salvare il suo onore di combattente; se avesse avuto successo, avrebbe potuto tornare a testa alta tra le file dei comandanti di Vega, questo i soldati lo capivano. Quella fu l’unica volta in cui si sentirono di comprendere quel loro ufficiale.
Per qualche istante che parve interminabile, Zuril tacque, chiuso in un silenzio gelido; poi, lentamente, senza guardarlo, annuì.
Kein eseguì un saluto perfetto, prima di voltarsi ed uscire dalla sala, la testa alta e il viso che ancora gli bruciava per lo schiaffo ricevuto.


Mai, in tutti quegli anni, Zuril aveva alzato le mani su di lui, mai. Si era sempre limitato a qualche occasionale osservazione, qualche rimbrotto – a dire la verità, Kein non gli aveva dato motivo di sgridarlo.
Vederlo così alterato al punto da dargli uno schiaffo, gli rendeva ancora più evidente l’enormità di quanto aveva commesso.
Lui doveva tutto a Zuril, tutto; l’aveva ripagato malamente, fallendo il compito che gli era stato assegnato. Pensare che quel suo primo incarico avrebbe dovuto spianargli la strada verso i più alti gradi del comando... aveva fallito. Aveva deluso Zuril, oltretutto contribuendo a rovinargli la carriera.
In quel momento, Kein non riusciva nemmeno a pensare alla vergogna che aveva provato venendo schiaffeggiato davanti a tutti: pensava solo alla profonda delusione che aveva letto nello sguardo di Zuril, all’amarezza che aveva percepito nella sua voce.
La schiena orgogliosamente eretta e gli occhi pieni di lacrime, salì sul minidisco, mentre attorno a lui i suoi uomini facevano altrettanto.
Sarebbe morto, piuttosto che tornare sconfitto e riaffrontare il disprezzo di Zuril. Sarebbe morto.


Zuril si lasciò ricadere sulla poltrona nel suo studio privato e congedò i due soldati che l’avevano accompagnato. Non aveva più bisogno di loro, almeno per il momento.
Rivide Kein, pallidissimo e pieno di vergogna: l’aveva trattato in modo indegno, ora se ne rendeva pienamente conto. Il ragazzo aveva fatto del suo meglio, e lui l’aveva svergognato davanti a tutti.
Si prese la testa tra le mani.
Come ho potuto perdere il controllo? Come ho potuto trattarlo così?
Osservò sul monitor quanto stava accadendo negli hangar: il mostro e i minidischi stavano per partire contro Goldrake. Kein era con loro: una missione suicida, indubbiamente. Un minidisco non aveva nessuna speranza contro Goldrake...
Zuril si morse le labbra. Ormai Kein aveva dichiarato davanti ai soldati che avrebbe combattuto: non era possibile richiamarlo, avrebbe significato coprirlo ancora di più di vergogna davanti a tutti.
Pensò febbrilmente, ma non trovò nessuna scusa plausibile per farlo restare a terra. Già era detestato, l’avrebbero disprezzato totalmente... sarebbe stato un comandante finito.
In quel momento, vide che i portelli dell’hangar si stavano aprendo; strinse spasmodicamente le mani e prese a seguire la battaglia dal monitor, sperando solo in un miracolo.


Contro il cielo bianco che preannunciava nuova neve, Goldrake e i suoi mezzi ausiliari spiccavano stranamente, quasi non fossero stati al loro posto. Sotto di loro, il paesaggio appariva bianco ed immobile: una battaglia imminente era quanto di più inaspettato potesse sembrare.
Actarus si collegò con il Delfino Spaziale: «Venusia, vai al ranch a controllare come sta tuo padre. Noi proseguiamo verso la città».
«Non vuoi che venga con voi?»
«Forse scoprirai qualcosa d’importante nella fotografia di Rigel. Devi metterti in contatto con lui!»
Sa quanto sono preoccupata per papà... «Ti ringrazio, Actarus!»
Il Delfino si staccò dalla formazione e virò verso destra, in direzione del ranch.


Lo stormo di minidischi parve quasi materializzarsi dal nulla; in formazione serrata, puntarono dritti contro Goldrake e i due mezzi ausiliari.
Kein ordinò l’attacco; rapidi, Alcor e Maria scartarono evitando la pioggia di raggi energetici che si era abbattuta su di loro, mentre le lame rotanti di Goldrake cominciavano a falcidiare il nemico.
Erano l’arma più temuta dai piloti dei minidischi; Kein s’accorse che un paio dei suoi uomini stavano restando indietro, e li richiamò subito all’ordine: «Restare in formazione!»


«Ci attaccano in massa!», esclamò Maria.
«Sono troppi, stavolta!», gridò Alcor. «Non potremo mai batterli tutti assieme!»
«Dobbiamo rompere la loro formazione», ordinò Actarus. «Dividiamoci! Cerchiamo di separarli!»
Goldrake 2 virò spostandosi sulla destra, e subito un gruppo di dischi si pose all’inseguimento. Rapidissima, Maria puntò sui dischi che inseguivano Alcor, sparando i missili perforanti nel mucchio.


Normalmente, Venusia avrebbe puntato dritta sul ranch in cui si trovava suo padre; quel giorno, forse fu un’intuizione felice, forse fu la voce del sangue... sta di fatto che quasi senza rendersene conto imboccò un canalone tra le montagne, tenendosi a bassa quota. Neve ovunque, un bianco abbagliante da infastidire gli occhi...
Negli anni successivi, Venusia avrebbe raccontato la vicenda dicendo che forse s’era trattato di telepatia; sta di fatto che, sullo sfondo candido delle pareti innevate, scorse un qualcosa di piccolo e colorato che pareva dibattersi penzolando nel vuoto.
Papà!
Atterrò sulla neve, scese d’un balzo dal Delfino e si precipitò di corsa verso quel “qualcosa”: era suo padre, sospeso per la giacca ad un arbusto secco che spuntava dalla roccia. Sotto i suoi piedi, almeno una decina di metri di volo.
«Venusia, da questa parte! Aiutami!», urlò Rigel, agitandosi pazzamente.
«Papà, non muoverti!», Venusia si guardò febbrilmente in giro, in cerca… non sapeva nemmeno lei di cosa. Doveva portare via suo padre di lì, e al più presto.
Uno schianto, e l’arbusto si spezzò; con un urlo, Rigel cadde a capofitto in un gran mucchio di neve.
Venusia si precipitò subito in suo soccorso, cominciando a scavare nella neve; Rigel emerse sputacchiando, le mise in mano un pezzo di cartoncino umido: «Tieni… la foto…»


Il cicalino, improvviso e stridulo, lo fece sobbalzare.
Zuril si distolse con riluttanza dal monitor: Kein stava rischiando la vita, non voleva smettere di seguirlo… ma il senso del dovere prevalse in lui. Controllò la comunicazione che gli era appena arrivata.
Il mostro aveva occupato l’area che avevano scelto per la costruzione della nuova base. Presto i materiali sarebbero stati inviati da Skarmoon… avevano raggiunto il loro scopo.
Non aveva più senso che il ragazzo continuasse a rischiare: ora poteva richiamarlo alla base senza compromettere il suo onore.
Febbrile, Zuril si collegò col minidisco di Kein.


Sotto i colpi precisi di Goldrake e dei suoi due ausiliari, i minidischi di Vega cadevano l’uno dopo l’altro. Nonostante stesse combattendo valorosamente, Kein intuì che nei suoi uomini stava prendendo il sopravvento la paura. Se almeno fosse arrivato il mostro…
Un gruppo di minidischi virò rapidamente, dandosi alla fuga.
«Non scappate!», urlò Kein. «Continuate a combattere!»
Quasi avesse dato l’ordine di ritirata, altri dischi s’unirono ai primi: non sarebbe stato certo per l’odioso comandante Kein che dei soldati di Vega avrebbero rischiato la pelle! Se quel fleediano bastardo voleva continuare a combattere contro Goldrake, benissimo; ma loro non sarebbero rimasti a farsi trucidare da quell’assassino.
«Dovete battervi! È un ordine!», gridò Kein. «Quelli che scappano saranno condannati a morte!»
«Aspetta!», esclamò dal monitor la voce di Zuril.
«Signore…?»
«Il mostro ha potuto occupare l’area che avevamo prescelto. La tua missione è terminata», disse Zuril, sforzandosi di mantenere la propria voce ferma come sempre. «Per il momento, torna sull’astronave madre».
«Non possiamo scappare davanti a Goldrake!», obiettò Kein.
Non essere idiota, ragazzo mio… «Kein, lo scopo della nostra missione era permettere la costruzione delle fondamenta della base. Hai distratto Goldrake mentre occupavamo il posto; il tuo compito è finito. Rientra».
«Io non voglio tornare», s’ostinò Kein. «Non voglio essere considerato un fallito!»
Quando mai gli ho detto…! «Kein, non sei un fallito. Hai compiuto la tua missione. Torna!»
Kein evitò di guardarlo: «Se rientro ora diranno che hai cercato di proteggermi perché non avevo nessuna possibilità. Sarei coperto di vergogna».
«Kein, rientra! Ti prego...» gridò Zuril, ma il giovane aveva chiuso il contatto. Zuril provò freneticamente a ripristinare la comunicazione, ma Kein aveva spento la propria radio. Non avrebbe più potuto parlargli.
Zuril ricadde contro lo schienale della sua poltrona, mentre si sentiva gelare dall’angoscia; rimase immobile e silenzioso, lo sguardo incollato su quel solitario piccolo disco che ancora osava affrontare un nemico forte e spietato com’era Duke Fleed.


Unico fra tutti i dischi in fuga, uno solo virò puntando verso il nemico.
D’istinto, come aveva fatto innumerevoli volte, Duke Fleed scagliò le lame rotanti, che avrebbero posto fine a quel molesto nemico; con uno scarto, il disco riuscì a schivarle. Chiunque fosse a guidarlo, doveva essere un uomo in gamba, superiore alla media dei piloti dei minidischi.
Il Delfino Spaziale apparve improvvisamente tra le nubi gonfie di neve. «Actarus! Sono qui!»
«Venusia! Come sta tuo padre?», chiese il giovane.
«Un po’ infreddolito, ma sta bene!», rispose lei, sorridendo a Rigel, avvolto in una coperta e seduto sul posto del passeggero. Digitò sulla tastiera del computer di bordo per inviare ai compagni l’immagine scattata dal padre. «Ha davvero scoperto dov’è la base di Vega! Nella foto si vede chiaramente il mostro che decolla tra le montagne!»
«E-e-esatto!», esclamò Rigel, tra un battito di denti e l’altro.


29. Il sogno spezzato


Il disco di Kein zigzagava, evitando i colpi che gli venivano scagliati da Goldrake e dai suoi due mezzi ausiliari.
«Dobbiamo attaccare la base di Vega, e dobbiamo farlo subito!», esclamò Actarus, tentando inutilmente ancora una volta di colpire quel suo sfuggente avversario.
«Non perdere tempo, allora», intervenne Maria. «Vai. Penso io a quel minidisco!»
«Non sottovalutarlo, Maria. È molto abile. Venusia, tu porta tuo padre al sicuro», e Goldrake virò, allontanandosi assieme a Goldrake 2; il Delfino li seguì per un breve tratto, staccandosi poi a sua volta dagli altri.
Rimasta sola, Maria riprese l’inseguimento del disco: possibile che un simile, ridicolo mezzo potesse farsi beffe della Trivella Spaziale? Sparò una coppia di missili perforanti; quasi l’avesse previsto, il disco eseguì uno spericolato giro della morte, trovandosi così alle spalle della sua inseguitrice. Kein fece fuoco; Maria riuscì fortunosamente a schivare il colpo, voltandosi e scagliando a sua volta i missili perforanti. Colpito di striscio, il disco di Kein precipitò in un ampio canalone tra le montagne; Maria lo seguì per finirlo, ma con un’improvvisa cabrata il disco si sottrasse al suo inseguimento. La Trivella andò a sbattere contro una delle pareti del canalone, rimbalzò contro l’altra e andò ad affondare in un gran mucchio di neve. Stordita dai colpi ricevuti, Maria cadde sul pannello di controllo.
Kein sogghignò vedendo il suo nemico schiantarsi al suolo; un attimo dopo, s’accorse con orrore che i comandi del disco non rispondevano più. Perso il controllo, anche il mezzo di Kein piombò al suolo, roteando su sé stesso arrestandosi infine in un cumulo di neve fresca, a breve distanza dalla Trivella.


Zuril ricadde contro lo schienale della sua poltrona, incapace di credere a quel che aveva visto.
Il disco… abbattuto… schiantato al suolo…
…Kein…
Rimase immobile, l’occhio fisso sul monitor: non si vedevano più scene di battaglia, tutto era tornato calmo e silenzioso, laggiù… la neve aveva ripreso a cadere, coprendo indifferentemente rocce e rottami dei dischi…
Era tutto finito. Tutto.
Non sarebbe mai ritornato.
E fu allora, nel pauroso tumulto che in quel momento squassava il suo animo, che la parte più logica della sua mente, quella che restava fredda e lucida anche nei momenti peggiori, gli pose la domanda che lui mai avrebbe voluto sentirsi rivolgere: come farò a dirlo a Fritz?


Affiancati, Goldrake e Goldrake 2 erano ormai in vista del vulcano, un alto cono candido che spiccava tra le altre montagne. A rigor di logica, quello doveva essere il posto prescelto dai veghiani per costruire la loro base; la foto di Rigel confermava l’ipotesi, e le alte percentuali di vegatron rilevato erano un’ulteriore conferma.
«Ci siamo!», esclamò Actarus. «Vediamo di stanare quel mostro!»
«Ricevuto!», Alcor sparò il raggio ciclonico contro il vulcano mentre Actarus faceva altrettanto con il Tuono Spaziale.


All’interno del camino vulcanico, la nave madre di Zuril sussultò sotto l’attacco.
Il Ministro delle Scienze si drizzò sulla sua poltrona: non poteva più pensare al suo dolore, a… a Kein… non adesso. Aveva inviato a Fritz un messaggio in cui gli comunicava del lutto che li aveva colpiti, aveva avuto un po’ di tempo per riprendersi: ora era il momento di agire.
Un’altra esplosione. Oltre la porta metallica del suo studio, Zuril sentì le urla, i passi di corsa, i richiami concitati.
Un altro boato; il terminale del computer di Zuril sfrigolò e si spense in un lampo.
Ma come hanno fatto a scoprirci, quei maledetti?
Non era il momento di piangere un caduto, non ora, col rischio che le vittime aumentassero ad ogni secondo. Zuril controllò rapidamente l’interfono: funzionava. Un suo ordine, e il mostro di Vega fuoriuscì dal cratere, pronto alla lotta.


«Ci siamo! Ecco il mostro!», esclamò Alcor.
«Goldrake, fuori!» All’ordine di Duke, Goldrake fuoriuscì dal disco; subito Alcor guidò il proprio mezzo allineandolo con il robot ed eseguendo una perfetta manovra d’aggancio. Le braccia del robot si tesero verso il nemico sparando una raffica di raggi disintegratori; con uno scarto, il mostro schivò i colpi e s’allontanò rapidamente, scomparendo nella tormenta che aveva ripreso ad infuriare.
«Maledizione, ci è sfuggito!» Actarus prese ad osservarsi attorno, ma la visibilità era veramente scarsa: in quelle condizioni, il mostro avrebbe potuto piombar loro addosso senza che fossero in grado di vederlo fino all’ultimo istante… quella neve poi disturbava i sensori di Goldrake, creando un’interferenza che impediva di localizzare la posizione del loro nemico.
«È sopra di noi!», urlò Alcor, mentre il loro avversario calava in picchiata su di loro.
Il mostro spalancò le fauci metalliche, vomitando una scarica di raggi congelanti; uno dei motori laterali di Goldrake 2 venne investito in pieno, ibernandosi all’istante. Il peso del ghiaccio sbilanciò i mezzi, facendoli precipitare verso il suolo; con una brusca virata che richiese tutta la sua abilità di pilota, Alcor riuscì a far raddrizzare Goldrake 2, ed Actarus fece atterrare il robot, mentre il mezzo ausiliario si staccava per lasciargli una maggior libertà d’azione nel combattimento a terra.
Il mostro si gettò su Goldrake, venendo respinto dai due magli perforanti che lo centrarono in pieno, tranciandogli di netto le grandi ali e facendolo piombare al suolo. Molto meno esperto di Alcor, il pilota di Vega non riuscì ad attenuare la caduta e il mostro cadde rovinosamente nella neve.
Recuperati al volo i propri pugni, Goldrake agguantò l’alabarda spaziale. Corse verso il mostro, che stava rialzandosi da terra, lo scavalcò evitando d’essere centrato da un raggio congelante, si girò a mezz’aria e lo colpì nella schiena, tranciandolo di netto in due con l’alabarda.
Il mostro sussultò, quasi fosse stato in preda all’agonia, prima di esplodere in una fiammata abbagliante, che scomparve poi in un’immensa nuvola nera.


Zuril spense lo schermo da cui aveva seguito la lotta tra Goldrake e il mostro.
Si sentiva completamente svuotato.
Aveva perso un’altra volta… il suo progetto di costruire la base tra le montagne era irrimediabilmente fallito. E poi… Kein…
Non ora.
«Ritiriamoci», ordinò nell’interfono, la voce fermissima come sempre.
La nave s’inabissò maggiormente nel camino del vulcano, celandosi completamente alla vista e ai sensori dei suoi nemici.


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30 – Kein e Maria

Era ancora vivo.
Aprì gli occhi, battendo le palpebre: tutt’attorno, bianco e silenzio.
Ma quanto tempo era passato? E la battaglia? Che era successo?
Si tirò su a sedere, e subito varie fitte gli comunicarono i danni che il suo corpo aveva subito. Un’ondata di nausea lo costrinse a chiudere gli occhi ed aspettare.
Non seppe quanto tempo gli ci volle per sentirsi meglio. Quando riprovò ad alzarsi, riuscì a farlo, anche se sentiva la testa girargli e provava un gran dolore al petto, sulla sinistra: doveva essersi rotto qualche costola, nell’impatto. Anche la spalla gli doleva, e non era sicuro che le gambe l’avrebbero retto a lungo; però aveva un dovere da compiere, per non rendere totale la sua sconfitta.
Avrebbe raggiunto il pilota del mezzo ausiliario di Goldrake e l’avrebbe ucciso; che trionfo sarebbe stato per lui se fosse tornato da Zuril con la navicella catturata e il cadavere del nemico! Nessuno si sarebbe più fatto beffe di lui, sarebbe stato onorato come eroico combattente… non sarebbe più stato Kein il fleediano, il fallito, l’incapace.
Il suo disco era semisepolto nella neve; Kein aprì il portello superiore, controllò d’avere al fianco la sua pistola e s’inerpicò fuori del suo mezzo, scivolando poi a terra. Sentì un forte dolore a una caviglia: non se l’era rotta, per fortuna, altrimenti non sarebbe stato in grado di camminare.
Ad una decina di metri dal suo disco, giaceva la Trivella Spaziale, inclinata su un fianco. Kein si costrinse a raggiungerla, anche se ogni passo lo costringeva a serrare i denti per il dolore.
Io non voglio essere uno sconfitto!
Ancora pochi passi… pochi… ormai era arrivato…
Per sua fortuna, la Trivella era parzialmente affondata nella neve, per cui non gli sarebbe stato difficile, nelle sue condizioni, raggiungere il pilota. Nell’impatto si era spalancato il vetro dell’abitacolo: nonostante tutto, era fortunato. S’inerpicò sul mezzo, guardò all’interno: il pilota giaceva svenuto, con il viso rivolto dall’altra parte rispetto a lui… ma era una ragazza! Questo proprio non se l’era aspettato.
Non gli piaceva molto l’idea di sparare ad una donna, ma non aveva scelta. Armò la pistola; proprio in quel momento lei, ancora incosciente, voltò il viso verso di lui.
Kein ebbe l’impressione che tutto impazzisse attorno a lui.
Non poteva essere… lei era morta! Morta! Da anni e anni!
Guardò meglio quel viso, quei lineamenti che conosceva così bene: era cambiata, era cresciuta, l’aveva lasciata bimba e la ritrovava ragazza… non poteva crederci… Maria…?


In tutti quegli anni, aveva creduto d’aver esorcizzato il suo dolore, d’aver dato un taglio netto col passato, d’aver dimenticato per non dover soffrire.
In un attimo, comprese quanto enorme fosse stato il suo errore.
Vide visi che aveva creduto d’aver scordato, luoghi ormai scomparsi per sempre; udì voci perdute che gli attanagliarono l’anima, suoni e colori che aveva voluto ignorare con tutto sé stesso, annusò profumi familiari e rimasti indelebili nel suo essere.
Fu come ritrovarsi improvvisamente di fronte sé stesso: il giovane comandante di Vega affrontò Kein del pianeta Fleed, ed entrambi uscirono sconfitti da quello scontro.
Da Zuril, Kein aveva imparato ad osservare le cose con freddezza scientifica, vedendole per ciò che effettivamente sono: in quel momento, si vide come un rinnegato, un traditore.
Non era mai stato incline ad avere pietà per gli altri; non ne ebbe affatto per sé stesso.
La sua colpa gli apparve enorme, imperdonabile: non trovò scuse, attenuanti, non volle nemmeno provare a cercarne. Non volle pensare a sé stesso come al ragazzo spaventato e smarrito che era stato: si giudicò senza esitare, e si trovò colpevole, profondamente, irrevocabilmente colpevole.
Guardò sé stesso, la sua uniforme di ufficiale di Vega... pensare che conquistarla gli era costato tanto, che l’aveva così disperatamente voluta... Proprio lui. Un fleediano.
Sono un traditore!
Spostò lo sguardo su Maria: si era battuta valorosamente, aveva dimostrato d’essere un’abilissima pilota. Nonostante questo, il suo viso conservava ancora qualche tratto infantile, la bocca aveva una piega innocente, quasi da bambina.
C’era ancora innocenza in lui? Non più. E da molto, troppo tempo aveva smesso d’essere un bambino. Era un ufficiale freddo, efficiente, spietato... un vero soldato di Vega.
Era diventato esattamente ciò che un tempo aveva odiato con tutte le sue forze.
Tornò a guardare Maria: anche lui era stato così, una volta... sentì bruciargli gli occhi, mentre un’angoscia nera, opprimente, gli gonfiava rapidamente nel petto togliendogli il respiro.
Nel pugno stringeva ancora la pistola: era stato sul punto di sparare a sangue freddo contro un avversario inerme! Se non avesse riconosciuto in lei la sua amica di un tempo, l’avrebbe uccisa senza esitazione.
Che cosa sono diventato? Come ho potuto arrivare fino a questo?
A piccoli passi, un giorno dopo l’altro, gli rispose la voce lontana di Zuril.
Il solo ripensare a lui gettò Kein nel più totale sconforto: in tutti quegli anni era stato proprio lui, un veghiano, il suo principale punto di riferimento. L’aveva considerato… ora si vergognava solo a pensarlo… come un padre…
Maria gemette, sospirò.
Ma lo è stato, realizzò Kein. Avrebbe potuto maltrattarmi, torturarmi, uccidermi; invece, è sempre stato buono e generoso, con me. E io l’ho amato come un figlio può amare il proprio padre.
Maria portò una mano alla fronte, se la passò sulle palpebre.
Kein scosse il capo. Era un ingrato a pensar male di Zuril; ma provava una vergogna indicibile, ora più che mai. Cos’aveva fatto? Cos’era diventato…?
Maria aprì gli occhi.
Vide l’uniforme di Vega, la pistola… ma vide anche il viso dalla pelle chiara, i lineamenti sottili, gli occhi azzurri. Un fleediano? Possibile…?
In quel momento, i loro sguardi s’incrociarono: improvvisamente, Maria si sentì come se un suo ricordo fosse stato sradicato dal suo nascondiglio nell’ombra e riportato davanti a lei, in tutta la sua evidenza. I giardini fioriti… lei piccola, che giocava felice… e il suo compagno di giochi preferito.
«…Kein…?», mormorò, incredula.
Lui si ritrasse di scatto, coprendosi istintivamente il viso con il braccio, e si voltò per scendere dalla Trivella.
«Kein!», il grido di Maria risuonava di gioia. «Kein, sei proprio tu!»
Lui emise un gemito strozzato e si lasciò cadere sulla neve, allontanandosi di corsa. Una fitta al torace lo costrinse a fermarsi quasi subito, e con sua profonda vergogna vide Maria scendere a sua volta per corrergli dietro.
Oh, no, Maria… ti prego!
«Aspettami!» lei gli tese le braccia, fece per raggiungerlo; Kein s’allontanò ancora, ma le gambe non lo ressero. Cadde in ginocchio nella neve; subito, Maria si fece avanti, e lui con le poche forze che gli restavano le puntò contro la pistola.
«Maria, non avvicinarti!»
Lei s’arrestò, rimase immobile a fissarlo, incredula. Batté le palpebre, deglutì: perché lui non sembrava felice di vederla?
Ad ogni secondo che passava, Kein sentiva la vergogna invadergli l’animo. Vedere Maria, così innocente, così pura… lei era rimasta sé stessa, mentre lui…
«Io non sono Kein del pianeta Fleed», ogni parola era come un’ammissione a sé stesso. «Non sono più il ragazzo che conoscevi!»
Maria trattenne il fiato, fissando alternativamente gli occhi di Kein e la pistola puntata contro di lei. Lentamente, parve comprendere, il suo sguardo s’incupì.
«Sì», Kein scandì bene ogni parola. «Hai capito bene. Io sono un soldato delle forze di Vega».
Per un attimo, Kein pensò che lei l’avrebbe guardato con orrore, disprezzo; non era preparato a vederla rischiararsi in viso, sorridergli, tendergli le braccia come se niente fosse accaduto e lui fosse ancora il suo amico di un tempo. La pistola gli tremò nella mano.
«Non m’importa», lei mosse un passo verso di lui. «Noi siamo amici! Dopo tanti anni…»
La canna della pistola puntò verso il cuore di Maria. Se lui avesse premuto il grilletto, non avrebbe assolutamente potuto mancarla.
«Non avvicinarti!» Kein vide l’espressione addolorata di lei: era incredula d’essere respinta, non aveva paura di lui, gli voleva ancora bene.
Bene a me! A uno come me, un traditore, un…
Non poteva sopportarlo. «Maria, vattene».
Lei gli tese le braccia: «Kein, ti prego! Ci siamo finalmente ritrovati…»
«Tu non capisci!», urlò lui, voltando la testa da una parte: non sopportava quello sguardo azzurro, limpido ed puro… non tollerava di rivedere in lei ciò che lui era stato, un tempo. «Tu non sai cos’ho fatto… cosa sono diventato!»
Maria trasalì come se lui l’avesse colpita. Non riusciva a comprendere: cosa aveva potuto fare di tanto orribile, Kein? Lei lo conosceva, era un ragazzo buono e gentile…
Il giovane osò rialzare la testa. Incrociò lo sguardo di lei: era diretto, semplice, lo stesso sguardo della bimba che aveva conosciuto… mentre lui… No, per lui non c’era più speranza. Non si può riconquistare l’innocenza, quando la si è perduta.
Maria continuava a fissarlo, e i suoi occhi gliene ricordarono altri, più scuri, ma altrettanto limpidi e sinceri.
Liao, pensò Kein sentendosi uno spasmo torcergli le viscere.
Improvvisamente, fu come se lei fosse tornata e stesse vedendo in lui quel che era diventato: un veghiano spietato, un guerriero pronto ad uccidere. Un assassino come Bradios.
Ma Bradios era morto...
No! Basta!
La vergogna lo sopraffece. Con un grido di disperazione, Kein girò rapidamente la pistola puntandosela alla tempia, e fece fuoco.
Crollò a terra, e la sua testa fu avvolta da un’aureola di neve rossa.
Per un attimo, Maria rimase immobile, incredula: aveva ritrovato il suo amico, solo per vederselo morire davanti agli occhi… singhiozzando, cadde nella neve accanto a lui, lo abbracciò incurante del sangue che la lordava.
Oh, Kein… perché?
Perse ogni concezione del tempo, non seppe quanto rimase là, nella neve, a piangere sul cadavere di Kein.
Non percepì nemmeno l’arrivo di suo fratello e di Alcor, ritornati indietro a cercarla, preoccupati per non essere riusciti a contattare la Trivella.
Mani gentili la presero per le spalle, rialzandola; Maria si gettò tra le braccia di Actarus, scoppiando in un pianto dirotto.
«Perché?», gridò, disperata. «Perché dobbiamo continuare a dilaniarci? Io non ce la faccio più!»
Actarus scambiò un’occhiata con Alcor, che si era chinato ad esaminare Kein: in un attimo, compresero cos’era successo. Un traditore che aveva provato vergogna, e si era ucciso.
Alcor gettò uno sguardo di disprezzo a Kein; sopra la spalla di Maria, Actarus scosse la testa. Non potevano sapere le ragioni di quel ragazzo, non potevano giudicarlo…
Siamo arrivati ad ucciderci tra di noi, si disse Actarus.
Questa guerra deve finire, e al più presto possibile.


Epilogo

In piedi di fronte al megaschermo da cui aveva una grandiosa visione del ribelle pianeta Galarn, il comandante Markus appariva minuto, nonostante il portamento orgogliosamente eretto. Fritz si fece avanti, titubante; aprì la bocca, ma le parole non gli vennero.
«Mi hanno detto che hai chiesto un permesso», Markus non era tipo da perdersi in preamboli.
«Sì, signore», Fritz si sforzò di mantenere salda la voce. «Mio padre mi ha comunicato che mio... mio fratello... Kein, voglio dire, in realtà non siamo fratelli...»
«Ho sentito del comandante Kein», il viso di Markus s’indurì. «L’ennesima vittima di Duke Fleed. Non fossi costretto a restare qui per domare le popolazioni che stanno tentando di insorgere, vorrei affrontarlo io, quell’assassino. Ho una questione aperta, con lui».
Nonostante il suo dolore, Fritz lo guardò con sorpresa: «Voi, signore?»
«Un vecchio conto da saldare», confermò Markus, a denti stretti. «Spero solo di potergliela far pagare, un giorno». Si girò finalmente verso Fritz; vide il viso pallido e tirato, gli occhi rossi e gonfi, e si raddolcì: «Immagino che tu voglia raggiungere al più presto tuo padre».
«So che in questo momento non dovrei chiedervi un permesso», mormorò Fritz. «Avete bisogno di uomini, la ribellione di Galarn contro Vega sta dilagando. Se volete che resti...»
Markus gli tagliò le parole in bocca con un gesto secco; la sua sciarpa azzurra, da cui mai si separava, ondeggiò sulle sue spalle. «In tutto questo tempo in cui sei stato con me, non mi hai mai chiesto nulla. Non posso certo rifiutarti un permesso proprio ora che avete avuto un lutto in famiglia. Vai pure da tuo padre».
Fritz parve illuminarsi: «Grazie, signore!»
«Solo una cosa», Markus era un tipo dai modi asciutti; in quel momento, però, mise una mano sulla spalla del suo giovane ufficiale e gliela strinse: «Non farti coinvolgere in battaglie contro Duke Fleed».
«No, signore», rispose Fritz, sorpreso da quella manifestazione di affetto da parte del suo ruvido superiore.
«Sei uno dei migliori ufficiali che abbia mai avuto», aggiunse Markus. «Però non avresti possibilità, contro quel macellaio... Vai, ora».


L’unico occhio fisso sul solitario mucchio di neve, Zuril respinse con un gesto i soldati che volevano aiutarlo a sorreggersi in piedi; zoppicò a fatica fino alla tomba mentre i suoi uomini lo sorvegliavano, pronti ad intervenire in caso di bisogno. In quel momento, nonostante le sue ferite lui non voleva nessuno vicino. Nessuno.
Guardò ancora il mucchio di neve: vi era stata conficcata una pistola. Vedere appesa a quell’arma la visiera d’argento, quella visiera che conosceva così bene, gli tolse anche le sue ultime, assurde speranze.
Serrò le mascelle, mentre in lui lo scienziato prendeva rapidamente il sopravvento sull’uomo.
Guardò la carcassa del disco di Kein, semisepolta nella neve: era parecchio lontano dal luogo della tomba. Probabilmente lui era stato sbalzato fuori, magari era sopravvissuto all’impatto. La neve aveva ripreso a cadere cancellando le tracce, non c’era modo di ricostruire l’accaduto.
Sarà morto sul colpo? Avrà sofferto…?
Non vi sarebbe mai stata risposta per lui a quelle domande, per cui si costrinse a ricacciarle indietro.
Piuttosto, c’era da chiedersi perché Duke Fleed avesse seppellito Kein: l’aveva forse riconosciuto? Per lui doveva essere un nemico, peggio, un traditore. Perché sprecare tempo e fatica, quando avrebbe potuto far sparire il corpo disgregandolo con una delle sue armi?
Altre domande per cui non avrò risposta.
Accese lo scanner, lo puntò sulla tomba e controllò il flusso dei dati.
Un corpo umanoide seppellito sotto un metro e cinquantasette di terreno.
Composizione del corpo: compatibile con la razza di Fleed.
Altezza, un metro e settantasette. Valutazione peso: sessantacinque chili. Età presumibile...
L’occhio gli si inumidì offuscandogli la vista, e dovette strofinarselo.
Spense lo scanner. Era inutile continuare, inutile sperare, inutile illudersi... Kein era morto, sepolto sotto un cumulo di terra gelata. Anni e anni di soddisfazioni, speranze, progetti per il futuro di quel giovane così brillante... tutto sfumato, tutto sparito, nascosto al buio e al freddo sotto terra e neve.
Zuril rimase immobile, lo sguardo fisso sulla tomba; non seppe per quanto tempo restò lì, non seppe a cosa stava pensando, cosa stesse provando... rimase e basta, incurante del vento freddo che lo sferzava, dei fiocchi di neve che avevano ripreso a turbinare nell’aria, dimentico persino del dolore al petto che gli troncava il fiato.
Con le costole spezzate, ogni respiro era un tormento. La ferita al torace gli pulsava dolorosamente. Pure, sapeva che tutto questo non era nulla rispetto al gelo spaventoso che l’invadeva.
Chiuse l’occhio, alzò il viso esponendolo ai fiocchi gelidi e leggeri... era tutto finito, ormai. Tutto. Lui stesso, la sua carriera, le sue ambizioni... e soprattutto, Kein... suo figlio, inutile girare attorno a questo termine, Kein era suo figlio... non c’era più.
Un nuovo spasmo di dolore: in tutti quegli anni, Kein gli aveva dato solo motivi d’orgoglio e soddisfazione, e le ultime parole che aveva avuto per lui erano state di rimprovero e biasimo. Ora non avrebbe più potuto dirgli... dirgli...
Un tremito improvviso lo scosse da capo a piedi, mentre il buio gli piombava addosso. Vacillò pericolosamente; i soldati balzarono in avanti, ma lui li trattenne con un gesto secco della mano. Poteva farcela da solo, non era ancora un uomo finito.
S’impose di dominarsi: era stato sul punto di perdere i sensi davanti ai suoi uomini.
Non deve accadere, si disse, sentendosi mordere dalla vergogna. Morirò, piuttosto.
Squadrò le spalle, raddrizzò la schiena. Alzò lo sguardo verso il cielo: avrebbe dovuto affrontare Fritz, e non con un messaggio, stavolta... avrebbe dovuto dirgli che... che Kein...
Cercò di non pensare allo spaventoso dolore del figlio; il proprio, lo seppellì nelle pieghe più nascoste del suo animo, almeno per il momento. Non poteva perdere il controllo davanti ai suoi sottoposti. Ci sarebbe stato il tempo più adatto anche per il lutto.
Respirò profondamente, riprendendo il pieno dominio di sé; poi voltò le spalle a quella tomba solitaria e camminò con passo fermo nella neve, dirigendosi verso i suoi uomini e il disco atterrato una decina di metri più in là.
Uno dei suoi fedeli soldati mosse un passo verso di lui: «Ministro Zuril...?»
Evitò di guardarlo: «Niente. Non è niente. Torniamo».


FINE



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Visto che anche gli altri l'hanno fatto - e con ragione! - posto il racconto che avevo preparato per il contest di Chibi.


UNA GIORNATA QUALSIASI


All’inizio, era stata una mattina esattamente come tante altre: dopo aver servito la colazione, sparecchiato e riordinato la cucina, Venusia aveva dato il via alle normali pulizie quotidiane. Aveva giusto riposto l’aspirapolvere e stava per tornare in cucina per cominciare con il pranzo, quando una scampanellata l’informò della presenza d’un visitatore.
Non può essere Banta o sua madre, quelli entrano come fossero a casa loro…
Incuriosita, Venusia s’aggiustò i capelli, lisciò il grembiule ed andò ad aprire la porta, trovandosi così al cospetto d’un lindo ometto sorridente in un impeccabile completo grigio chiaro: «Buon giorno, signora. Sono qui per un sondaggio; potreste dedicarmi qualche minuto del vostro tempo?»
Venusia in genere non amava rispondere alle domande dei venditori, ma in quel momento era proprio stanca e una pausa era quanto di meglio potesse desiderare… e l’ometto era davvero simpatico e gentile. Così fu che, pochi minuti dopo, i due sedevano al tavolino nella veranda, davanti ad una caraffa di tè freddo al limone.
Dopo aver lodato la bellezza del luogo – e bella lo era davvero, la fattoria, ammise a sé stessa Venusia con un certo orgoglio – l’ometto aprì dei fogli davanti a sé. Il sondaggio sarebbe stato anonimo, naturalmente, ma gli occorrevano alcuni dati degli abitanti: fascia d’età, sesso, professione… la signora di che s’occupava?
Venusia accennò al suo grembiule: «Ma… la casa mi tiene talmente impegnata…»
«Casalinga, certo», l’ometto spuntò una casellina sul foglio. «Nobilissima occupazione ingiustamente sottovalutata. Forse la signora ha qualche hobby? Ricamo, pittura, danza, lettura…?»
«Veramente… volo».
L’ometto s’aggiustò meglio sul naso gli occhialini bordati d’oro: «Scusate, temo di non aver capito. Per “volo” intendete che amate viaggiare in aereo?»
«No, che mi piace pilotare».
Stavolta gli occhialini sussultarono maggiormente. L’ometto guardò meglio quella pacifica casalinga che in tutta tranquillità stava affermando… cosa…? «Mi state dicendo che siete una pilota d’aerei?»
Non proprio… e poi, affetto anche dischi e mostri extraterrestri, fu ciò che Venusia avrebbe voluto dire; ma, prudentemente, tacque. Si strinse nelle spalle, sorrise: «Una donna ha pur diritto ai suoi piccoli hobby, non trovate?
«Certo, certo», l’ometto scrisse qualcosa sul foglio; poi rialzò verso Venusia il viso sorridente: «Vogliamo passare alle domande importanti?»
Lei s’accomodò meglio sulla sua sedia: «Sono pronta».
«Allora…», lui scorse rapidamente il foglio «Potreste dirmi che opinione avete dell’importanza dell’igiene mentale?»
Venusia fece per rispondere, ma in quel momento un certo rumore proveniente dal cortile richiamò l’attenzione dell’ometto, che si voltò per vedere che stesse succedendo.
Dalle scuderie stava provenendo Actarus, che spingeva una carriola stracarica di autentico letame di cavallo, freschissimo (l’odore era inequivocabile). Il giovane appariva scarlatto in viso, non tanto per la fatica, quanto per la visione che era costretto ad avere sotto agli occhi: di fianco alla staccionata dell’orto, posa languida, spacco assassino e cellulite en plein air, Hara, la madre di Banta, lo attendeva con i labbroni scarlatti a cuoricino. Il rumore che aveva distolto l’ometto dal suo questionario era provocato da Banta stesso: il giovanotto non era ancora in vista, ma i suoi ululati era impossibile non sentirli. Un attimo dopo apparve sull’aia anche la causa di tanto fracasso: col sombrero ben calcato in testa, la maglietta a riquadri dai colori chiassosissimi e gli stivaletti da cowboy, Banta era una visione indimenticabile. Particolare penoso: gli schiamazzi erano dovuti allo sdegno di ritrovare la madre «conciata così! Ma non ti vergogni? Alla tua età?»
Abbandonate le pose seduttive, Hara, i pugnoni sui fianchi, apostrofò il figlio con notevole entusiasmo, quadruplicando il numero dei decibel; Actarus avrebbe voluto svicolarsela con il suo letame, ma non si sentì di farlo. Con gran sprezzo del pericolo che correvano i suoi timpani, tentò d’interporsi tra i due fungendo da paciere, e venendo naturalmente ignorato.
Proprio allora, con un possente rombo, due motociclette piombarono a tutta velocità sull’aia; Alcor eseguì una frenata schizzaghiaia, mentre Maria, con un ululato selvaggio, si fermava proprio davanti alla veranda impennando la motocicletta all’ultimo istante, e facendo balzare all’indietro l’ometto, terrorizzato. Maria scoppiò a ridere, ma si distrasse subito vedendo il fratello impegnato tra i vicini urlanti; Alcor, cui non pareva vero gettarsi in una rissa, prese subito a litigare con Banta, e a Maria parve più che naturale dare aria alle tonsille prendendosela con Hara.
Venusia stava chiedendosi che mai avrebbe potuto capitare di peggio, quando il peggio, appunto, avvenne.
Un urlo sovracuto fece ammutolire tutti i presenti, che alzarono la testa verso la torretta sul granaio: aggrappato al suo cannocchiale Rigel, eccitatissimo, saltellava rimbalzando come una palla di gomma: «L’UFO! L’ho visto! Stanno arrivando gli UFO! Amici spaziali, vi autorizzo a scendere! Yu-huuuuu!!!»
«Papà! Stai attento!», gridò Mizar, apparso allora all’angolo della casa; e proprio allora, l’inevitabile avvenne. Forse fu un balzo più alto degli altri, forse fu la ringhiera che cedette… Rigel cadde dalla torretta, e con leggiadro volo piombò a capofitto nella carriola di Actarus, schizzando letame nel raggio di cinque metri.
«Lo sapevo, io!», da quel ragazzino pratico che era, Mizar sparì in casa ritornandone subito dopo con una valigetta del pronto soccorso: «Papà, quante volte devo dirti di non agitarti quando sei sulla torretta? È il terzo volo che fai in questa settimana!»
«Ma c’è l’UFO… io l’ho visto!», rantolò Rigel. «Gli spaziali…»
Nonostante fossero ricoperti di letame dalla testa ai piedi, Actarus, Alcor e Maria si scambiarono uno sguardo d’intesa: «L’UFO! Andiamo, c’è bisogno di noi!»
Le motociclette sgommarono, Actarus balzò in groppa a Silver e partì al galoppo.
Mizar rialzò faticosamente il padre e lo riportò in casa, mentre il genitore continuava a cianciare di Ufo e di spaziali.
Indispettita per la defezione di Actarus, Hara afferrò il figliolone per un orecchio e lo trascinò verso casa, brontolando qualcosa a base di acqua calda, sapone e paperella gialla di gomma.
Nell’aia tornò finalmente il silenzio.
L’ometto tornò a girarsi verso Venusia, che lo guardava con notevole apprensione. Letame, schiamazzi, UFO, motociclette, cavalli, spaziali… che avrebbe pensato di loro, quel distinto signore dall’apparenza così normale?
L’ometto sistemò gli occhiali sul naso. Impilò i fogli, battendoli sul tavolo per allinearli, e li ripose nella cartellina.
«Mi stavate chiedendo qualcosa sull’igiene mentale», l’incoraggiò Venusia.
L’ometto si rialzò e le rivolse un educato sorriso: «Signora, credo…», prese fiato, «Credo di aver saputo tutto quel che mi serviva sapere… buon giorno».
E s’allontanò rapidamente.


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L’ULTIMO SALUTO

Non avrebbe potuto andarsene senza prima tornare un’ultima volta a salutarla.

Poche settimane prima, quel prato era stato un mare di fiori color oro; adesso i petali delicati erano appassiti, il vento li aveva spazzati via. Di quel mare di fiori non era rimasto altro che il verde abbagliante delle foglie.
Ai suoi piedi, il terreno era leggermente rialzato; sulla terra molle stavano spuntando alcuni sottili fili d’erba.
Presto, niente avrebbe indicato che lì sotto era seppellita l’erede al trono della casata di Vega.
Respirò a fondo, strinse i pugni mentre i ricordi di poche settimane prima gli tornavano alla mente, inarrestabili…


«Non vuoi che mettiamo proprio nulla?», aveva chiesto Alcor, stupefatto. «Una pietra con il suo nome, magari?»
«Sono sicuro che lei preferisca così», e Actarus aveva piantato sul terreno alcuni semi, ricoprendoli delicatamente con terra morbida e scura. Nelle orecchie gli risuonava ancora la voce dolce di Rubina, che gli chiedeva di dare il suo nome al primo fiore che avesse sbocciato su Fleed. «Così tornerò da te ogni primavera», gli aveva promesso.


Actarus sentì stringerglisi la gola. Lei era morta perché aveva voluto sacrificarsi per lui, proteggerlo dall’attacco folle del mostro di Vega pilotato da Zuril. Ancora una volta, qualcuno era morto per lui, per causa sua… si erano ritrovati dopo anni e anni di separazione, quando ormai lui si era rassegnato a crederla scomparsa per sempre dalla sua vita.
Perché le cose devono sempre accadere quando è ormai troppo tardi?
Una fitta al petto… aveva amato Rubina, l’aveva amata con tutto sé stesso. Quando aveva dovuto separarsi da lei, aveva sofferto atrocemente. Poi, lenta e grigia, era venuta la rassegnazione a coprire dolcemente il suo dolore… e infine, a tradimento, era successo l’impensabile.
Rubina era tornata, si era precipitata da lui dichiarandogli il suo amore, supplicandolo di andare con lei su Fleed, a cominciare finalmente la loro vita assieme.
Incapace di rispondere, lui aveva semplicemente scosso il capo. No.
«Ma perché?», lei l’aveva stretto tra le braccia, incapace di comprendere il suo stato d’animo. Poi, con un vocino sottile, quasi da bimba, aveva bisbigliato: «Duke… non mi ami più?»
Lui aveva ancora tentato di parlare, ma la sua gola era inaridita, e la sua lingua non poteva formulare parole.
«Ma Duke, sono qui, siamo ancora insieme… possiamo…»
Lui aveva ancora taciuto, scuotendo lentamente il capo mentre sentiva bruciare gli occhi.
Erano successe troppe cose, troppe… troppi orrori, troppo sangue, troppi morti.
Si erano amati, era vero: ma anche l’amore più forte, più vigoroso può venire spezzato come un fiore nella tempesta; poi, una volta inaridito, non può restare che un pallido ricordo dei suoi colori e appena un lieve sentore di profumo.
Allora, non era riuscito a spiegarglielo; adesso era felice di non aver parlato. Lei era morta pochissimo dopo quel loro incontro, almeno lui non aveva dovuto darle un dolore.


Si chinò, sfiorò con una carezza lieve i teneri germogli che stavano spuntando sulla tomba di Rubina. Poi si rialzò, e gettò un’occhiata verso sinistra, giù, in un valloncello ombroso più in là, verso un’altra tomba solitaria. I ricordi tornarono, prepotenti.


«Vuoi seppellire anche Zuril?», aveva esclamato Alcor, con una smorfia.
Le parole gli erano uscite stentate dalle labbra: «È stato un buon avversario».
«Ma è colpa sua se Rubina è morta!», Alcor aveva gettato uno sguardo pieno d’astio ai resti di quello che era stato il grande Ministro delle Scienze. «Parola mia, non ti capisco! Con un colpo del Tuono Spaziale puoi spazzar via lui e i rottami della sua astronave, senza star tanto a perdere tempo!»
«Non posso fare una cosa simile», in quel momento Actarus si era sentito molto stanco, e la collera di Alcor non aveva fatto che aumentare la sua spossatezza.
«È un nemico, ha tentato di ucciderci in tutti i modi, alla fine ha causato la morte di Rubina!»
«Se non ti va di aiutarmi, ti capisco. Mi arrangerò da solo».


Naturalmente, Alcor aveva ceduto: insieme avevano scavato una buca profonda e avevano dato una degna sepoltura anche a quel che era rimasto di Zuril… ma in fondo al valloncello, nell’ombra, lontano dalla sommità fiorita e soleggiata che ospitava le spoglie di Rubina.


Ormai, non aveva più lacrime.
Actarus guardò un’ultima volta la tomba di Rubina; gettò un altro sguardo giù, verso il valloncello, e tornò a guardare la sepoltura ai suoi piedi.
Avrebbe avuto infinite cose da dire, ma ormai sarebbero state una più inutile dell’altra; scelse il silenzio.
Voltò le spalle, e s’allontanò senza guardarsi più indietro.


Se volete lasciare un commento (molto gradito!) https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=690#lastpost
 
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