Nuovi due capitoli.
Avverto da subito: non ho descritto praticamente nulla, ma è "tosto".
18 ViolenzaLa prima comunicazione interplanetaria fu ovviamente per Liao: Kein fu felicissimo di vedere lo stupore di lei trasformarsi in autentica gioia nel sapere del nuovo comunicatore che avrebbe permesso loro di parlarsi nonostante la distanza che li separava; distanza comunque relativa, visto che Ruby e Zuul appartenevano allo stesso sistema planetario.
Anche Fritz usò il comunicatore per salutare Shazira… ma bisogna dire che le chiamate di Fritz furono molto meno lunghe e frequenti di quelle di Kein per Liao.
Quando non chiacchierava con Liao, Kein trascorreva con Fritz la maggior parte del tempo. Dopo mesi e mesi di scuola, saturi di confusione e d’orari zeppi d’impegni, i due ragazzi non sognavano altro che solitudine, silenzio immersi nella natura, e avere ore e ore a disposizione per oziare, o semplicemente per trascorrerle come piaceva a loro, senza compiti, ordini e doveri pressanti.
Ritornarono a scuola molto più rilassati di come erano partiti e pronti per riaffrontare gli studi; ma quel nuovo anno da subito si preannunciò più duro del precedente, e non solo perché il programma era più impegnativo.
Da subito, fu chiaro che il problema sarebbero stati i loro compagni.
Per qualche motivo, durante le vacanze doveva essere serpeggiata la voce che Kein non avrebbe più frequentato la scuola; ritrovarlo al nuovo anno fece scattare in molti studenti il malumore. Pareva impossibile che dovessero ancora sopportare d’avere con loro uno schiavo, questo era l’atteggiamento più comune.
Kein venne subito isolato dal resto dei compagni; quanto a Fritz, si ritrovò quasi subito tagliato fuori da quelli che erano stati i suoi amici.
“Ci dispiace, ma finché resti con quel lurido schiavo noi non possiamo più avere a che fare con te”, questo era ciò che il giovane lesse negli occhi degli altri ragazzi; come immediata conseguenza, Fritz fece subito quadrato con Kein. Andassero pure all’inferno gli altri, non aveva certo bisogno di amici come quelli.
Chi soffriva maggiormente di tutto ciò, strano a dirsi, fu Shazira.
Dopo un’estate in cui era sempre stata lei a cercare Fritz, e quasi mai il contrario, la ragazza aveva maturato un gran terrore di vederselo sfuggire: era il figlio del potentissimo ministro Zuril, non poteva farselo scappare! D’altra parte, un’aristocratica come lei provava orrore all’idea di far comunella con un sudicio schiavo.
Il risultato fu che lei dovette inghiottire una serie di bocconi amari, uno dietro l’altro: non poteva avere Fritz se non era disposta anche ad accettare Kein, questo le fu evidente… e Kein voleva dire Liao. In quel periodo, l’odio che Shazira provava per la giovane rubiana giunse al parossismo; disgraziatamente, lei non poteva lasciar trapelare i suoi veri sentimenti. Doveva sorridere, sorridere e subire, cosa questa che non rientrava proprio nelle sue abitudini.
Per Liao le cose non andavano meglio: le compagne avevano preso ad ignorarla, la tagliavano fuori dai loro gruppi, la facevano bersaglio dei loro dispetti. Sempre più spesso, Kein la trovava con gli occhi rossi e le labbra tremanti. Colto dall’ira, il giovane avrebbe voluto andare dalle ragazze che tormentavano Liao per dar loro quel che si meritavano, ma sapeva che poi tutti i torti sarebbero ricaduti su di lui, e di conseguenza anche su Liao stessa. Non poteva far altro che incoraggiarla, consolarla ripetendole che l’anno successivo la scuola sarebbe finita e sarebbero andati via da lì… ma intanto, bisognava restare. E subire.
Era quello che continuava anche a ripetere a sé stesso, mentre stringeva i denti per non ascoltare le canzonature dei compagni, Bradios in testa: tutto questo un giorno sarebbe finito, e allora avrebbe fatto vedere a quei veghiani cosa poteva valere uno schiavo di Fleed. Avrebbe protetto Liao dalla cattiveria, la malizia, l’invidia; e lei sarebbe stata davvero orgogliosa di lui.
La tragedia esplose, del tutto imprevista, ad anno scolastico quasi concluso.
Al termine della lezione di k’rahi, Liao entrò per ultima nei bagni: come sempre, le era stato impedito di lavarsi fino a quando l’ultima delle sue compagne non avesse indugiato a lungo sotto la doccia. Sentendosi sporca e puzzolente, Liao poté finalmente scivolare sotto il getto tiepido. Si lavò con cura: poteva perdere un po’ di tempo, ormai l’orario di lezione era finito, per quel giorno.
Quando mise la testa fuori dalla doccia, fu accolta da un silenzio che le parve gelido: naturalmente, nessuna delle altre ragazze aveva pensato d’aspettarla, e non c’era più nessuno oltre lei nell’intera palestra. S’asciugò in fretta e cominciò a vestirsi: normalmente era ben felice d’essere sola, ma quel giorno provava una strana inquietudine che… che non…
Aveva appena finito di pettinarsi, quando alzò istintivamente gli occhi e fissò attonita l’enorme massa di Bradios, che sembrava riempire l’intera porta.
«Che ci fai, qui?», esclamò. «Questo è lo spogliatoio femminile, e…» le parole le morirono sulle labbra, mentre Bradios avanzava lentamente. All’improvviso, Liao si sentì molto piccola e molto sola: lui non aveva detto nulla, non faceva altro che avanzare, fissandola, e lei provava un terrore crescente, inarrestabile.
Fu un attimo: Liao balzò in piedi, e una delle mani enormi di lui le artigliò la treccia, strappandole un urlo di dolore.
«Pensare che ti sei persa dietro quel finocchietto di Fleed!» esclamò Bradios, tirandole brutalmente i capelli per torcerle la testa verso di lui. «È il tuo giorno fortunato, tesoro: stai per conoscere un vero uomo».
Sconcertato, Kein girò per la sala mensa, cercando Liao nei vari tavoli; non la vide, e nessuno seppe, o volle, dirgli dove fosse.
Anche Fritz appariva preoccupato: tagliati fuori dagli altri ragazzi, loro tre avevano preso l’abitudine di mangiare assieme, e non era normale che Liao non si fosse presentata senza dir niente.
Kein si sentiva sempre più inquieto; quanto a Fritz, non finse di non essere preoccupato. Magari lei era assente per colpa di uno stupido scherzo, forse…
Presero a cercarla entrambi, dividendosi. Mentre Fritz andava all’infermeria per vedere se lei si fosse magari sentita poco bene, Kein corse ai dormitori femminili: non poteva entrare, ma poteva sempre chiedere a tutte le ragazze che incontrava se Liao fosse là dentro. Ricevette molte rispostacce e varie risate in faccia; poi una delle ragazze, impietosita, andò a controllare. Non c’era. A dire il vero, era un bel po’ che non la vedeva… vediamo… dall’ora di k’rahi…?
Kein uscì dall’edificio scolastico principale: la palestra era in un padiglione separato, in fondo al cortile. In preda ad un’ansia crescente, Kein si precipitò di corsa verso l’ingresso, a forza di bussare quasi sfondò la porta dello spogliatoio delle ragazze; poi la spalancò.
Su una panca, vide subito una sacca azzurra, che riconobbe immediatamente. Fece un passo avanti, un altro…
Vide la pozza di sangue, poi il corpo bianco e sottile gettato in un angolo, come spezzato, i vestiti a brandelli sparpagliati tutt’attorno… Un’altra spaventosa immagine affiorò con prepotenza dai ricordi che aveva voluto obliare: il corpo straziato di sua madre, abusato e scaraventato via come un rifiuto…
Urlò, urlò, urlò fino a restare senza fiato.
Seguì un trambusto in cui ogni cosa si fondeva orrendamente con le altre: grida, gente che accorreva… il viso pallidissimo della professoressa Rowan… Fritz che correva ad abbracciarlo, poi il medico della scuola che si faceva avanti a gomitate. Vennero spinti tutti fuori dello spogliatoio.
Si ritrovò seduto in un corridoio, tremante e con i denti che gli battevano; accanto a lui, Fritz tentava inutilmente a convincerlo a bere qualcosa di caldo.
Ragazzi andavano e venivano, e frasi smozzicate gli giungevano alle orecchie:
«Quasi dissanguata…»
«Un miracolo che non sia morta…»
«Violentata…»
Ogni parola, ogni frase erano come una coltellata. Non gli avevano permesso di vederla: il medico stava visitandola, finché non avesse finito non avrebbe potuto andare a trovarla.
Fritz lo costrinse ad alzarsi e seguirlo: «Devi sdraiarti, Kein. Non puoi continuare così».
Docile, lasciò che l’amico lo riportasse in camerata. Si sdraiò sul letto: in quel momento si sentiva estenuato. Quando Fritz gli mise un bicchiere contro le labbra, bevve senza quasi accorgersene: realizzò troppo tardi che quel sapore un po’ amarotico indicava che nell’acqua erano state sciolte un po’ delle gocce che prendeva abitualmente per dormire.
Fece per rialzarsi, ma la stanchezza, l’emozione e il narcotico fecero il loro effetto: ricadde sul letto senza nemmeno accorgersene e piombò in un sonno pesantissimo, senza sogni, da cui si sarebbe svegliato solo molte ore dopo.
Kein arrivò di corsa, finendo a sbattere contro la porta metallica d’ingresso dell’infermeria: era chiusa.
Provò a bussare, continuò a farlo sempre più forte, ma nessuno venne ad aprirgli.
Disperato, colpì a calci la porta, ma non accadde ancora nulla.
Vide un pulsante sulla parete: un campanello. Vi s’attaccò, pigiando con il dito, e continuò fino a quando finalmente l’uscio non si aprì e il medico non fece la sua comparsa.
L’uomo lo riconobbe subito – e come avrebbe potuto averlo dimenticato? – e fece una smorfia che non prometteva nulla di buono.
«È il modo di suonare?», sbottò il medico, cui non parve vero avere il pretesto per sgridarlo.
«Mi spiace, signore... sono venuto per Liao. Posso vederla? Anche solo per un attimo?»
Il medico parve riflettere e sorrise: «Direi proprio di no. Sparisci».
«Ma Liao vorrà che io... Sono il suo ragazzo, e...»
«E allora? Potresti essere anche sua madre, e non ti lascerei entrare. Vattene».
Kein deglutì: «Posso almeno sapere se sta bene...?»
«Bene?», il medico scoppiò a ridere; poi sbottò, tutto d’un fiato: «Quella ragazza è stata violentata e picchiata selvaggiamente! Ha varie fratture al viso, quattro costole incrinate e un braccio rotto, senza contare gli ematomi, i danni interni e l’emorragia... e non ti ho detto il meglio. Trauma cranico grave, con frattura dell’osso temporale. È in coma, non so quando, e soprattutto se, si riprenderà. E tu vieni a chiedermi se sta bene?», e gli sbatté la porta in faccia.
Kein non si mosse più dal corridoio che portava all’infermeria. Piazzato su una sedia, lo sguardo ostinatamente fisso sulla porta d’ingresso, attese in silenzio delle notizie che nessuno pareva disposto a dargli. Il medico lo evitava, gli infermieri che gli passavano davanti gli gettavano qualche sguardo furtivo, ma evidentemente avevano degli ordini da rispettare. Intanto il tempo passava, e Kein continuava ad aspettare.
Fritz venne a trovarlo, naturalmente: gli portò da mangiare e da bere, dovette insistere parecchio perché ingollasse qualche boccone e bevesse un sorso, e per il resto rimase accanto a lui, in quel silenzio che non ha bisogno di parole che solo i veri amici sanno avere.
Le ore trascorsero, dalle finestre del corridoio la luce lasciò il posto al crepuscolo e poi al buio della notte; in tutto quel tempo, nessuna notizia.
Nessuno apparve nemmeno più nel corridoio: Kein non ignorava che l’infermeria avesse anche un’uscita di servizio. Evidentemente, era stato dato ordine di usare solo quell’ingresso.
Nonostante avesse fatto di tutto per restare sveglio, Fritz crollò dal sonno, finendo con la testa appoggiata contro al muro; Kein lo guardò con affetto, e poi riprese a fissare la porta.
Fu un’eternità dopo – o era stato un attimo? L’impressione che aveva era di essersi appisolato – che le porte si aprirono scorrendo di lato e lasciando passare una donna alta e bella dai corti capelli viola. Gli bastò notare con un’occhiata i gradi di ufficiale e la forte somiglianza con Liao perché Kein capisse di trovarsi al cospetto del comandante Mineo.
La donna guardò il viso pallido, gli occhi arrossati e gonfi: «Tu devi essere Kein».
Il ragazzo si alzò sulle gambe malferme: «Sì, signora. Questo che è con me è mio frat… il mio amico».
«Lascialo dormire». Mineo scrutò in viso Kein e assentì, mentre il viso teso le si raddolciva: «Sei come Liao ti aveva descritto».
«Come…», esitò, prese fiato: «Come va? Non hanno voluto dirmi niente…»
Mineo scosse lentamente il capo, e Kein chiuse gli occhi, sforzandosi disperatamente di mantenere il controllo. Respirò a fondo, strinse i pugni fino a far dolere le nocche e si morse le labbra: avrebbe voluto urlare e urlare, ma non poteva… non poteva…
Quando riaprì gli occhi, incrociò lo sguardo scuro e pieno di compassione di Mineo.
«Vorresti vederla?»
«Non mi hanno mai permesso di entrare!»
«Lo so. Stavolta però ci sono io. Vieni».
Mineo riaprì la porta e rientrò nell’infermeria, e Kein le tenne dietro. Percorsero un lungo corridoio, ignorarono gli sguardi colmi di disapprovazione degli astanti ed entrarono in una stanzetta.
Un lungo contenitore di plastica trasparente e metallo… lei era lì dentro, il corpo straziato trafitto da aghi e sondini. Tubicini erano collegati con le sue braccia, sensori erano applicati alla sua testa e al torace.
Kein si chinò per osservare quella figura immobile: sotto la gran fasciatura che le copriva il capo, il viso appariva più minuto di quanto non fosse. Gli occhi erano tumefatti, il naso aveva perso la sua linea elegante, attraverso le labbra gonfie e semiaperte si intravedevano gli incisivi spezzati. Sulle braccia nude campeggiavano ecchimosi e segni di morsi. Sotto il lenzuolo che ricopriva il corpo, si notava che una caviglia aveva una piega innaturale per una giuntura sana.
Un misto di dolore e furia oppresse il petto di Kein, che scoppiò in singhiozzi come un bambino; si riprese quasi subito e si asciugò rapidamente gli occhi, gettando uno sguardo colmo di vergogna verso Mineo. Lei gli mise una mano sulla spalla, gliela strinse, e per un poco rimasero entrambi in silenzio, persi ciascuno nel proprio dolore.
«Non…?», chiese Kein, sapendo che era una follia illudersi.
Mineo scosse la testa. No.
Era solo una questione di tempo, allora…
«Posso fare una cosa sola, per lei», sussurrò Mineo dopo un attimo. «Posso riportarla su Ruby, perché riposi sul suo pianeta».
Kein assentì: sapeva quanto Liao avesse amato la sua patria.
Si schiarì la voce, che però gli tremò violentemente: «Mi farete avere notizie?»
«Certo. Ci terremo in contatto» Mineo lo guardò in viso: «Vuoi restare un poco da solo con lei, prima che la porti via?»
Incapace di parlare, Kein assentì; Mineo chiuse la porta dietro di sé e lui rimase solo con quello che ormai non era che l’involucro che imprigionava lo spirito della ragazza che lui amava tanto.
Si lasciò cadere su una sedia, gli occhi fissi su quel viso ormai irriconoscibile: dolore, disperazione, collera, furia vendicativa… in quel momento, non sentiva più niente, più niente.
Muto, immobile come una statua, continuò a fissare Liao.
C’erano infinite cose che avrebbe voluto dirle, che non le aveva detto… ormai era troppo tardi.
Mentre tornava al dormitorio, quasi andò a sbattere in Bradios, che veniva dalla parte opposta. Kein si tirò istintivamente indietro, aspettandosi un attacco: sorpreso, s’accorse che l’altro lo guardava, un largo ghigno dipinto sul volto.
Sulla sua fronte, brillava una visiera d’argento.
19 Caduta e risalita«Coma irreversibile», sussurrò Fritz, a conclusione di quanto aveva appena raccontato.
Nello schermo, il viso di Zuril appariva più tirato e serio del solito. Per un minuto buono lo scienziato rimase in silenzio: Kein aveva perso la ragazza di cui era innamorato, e lui sapeva bene cosa significa non avere più la persona che si ama.
«Quel ragazzo patirà l’inferno», mormorò infine Zuril, la voce atona e l’occhio fisso su nulla in particolare. «So quel che dico».
«Credo che Kein voglia vendicare Liao», continuò Fritz.
«È naturale», assentì Zuril. «Di chi è figlio, il colpevole? Barendos? Non credo che ci sia molto da sperare nella giustizia, allora».
«Ma lui non…»
«Non puoi impedirglielo, come se fosse un bambino», tagliò corto Zuril. «Tu e io possiamo parlargli, naturalmente; resta il fatto che quel bastardo gli ha violentato e ridotto in coma la sua ragazza. È ovvio che Kein voglia fargliela pagare. Spero solo che non si cacci nei guai per questo».
Quanto successo a Liao gettò l’intera scuola in uno stato di attonito panico. Inchieste, interrogatori, investigazioni, tutto ciò che doveva essere fatto fu fatto: tranne che puntare il dito contro quello che tutti sapevano più o meno coscientemente che fosse il colpevole.
Fu ben presto chiaro che nessuno, mai, avrebbe fatto il nome di Bradios: nessuno voleva inimicarsi il potentissimo comandante Barendos. Nonostante Mineo avesse tempestato nello studio del preside, nonostante avesse tentato d’avere un minimo di giustizia per la sorella, fu ben presto chiaro che nulla sarebbe stato fatto. Per un tacito accordo, tutti presero a parlare di incidente, e non d’aggressione. Cominciarono a circolare voci su un qualche esterno malintenzionato visto gironzolare attorno alla palestra, si cominciò a gettare la colpa su qualche rassicurante sconosciuto, e si cominciò ad insabbiare più o meno coscientemente il tutto. L’unica insegnante che non volle allinearsi con i colleghi, la professoressa Rowan, fu trasferita d’urgenza in un altro istituto.
Gli allievi sembravano inebetiti: non si udivano più nei corridoi chiacchiere allegre e passi di corsa, ma sussurri spaventati e passi felpati. Quanto a Bradios, unico tra tutti girava per la scuola a testa alta, il torace enorme orgogliosamente gonfio e una piccola visiera argentea tra i capelli.
Nessuno gli chiese perché improvvisamente indossasse quell’oggetto, nessuno osò dire che somigliava stranamente alla scomparsa visiera di Liao, nessuno osava nemmeno guardarlo negli occhi, figuriamoci rivolgergli la parola. Era diventato il padrone della scuola.
Fritz ribolliva letteralmente di rabbia: avesse badato a sé, avrebbe affrontato Bradios di petto, figlio o meno di Barendos.
«No», disse subito Kein. «È il doppio di te. Ti ammazzerebbe». Abbassò la voce e aggiunse: «E poi, è mio».
Fritz, più alto e robusto del suo più esile compagno, scosse il capo: «Scusa se mi permetto, Kein; ma se io sono la metà di Bradios, tu, allora…»
Kein lo guardò dritto in viso: i suoi occhi azzurri erano divenuti grigio chiarissimo, quasi incolori. Due schegge di ghiaccio. «Penserò io a lui, ma non subito. Quando sarò pronto a farlo. Lo farò a pezzi».
«Certo, quello che è successo è molto spiacevole», disse Shazira qualche giorno dopo, ad un imbronciato Fritz «Cerca però di vederne i vantaggi».
Lui riemerse dai propri pensieri e guardò attonito quella che ormai era stufo di considerare la sua ragazza: «Quali vantaggi, scusa?»
Shazira alzò le spalle: «Mi spiace tanto dirlo, ma a me quella Liao non è mai piaciuta».
«Me n’ero accorto», ringhiò il giovane.
Lei era troppo soddisfatta per badare al malumore del compagno, per cui continuò a parlare a ruota libera: «Lo so che a te era simpatica, ma io la vedevo per quel che era: una smorfiosa incapace di restare al suo posto».
«Oh. E qual era il suo posto?», chiese Fritz, pericolosamente calmo.
Trionfante, Shazira gettò all’indietro i magnifici capelli azzurri e si permise un sorriso sprezzante che mai prima d’allora aveva osato davanti a Fritz: «Ma per piacere, caro! Una ragazzetta di Ruby! Già trovo vergognoso che le sia stato permesso venire in questa scuola…»
«Anche Kein frequenta questa scuola», come suo padre, più Fritz era in collera più la sua voce si abbassava.
Shazira alzò ancora le spalle: «È solo uno schiavo». Non aveva la minima importanza, era evidente.
Fino ad allora, Fritz l’aveva sopportata perché era bellissima e perché lei si era sempre curata di celargli certi lati del suo carattere, che pure lui aveva intuito. Vederla così tronfia della sua meschinità, così assurdamente stupida, lo riempì di disgusto.
Non impiegò molto per dirle esattamente quel che pensava, e molto meno impiegò ad andarsene mentre lei, inorridita, restava a bocca aperta, incapace di articolare una risposta.
«L’ho mollata», disse a Kein.
«Mi dispiace molto», rispose il ragazzo, stringendogli affettuosamente un braccio. «Come ti senti?»
Fritz si sentì stringere il cuore. Kein chiedeva a lui come si sentiva…!
Decise di dirgli quella che era l’assoluta verità: «Libero».
L’anno scolastico continuò e finì senza incidenti, in un clima di gelo totale. Fu deciso all’unanimità di abolire la consueta festa di fine anno; gli studenti, che normalmente avrebbero protestato, accolsero la notizia con sollievo. Il clima da incubo che regnava nella scuola avrebbe reso qualsiasi festeggiamento fuori luogo, questo lo compresero persino quegli studenti, Shazira in testa, che avevano detestato Liao.
Assorto, apparentemente indifferente a tutto, Kein concluse l’anno scolastico senza battere ciglio: i professori erano divenuti molto più gentili con lui, i voti erano anche più generosi di quelli, pur altissimi, che avrebbe meritato… ma lei non c’era, e nulla contava più per lui.
Gli restava solo una cosa.
Ti vendicherò, Liao, fosse l’ultima cosa che faccio.
L’anno scolastico era finito, i bagagli erano pronti, sui letti. I due ragazzi stavano aspettando Zuril, che da un momento all’altro doveva venire a prenderli, quando il comunicatore di Kein trillò.
Gli bastò vedere il viso distrutto di Mineo per comprendere.
Adesso era davvero solo.
Zuril scambiò uno sguardo con il figlio.
È morta?
Sì.
Kein non parve nemmeno farvi caso: restò indietro, curvo e ripiegato su sé stesso, il viso sfatto distorto in una smorfia di sofferenza. Per quanto non fosse certo un uomo espansivo, Zuril si fece avanti, lo prese per le spalle: «Kein...»
Annaspò cercando qualcosa da dirgli, ma le parole non vennero. E cosa si può dire, in casi simili, che non sia banale, scontato? Tacque, ma Kein comprese ugualmente: «Grazie, signore».
Zuril si rivolse al figlio: «Io ero venuto per portarvi su Zuul, ma se Kein preferisce... voglio dire, se pensate che fare qualcosa di diverso, restare con i vostri amici, o magari fare un viaggio...»
Kein scosse il capo: «No, signore. Vorrei solo venire a casa».
Zuul, con il suo verde pallido, il suo cielo azzurro, fu per Kein come il porto sicuro in cui tornare dopo la tempesta. Pallidissimo e magro, il ragazzo alternava momenti di crisi con lunghi, apatici silenzi. Accanto a lui, Zuril e Fritz erano due presenze attente e discrete.
«Non si è mai veramente sfogato», disse Fritz al padre, una delle prime serate. «Tiene tutto dentro. Se piangesse, magari…»
Zuril assentì. «Lo capisco».
Fritz tacque, rimanendo in attesa: suo padre pensava alla mamma, questo era evidente.
Il viso inespressivo, Zuril alzò lo sguardo verso le stelle. Kein era andato a letto presto, e loro erano in giardino: normalmente avrebbero passato il tempo chiacchierando, ma quella sera tutto sembrava così difficile…
«Non so se riuscirà a dimenticarla», aggiunse Fritz, a mezza voce. Ricordava bene come Kein e Liao si guardavano: lo stesso sguardo che aveva visto negli occhi di suo padre e sua madre. E suo padre era lì con lui, solo dopo anni e anni di vedovanza… nessuna donna aveva preso il posto che era stato di sua madre.
Cominciava a temere che per Kein nessuna ragazza avrebbe mai potuto sostituire Liao.
I giorni successivi, Kein continuò a mostrarsi sempre più apatico. I meravigliosi paesaggi, le foreste, persino il lago cristallino lo lasciarono indifferente.
Fu proprio allora, vedendolo così amorfo, che Zuril decise d’intervenire. Bastò una semplice frase lanciata come per caso all’ignaro Fritz… poche parole… per rivedere Kein drizzare improvvisamente la testa, gli occhi incandescenti.
«Non ditemi che la dimenticherò!», gridò Kein, con violenza. «Non ditemi che sono giovane, che potrò rifarmi una vita, incontrare un’altra ragazza... lei era unica! Unica!»
Incrociò lo sguardo di Zuril, e rimase esterrefatto: il suo padrone appariva improvvisamente invecchiato di almeno dieci anni.
«No, Kein», mormorò, «Non lo farò mai. Sono l’ultima persona che potrebbe dirti una cosa simile».
Improvvisamente, il ragazzo ripensò ai ritratti che Zuril conservava ancora nella sua stanza, all’estrema solitudine in cui viveva, al silenzio di cui aveva avvolto il ricordo della moglie. L’uomo di Vega e il ragazzo di Fleed si guardarono, e improvvisamente si compresero come non era mai accaduto prima d’allora.
Kein barcollò, poi si voltò di scatto e scomparve tra i cespugli.
«Vai con lui», disse Zuril; e Fritz lo seguì.
Ritrovò Kein gettato a terra sull’erba, le spalle scosse da singhiozzi convulsi. Fritz sedette accanto a lui, lo strinse tra le braccia e gli rimase vicino, condividendo il dolore come solo un vero amico può fare.
Kein pianse a lungo: un pianto dirotto e salutare, che gli tolse dal petto quel peso che da giorni l’opprimeva senza pietà. Sfinito, rimase a lungo sdraiato nell’erba accanto a Fritz: si sentiva senza forze, completamente svuotato, ma stava meglio.
Cominciarono a parlare: dapprima qualche breve frase stentata, poi qualche discorso più articolato. Da subito, Kein parlò di Liao: fino ad allora, non aveva detto quasi nulla, di lei. Parlarono e parlarono, ricordandola… poi, inevitabile, si giunse a quel che era successo con Zuril poco prima, e i discorsi presero ben altra piega.
«Ma a te non darebbe fastidio vedere un’altra donna al posto di tua madre?», chiese Kein.
Fritz rifletté prima di rispondere: «Un po’». Rifletté ancora, e aggiunse: «Però mio padre è solo da troppo tempo. Se trovasse un’altra donna, non potrei dargli torto... poi magari se lei fosse una persona piacevole... perché no? In fondo, mio padre è ancora giovane, ha diritto a rifarsi una vita».
E tu sei come lui, pensò Kein con un sorriso. Molto logico e ragionevole.
«Ma voleva bene a tua madre?», chiese, sorpreso. Faticava ad immaginarsi perdutamente innamorato il suo controllatissimo padrone...
«Mio padre adorava la mamma» asserì Fritz. «Adesso forse ti parrà impossibile, ma è così. È tanto cambiato da allora... tu non hai idea di quanto fosse diverso. Anche con me» chiuse gli occhi, mentre immagini mai dimenticate gli turbinavano nella memoria: si rivide bambino correre incontro al padre, che lo sollevava ridendo tra le braccia... e poi rivide il sorriso che il papà aveva solo per la mamma. Quante volte li aveva visti abbracciarsi, capirsi al volo con uno sguardo, ridere assieme come solo le persone profondamente innamorate possono fare? Poi c’era stata la malattia della mamma, e poi... poi tutto era irrimediabilmente cambiato.
«Sì, l’adorava», ripeté Fritz. «Lavoravano assieme, sai? Lei era la sua assistente. S’intendevano alla perfezione».
Quando tornarono da Zuril, molto tempo dopo, apparivano entrambi molto pallidi e col viso segnato; ma gli occhi di Kein non erano più cupi ed indifferenti, e lo sguardo che rivolse al suo padrone fu pieno di gratitudine.
Zuril fece uno dei suoi lievi sorrisi a Kein, scambiò un’occhiata d’intesa con il figlio; appariva molto calmo, ma dentro di sé esultava.
Kein stava ricominciando a vivere.
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