Go Nagai Net

MI SCRIVI....? DEDICHE E RICHIESTE

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icon10  view post Posted on 9/1/2010, 23:36     +1   -1
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Ho dei pensieri che non condivido!

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Cari schiavist...ehm...amanti della Fan Section, questa è la vostra occasione!
In questo topic potrete fare le vostre richieste ai fan artisti, commissionando un'opera scritta o disegnata relativa al vostro personaggio favorito (anche non strettamente legato al mondo di Go Nagai). Volete un'opera su Lady Oscar? Capitan Harlock? Tetsuya? Banjo? Gundam?....il Gloizer X??? :via: Altro???
Ebbene....sbizzarritevi!
Potrete chiedere direttamente all'artista che più vi piace, oppure lasciare che chiunque accolga la vostra proposta......e ovviamente potete dedicare.
Sicuramente ne vedremo delle belle!
Buon divertimento!



Le vostre moderatrici preferite
(soprattutto più belle e modeste di Gemini :asd:)
Kojimaniaca, Runkirya




:val: :val: :val: :val: :val: :val: :val: :val: :wahaha.gif:


:val: :val:
Cominciate pure a richiedere
:val: :wahaha.gif:
 
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view post Posted on 13/1/2010, 23:04     +1   -1
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Ho dei pensieri che non condivido!

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Io ho una richiesta per una fan fiction...lunga o corta lascio decidere a chi vorrà scrivere.
premesso che Actarus non è tenero con i nemici, non è molto morbido con Alcor all'inizio della sua amicizia, non esita a tirare qualche ceffone ingiustificato.... ma fa la parte del convinto pacifista !
Lasciati da parte i motivi che lo spingono a combattere, penso che il nostro eroe abbia una certa vena st***za...in pratica: ci sono altri momenti in cui tira fuori questo caratterino? chi ne fa le spese?qualcuno riesce a cantargliele?

:)
 
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view post Posted on 18/1/2010, 22:14     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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@ Runkirya: volevi vedere un Actarus str...o, con magari qualcuno che gliele canta a dovere. Questa FF si colloca nel corso dell'episodio che vede Venusia entrare finalmente a far parte della squadra: se ricordi, Actarus all'epoca aveva fatto un bel po' di resistenza, comportandosi per l'appunto da str...o.


Dedicato a Runkirya, pittrice dal meraviglioso talento, con grandissimo affetto e stima.


LO SCONTRO


– Sinceramente, penso che tu stia sbagliando – con la consueta calma, Procton sedette al suo scrittoio.
Actarus si voltò a guardare il padre, sorpreso: – Pensavo che tu avresti capito le mie ragioni.
– Certo che le capisco – Procton aprì un cassettino e ne estrasse la sua pipa favorita – Comprendo il tuo punto di vista. Però non sono affatto d’accordo con te.
Actarus fece un gesto d’impazienza e si voltò a guardare fuori dalla finestra: le montagne apparivano candide e remote, rosate dalla luce del sole calante.
– Venusia non deve combattere – sibilò, secco – È fuori discussione!
– Ah, sì? – suo padre non alzò la voce, non sottolineò il suo dissenso con gesti violenti: proprio la sua calma fece capire ad Actarus che la battaglia sarebbe stata durissima – E per quale motivo hai deciso che Venusia non potrà far parte della squadra?
Actarus spalancò le braccia in un gesto quasi esasperato: – Mi pare talmente ovvio...! Mi meraviglia che tu non lo voglia capire!
Procton caricò con calma la sua pipa: – Vorresti spiegarmelo tu, allora? O pensi che sia tempo sprecato?
– Scusami, non volevo dire questo – s’affrettò ad assicurare Actarus, ed era sincero – Ultimamente sono piuttosto teso... Venusia non vuole proprio capire, continua ad insistere; Alcor la spalleggia, è naturale, ed è una discussione dietro l’altra. Ma perché non comprendono?
Procton lo guardò in silenzio per quello che ad Actarus parve un’eternità: improvvisamente, il giovane ebbe l’impressione di trovarsi su un vetrino, sotto la lente del microscopio, e non fu affatto un’impressione piacevole.
– Venusia è venuta da me, stamattina – disse infine Procton, rigirandosi una penna tra le dita – Era sconvolta.
– Mi dispiace – mormorò Actarus.
– Mi ha raccontato di ieri... del vostro giro a cavallo.
Actarus assentì e non rispose. Il giorno prima lui l’aveva trascinata in una folle galoppata, e lei gli aveva sempre tenuto dietro; poi lui aveva spinto il suo stallone a saltare da una riva all’altra del fiume, e lei non aveva osato seguirlo. In quel modo, Actarus ne era sicuro, Venusia aveva compreso di non essere alla sua altezza, di non essere abbastanza forte da poter combattere con lui.
– Era proprio necessario umiliarla a quel modo? – chiese improvvisamente Procton, la voce tagliente come Actarus non l’aveva mai sentita.
– Padre, tu sai che io non avrei mai voluto fare una cosa simile! – rispose animosamente il giovane – Però, lei non mi ha lasciato scelta! Non vuole capire...
– Venusia non vuole capire! – solo una collera estrema fece sì che Procton, il correttissimo Procton, troncasse la parola in bocca al figlio – Venusia non vuol capire, Alcor non vuol capire, io non voglio capire... Actarus, non ti viene il dubbio che invece sia tu quello che non vuol capire?
Actarus trasalì, come se le parole del padre fossero state uno schiaffo; inarrestabile, Procton riprese: – Credi davvero che Venusia non possa combattere con te perché non ha voluto saltare quel fiume?
– Sapevo che non ne avrebbe avuto il coraggio – rialzò la testa, sicuro del fatto suo.
– O forse, lei sapeva benissimo che il suo cavallo non era in grado di compiere quel salto – rispose Procton, secco – In questo caso, Venusia ha avuto l’intelligenza di non rischiare la vita solo per stare al tuo gioco.
– Ma io l’ho fatto per dimostrarle...
– Quella tua bravata ha dimostrato la maturità e il buon senso di Venusia, cosa che non si può certo dire di te – tagliò corto Procton – Che sarebbe successo, se lei fosse stata così impulsiva da seguirti? Pensa se al posto di Venusia ci fosse stato Alcor: lui ti avrebbe imitato senza esitare, e adesso... beh, prova un po’ a pensare a come ti sentiresti, adesso.
Actarus sentì mancargli il fiato: sapeva che Alcor avrebbe saltato quel fiume, sapeva che pochissimi cavalli sarebbero riusciti in una simile impresa... improvvisamente, provò uno spasmo alla bocca dello stomaco: Venusia avrebbe potuto morire per tentare di seguirlo, e se fosse successo proprio lui, che avrebbe voluto preservarla da qualunque pericolo, sarebbe stato responsabile della sua fine.
– Naturalmente, io sapevo che non avrebbe saltato – articolò, a mo’ di spiegazione; ma Procton non sembrava per nulla soddisfatto delle sue ragioni.
– Actarus, tu vuoi negare a Venusia la possibilità di battersi perché pensi di poter affrontare da solo i mostri di Vega...
– E non ho sempre fatto così? – esclamò energicamente il giovane – Non li ho sempre sconfitti?
– Certo, l’hai fatto... finora. – Procton lo guardò in tralice – La verità è che gli attacchi di Vega si fanno sempre più violenti.
– Goldrake ce la farà contro qualunque mostro di Vega!
Procton scosse la testa: – Sembra di sentir parlare Alcor. Se solo penso a quante volte l’hai accusato di essere troppo impulsivo, di voler far troppo da solo... – si mise in bocca la pipa, ancora spenta, e rimase a braccia conserte, fissando la parete davanti a sé; poi, sempre senza alzare la voce, riprese: – Tante volte abbiamo visto come la combinazione tra te e Alcor sia stata vincente: in molti casi, hai vinto la battaglia proprio grazie al suo aiuto.
– È vero – ammise con franchezza Actarus – Ho sempre detto che senza di lui sarei stato sconfitto più di una volta, ma non vedo come Venusia...
– Venusia ci ha salvati tutti almeno in due occasioni – gli fece notare Procton – Ricordi quando il centro è stato assalito da Hydargos? Goldrake era fuori uso, Alcor, io e tutti gli altri eravamo stati catturati; da sola, Venusia è riuscita a creare un diversivo per tenere a bada Hydargos in modo da darti il tempo di riparare il robot. L’avevi dimenticato?
– No, ma...
– Poco tempo fa ha pilotato lei stessa Goldrake 2 mentre Alcor era fuori combattimento, e il suo aiuto è stato determinante.
– È vero – riconobbe Actarus – Ma non credo che...
– Oggi, poi, ha fatto anche di meglio – continuò Procton – Ha sventato l’attacco a sorpresa con cui i veghiani volevano distruggere il nostro centro. Da sola, usando la tua moto ha affrontato tre dischi. Tre, ripeto; e ne è uscita illesa.
– Io non voglio negare la sua abilità e il suo coraggio! – esplose Actarus – Solo che lei sembra considerare il combattere come qualcosa di desiderabile, e non è giusto! La guerra è orribile, nessuno dovrebbe voler battersi solo per... – s’interruppe vedendo il padre scuotere la testa e guardarlo con commiserazione.
– Conosci così male Venusia da pensare una cosa simile...! – mormorò, sconfortato – Possibile che tu non comprenda che lei vuole battersi per salvare tutto ciò che ama? Tu hai deciso di lottare per questo nostro pianeta; Venusia appartiene a questo mondo, è naturale che senta il desiderio di difenderlo dal nemico che vuol distruggerlo! Possibile che tu non capisca questo?
– Ma certo che lo capisco – s’affrettò ad assicurare Actarus – Però non voglio che lei corra pericoli, lei è...
– Parliamoci chiaramente, Actarus – sbottò Procton – Sappiamo entrambi che d’ora in poi sarà sempre peggio: i veghiani si faranno sempre più spietati, e i loro attacchi saranno sempre più difficili da sostenere. Se Goldrake dovesse soccombere, che ne sarebbe dei terrestri? Tu sai meglio di me cosa facciano i veghiani ai loro prigionieri!
Actarus serrò i pugni: – Sono delle belve!
– Infatti – Procton lo guardò direttamente negli occhi: – Al punto in cui siamo, Actarus, per Venusia non è meglio rischiar di morire in combattimento, piuttosto che cadere viva nelle mani di quei mostri?
Actarus rabbrividì: già una volta Venusia era stata catturata da Hydargos, e ricordava ancora la furia impotente che aveva provato vedendola indifesa nelle grinfie del nemico. Sapeva che tra i prigionieri di Vega il destino peggiore toccava alle donne... no, meglio morta, senza dubbio!
– Hai ragione – mormorò, e le parole gli vennero a fatica – Non avevo considerato questo.
Procton si permise uno dei suoi rari, lievi sorrisi: – Ti eri solo fermato sul fatto che Venusia è una ragazza? Forse ti fa effetto pensare di dover cooperare con una donna...?
Actarus trasalì, sorpreso: non pensava d’avere atteggiamenti maschilisti. Era forse questa l’opinione che poteva dare di sé?
Provò a riflettere, scavando dentro di sé i ricordi che aveva di Venusia: lei che coltivava i fiori, che accudiva amorevolmente un cavallo malato, lei con in braccio un agnellino appena nato... in quegli anni, per lui Venusia era stata la serenità, la dolcezza, la bellezza di vivere. Tornare a casa dopo aver combattuto e vederla sorridente, sentire la sua voce dolce, era stato ciò che gli aveva ricordato che la vita non è solo lotta, sangue e morte. Si era sempre aggrappato a quell’immagine di lei come se fosse stata una sorta di angelo consolatore...
...ma anche gli angeli possono avere una spada e lottare. C’è un tempo anche per questo.
– Non mi fa impressione combattere assieme a Venusia – affermò infine – Ho solo sperato che lei potesse restare lontana dal conflitto.
– Non è più possibile, purtroppo – gli fece osservare Procton, in tono gentile – I tempi sono cambiati.
– È vero – Actarus sospirò lievemente – Sono contento d’averne parlato con te, padre. Adesso capisco che stavo sbagliando. Penso davvero che Venusia potrà essere di grande aiuto, per noi.
– Ma certo – soprattutto, dopo che avremo completato il nuovo mezzo che abbiamo in lavorazione e di cui non ho ancora voluto dirti nulla, pensò Procton.
Mentre Actarus tornava a guardare verso le montagne, il professore sorrise tra sé, pregustandosi la sorpresa che avrebbe avuto Venusia quando le avrebbe annunciato d’aver pronto il nuovo... come chiamarlo? Squalo? No... Orca? Nemmeno... Delfino? Ecco, molto meglio.
Con gesti misurati, Procton accese finalmente la pipa.
Delfino Galattico...? No...
Tirò una boccata di fumo, appoggiandosi con le spalle alla sedia. Di tante discussioni che aveva avuto con Actarus, questa era stata senza dubbio la più violenta, la più simile ad un vero litigio. Beh, era naturale che prima o poi sarebbe successo: è normale bisticciare, tra padre e figlio.
Delfino Cosmico...? Bleah...
Actarus gettò uno sguardo alla falce – argentea, non rossa – che stava spuntando dietro le montagne.
– Mi chiedo – mormorò – se ci sarà mai la pace, nello spazio...
Delfino Spaziale... e perché no?
– Delfino Spaziale – mormorò Procton, e annuì. Suonava bene.
Actarus si voltò: – Scusa, hai detto qualcosa?
– Niente d’importante – Procton sorrise – Stavo parlando tra me.
Delfino Spaziale. Approvato.
Grazie al Cielo, anche questa era fatta...

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kojimaniaca
view post Posted on 19/1/2010, 00:10     +1   -1




Come per le fan art, inauguro un'altro topic per i vostri commenti alle fan fiction , in modo da rendere più scorrevole la visione delle opere e delle richieste ;)
Buon proseguimento! :foglia:


link per i commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=45562232#lastpost
 
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view post Posted on 20/1/2010, 19:19     +1   -1
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Per Joe, bravissimo illustratore, narratore di tutto rispetto capace di reggere una intera, appassionantissima saga, e che nonostante questo continua ad essere la persona modesta e simpatica che è.



SU MISURA


– Ti prego, dimmi ancora una volta che diavolo siamo venuti a fare qui – gemette Tetsuya.
Jun ripose nella borsetta le chiavi dell’auto e spiegò pazientemente: – Dobbiamo fare acquisti. Tu hai bisogno di un vestito nuovo, molto elegante, per accompagnarmi a teatro.
– Ma a me non piace andare a teatro – brontolò Tetsuya.
– Non ci sei mai stato, come fai a dire che non ti piace? – gli fece notare Jun, avvicinandosi alle vetrine di un grande negozio di sartoria.
– Posso immaginarmelo, però – bofonchiò lui, imbronciato. Aveva temuto fortemente che Jun volesse trascinarlo a vedere una di quelle noiosissime tragedie in costume con intere frotte di personaggi; fortunatamente, lei gli aveva assicurato che non si trattava di nulla di simile. Beh, l’idea di assistere ad uno spettacolo divertente era decisamente molto meglio... – Jun, cos’hai detto che andiamo a vedere? Una commedia?
Lei non gli badava nemmeno: – Guarda che bei vestiti!
Tetsuya gettò un’occhiata agli abiti, e subito uno spasmo gli torse il duodeno: impeccabili giacche, pantaloni dal taglio perfetto, camicie su misura, cravatte all’ultima moda...
– Jun! – esclamò, inorridito – Non vorrai che mi metta quella roba!
Lei gli gettò uno sguardo spazientito: – Pensi di venire a teatro in jeans e maglietta?
Tetsuya guardò ancora gli abiti esposti e sentì la fronte cospargerglisi di gelidi sudorini: – Quando mi vedrà conciato come un becchino, Kabuto mi farà morire!
– Ma tuo fratello non ti vedrà – rispose Jun – Andiamo a teatro con Actarus e Venusia. Alcor non viene.
La prospettiva di non venir visto – e debitamente sbertucciato – dal fratello parve rendere a Tetsuya il futuro un po’ meno fosco: – Non viene...?
– Ha un altro impegno – preferì non dirgli che Alcor aveva rifiutato sdegnosamente la serata elegante a teatro (“Per carità! Poi, mi toccherebbe vestirmi come un beccamorto!”) per optare per un più rilassante film con alieni cattivi, sparatorie a raffica e gran spargimento di sangue e budella.
Tetsuya parve respirare, sollevato; subito, Jun approfittò del suo momentaneo sollievo per acchiapparlo per un polso e trascinarlo dentro al negozio, là dove gli sarebbe stato ben più difficile sfuggirle.
Essendo finalmente riuscita ad imporre al compagno un cambio di look, anche se temporaneo, Jun aveva fatto le cose in grande: il negozio in cui l’aveva trascinato era una sartoria molto elegante, un po’ vecchio stile, con impeccabili commessi in giacca e cravatta, arredamento piacevolmente rétro e un clima silenzioso ed austero che faceva pensare più a una cattedrale che non ad un frivolo negozio di confezioni maschili. Mancava solo qualche effluvio di incenso perché l’illusione fosse perfetta.
Tetsuya fece appena in tempo a guardarsi attorno con aria smarrita, che subito un individuo alto e sparuto che sembrava un maggiordomo inglese si fece avanti, chiedendo con voce sommessa in che modo avrebbe potuto essere utile ai signori.
– Vorremmo un vestito scuro, elegante – rispose Jun, radiosa, mentre serrava con forza il polso di Tetsuya per evitare inopportune fughe.
– Ma certamente, signora – rispose il maggiordomo con la sua voce dolente – Se i signori volessero accomodarsi da questa parte...
Di quel che successe dopo, Tetsuya ebbe solo una vaga idea: il vestito era per lui, ma era evidente che circa la scelta del modello e del colore il maggiordomo si sarebbe rivolto solo a lei; un paio di volte Tetsuya tentò d’intervenire, venendo regolarmente ignorato. Tentò infine la ribellione (“Non lo voglio grigio!!!”); mentre il maggiordomo lo guardava con palese disapprovazione, Jun gli spiegò in tono secco che un abito da sera doveva essere per forza nero.
Momentaneamente zittito, Tetsuya tacque mentre i due definivano gli ultimi particolari; e finalmente, venne il momento di passare alla prova.
Il maggiordomo fece scorrere rapidamente lo sguardo su Tetsuya, percorrendolo da capo a piedi in silenzio, un po’ come si fa quando si osserva qualcosa di particolarmente viscido e ripugnante; dilatò lievemente le narici e si rivolse a Jun sempre parlando con quel suo tono di voce basso e dolente che faceva molto impresario di pompe funebri: – Penso che sarà opportuno prendere le misure del signore.
– Ma io non voglio un abito su misura! – scattò subito Tetsuya – Con quel che costa! Non avete qualcosa di già pronto?
Jun si sentì morire; quanto al maggiordomo, le sue narici si dilatarono ulteriormente, mentre lo guardava con disgusto ancor più palese.
– Ma certamente, signore – più che “signore”, sembrò che avesse detto “pidocchio” – Prendere le misure è però necessario per aver la certezza di scegliere la taglia più adatta.
Tetsuya sospirò, rassegnato; il maggiordomo schioccò le dita, e subito si fece avanti un azzimato giovanottello in impeccabile completo grigio. Non uno dei suoi aurei capelli era fuori di posto, la camicia appariva immacolata e il papillon richiamava il ceruleo intenso dei suoi occhi.
Tetsuya lo odiò selvaggiamente da subito.
Mentre Jun restava in disparte a parlare col maggiordomo, il sorridente giovanotto, totalmente ignaro dell’astio del suo cliente, fece apparire un lungo metro a nastro con cui si accinse a compiere il suo lavoro.
Jun stava appunto chiedendo lumi al maggiordomo circa il tipo di scarpe adatto a un sì meraviglioso completo, quando un certo trambusto li richiamò immediatamente. Tetsuya aveva afferrato per il bavero il giovanotto, scuotendolo con tal forza da fargli sbattere i perfettissimi denti: – Non ci provare, amico!
– Tetsuya! – esclamò Jun – Smettila subito!
– Questo maiale ha cercato d’abbracciarmi! – ringhiò lui.
– Signore – s’intromise il maggiordomo – la prego di credere che nessuno dei miei commessi, prima d’ora...
– Prima d’ora, appunto! – sbottò Tetsuya.
– Ma non è mai successo che abbiano mancato di rispetto ad un cliente...
– Adesso sì!
– Insomma, basta! – Jun s’intromise costringendo l’incollerito compagno a lasciare la sua vittima – Lascia andare quel poverino!
– E va bene – rispose Tetsuya, mollando finalmente la presa – Ma se questo furbone ci riprova, darò del lavoro al suo dentista.
Abbandonato a sé stesso il giovanotto, il cui aspetto non era più così impeccabile, s’afflosciò sul bancone e si rivolse con voce tremante al maggiordomo: – D-direttore, io v-volevo solo prendergli la misura del torace...
– Mi ha messo le braccia attorno! – sbottò Tetsuya, schifato – Che altro potevo pensare? Con l’aspetto che ha, poi...
– La vuoi piantare? – sibilò Jun, furiosa – Mi farai morire di vergogna!
– Scusa, ma quella specie di finocchietto mi ha...
– Tetsuya! BASTA!
Quando Jun usava il tono delle grandi occasioni, l’unica cosa sensata da fare era starsene ben zitti, a meno di non voler sopportare le inevitabili conseguenze; Tetsuya ammutolì, e finalmente il giovanottello poté nuovamente avvicinarsi con il suo metro.
– Posso... continuare...? – domandò, guardando Tetsuya come si guarda una tigre nervosetta e dall’azzannatina facile.
– Prego – e con un’occhiata d’ammonimento al compagno, Jun tornò dal maggiordomo a discutere di calzature.
Dandosi una sistemata alle scomposte chiome, il commesso riprese a misurare Tetsuya: distanza spalla-polso... punto vita... adesso bisognava passare alle misure dei pantaloni. Il commesso inspirò, prese fiato, si fece avanti con aria decisa...
Nuovo, infernale trambusto. Jun piombò sul posto proprio mentre Tetsuya stava stringendo il metro a nastro attorno al collo del malcapitato giovanottello.
– Non ti dico dove voleva toccarmi, stavolta! – ruggì, inferocito.
L’infelice commesso appariva di un intenso color paonazzo, e gli occhi avevano ormai assunto il colore e le dimensioni di due grossi pomodori. Jun intervenne prontamente, sottraendolo ad una rapidissima morte per asfissia.
– Non puoi prendertela con me! – esclamò Tetsuya – Quel porco! L’ho fermato in tempo, ma mi aveva già messo le mani addosso!
– Dovevo p-prendergli la m-misura della gamba – rantolava intanto l’infelice, piegato in due su una sedia – E quando sono arrivato al cavallo... oooh!
Il direttore prese una mano del commesso e vi batté sopra continuando a ripetere “su, su”; quanto a Jun, si piantò di fronte a Tetsuya e gli sibilò svariate dozzine di parole con un tono così secco da fargli raggricciare i peli. “Pezzo d’idiota” fu uno degli epiteti più gentili che gli indirizzò.
Quindi, con immensi occhi colmi di rammarico si rivolse al commesso, flautandogli quanto era spiacente, come era costernata per il comportamento da buzzurro di certe persone (e qui scoccò a Tetsuya un’occhiata-laser) e infine gli chiese con voce da sirena se si sarebbe sentito di ultimare il suo lavoro.
Il giovanottello, che nonostante fosse fin troppo azzimato era persona da apprezzare parecchio i grandi occhi, il delizioso viso e i rotondi annessi e connessi di Jun, balzò subito in piedi e brandì nuovamente il metro, pronto a portare a termine la sua pericolosissima missione; nemmeno l’occhiataccia bieca rivoltagli da Tetsuya lo distolse dalla sua decisione.
Con gran sprezzo del pericolo, il commesso prese infine l’ultima, pericolosissima misura; la taglia fu correttamente stabilita, giacca e pantaloni vennero scelti e finalmente indossati. Dieci minuti dopo, Tetsuya guardava con palese disgusto la propria immagine riflessa nello specchio.
– Non provarti a dire che sembri un becchino! – l’ammonì Jun, che lo conosceva bene.
– Sembro pronto per finire nella cassa – corresse Tetsuya – Ho visto parecchi cadaveri conciati così.
Il giovanottello ridacchiò: – Il signore ha un gran senso dell’umorismo!
– Proprio per niente, invece – Jun allungò un calcetto a Tetsuya che stava aprendo bocca per protestare e si rivolse al commesso: – Con questo vestito, che tipo di cravatta mi consiglia? Tradizionale, o a papillon?
– A papillon, senza dubbio! – esclamò il commesso, stupito da una simile, ovvia domanda.
– Vuoi dire uno di quei cosi a farfalla? – scattò Tetsuya – Mai!
– Signore, il papillon è essenziale, per l’uomo elegante – cominciò il commesso.
Tetsuya prese fiato; quando parlò, si espresse con molta calma e chiarezza: – Non metterò mai quella specie di fiocchetto dall’aria equivoca. Spero sia ben chiaro. Se provi ad avvicinarti con uno di quei cosi, giuro che te lo faccio mangiare.
Il commesso si voltò verso Jun: – Lo farebbe davvero?
– Certo – sospirò lei.
– Capisco – il giovanottello si rivolse a Tetsuya: – Ripensandoci, signore, un uomo veramente elegante può permettersi anche una cravatta tradizionale.
Sorvoliamo ora sulla sofferta scelta della cravatta: basti sapere che culminò con un nuovo assalto di Tetsuya al commesso, reo d’aver cercato di strangolarlo con il suddetto capo d’abbigliamento (“Volevo solo fargli il nodo”, si sarebbe giustificato l’infelice, una volta sottratto alle grinfie dell’incollerito cliente).
Anche la scelta della camicia non fu indolore (“Seta? Roba da smidollati!” “Taci, imbecille!”).
– Dimenticavo – esclamò infine Jun – Avremo bisogno anche di calzini neri.
– Perché? – si stupì Tetsuya – Quelli che ho, bianchi, non vanno bene?
– No! – scattò Jun, esasperata.
– Ma il bianco sta con tutto – osservò lui, serafico.
Nuovo ruggito di Jun, ammutolimento di Tetsuya, e alcune paia di calzini neri vennero aggiunte al già congruo conto.
Fu poi la volta della biancheria: più volte Jun aveva lamentato lo stato di mutande e canottiere del compagno (“Non vorrai portare ancora quegli slipponi ascellari!”). La scelta delle canottiere fu semplice; un po’ meno quella delle mutande, dato che l’azzimato commesso ebbe l’ardire di chiedere se il signore volesse gli slip o le boxer. Subito Tetsuya prese a guardare storto quel sedicente maschio tanto interessato a particolari intimi della vita di altri maschi; ignaro del pericolo, il commesso prese a magnificare la comodità delle boxer, osando infine proporre al signore di provarne un paio per rendersi conto del comfort che esse fornivano.
Oltretutto, ebbe la dabbenaggine di aggiungere l’incosciente, le boxer erano disponibili in un vasto assortimento di colori e fantasie: azzurre, verdi, gialle, persino rosa... a quest’ultima, equivoca offerta cromatica, Jun fu rapidissima ad intervenire, salvando l’incauto giovanottello da un nuovo tentativo di strangolamento. Svariate paia di mutande a slip, tutte rigorosamente bianche, vennero aggiunte al mucchio. Il conto lievitò ulteriormente, ma che importava? Tetsuya sarebbe stato elegantissimo.
Gli acquisti vennero accumulati alla cassa – e a questo punto, l’azzimato commesso non poté trattenere un ghigno malefico all’idea di quanto avrebbe dovuto sborsare quel suo intrattabile cliente. La cassiera digitò lo scontrino, e subito il maggiordomo, che era improvvisamente riapparso come dal nulla, con voce tutta rosolio flautò la cifra.
Tetsuya boccheggiò, stroncato dallo shock. Jun fu rapidissima a pagare, acchiappare il suo compagno, cacciargli in mano la borsa con gli acquisti e dirottarlo verso l’uscita; disgraziatamente per lei, Tetsuya era uomo da riprendersi molto in fretta: – Ma sono pazzi! Tutti quei soldi!!!
– Smettila! – sotto gli sguardi colmi di disapprovazione del maggiordomo, le cui narici si erano ulteriormente dilatate, lei lo pilotò verso la porta.
– Che razza di ladri! – continuò Tetsuya, inferocito – Adesso mi sentiranno, io non... Jun, perché mi hai tirato un calcio?
– Per evitare di strozzarti! – ringhiò lei, rivolgendo nel contempo un gran sorriso al maggiordomo e all’azzimato commesso: – Arrivederci. È... è stato un piacere...
Solo per lei, signora, fu ciò che NON dissero i due, rivolgendole invece un compito inchino.
– Macchè piacere! – ruggì Tetsuya – Col cavolo che questi qui mi rivedono!
Grazie a Dio, dissero le occhiate che si scambiarono maggiordomo e commesso.
– Gente avida e viscida, ecco cosa sono! – brontolò lui, mentre Jun lo spingeva fuori.
– Insomma, vuoi stare un po’ zitto? – sibilò lei.
– Perché? – trasecolò lui – Sto dicendo solo la verità!
Jun sentì le lacrime salirle agli occhi: – Sei il solito selvaggio, rozzo e incivile! E io che speravo di insegnarti un po’ di buone maniere... tempo perso!
A quel punto, persino un uomo come Tetsuya capì d’averla fatta grossa; mogio, seguì la seccatissima compagna verso l’automobile parcheggiata lì vicino.
– Non mi sono mai vergognata tanto in vita mia! – esclamò Jun, mettendosi al volante.
Imbarazzato, Tetsuya chinò la testa e rimase in silenzio per tutto il viaggio.
Di tanto in tanto gettò un’occhiata a Jun, che guidava in silenzio senza degnarlo d’uno sguardo: era veramente arrabbiata, non c’è che dire.
Ci teneva tanto a questa serata elegante, si disse Tetsuya, che sentiva rimordergli la coscienza. In fondo, Jun non mi ha mai chiesto molto... un piccolo sforzo per lei potrei anche farlo... il peggio ormai è fatto, il vestito è comperato; tanto vale che lo metta e cerchi di fare bella figura perché lei sia contenta.
Da quell’uomo tutto d’un pezzo che era, prese la sua decisione: avrebbe indossato quel vestito. Avrebbe accompagnato Jun, sarebbe stato impeccabile, avrebbe persino sopportato il tutto con il sorriso sulle labbra, pur di farsi perdonare... e comunque, non si trattava poi di nulla di drammatico: l’indomani sarebbero usciti con i loro amici per passare una serata divertente vedendo una commedia.
E Jun sarebbe stata finalmente orgogliosa di lui.


Non appena Alcor (in jeans e maglietta, beato lui!) fu uscito per andare verso il suo filmone tutto spari e sangue, Tetsuya uscì dalla doccia e s’infilò i nuovi vestiti.
Sorpreso, si guardò allo specchio: l’abito gli stava a pennello. La camicia, pur di seta, non gli dava certo quell’aria un po’ equivoca che lui aveva tanto temuto. L’azzurro chiaro della cravatta s’intonava perfettamente con i suoi occhi.
Ma guarda se non faccio anch’io la mia porca figura!, si disse, sbalordito.
Jun, splendida nel suo vestito da sera color oro, rimase senza fiato: abituata a vedere il compagno in tuta da combattimento, magari sudato e sanguinante, stentava a riconoscerlo in quell’elegantissimo, distinto gentiluomo. Con il cuore che le scoppiava dalla felicità salì con lui in macchina: la serata sarebbe stata un successone, ne era sicura!
Si trovarono con i loro amici proprio nel foyer tutto specchi, velluti e stucchi dorati del teatro. Venusia appariva molto elegante e femminile nel suo vestito rosa; con il suo inappuntabile abito da sera Actarus naturalmente era molto distinto ed attraente, ma (e qui Jun non potè trattenere un moto di gioia) accanto a lui Tetsuya non sfigurava affatto, anzi!
Fu con infinito orgoglio che Jun fece il suo ingresso in teatro al braccio di Tetsuya, che stava comportandosi davvero come un perfetto gentiluomo... chi avrebbe mai potuto riconoscere in lui il rude pilota del Grande Mazinga?
Una volta seduti ai loro posti in attesa che il sipario si alzasse, Tetsuya si guardò rapidamente attorno: la felicità di Jun l’aveva messo d’ottimo umore.
Ma sì, in fondo non era affatto spiacevole essere eleganti, andare in un lussuoso teatro in mezzo ad altra gente ben vestita per vedere una divertente commedia...
– ...Commedia...? – esclamò Jun, attonita.
– Ma come...? – Actarus era sinceramente sorpreso – Tetsuya, quale commedia? Siamo venuti a vedere un balletto!
– Il Lago dei Cigni – aggiunse Venusia – Danza classica. Una storia molto romantica.


Tutti, tra i presenti che gremivano la sala, sono concordi nell’affermare che l’ululato che echeggiò a quel punto nel teatro non aveva più nulla d’umano.






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kojimaniaca
view post Posted on 20/1/2010, 22:30     +1   -1




ricordo il link per i commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=45562232
 
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view post Posted on 27/1/2010, 20:41     +1   -1
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vanna................mi dedicheresti una storia epica?


:dito:
 
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Grande Blu
view post Posted on 28/1/2010, 19:12     +1   -1




Volentieri... su che personaggi? Ricordo a tutti che Duke, Venusia, Koji, Sayaka, Maria, Kain, Rubina, Hiroshi Shiba e Miwa sono oggetto di una storia in scrittura.
Epica? Benissimo... che ambientazione? Antica, medievale o fantascientifica?
Dammi ulteriori dettagli, e se hai già un'idea precisa in mente, dimmela pure. Vedrò di trasformarla in falsariga per la trama.
 
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view post Posted on 3/2/2010, 13:05     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Finalmente ce l'ho fatta...

Per Kojimaniaca, splendida scrittrice e sensibile artista, con grandissima ammirazione.


NON LASCIARMI

L’aveva perduto, l’aveva ritrovato e poi l’aveva perso ancora, e stavolta per sempre. Non sarebbe mai tornato, mai più... Kenzo Kabuto, suo padre, era morto.
Le mani in tasca e il viso indurito, Koji fissò il mare che si rifrangeva ai suoi piedi, come un mostro domato. La spiaggia era completamente deserta. Poco lontano da lì, fino a pochi giorni prima si sarebbe vista emergere dall’acqua la sagoma inconfondibile della Fortezza delle Scienze... ma era tutto scomparso per sempre. Come suo padre.
Koji prese a camminare lungo la riva del mare, senza meta, incurante delle conchiglie sotto i suoi piedi scalzi; rimboccò l’orlo dei pantaloni ed entrò nell’acqua. Rabbrividì sentendola fredda e alzò gli occhi verso l’orizzonte.
Alti sopra di lui, stridevano i gabbiani; il mare era grigiastro, ostile. Il cielo nuvoloso si stava rapidamente scurendo, la spiaggia era una distesa di arida sabbia incolore… un paesaggio triste, bigio, senza speranze né prospettive.
Adattissimo a come si sentiva lui, dunque.
Per anni e anni era stato convinto di essere un orfano: lui e Shiro erano stati allevati dal nonno, baby sitter e governanti si erano succedute. Il padre e la madre erano stati solo alcune fotografie che stavano sbiadendo e un mucchio di ricordi in cui era dolorosissimo sprofondare.
La notizia l’aveva colpito anni dopo, come un fulmine inaspettato: il padre, da anni creduto morto, era invece sopravvissuto.
La seconda notizia era stata ancora più scioccante: in tutto quel periodo, invece di tornare da loro, i suoi figli, Kenzo si era occupato di due orfani... due perfetti estranei.
Koji raccolse un sassolino, lo scagliò con rabbia nell’acqua. Ricordava ancora la sua collera, la sua delusione bruciante: perché in tutto quel tempo lui non aveva mai saputo niente? Perché suo padre aveva lasciato che lui e Shiro lo piangessero come morto? E soprattutto, perché invece di tornare dai suoi figli aveva adottato quei due orfani? Che cosa c’entravano, loro?
Kenzo Kabuto era stato un uomo logico e ragionevole, e logiche e ragionevoli erano state le sue spiegazioni.


– Koji, tu non puoi sapere dell’addestramento cui ho dovuto sottoporre Tetsuya per trasformarlo nel guerriero che è diventato... e ho dovuto farlo, o non avremmo avuto alcuna speranza di sconfiggere i Mikenes. Tu non hai la minima idea della vita che ha fatto Tetsuya – Kenzo gli aveva messo le mani sulle spalle, gliele aveva strette; per una volta, la sua voce fredda e controllata aveva tremato leggermente: – Non avrei mai potuto imporre una cosa simile a te. Non a mio figlio.
Koji aveva chinato il capo, mentre sentiva un piacevole tepore nel petto: suo padre aveva agito così perché era preoccupato per lui, gli voleva bene!
Un istante dopo, un pensiero insidioso si fece strada nel suo animo: ma per tutti quegli anni era stato Tetsuya a stargli accanto. Non lui.
Aveva lasciato parlare Kenzo, ascoltando ognuna delle sue logiche e ragionevoli parole; ma dentro di lui, nascosto ma presente, il tarlo della gelosia aveva continuato a lavorare. Si era sforzato di ignorare tutti quei pensieri negativi, di comportarsi normalmente e di essere gentile con Tetsuya, e in effetti era sempre riuscito a nascondere il suo disagio: ora, tutto rispuntava prepotentemente, come un pallone gonfio di gas putrido che riaffiora con violenza dall’acqua.


Koji scagliò furiosamente un altro sasso tra le onde.
Il suo rancore era improvvisamente emerso, avvelenandogli l’animo: non un solo pensiero astioso era però rivolto al padre. Tutto il suo odio era per quel fratellastro, quell’estraneo scostante e pieno di sé che lui s’era sforzato di sopportare. Aveva sempre cercato d’ignorare la disapprovazione implicita di Tetsuya per il suo stile di vita e il suo atteggiarsi a vero guerriero, forte del severissimo addestramento cui solo lui era stato sottoposto; ma ora basta.
Era lui, Tetsuya, l’estraneo, che si era insinuato nelle loro vite, lui che si era frapposto tra padre e figlio, lui che in tutti quegli anni aveva avuto solo per sé l’intera attenzione di Kenzo – attenzione che sarebbe spettata a lui, Koji, il figlio legittimo.
Come non bastasse, era sempre per colpa di Tetsuya che Kenzo era morto, scagliandosi con la Fortezza delle Scienze contro il mostro che stava per distruggere il Grande Mazinga ed uccidere Tetsuya. Sempre Tetsuya, sempre Tetsuya che si frapponeva tra padre e figlio…
Il pensiero che lui, l’estraneo, fosse ferito e in ospedale attraversò fugacemente la coscienza di Koji: in quel momento provava troppo dolore per soffermarsi a pensare agli altri, e la possibilità che anche Tetsuya stesse soffrendo non lo sfiorò nemmeno. Anche in quel momento, riusciva a pensare al fratellastro solo come individuo arrogante, pieno di sé, sprezzante.
Sei sempre stato insopportabile, Tetsuya… se solo penso che mio padre è morto per salvare un bastardo come te!
Formulare quel pensiero e provare una fitta di rimorso fu tutt’uno: le parole di suo padre, le ultime che aveva articolato a fatica mentre la vita lo abbandonava, risuonarono ancora in lui: “Tetsuya mi è caro come un figlio, proprio come te, Koji… è dovere di un padre sacrificarsi per il proprio figlio”.
Per papà, Tetsuya era proprio come me… io avevo sempre pensato di essere qualcosa di speciale per mio padre, e invece…
Koji chinò la testa, reprimendo le lacrime, mentre la collera riprendeva a montare in lui. Respinse rabbiosamente le altre parole che gli aveva detto Kenzo – quelle solo per lui, quelle che adesso non voleva ricordare – e strinse rabbiosamente i pugni.
Non avrebbe mai potuto perdonare Tetsuya. Voleva che soffrisse anche lui, voleva rovesciargli addosso tutto il suo rancore, voleva vedere quegli occhi grigi, sempre alteri e sprezzanti, riempirsi di dolore. Solo allora lui avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo dal suo tormento.
Se Koji fosse stato più riflessivo, più maturo, avrebbe capito che odiare Tetsuya era infinitamente più facile che elaborare il lutto per il padre. In quel momento, addossare ogni responsabilità al fratellastro, detestarlo, era una possibilità che si stendeva davanti ai suoi piedi come un sentiero spianato; e lui lo intraprese senza la minima esitazione.
È tutta colpa tua, Tetsuya. Colpa tua. Maledizione a te, e al giorno in cui sei entrato a far parte della nostra vita.
Adesso basta.
Sordo a qualunque cosa non fosse la sua collera, Koji tornò indietro di corsa, verso la sua motocicletta che aveva lasciato al limitare della spiaggia. Si pulì alla bell’e meglio i piedi dalla sabbia, s’infilò calze e scarpe e balzò in sella. Si mise il casco: quante volte aveva dovuto dire al suo fratellino, Shiro, d’indossarlo? Praticamente, ogni volta che l’aveva portato con sé in moto. Certe cose proprio non si vogliono apprendere…
Il pensiero di Shiro lo bloccò, ma fu solo per un attimo: l’aveva affidato a Sayaka e al professor Yumi, non c’era da preoccuparsi.
Avviò rabbiosamente la moto: voleva discutere alcune cose con Tetsuya, e l’avrebbe fatto subito.


La grande costruzione bianca si ergeva davanti a lui, severa: del resto, gli ospedali non sono mai edifici dall’aspetto frivolo.
Koji controllò l’antifurto della moto, prima di lasciare il parcheggio ed avviarsi a grandi passi verso l’ingresso.
Non si pose problemi circa lo strano orario che aveva scelto per la visita, scartò l’ipotesi che Tetsuya per qualche motivo non potesse o non volesse parlare con lui: troppo preso dal cruccio che l’angustiava, Koji non era certo in grado di badare a certi dettagli.
Vagamente, ricordò d’aver sentito bisbigliare sulle condizioni di salute di Tetsuya: era rimasto ferito nell’ultimo scontro, ma non doveva essere nulla di così grave. Koji era sicuro che le lesioni che aveva riportato non fossero pericolose.
Percorse corridoi, salì con l’ascensore, camminò per altri corridoi: incontrò pochissime persone, non fece caso a nessuna di loro e nessuno fece caso a lui.
Entrò nel reparto in cui Tetsuya era stato ricoverato e prese ad osservare le porte della camere, cercando il numero che Jun gli aveva comunicato… quando? Due giorni prima…? Era passato così tanto tempo, da quando Tetsuya era stato ferito e suo padre era… era…
Scosse la testa: non voleva pensare a papà.
Si concentrò sul suo astio, invece.
La sigla che cercava… era arrivato.
S’arrestò sulla soglia: l’uscio era socchiuso, e da dentro non proveniva alcun suono.
Koji rimase un attimo sospeso, e per un istante parve chiedersi se fosse opportuno piombare in camera di Tetsuya per rovesciargli addosso il suo rancore; sentì echeggiare nelle orecchie la voce dura e sferzante di lui, ricordò l’ostilità che aveva percepito nelle sue frasi secche, le continue discussioni, i puntigli… e il fatto che il tutto fosse culminato nel non voler collaborare con lui, nel non volersi battere al suo fianco nell’ultimo scontro.
Pensavi che io non fossi alla tua altezza, vero?, Koji sentì bruciargli gli occhi e respinse le lacrime. Non hai voluto ascoltare, hai fatto di testa tua… e papà si è sacrificato per salvarti. Sarebbe stato meglio se fossi morto tu, Tetsuya. Sarebbero stati ben pochi a rimpiangerti.
Si passò rabbiosamente la mano sugli occhi; poi, con un gesto brusco spinse da parte la porta.


Scivolò in silenzio nella stanza: era andato fino là proprio per affrontare Tetsuya, ma in quel momento non volle nemmeno gettare uno sguardo alla figura immobile nel letto.
La sua attenzione era tutta per Jun, accasciata su una poltrona, il viso nascosto tra le mani.
Piange per... per Tetsuya...? si disse Koji, allibito. È così grave...?
In quel momento, lei parve percepire la sua presenza; s’asciugò rapidamente le lacrime e si voltò a guardarlo.
Appariva grigiastra in viso, gli occhi rossi, incavati e gonfi di chi ha pianto a lungo; le mani che tese verso di lui erano scosse da un tremito violento: – Koji, sono così contenta che tu sia qui...!
Attonito, lui fece un passo verso di lei; un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia, scossa dai singhiozzi. Rimasero così a lungo, lei che piangeva tutto il suo dolore e lui che tentava in qualche modo di consolarla, balbettando parole impacciate.
– Scusami – mormorò infine Jun, quando ebbe ripreso una parvenza di controllo – Con quello che è successo... il professore, e ora Tetsuya... – improvvisamente, parve ricordarsi che Koji era il vero figlio dello scomparso professor Kabuto: lui aveva più diritto di lei al dolore per la perdita del padre – Koji, mi spiace! Non dovrei dire proprio a te...
– Lascia stare – tagliò corto lui, più brusco di quanto avrebbe voluto – Come sta Tetsuya?
Jun lo condusse più lontano dal letto, quasi avesse temuto che il malato potesse sentirli: – Le ferite sono serie, ma lui è forte. Ce la farebbe sicuramente, se... – si morse il labbro, scossa da un nuovo tremito.
– Se...? – l’incoraggiò Koji.
– Se solo lui volesse ancora vivere – disse Jun, in un soffio.
Koji gettò un rapido sguardo verso il letto: – Stai scherzando...!
Jun scosse il capo, reprimendo le lacrime.
– Mi avevano detto che non era grave…! – esclamò Koji, con voce soffocata.
– Non lo sarebbe… ma il problema è un altro – mormorò lei – Tetsuya si sente spaventosamente responsabile di quello che è successo. Si accusa per la morte del professore...
Infatti, è tutta colpa sua!, si disse rabbiosamente Koji, Non potrò mai perdonarlo!
– ...e poi, si sente colpevole verso Shiro e te.
Verso me? Figuriamoci...
– È davvero sconvolto – continuò Jun – Koji, dico sul serio, non l’ho mai visto così! Mi ricordo di quando s’incolpava per la morte del cane di quella bambina, Midori: era fuori di sé dal dispiacere, ma almeno allora sperava che Midori lo perdonasse – si voltò a guardarlo rapidamente in viso, poi chinò la testa: – Adesso temo che sia convinto che tu non voglia perdonarlo.
Koji trattenne il fiato. Perdonare Tetsuya? Perdonare il pazzo che ha causato la morte di mio padre?
Jun gli mise una mano sul braccio: – Koji...
Lui le prese la mano, gliela strinse: provava un misto d’affetto e ammirazione per Jun, ma non poteva – non voleva – dire nulla, promettere nulla... in quel momento vide la profonda stanchezza di lei. Quanto tempo era rimasta, accanto a Tetsuya? Ormai erano passati più di due giorni da quando lui era rimasto ferito...
– Jun, non puoi continuare così – disse con dolcezza – Vai a riposare.
– Non posso lasciarlo...
– Resto io con lui – disse impulsivamente Koji – Ti prego, Jun, devi dormire un poco.
Lei parve esitare: si sentiva veramente distrutta, l’idea di sdraiarsi, di riposare era davvero attraente.
– Non mi muoverò di qui – assicurò lui, guidandola verso la porta – Hai la mia parola.
Jun si fermò proprio sulla soglia: – Koji, lui... lui sta veramente male. Ho davvero paura che... che lui...
– Vedrai, ce la farà. – asserì Koji, in tono leggero – Tetsuya è molto forte.
– Oh, no! È molto fragile, invece!
Fragile? Ma vogliamo scherzare? Quello è fragile come un blocco di cemento armato... – Va bene, Jun. Ci penso io. Alla peggio, basta che suoni il campanello e chiami l’infermiera, no?


Uscita Jun, Koji chiuse la porta e si voltò verso il letto, fissando ostilmente il corpo che vi giaceva.
Passare la notte a vegliare Tetsuya… proprio quello che mi ci voleva! Imparerò mai a stare zitto?
Si riprese, provando una fitta di vergogna: aveva agito d’impulso, come sua deplorevole abitudine, ma l’aveva fatto per Jun. Gli era parsa talmente stanca, talmente provata, che in lui il buon cuore aveva agito prima del buon senso; ora lei avrebbe potuto finalmente riposare, mentre lui si sarebbe trovato a dover dare assistenza proprio all’ultima persona con cui avrebbe voluto aver a che fare.
Inutile recriminare, ormai è fatta.
Koji s’accomodò sulla vecchia poltrona di fianco al letto: non era poi così scomoda. Prese una coperta in pile che Jun aveva ripiegato e lasciato sullo schienale e se la gettò addosso, disponendosi filosoficamente a passare una notte che, lo sentiva, sarebbe stata molto, molto lunga.
Tetsuya non si mosse, non emise un sospiro: era sprofondato in un sonno pesante, e fortunatamente era voltato dall’altra parte, in modo che Koji non fosse nemmeno costretto a guardarlo in faccia. Meglio così. Con un po’ di fortuna avrebbe dormito fino all’indomani, magari non si sarebbe nemmeno accorto del cambio avvenuto al suo capezzale.
Koji guardò l’ora: le otto e mezzo. Non aveva nemmeno portato con sé un libro, e naturalmente a quell’ora lui non aveva affatto sonno. Dannazione…
Si guardò in giro: una camera quadrata, molto pulita come qualsiasi camera d’ospedale. Mobili semplici e lineari, pareti chiare, due grandi finestre. Un vaso di fiori dava un tocco di gentilezza a quell’ambiente così asettico e severo: Jun, senza dubbio.
Fiori per Tetsuya… un cactus spinoso sarebbe più indicato.
Koji gettò un’occhiata colma di desiderio al piccolo televisore sul tavolino: magari, tenendo il volume molto basso…
Tetsuya si mosse nel sonno, gemette. No, niente TV.
Tornò a guardarsi attorno, e finalmente scorse quello che aveva tanto sperato di trovare: dall’anta semiaperta dell’armadio facevano capolino alcuni giornali.
Koji li esaminò: un paio di quotidiani, un mensile scientifico e una rivista di moda femminile. Scartò i quotidiani che aveva già letto, diede una rapida scorsa alla rivista (“Ma in che modo si conciano, queste?”) e sprofondò nuovamente nella poltrona immergendosi nella lettura del mensile scientifico.
Dopo essersi istruito sulle relazioni tra parte destra e sinistra del cervello, sugli ultimi ritrovamenti nella zona di Stonehenge e sulla vita sessuale dei celenterati, Koji pensò d’averne avuto abbastanza e passò all’ultima pagina, dove campeggiava il temuto, complicatissimo cruciverba.
Stava impazzendo sull’otto orizzontale (L’ultimo faraone della XVIII dinastia, otto lettere) quando un gemito lo riportò alla realtà.
Alzò gli occhi dal giornale: Tetsuya si era voltato sulla schiena, il viso contratto in una smorfia di sofferenza. Una mano era tesa verso di lui, quasi fosse stata alla ricerca di qualcosa, di qualcuno.
Ostile, Koji guardò quella mano che si protendeva inutilmente verso... verso cosa, verso chi? Forse sperava che lui gliela avrebbe stretta?
Fissò quasi con odio quelle lunghe dita forti, tanto forti da poter guidare il Grande Mazinga; ma dentro di sé non sentì pietà, compassione.
Hai ucciso mio padre, si disse Koji, affondando ostinatamente il naso nel giornale. Non è per te che resto qui: lo faccio solo per Jun, perché gliel’ho promesso. Non fosse per lei, me ne sarei andato da un pezzo.
Si obbligò a tenere gli occhi sul cruciverba, mentre Tetsuya, il viso stravolto dall’angoscia, continuava ad agitare la mano nel vuoto. Sembrava un uomo che stesse brancolando alla cieca nel buio, e tendesse la mano nella speranza di trovarne un’altra che lo tenesse saldamente, lo guidasse alla luce... suo malgrado, Koji abbassò il giornale. Guardò ancora quel viso sconvolto, quelle dita tremanti, e provò vergogna. Fece per afferrare quella mano tesa: ma il braccio ricadde.
Koji rimase un istante come sospeso; poi alzò le spalle. Ovviamente, nemmeno nella malattia Tetsuya aveva bisogno degli altri... benissimo, che s’arrangiasse da solo.
Riaprì il giornale e tornò al cruciverba.
Tetsuya parve sprofondare in un sonno più profondo; ma non era certo un riposo ristoratore, il suo. Il viso gli si contraeva in smorfie di sofferenza, le mani stringevano convulsamente le coperte, qualche parola inintelligibile gli usciva dalle labbra contratte e secche. Senza degnarlo d’uno sguardo, Koji chiuse il giornale, spazientito: non riusciva più ad andare avanti col cruciverba. Tanto valeva cercare di dormire un poco. S’avvolse meglio nella coperta e cercò una posizione più comoda.
All’improvviso, Tetsuya sbarrò gli occhi, fissando un punto davanti a sé, un’espressione incredula sul viso sfatto: – ...Professore...?
Koji sobbalzò, ma si riprese subito: naturalmente, non c’era proprio nessuno in quella stanza, oltre loro.
Di bene in meglio… adesso delira. Sono proprio fortunato.
Pallidissimo, due chiazze scarlatte sugli zigomi, Tetsuya tentò di rialzarsi su un gomito; il braccio gli tremò, ma lui tese l’altra mano davanti a sé, rivolgendosi ancora ai suoi fantasmi: – Professore...
Stavolta, Koji guardò meglio il fratellastro: era stravolto ma sorrideva, come se avesse visto qualcuno che mai avrebbe sperato di rivedere. I suoi occhi, cerchiati e fondi, adesso d’un grigio chiarissimo, slavato (morti, pensò con un brivido Koji) fissavano ostinatamente sempre uno stesso punto, guardando quello che solo lui poteva scorgere.
In quel momento, Koji fu invaso da una paura come non ne aveva mai provata in vita sua, mai nemmeno quando in battaglia si era sentito spacciato. Solo allora capì quanto avesse sottovalutato lo stato di Tetsuya... “È molto fragile”, aveva detto Jun; e lui non le aveva creduto.
Improvvisamente, il terrore che lui morisse gli tolse il fiato.
– Tetsuya, no! – lo strinse tra le braccia, come per ancorarlo a sé stesso, al mondo reale: trasalì sentendolo così magro e fragile, proprio lui che era sempre stato vigoroso e pieno di vita. Attraverso il tessuto del pigiama percepì il bruciore del suo corpo esausto, divorato dalla febbre. Pareva impossibile che un uomo potesse sopportare una simile temperatura...
– Tetsuya, no! – Koji non sapeva nemmeno cosa stava dicendo, le parole gli uscivano da sole dalle labbra – No! Non ti lascio andare! Non puoi! Non te lo permetterò!
Tetsuya non lo ascoltava. In preda alla febbre continuava a protendersi verso ciò che lui solo era in grado di vedere, il viso trasfigurato dalla gioia: – Professore...!
Koji non faticava a trattenerlo: quel corpo fragile, indebolito dalle ferite e dalla febbre non poteva certo opporre resistenza. Ma la battaglia che si stava svolgendo non era sul piano fisico, e Koji non era affatto sicuro di riuscire a vincere: – Tetsuya, ti prego! No!
Rimasero qualche istante immobili, Tetsuya sempre teso verso ciò che lui solo vedeva, e Koji aggrappato a lui in quella che, lo sapeva, era la sua battaglia più disperata. Tetsuya tentò un’ultima volta di protendersi in avanti; poi le sue misere forze gli mancarono, e s’accasciò su sé stesso, restando completamente immobile. Terrorizzato (tutta quell’inerzia, in un corpo che era sempre stato scattante, pieno di vita!) Koji capì di essere sul punto di perdere. Un grido di vera angoscia gli eruppe dalla gola: – Tetsuya! Resta con me, non lasciarmi anche tu!
Tetsuya emise un singhiozzo, mentre un’altra espressione (delusione?) prendeva il posto di quella spaventosa gioia ultraterrena; Koji continuò a tenerlo stretto, lottando con la morte come non aveva mai lottato prima d’allora: tutti i suoi combattimenti con i mostri non erano nulla, nulla, in confronto a quest’ultimo scontro. Pregò, supplicò, chiamò il fratello, implorò, promise... nemmeno lui aveva più coscienza di cosa stava facendo.
Tetsuya parve riprendere un minimo di forze; si rialzò sul gomito, una luce folle negli occhi, e tentò ancora una volta di gettarsi in avanti; Koji lo strinse tra le braccia e si rivolse all’unica persona cui ancora non aveva osato ricorrere.
Papà, ti prego, non portarmelo via... ti prego, ti prego... non potrei sopportarlo... non anche lui...
Rimasero così a lungo, Tetsuya che tentava inutilmente di protendersi verso ciò che si stava ormai allontanando da lui e Koji che continuava a stringerlo a sé, trattenendolo con tutto il suo essere; poi improvvisamente il corpo martoriato di Tetsuya cedette e il giovane si afflosciò sul materasso, il viso contratto dalla sofferenza: – Papà...
Era stato appena un soffio, un sussurro per una parola che lui mai prima d’allora si era mai permesso di dire. Per la prima volta da che si conoscevano, Koji provò una pena indicibile per il fratellastro: – Ci sono io, qui. Penserò io a te, andrà tutto bene...
Tetsuya non rispose: era nuovamente sprofondato nel torpore della febbre.
Solo allora Koji osò lasciare il fratello, solo allora osò riprendere fiato; gli toccò una mano, poi la fronte, e scattò subito verso il campanello per chiamare l’infermiera.
Poco prima era stato troppo occupato a trattenere Tetsuya per pensare di chiedere aiuto; ora premette il pulsante con disperazione. Sapeva di non poter farcela da solo.
Una dottoressa entrò col passo frettoloso di chi è abituato alle emergenze. Non fece domande, le bastò guardare in viso Tetsuya per capire. Gli tastò il polso, scosse il capo e gli rilevò la temperatura. Emise un’esclamazione soffocata e si precipitò fuori della stanza, tornando subito con una siringa; alzò una manica del pigiama di Tetsuya e gli praticò l’iniezione nel braccio, poi gli tastò nuovamente il polso.
Spaventato, Koji riuscì finalmente a spiccicare parola: – È... molto alta?
– Quarantuno e due – sussurrò lei – L’iniezione dovrebbe abbassargli la temperatura. Ha avuto convulsioni?
– Ha... ha delirato – disse in fretta Koji. Avrebbe voluto chiedere se c’era pericolo, ma aveva troppa paura della risposta che avrebbe ricevuto.
Guardò ansiosamente Tetsuya. Gli era sempre apparso alto e forte, pieno di vigore e di spirito: in quel momento gli sembrò incredibilmente piccolo e minuto, inaspettatamente fragile e indifeso. Lo guardò in viso e gli parve di vedere altri lineamenti sovrapporsi a quei tratti forti: per un attimo, Koji ebbe una visione del bambino che era stato, del ragazzo che anni prima il professor Kabuto aveva scelto d’adottare.
Un’infermiera entrò di corsa, portando un paio di borse del ghiaccio; ne pose una sulle caviglie di Tetsuya e l’altra contro la parte alta della schiena, prima d’affrettarsi fuori.
– Abbiamo un altro paziente molto grave – spiegò in tono di scusa la dottoressa – È tutta notte che siamo impegnate con lui... anche se temo che non ne avrà per molto. Non è un giovanotto forte come... è vostro fratello?
– Sì – rispose lentamente Koji – È mio fratello.
La dottoressa gli rivolse un sorriso stanco; poi toccò la fronte di Tetsuya: – Bene, sta cominciando a sudare.
Koji sentì piegarglisi le ginocchia e ricadde nella poltrona. Non seppe per quanto tempo la dottoressa rimase accanto a Tetsuya, tastandogli il polso e misurandogli la febbre ad intervalli regolari; di tanto in tanto entrava un’infermiera, si consultava a voce bassa con la dottoressa e s’allontanava in fretta. D’istinto, Koji mormorò una preghiera per quell’altro malato che stava lentamente morendo.
– Va meglio – disse infine la dottoressa.
Koji trasalì, incredulo, e lei gli mostrò il termometro: trentotto e uno.
– Grazie, papà – mormorò, mentre lei esaminava rapidamente le medicazioni sul torace di Tetsuya, controllando che le fasciature fossero ancora a posto e le ferite non avessero ripreso a sanguinare; quindi gli richiuse la giacca del pigiama e gli sistemò le coperte: – Devo andare da quell’altro paziente. Non penso che ci sia da preoccuparsi, almeno per il momento; se ci sono problemi, chiamate subito.
Koji assentì, incapace di spiccicare parola; quindi rimase a fissare Tetsuya, che ora era sprofondato in un sonno tranquillo. Il viso non presentava più quelle spaventose chiazze scarlatte di febbre, il respiro era regolare. Guardò l’orologio: le due meno cinque.
Stanchissimo, infreddolito, Koji s’avvolse nella coperta e cercò una posizione un po’ più comoda. Non voleva dormire, naturalmente, ma...
Piombò nel sonno senza nemmeno rendersene conto.


Non seppe cosa fu a svegliarlo: semplicemente sussultò, aprì gli occhi e vide puntato su di sé lo sguardo grigio e serio di Tetsuya: – Koji...?
– Come stai? – represse uno sbadiglio.
Tetsuya si guardò rapidamente attorno, quasi stesse chiedendosi dove si trovasse. Riconobbe la sua stanza d’ospedale, e i ricordi di quanto era successo lo assalirono all’improvviso. Dolore, senso di colpa e profonda vergogna s’alternarono rapidamente nei suoi occhi; Tetsuya voltò di lato la testa, non osando guardarlo in faccia: – Io... il professore… è tutta colpa mia.
Koji trattenne il fiato, mentre sentiva agitarsi nell’animo una pallida traccia dell’odio che aveva nutrito per Tetsuya; ma era una pallida traccia appunto, e scolorì rapidamente davanti al ricordo freschissimo di quella notte che non era ancora trascorsa del tutto.
– No – disse lentamente – Non è colpa tua – riprese fiato, cercando le parole che faticavano a venirgli – È stata una sua scelta.
Tetsuya non rispose, non si voltò nemmeno, ma Koji era sicuro che non stesse perdendo una parola, e continuò: – Lo so perché me lo ha detto lui, prima... prima di morire – affrontare il ricordo della morte di suo padre era dolorosissimo, e allo stesso tempo gli dava un inaspettato sollievo; Koji riprese, con maggior decisione: – Lo sapevi che mi ha parlato di te?
Tetsuya scosse lievemente il capo: no, non lo sapeva.
– Ha detto – Koji sentì risuonare in sé quella voce così cara – Ha detto che un padre deve sacrificarsi per i suoi figli... e che tu sei come un figlio, per lui. Proprio come me.
Tacque: non poteva vedere Tetsuya in viso, ma poteva sentire il suo respiro accelerato, poteva vedere la mano contratta sulla coperta. Attese in silenzio, mentre risentiva anche le ultime parole di suo padre... parole destinate solo a lui, e che sarebbero state il suo tesoro più prezioso: “Koji, non dimenticare di essere gentile ed premuroso con tutte le persone che ti sono amiche”.
Allora, quelle parole l’avevano ferito: come avrebbe potuto essere gentile, provare affetto per quel pazzo che l’aveva reso orfano?
Ora che aveva rischiato di perdere anche Tetsuya, ora che aveva lottato per lui, Koji provò un’ondata profonda d’affetto per quel suo fratello adottivo ruvido e orgoglioso. Come avrebbe potuto odiarlo, dopo averlo visto moribondo, indifeso, in preda alla febbre? Dopo averlo sentito invocare disperatamente l’uomo che per lui era stato come un padre?
Era un Koji molto maturato quello che prese una mano di Tetsuya e la strinse: un Koji che aveva perso moltissimo, ma che sapeva anche che avrebbe potuto guadagnare altrettanto. Certo, con il carattere spigoloso di Tetsuya non si poteva sperare che le cose sarebbero state sempre facili, tutt’altro; ma adesso la sofferenza li aveva avvicinati, e lui non intendeva rinunciare a ciò che aveva già conquistato.
– Koji... mi dispiace – bisbigliò Tetsuya.
– Lo so – adesso capisco quanto gli hai voluto bene anche tu, pensò Koji.
– Non posso perdonarmelo... sono stato un pazzo.
Anch’io, pensò Koji. Ho anch’io le mie colpe verso di te… ma ne parleremo quando starai meglio.
– Tu e Shiro avete perso così tanto... – la voce di Tetsuya parve spezzarsi.
– Adesso ascoltami – disse con fermezza Koji.
Col coraggio di chi è abituato a guardare in faccia ostacoli e nemici, Tetsuya si voltò verso di lui e Koji riprese: – Tutti noi abbiamo perso tanto: Shiro e io, certo, ma anche tu e Jun. Non vogliamo però perdere anche te, per cui smetti con i sensi di colpa e cerca di guarire in fretta, o avrai reso inutile il sacrificio di nostro padre.
Tetsuya trasalì, sorpreso dal tono secco di Koji, o forse dalle parole che mai si sarebbe aspettato, “nostro padre”; ma fu un attimo. Gli occhi grigi cercarono ansiosamente quelli neri: s’incontrarono, si guardarono e si capirono più che se avessero parlato.
Tetsuya si rilassò, il suo corpo contratto si distese; uno scintillio del suo antico spirito guizzò nel suo sguardo.
– D’accordo, Kabuto – mormorò, soffocando uno sbadiglio – ... e grazie.
È di nuovo lui, pensò Koji, sorridendo tra sé; quindi guardò il suo orologio: – Le quattro e un quarto. Vediamo se riusciamo a dormire un poco.


Jun s’affrettò per il corridoio dell’ospedale.
Aveva riposato alcune ore, svegliandosi improvvisamente quella mattina con l’orrenda sensazione che fosse successo qualcosa d’irreversibile; l’angoscia l’aveva spinta a vestirsi in fretta e precipitarsi a tutta velocità al capezzale di Tetsuya. Aveva avuto un bel ripetersi che in caso d’emergenza Koji l’avrebbe sicuramente chiamata: dentro di sé, lei era sicura che fosse successo qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe fatto sì che nulla sarebbe stato più come prima.
Disperata, Jun aveva guidato l’automobile come una pazza, continuando a pregare che non fosse successo niente, che Tetsuya fosse ancora vivo; mentre percorreva a tutta velocità gli interminabili corridoi dell’ospedale, continuò a rimproverarsi per aver lasciato proprio Koji ad accudire Tetsuya. Come aveva potuto fare una cosa simile? Quei due non erano mai andati d’accordo, ultimamente erano stati come cane e gatto, e ora che era successo... che il dottor Kabuto... non voleva pensarci... beh, sicuramente quello che era accaduto non avrebbe certo migliorato i già pessimi rapporti tra Koji e Tetsuya.
Sono stata pazza, pazza, pazza, continuava a ripetersi Jun, senza voler pensare a quanto era stata stanca, quanto aveva avuto bisogno di riposare un poco, quanto quel po’ di sonno le era stato prezioso...
Bussò alla porta ed aprì senza nemmeno aspettare una risposta... e s’arrestò immediatamente.
Tetsuya dormiva nel suo letto, il viso disteso e sereno come non l’aveva mai visto. Accanto a lui, avvolto nella coperta, Koji riposava nella sua poltrona.
Meravigliata, Jun fece un passo avanti, rimanendo attonita a guardarli. Ultimamente li aveva sempre sentiti ostili l’uno verso l’altro, li aveva sempre visti accapigliarsi, provocarsi, coprirsi di insulti; ora, la pace che emanava da loro era talmente evidente da essere palpabile.
Si sono trovati, pensò Jun, sentendosi bruciare gli occhi, Dio mio, si sono trovati...
Sorrise, incredula. S’asciugò le lacrime e tornò a guardarli, chiedendosi come fosse possibile, cosa fosse accaduto, perché... all’improvviso rivide dentro di sé il viso del professor Kabuto, quell’uomo che lei aveva amato come un padre, e per un folle istante ebbe la percezione di sentirlo vicino, vicinissimo... ed ebbe la sua risposta.
Grazie, papà...



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Rubina71
view post Posted on 3/2/2010, 20:15     +1   -1




Questo racconto è per Joe, l'incontro tra Actarus e Naida nel ricordo di Actarus!

Naida e Duke
Naida era morta solo da pochi giorni e il dolore per la sua perdita era ancora vivo, forte e gli lacerava il cuore.
Le note della sua chitarra risuonavano nell'aria ancora più tristi e cupe.
Aver ritrovato Naida lo aveva fatto sentire meno solo, finalmente aveva ritrovato qualcuno che gli fosse davvero simile e che poteva capire fino in fondo il suo dolore.
Certamente il suo aspetto, uguale a quello dei terrestri, lo aveva aiutato ad integrarsi con loro, ma non era mai sentito davvero uno di loro!
Con Naida era diverso, erano entrambi fleediani e si conoscevano da un'infinità di tempo, da quanto? Actarus cercò di ricordare.
Erano nati lo stesso giorno, le loro madri erano amiche fin da bambine, poi diventate adulte, l'una aveva sposato l'erede al trono di Fleed e l'altra il barone Barsajik.
La nascita di Duke e Naida aveva rinsaldato l'amicizia tra le due donne che spesso si incontravano per portare i figli al lago, a fare passeggiate o per farli giocare insieme, probabilmente speravano che un giorno crescendo i loro figli si sarebbero sposati.
Scavò tra i suoi ricordi per riportare alla luce il primo ricordo che aveva di lei.
Avevano circa tre anni, c'era una festa a palazzo, loro due giocavano facendo la gimcana tra gli ospiti, poi andarono in giardino, sotto l'occhio vigile di Margarethe, la governante.
Con loro c'erano altri bambini, figli di invitati al ricevimento, uno di loro cercò di toglierle un giocattolo che aveva con sé.
I due bambini iniziarono a litigare, nella colluttazione Naida inciampò, si rialzò, ma quando vide le manine che le sanguinavano e il suo gioco in frantumi sul pavimento iniziò a piangere disperata.
La povera Margarethe non riusciva a calmarla, allora lui cercò di farla sorridere regalandole un suo giocattolo a forma di stella che cambiava colore e suonava una bellissima melodia.
Naida si calmò e gli sorrise dolcemente, gli occhioni blu che esprimevano gratitudine, quella sera era nata un'amicizia!
Diventati adolescenti non c'era più bisogno che fossero le loro madri a farli incontrare, erano sempre insieme, correvano per i prati, spesso andavano alla ricerca di posti isolati dove poter stare indisturbati a guardare il mare!
Ormai tra i sudditi si dava per scontato il loro matrimonio, quando i due avessero raggiunto l'età adatta.
Le note della chitarra acquistarono una dolcezza indescrivibile nel ricordare quei momenti, intanto la luna faceva il suo percorso nel cielo!
Poi iniziarono i primi problemi tra Fleed e Vega!
Una sera il padre lo chiamò nella sua stanza, aveva il capo chino e lo sguardo triste di chi non vede altra via di uscita, con tono imbarazzato gli disse “ Duke, la principessa Rubina sta venendo su Fleed per conoscerti, so che ti sto chiedendo molto, ed io per primo vorrei poterti evitare tutto questo, ma è l'ultima speranza per evitare una guerra che sarebbe disastrosa per noi!”
Le parole del padre scesero sulla sua anima come un macigno, il pensiero di Naida, di cosa le avrebbe detto lo tormentava, ma non si sarebbe sottratto al suo dovere!
Le corde della chitarra vibrarono emettendo un suono drammatico!!!
 
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view post Posted on 10/2/2010, 22:36     +1   -1
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Fratello di Trinità e Bambino

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Per Isotta, che non voleva scrivere e poi ha scritto, non pensava di disegnare e poi ci ha provato e ora ci delizia con le sue personalissime opere.

LOVE HISTORY


Primissima infanzia

Nei giardini reali, all’ombra di un albero fiorito, seduta nel suo box, Naida guardò con estremo interesse il bimbetto che veniva fatto accomodare nell’altro angolo.
Duke gettò uno sguardo svagato alla bimbetta dall’altra parte, e riprese a succhiare il suo ciuccio.
Naida tentò un sorrisetto.
Duke continuò a succhiare il suo ciuccio.
Naida batté le manine, fece “ciao”.
Duke continuò imperterrito la sua opera di succhiaggio.
Naida rise, fece delle smorfie, tentò infine d’attirare l’attenzione con un tentativo di conversazione: – Giggle! Giggle!
Duke non alterò nemmeno il ritmo di ciucciata.
Naida afferrò il giocattolo più pesante e spigoloso che trovò a portata di manina, e con una mira notevole per una frugoletta lo scagliò addosso a Duke.
Lui si strofinò l’occipite, guardò Naida con aria di rimprovero: – Pecché?
Poi recuperò il suo ciuccio, e si rimise all’opera.
Naida si trascinò fino da lui, gli afferrò la testa e gli fece dare una capocciata contro la parete del box.


Prima infanzia

Ai piedi d’uno degli alberi secolari che ornavano il giardino del palazzo reale, seduta nel bel mezzo d’una vasta pozza di fango, Naida giocava al pasticcere; accanto a lei, Duke sedeva con lo sguardo remoto, perso verso lontani orizzonti.
Davanti a sé, lei aveva la bellezza di dodici torte di fango, tutte regolari, tonde, artisticamente eseguite.
Prese la più bella, la più grossa e spessa, e la tese a Duke: – Totta. Vuoi?
– Gracchie – rispose lui con la consueta buona grazia, e Naida gli depose la torta sulle ginocchia.
Il fango prese a scorrergli in rivoli giù per le gambe, insinuandosi fino nei sandaletti; Duke parve non farvi caso e riprese a fissare l’orizzonte.
Naida rimase in attesa: gli aveva donato una cosa sua, fatta con le sue mani, era naturale aspettarsi qualcosa in cambio.
Duke continuava a fissare l’orizzonte, mentre la torta gli si squagliava in grembo.
Naida gattonò verso di lui.
Niente.
Lei mise il viso a due centimetri da quello di lui.
Duke le gettò uno sguardo interrogativo che era tutto un “ma che vuoi, adesso?”.
Esasperata, lei si tese in avanti e gli schioccò un bacione sulla guancetta tonda.
Duke prese ad ululare come se fosse stato scottato.
Senza far motto, con l’aristocratica compostezza che le era propria, lei gli rovesciò in testa le altre undici torte di fango.


Seconda infanzia

A quell’ora del primo pomeriggio, il giardino del palazzo reale era praticamente deserto; Naida e Duke si ritrovarono sotto un grande albero fiorito. Cespugli in fiore li circondavano, il prato era una festa di corolle multicolori.
L’animo femminile di Naida fu ispirato da un sì meraviglioso spettacolo: – Duke, giochiamo che tu eri un principe e io una belliffima principeffa?
Lui era troppo ben educato per farle notare che una principessa non può essere bellissima quando le sono caduti i denti davanti: – Va bene.
– Però poi veniva un cavaliere cattivo – continuò lei.
– Va bene.
– Il cattivo mi rapiva e tu venivi a falvarmi.
– Va bene.
– E poi tutto finiva bene, perché noi ci fpofavamo e vivevamo felici e contenti... Duke...?
Si voltò dove un secondo prima si trovava lui.
In vita sua, Naida non avrebbe mai visto nessun altro talmente veloce nella corsa dei trecento piani.


Adolescenza

Sotto il caldo sole estivo, il lago riluceva come uno specchio. L’aria era immobile, dai cespugli fioriti veniva un intenso, dolce profumo.
Sdraiati l’uno accanto all’altra, Naida e Duke prendevano il sole: avevano fatto una lunga gita in barca, avevano fatto un lungo bagno (non si erano dedicati ad altre, proficue attività a due, ma purtroppo Duke da quell’orecchio ci sentiva pochino). In quel momento, si sentivano perfettamente in pace con sé stessi e con il resto del pianeta.
Naida aprì un occhio, gettò uno sguardo a Duke: – Come si sta bene.
– Proprio vero – ammise subito lui.
Lei aprì entrambi gli occhi, azzardò uno sguardo più diretto: – Intendo che sto proprio bene… con te.
– Anch’io – ammise subito lui.
Naida raccolse il coraggio a due mani e si rialzò su un gomito: – Io… io ti amo, Duke.
– …Eh…? Oh, certo, anch’io, sì – omise all’ultimo il “ci mancherebbe, che diamine”.
Naida sentì il cuore scoppiarle di felicità: – Allora… ci siamo messi assieme…?
– Suppongo di sì – fu la romantica risposta che ottenne.
– Allora siamo fidanzati! – trepidò lei – Vivremo insieme, e un giorno ci sposeremo, e…
Lui balzò subito a sedere: – Oh… non te l’ho detto? Che stupido…
– Detto, cosa?
– Sai Re Vega? Quel tizio odioso, quel tiranno della nebulosa di Vega…?
– Allora?
– Vuole allearsi con noi, e per questo vuole che io sposi sua figlia… Rubina, credo si chiami. Buffo, vero?
Calma, si disse Naida – Duke, ma tu… tu cosa farai? Dovrai… sposarla…?
Lui si strinse nelle spalle: – Non ho molta scelta, lo sai… nella mia posizione, purtroppo… – emise un sospiro molto artistico; poi, da quello sciagurato che era, disse l’ultima cosa che avrebbe dovuto anche solo pensar di poter dire: – Ma noi due resteremo sempre amici, no?
Naida afferrò il remo della barchetta e glielo picchiò selvaggiamente sulla testa.


Giovinezza

Il giardino reale traboccava di fiori. Corolle odorose e coloratissime s’affacciavano da alberi e cespugli. Da ogni angolo giungevano dolci, romantici effluvi.
– Mi dispiace che la tua storia con Rubina sia andata a finire male, Duke – disse Naida, con un tono afflitto che puzzava parecchio di falso.
– Che vuoi… – mormorò lui, l’aria disillusa di chi ben conosce il mondo e le sue delusioni – Cose che succedono.
Non volle dirle che essersi trovato ad un passo da confetti e marce nuziali e venirne salvato all’ultimo istante, dato che il futuro suocero aveva cambiato idea, era stato per lui un’esperienza terrificante: il sollievo era stato talmente forte da risultare traumatico. Certo, Rubina aveva fatto un po’ di capricci, ma presto si sarebbe consolata con qualche altro malcapitat… ehm, uomo fortunato.
Quanto a lui, era libero.
– Non ho più obblighi, adesso – esclamò, compiaciuto.
Naida sentì la gioia traboccarle nel cuore: – Oh, Duke…!
– Non sono più costretto a sposare Rubina… posso fare quello che voglio!
Di scatto, lei gli balzò al collo: – Duke, è meraviglioso!!! …Quando ci sposiamo?
Lui inorridì. Svegliarsi da un incubo per ritrovarsi in un altro ben peggiore è uno scherzo del destino ben crudele: – Ma Naida, io veramente…
– Cosa vuoi dire? – esclamò lei, e sarebbe stato ben difficile scorgere un minimo di calore umano nel suo sguardo – Un tempo, tu amavi me! Me l’hai detto!
– Sì, ma…
– Poi è arrivata questa Rubina… Vega, gli obblighi dinastici eccetera… e va bene, l’ho accettato!
– Certo, però…
– Adesso Rubina se ne è andata, tu non devi più sposarla, sei libero… stai cercando di dirmi che non vuoi impegnarti con me?
– Ecco, a dire il vero…
– Insomma, Duke! – Naida lo mise letteralmente spalle al muro, o meglio all’albero, incantonandolo contro un tronco secolare – Voglio una risposta precisa! Vuoi sposarmi, sì o no?
Duke esitò, mentre gelidi sudorini cominciavano a ruscellargli giù dalla fronte… e proprio allora, lontano ma inconfondibile, giunse il più spaventoso dei suoni.
L’allarme.
Vega aveva dichiarato guerra.
– Quanto mi dispiace, devo andare subito – lui fece per svicolare, ma Naida, che se l’era aspettato, fu rapidissima ad acchiapparlo – Naida, non senti l’allarme? Io devo andare, Fleed ha bisogno di me…
– IO, ho bisogno di una risposta! – ruggì lei, occhi baluginanti e denti digrignanti.
– Non essere assurda… proprio ora… poi adesso c’è la guerra, rischieresti di restare vedova – assunse un’aria molto, molto nobile: – Non posso importi un simile sacrificio!
– Ma Duke…!
– Ne riparleremo a guerra finita, d’accordo? – finalmente riuscì a liberarsi dalla pervicace fanciulla e tentò una nuova fuga.
Per terra giaceva un piccone, dimenticato da uno dei giardinieri.
Naida lo prese e cominciò a lavorare con tutta la sua notevole energia.


Pochi minuti dopo, mentre sfrecciava con Goldrake nell’azzurro dei cieli, gli occhi che faticavano a fissarsi contemporaneamente sullo stesso soggetto e l’elmo che gli premeva dolorosamente sui bernoccoli fioriti sul cocuzzolo, Duke si disse che Re Vega era sì un tiranno, una carogna, un colossale fetente… ma in fatto di tempismo, tanto di cappello.
Era la seconda volta che lo salvava in punto di morte…
Se avesse potuto farlo, gli avrebbe stretto la mano.






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Grande Blu
view post Posted on 13/2/2010, 20:43     +1   -1




“Bè, una storia dove Bia e Noa si sfidano, Ciosa cerca di barare aiutando Noa di nascosto e viene punito da tutte e due, perché l'orgogliosa Noa non vuole aiuti... cosa ne pensi? Mica una storia fiume, un episodio anche breve... oppure fai tu!”.
Joe7

Per il trono di regina
Dedicato a Joe 7, con stima e simpatia.

Introduzione
Eccola qui sopra, la richiesta di Joe 7 per un racconto … E a me piace, nel mio piccolo, accontentare le persone. Pertanto lo costruirò seguendo questa falsariga … con variazioni sul tema.
Grande Blu (Vanna)


Per il trono di regina

“Io obbietto! Si tratta di una questione interna!”
La veemente protesta fu accompagnata da una pesante anfora, che come sollevata dal vento volò per la sala, andando a frantumarsi contro una colonna, dopo esser passata attraverso il suo bersaglio.
Far volare pesanti anfore non è certo una cosa difficile, quando sei una strega.
Se poi sei la Regina delle Streghe, è davvero una bazzecola.
Il bersaglio dell’anfora, un globo di luce vibrante, non si scompose, e riprese con calma una forma umana.
“Non è solo una questione interna. La nomina della nuova regina è qualcosa che coinvolge l’intera sfera magica, ” disse con voce calma priva d’espressione, mentre la donna, in preda alla collera, accendeva con un gesto della mano tutte le torce infisse alle pareti e le candele dei lampadari nella sala e in tutto il castello, ma l’altro, per nulla impressionato, proseguì: “E poi le tue simpatie sono ben note.”
“Ben note?”
“Anche se la legge magica impone che ci siano due contendenti, sappiamo bene il tuo … diciamo orientamento … sui mortali.”
A questo punto, la sovrana delle streghe si lasciò cadere sul trono, guardando il tralice il suo interlocutore.
“Quindi?” disse con voce aspra.
“Quindi alla sfida magica rituale tra le due contendenti, ci sarà un giudice esterno …”.
“Tst!” sibilò la regina con disprezzo.
“… e sarà mia cura controllare che sia davvero qualificato per questo compito.”
La regina non rispose, ma iniziò a guardarlo fisso, poi, sempre rimanendo seduta, strinse convulsamente con le mani i braccioli dello scranno reale, si tese verso di lui, e sibilò.
“Un giudice esterno che comprenda le streghe?”
Fece un sorriso beffardo, si riadagiò sui cuscini e disse con tono di scherno.
“Prego, procedete!” e ghignò compiaciuta, anche se il lieve cenno di diniego della sua Prima Consigliera non le sfuggì, e improvvisamente fu presa da una strana inquietudine.
Intanto, il suo interlocutore aveva gettato nel braciere rituale, perennemente acceso, che si trovava qualche metro avanti al trono alcune polveri misteriose.
Non uscì del fumo, ma un globo di luce che si appiattì come una sfoglia e assunse una forma rettangolare. Poi, da un secondo globo appena formato prese forma una lunga penna con i colori dell’arcobaleno, appuntita e tagliata per la scrittura.
L’essere luminoso si concentrò, e la penna incominciò a vergare la carta, senza che egli proferisse parola.
Quando ebbe finito, da un minuscolo globo ricavò un pezzetto di pergamena, la penna lo vergò, il biglietto si arrotolò su se stesso e fu chiuso da un cerchietto d’oro istoriato delle dimensioni di un anello.
La pergamena vergata si arrotolò su se stessa, e fu chiusa da una lamina d’oro sottile.
“Prego Vostra Maestà.”
Non più baldanzosa, ma con il dubbio di aver commesso un grossolano errore, la regina tese il dito indice verso la pergamena. Un sigillo s’impresse nell’oro, poi la pergamena s’involò, lasciando il Castello e il Mondo delle Streghe.
“Questo è per voi. Reca il nome del giudice assegnato”
Il rotolino di pergamena volò fino al grembo della regina. L’anello che lo fermava si tolse da solo, ma la pergamena non si srotolò e si appoggiò mollemente sulla gonna della sovrana.
L’anello s’involò, e volteggiò in cerchio attorno alla mano destra della donna.
“Dovete indossarlo Maestà.” Disse la Prima Consigliera, che nel frattempo era giunta alla sua destra, “È il rituale della sottomissione.”
Pallida, la regina prese l’anello e lo mise al dito, cui si adattò perfettamente. Le incisioni, gli smalti e le gemme scintillarono per una frazione di secondo.
L’essere luminoso s’inchinò e scomparve. Con mano incerta la regina prese il rotolino di pergamena luminosa e la srotolò. A caratteri di fuoco c’era scritto:
‘Kandryr’.

La pergamena volava sicura attraverso la sfera magica, puntando a sud. Improvvisamente lasciò la rotta sopra le nuvole che aveva seguito fino a quel momento per abbassarsi.
Sotto le nuvole si stendeva un mare color zaffiro con sfumature turchesi, e un’isola tropicale era all’orizzonte. La pergamena puntò dritta su quell’isola.
Spiagge bianchissime, vegetazione tropicale, l’isola sembrava disabitata, ma mentre scendeva verso il suolo, ruggiti minacciosi e alti nitriti, si levavano nell’aria da ogni angolo dell’isola.
La pergamena si fermò, volteggiando, sopra gli alberi più alti. Da quella posizione poteva vedere gli abitanti dell’isola, che da quella distanza sembravano cavalli e leoni.
Improvvisamente riprese il suo volo, puntando verso il centro dell’isola.
Una maestosa piramide a gradoni era la sua meta.
Salì volteggiando sopra l’imponente scalinata che dava accesso alla piramide e giunse fino alla cima. Entrò nell’apertura ad arco che si trovò di fronte, e dopo un breve corridoio senza finestre giunse in un giardino pensile pieno di profumi, dove piccole cascate rinfrescavano l’aria torrida del meriggio.
Al centro del giardino c’era una costruzione piramidale dorata che splendeva sotto il sole.
In un angolo del giardino, c’erano due figure, apparentemente un cavallo e un leone. La pergamena puntò verso di loro.
Mentre si avvicinava, fu chiaro che non si trattava di un cavallo, ma di un giovane centauro dal manto e coda neri e dai lunghi capelli corvini, che drizzò le orecchie sentendola arrivare.
Di questa distrazione approfittò il suo antagonista per mettere le temibili zampe sulla groppa dell’incauto centauro.
Ma il centauro non aveva nulla da temere da quegli avambracci leonini, poiché erano appoggiati su di lui in modo da non recargli alcun danno.
“Abbiamo visite.” disse il centauro.
A queste parole, l’altra creatura nascose la parte anteriore del proprio corpo avvicinandosi ancor più al compagno, e con le grandi ali ripiegate celò il resto delle proprie fattezze femminili, lasciando visibili solo le zampe posteriori e la coda di leone.
Quando il centauro fu certo che fosse presentabile, muovendo di pochi centimetri le zampe anteriori, permise alla compagna di sbirciare l’oggetto sconosciuto che entrava nel loro giardino privato. Parte del volto femminile di una giovane sfinge dai capelli di media lunghezza, biondi e ricci, ali e pelo dorati apparve dietro la schiena del centauro.
“Pace a te, straniero.” Disse la Sfinge. “Esci dal nostro giardino, ora, e quando ti chiameremo, entra nella Piramide d’Oro che c’è al centro.
Ti daremo udienza.”
La pergamena uscì da dove era entrata, e dopo pochi minuti le frange d’oro di una passatoia rossa ricamata e bordata in oro erano sulla soglia.
La pergamena seguì il tappeto fin dentro la piramide, giungendo a una sala dove un uomo e una donna erano seduti su due troni.
L’uomo aveva lunghi capelli corvini come il centauro del giardino e gli occhi neri e profondi.
Indossava un corto chitone greco e un semplice cerchio d’oro sulla fronte.
La donna aveva i capelli di media lunghezza, biondi e ricci come la sfinge del giardino e gli occhi color dell’ambra. Indossava una tunica di foggia egizia con una ricca collana, e il copricapo dei faraoni.
“Di nuovo pace a te, straniero” disse l’uomo.
“Sii il benvenuto nel nostro paese. Cosa ti porta a Maadyz, straniero?” Aggiunse la donna.
La pergamena volò fino ai troni, si pose ai piedi dell’uomo in segno di sottomissione, con il sigillo ben visibile. Egli fece un cenno di saluto con la testa, e la pergamena s’involò ancora, fermandosi di fronte alla donna, sempre con il sigillo ben visibile.
“Tre volte benvenuto, ” disse lei “esponi pure la tua richiesta”.
La pergamena si sfilò dalla lamina d’oro, che aveva le dimensioni di un bracciale e si adagiò sulla gonna. La pergamena si srotolò e si pose nelle sue mani.
A caratteri di fuoco, c’era scritto:
“Pace e prosperità a Kandryr, Regina delle Sfingi, e al suo sposo Saucere, Re dei Centauri.
Possa il loro regno di Maadyz mai conoscere tristezza.
La Sfera Magica ha eletto Kandryr quale giudice esterno per la sfida rituale fra le due pretendenti al trono di Regina delle Streghe.
Possa Kandryr La Saggia illuminare le menti delle streghe pretendenti e portare saggezza al Regno delle Streghe.”.
Come ebbe finito di leggere, passò la pergamena al marito che la lesse a sua volta, mentre il bracciale d’oro con il sigillo del Giudizio della Regina volteggiava attorno alla mano di Kandryr.
Saucere lasciò cadere la pergamena, che scomparve in brillanti scintille. Sorrise semplicemente alla moglie, che ricambiò il sorriso. Kandryr tese la mano verso il bracciale, che si pose al suo polso, adattandosi in modo da non essere né largo, né stretto, mentre il sigillo scintillò per una frazione di secondo.

Nello stesso istante, nel Castello delle Streghe, si svolgeva una conversazione molto più animata e senza l’ombra di sorrisi.
“Kandryr! Proprio una sfinge dovevano chiamare, che è immune al potere delle streghe!
E non una sfinge qualsiasi, sulla cui bestialità potevamo far leva, ma la Regina delle Sfingi, nota nella sfera magica per la sua equità e saggezza, il cui sapere comprende incantesimi antichissimi, nati con la magia!”.
Queste urla e altre simili uscivano dalla bocca della Regina delle Streghe, che chiusa nelle proprie stanze insieme alla Prima Consigliera, era in preda alla collera più furibonda.
Un rapido sguardo alle sue dita le fece capire che non poteva intervenire in alcun modo, neppure convocare Ciosa e i suoi magici animali.
E presto comprese di non avere neppure il tempo per farlo. Mentre lei osservava l’anello scintillante al suo dito, il capitano della guardia aveva chiamato discretamente la Prima Consigliera, e le aveva detto qualcosa a bassa voce.
“Maestà, la regina Kandryr chiede di vedervi.” Disse infine la Consigliera.
Tutto era compiuto, ormai. La Regina delle Streghe sperò che quel pasticcione della sua spia sapesse come fare, e si diresse verso la sala del trono.

Intanto, nel mondo degli umani, in un parco abbandonato …
“Noa! Non puoi pensare seriamente quello che dici!” urlò una strega adolescente verso una sua coetanea vestita di scuro, dalla pelle bianchissima, gli occhi scuri e lunghi capelli azzurri.
“E da quando, Bia, t’importa quello che penso?” rispose l’altra strega, fissando seria gli occhi verde scuro della rivale dai capelli rossi.
“Io voglio solo tornare nel Mondo delle Streghe, non sopporto il Mondo degli Umani.”
Per una volta, Noa non era beffarda o sprezzante come il solito. Era … se fosse stato possibile, si sarebbe detto che era triste.
“Bene, ed io non ti lascerò tornare così, come niente fosse!” disse Bia mettendosi di fronte a lei.
“Vuoi sfidarmi, streghetta?” Rispose Noa con il suo solito sorriso sprezzante.
Dietro ad un cespuglio, Ciosa con i suoi aiutanti, la gatta Fru Fru e il corvo Cra Cra non perdevano una parola.
“Bene, c’è aria di sfida … Vedo che siete già calate nella parte!” disse una voce femminile sconosciuta.
Improvvisamente, le due ragazze percepirono che l’aria era satura di potere. Un potere tanto grande che nonostante tutti i presenti fossero esseri magici, nascosti o non, sentirono i brividi lungo la schiena.
Improvvisamente di fronte a loro era comparsa una donna, con i capelli biondi e ricci e gli occhi color dell’ambra, che apparentemente sembrava poco più grande di loro, ma guardandola potevano percepire che era antica quanto il tempo.
“Pace a voi, Noa e Bia, pretendenti al trono delle Streghe. Sono lieta di trovarvi insieme, già determinate e pronte a sfidarvi.
E poiché voi siete pronte, a che scopo indugiare?
Vi comunico che domani, di fronte alla vostra Regina, affronterete la sfida finale che determinerà chi fra voi salirà al Trono delle Streghe.”.
“Perché non è venuto un messaggero delle Streghe a portarci quest’annuncio?” Urlò Noa contro la sconosciuta, nonostante sentisse le ginocchia molli come gelatina. Voleva sfogare la sua rabbia per esser stata interrotta e dimostrare che non aveva paura.
La sconosciuta non si adirò, ma sorrise. Quel sorriso sciolse ogni sentimento negativo nel cuore di Noa che sospirò, suo malgrado, e un’espressione di serenità si dipinse sul suo viso, tale che Bia ne fu sbalordita.
“Perdonate … signora …” farfugliò Bia. La sconosciuta continuava a sorridere, quindi preso coraggio, “voi chi siete, e perché siete venuta ad avvertirci della sfida?”
“Sono venuta ad avvertirvi della sfida perché ne sarò il giudice, ” e mentre parlava, mostrò alle ragazze il bracciale d’oro con il Simbolo delle Streghe “e preferisco incontrare sempre di persona chi giudicherò. In quanto a chi sono, vi basti sapere che il mio nome è Kandryr.
A domani. Ora andate a casa, riposate e godetevi le famiglie assegnate.”.
Le due ragazze obbedirono.
Il giorno seguente, varcarono di nuovo la soglia per il Mondo delle Streghe.
Si recarono fino alla sala dei combattimenti, dove Kandryr le aspettava. Sul loggiato che circondava la sala, la Regina e le streghe e stregoni più autorevoli del regno assistevano alla sfida.
Dentro la sala c’era un’area circolare, con un pentacolo al centro, lievemente rialzata dal pavimento. Quest’area fu occupata da Bia, Noa, e Kandryr.
“Chiuditi.” Mormorò Kandryr, e una cupola d’energia isolò le contendenti dal resto dei presenti.
“È per la protezione del pubblico. Così potrete usare appieno i vostri poteri. Potete fare ciò che volete, usare ogni vostro potere. Pronte? Cominciate!
In breve la cupola fu piena di scintille colorate, e gli incantesimi più disparati furono messi in campo. Le ragazze si trasformarono, mutarono l’avversaria, divennero enormi, minuscole, svilupparono le ali, la coda, becchi e artigli … Il tutto allo scopo di sopraffare l’avversaria.
Ben nascosto in un punto della cupola, reso invisibile da un incantesimo, Ciosa colpiva Bia ogni volta che Noa la colpiva … Con il risultato che Bia era in difficoltà, ma si difendeva con valore.
Improvvisamente, sul loggione comparve una figura maschile, dai lunghi capelli scuri e vestiti neri, con il volto celato da un cappello. Noa lanciò un incantesimo, Ciosa scagliò anch’egli un sortilegio e Bia si trovò seduta per terra ansimante. Lo sconosciuto del loggione aprì una mano, e sabbia finissima mista a madreperla cadde sulla cupola, la traversò e si sparse su Ciosa, rendendolo visibile. Kandryr lo vide con la coda dell’occhio.
“Fermatevi”, gridò, e con un gesto della mano annullò gli incantesimi lanciati dalle due streghe. Il ciondolo di picche stretto nelle mani con la punta rivolta verso Bia svelava le azioni di Ciosa.
“Sapevi di avere un aiuto esterno?” chiese Kandryr a Noa, guardandola dritta negli occhi.
“No, lo giuro! Ciosa, dannato pasticcione, che ti è saltato in mente! Io non ho bisogno del tuo aiuto! Io posso affrontare da sola Bia, e vincerla!
Non devi interferire nelle mie battaglie!”.
Ciosa incominciò a sudare freddo.
“Ti credo. Per questo non interverrò, e vi concedo di risolvere la questione da sole …” disse Kandryr allontanandosi di alcuni passi.
“… sono certa che sapete lanciare un incantesimo congiunto. Voglio vedere cosa escogiterete!”
Bia e Noa si guardarono. Sapevano lanciare un incantesimo congiunto, certo. Ma non lo avevano mai fatto insieme! Confabularono a voce bassa per pochi minuti, la fronte imperlata da gocce di sudore freddo, per via degli occhi del giudice fissi su di loro.
Colpirono. Ciosa rimpicciolì e si restrinse, e alla fine dal mucchietto delle sue vesti comparve... un topo dal muso appuntito, nero, con una macchia a forma di seme di picche sulla fronte. In quello stesso istante, fu espulso dalla cupola.
Fru Fru e Cra Cra, come impazziti, si misero a dargli la caccia per tutta la sala dei combattimenti, scusandosi con lui perché il loro istinto animale non sentiva ragione. Lui era il capo, certo, ma era soprattutto un bel topone grassottello, e loro avevano un languorino …

Distogliendo lo sguardo da quella scena imbarazzante, la Regina delle Streghe guardò in fondo al loggione lo straniero responsabile di tutto. Lo straniero sollevò una falda del cappello, mostrando due occhi scuri e profondi e fece un lieve inchino. Chi diavolo …
“Re Saucere, vostra Maestà” mormorò la Prima Consigliera all’orecchio della sovrana.
La regina poté solo inclinare la testa in segno di saluto e abbozzare un tirato sorriso di circostanza.
Intanto, nella sala, Kandryr aveva chiuso Ciosa trasformato in topo in una sfera magica. Sfera indistruttibile, ma che sballottava il malcapitato ogni volta che Cra Cra ci affondava il becco, o Fru Fru gli artigli.
Nella cupola Bia e Noa continuavano a lottare, senza che l’una riuscisse a prevalere sull’altra.
“Fermatevi. Il duello termina qui.”
Il pubblico rumoreggiava, ma bastò uno sguardo di Kandryr per azzittirlo. Nel più totale silenzio la sfinge disse.
“Le pretendenti sono inesperte, e oggi, né Bia né Noa potrebbero sostituire l’attuale regina, nota nella sfera magica per la sua grande arte misterica”.
La Regina fece un grazioso gesto con la mano. Non sapeva che la sua fama fosse arrivata fino al regno delle Sfingi … Aveva scelto proprio bene, nominandola giudice esterno …
Kandryr inclinò la testa in segno di ossequio, e proseguì.
“Il mio giudizio è il seguente. Esse rimarranno nel mondo dei mortali, per ricordare la loro inesperienza, e si recheranno dai saggi ogni tre mesi per apprendere.
Quando tutto ciò che una regina deve sapere sarà stato da loro ben appreso, io ritornerò e terminerà il combattimento.”.
“Bene, il Giudice ha parlato! Il giudizio sia eseguito!” disse la Regina alzandosi, e s’inchinò leggermente in segno di saluto, il primo sincero, da quando aveva incontrato la sfinge. La sua corte salutò a sua volta e lasciò la sala con lei.
Bia e Noa si avvicinarono e chiesero cosa ne sarebbe stato di Ciosa.
“Ve lo dico subito, ” annunciò Kandryr avvicinandosi al topo nella sfera, mentre Fru Fru scappò a nascondersi dietro alle gambe di Bia e Cra Cra volò sulla spalla di Noa, che normalmente lo avrebbe cacciato, ma lasciò correre per quella volta.
“Rimarrai topo fino alla mezzanotte di domani, e questa sfera indistruttibile ti circonderà fino allora per tua protezione … ” disse fissando i suoi occhi di leonessa in quelli di Ciosa, che tremava dai baffi alla punta della coda. “… poi scomparirà, e tu ritornerai umano. Ma ricorda, ogni volta che compirai un’azione disonesta, tornerai a essere topo, ma non ci sarà più alcuna sfera a proteggerti.”.
Detto questo, si rivolse ai due animali: “Portatelo a casa.” I due animali, dopo un goffo inchino si allontanarono, e Kandryr congedò anche Bia e Noa.
“Ed anche questa è fatta”, pensò Kandryr rimasta sola … ma aveva sentito un odore familiare nella sala dei combattimenti … e ora aspettava qualcuno. Una voce maschile alle sue spalle disse.
“Immaginavo che avresti rinviato le due pretendenti ad approfondire gli studi. Devo proprio dirtelo, moglie mia … Dopo tanti secoli mi sorprende ancora che esista una sfinge che non ama le battaglie e il sangue.”.
“Lieta di riuscire ancora a sorprenderti, marito mio …” rispose girandosi, e sorridendo aggiunse. “Ma ora dimmi, cosa vedi nel futuro delle pretendenti?” Saucere fissò un punto remoto, e con voce priva d’espressione disse:
“Non tornerai più in questo regno. Fra cinque anni le pretendenti ti chiederanno di raggiungerle nel Mondo degli Umani, dove ti comunicheranno di aver deciso di comune accordo chi fra loro diventerà Regina, mentre l’altra assumerà il ruolo di Prima Consigliera.”.
“Non mi dirai chi sarà regina, immagino”
Saucere sbatté le palpebre:
“No.”
“Devo proprio dirtelo, marito mio … dopo tanti secoli mi sorprende ancora che esista un centauro che non ami vantarsi di conoscere perfettamente ciò che avverrà in futuro, e riveli delle proprie visioni solo quanto non può influire sul realizzarsi del futuro stesso.”
Ridacchiando, Saucere rispose: “Lietissimo di riservarti ancora delle belle sorprese, mia regina …”.

“Stanno parlando di noi, io voglio sentire!” mormorò Noa a Bia.
“Ma se ci scoprono …”
“Allora stai qui, fifona, posso andare da sola”.
“No, Noa, aspettami!”
Bia e Noa non si erano allontanate, incuriosite dall’improvviso sopraggiungere di Saucere, e provarono ad avvicinarsi per sentire cosa dicessero.
Ma la sfinge e il centauro avevano sentito l’odore delle giovani streghe fin dal primo istante, ma le lasciarono avvicinare, si girarono verso di loro e dopo un sorriso e un inchino svanirono mormorando un incantesimo.
“Ecco, così non abbiamo sentito! Devi proprio ancora impararne di cose! I saggi avranno molto lavoro da fare con te!” Disse Noa con disprezzo.
“Si sono accorti anche di te, Signorina So Tutto Io … sono certa che anche con te, i saggi avranno il loro bel daffare!”
E facendosi il broncio a vicenda, le due uscirono da lati opposti della sala.

Edited by runkirya - 13/2/2010, 23:48
 
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isotta72
view post Posted on 16/2/2010, 11:00     +1   -1




Questa la dedico a Nivalis, che con il suo disegno mi ha emozionato.

Il mare di Fleed

Ti ricordo così.
Seduto sulla spiaggia, il vento tra i capelli
Quell’odore umido e salmastro
che conosco così bene
I tuoi occhi sono persi all’orizzonte
Riflettono il colore del mare
Pensieri senza tempo
In questa stagione indecisa
Mi siedo accanto e ti volti a guardarmi
Un lieve sorriso, mi prendi la mano
Sfiori le dita con le tue labbra
Qualche granello di sabbia
Luccica sul tuo viso
Che ne è di tutto questo?
Non sei più seduto là, ora
Anche l’impronta del tuo corpo è stata cancellata
Le grida felici di una bambina
Danzano in mezzo allo sciabordio
Sempre più lontane
 
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Rubina71
view post Posted on 19/2/2010, 11:43     +1   -1




Questa la dedico a noi Actarusmaniache!!!

Rubina

I tuoi capelli rossi come il rubino,
pietra preziosa che ti diede il nome,
incorniciano l'azzurro dei tuoi occhi di colomba,
il rosso fuoco dell'amore
a riscaldare il tuo cuore,
Principessa!
Amore negato,
amore travagliato,
spezzato da una crudele guerra,
da un padre tiranno
che usando l'inganno
ti separò da colui
per il quale daresti
e desti la vita!
Ma il tuo amore vive,
Vive in colui per il quale sacrificasti ogni cosa!
Ed ora fiori rossi e gocce di rugiada
lui distende ai tuoi piedi,
sul tuo viso bianco come l'alabastro,
per sentirsi ancora con te in paradiso!

 
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amon114
view post Posted on 27/2/2010, 18:16     +1   -1




Ho due richieste
Mi piacerebbe tanto una poesia che tratti il tema della disperazione di Akira,quando trova la sua amata,Barbaramente uccisa da coloro per i quali si stava battendo. l'altra è il dramma vissuto da Miki nel momento in cui scopre che il suo amato Akira è un demone.



Mi piacerebbe una bella poesia
Ed un breve Racconto
 
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25 replies since 9/1/2010, 23:36   1275 views
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