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ISOTTA72: i racconti per la Cronologia

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isotta72
view post Posted on 11/4/2010, 15:10     +1   -1




RESISTENZA

Lui e Marcus erano cresciuti insieme.
Altair2 era il pianeta abitato più vicino a Fleed, e da diversi secoli tra le due popolazioni esistevano scambi commerciali e rapporti culturali, che le aveva fatte sviluppare quasi parallelamente.
Le grandi risorse naturali di Fleed e l’enorme vitalità del pianeta, però, avevano portato quest’ultimo sempre un passo avanti.
Il rapporto tra i due ragazzi era stato inizialmente coltivato dai genitori, che volevano gettare le basi per continuare, anche con la generazione successiva, lo sviluppo delle alleanze tra i due popoli, ma le cose poi erano andate avanti spontaneamente: tra loro era nata un’amicizia profonda e sincera.
Avevano la stessa età, ma erano molto diversi: Duke aveva un senso del dovere atavicamente radicato nell’animo. Era più adulto dei suoi anni, e nonostante fosse solo un adolescente, godeva già della stima della sua gente.
Sembrava geneticamente predisposto ad essere Re.
Marcus invece, era un ribelle, e scanzonava l’amico dicendogli che gli ispirava una noia mortale..
In realtà erano molto affezionati, e si completavano l’un l’altro.
Erano belli entrambi: Duke aveva lineamenti più dolci, gli occhi blu circondati dai folti capelli castani che arrivavano alle spalle, davano al suo viso ancora immaturo un chè di femmineo, mentre i tratti di Marcus erano più taglienti e maschili.
Ma in amore, era Marcus a rimanere a bocca asciutta: Naida era un bocconcino incredibilmente appetitoso, e l’amico lesso lo aveva fregato su tutti i fronti: i modi discreti ed eleganti del Principe di Fleed avevano stregato la fanciulla più di tutti i suoi chiassosi tentativi di farsi notare.

De gustibus..

Vivevano la loro vita di ragazzi, ed erano messi a conoscenza dell’intenso lavoro diplomatico che le due famiglie stavano impostando con Vega solo durante gli inviti nei rispettivi palazzi, in occasione di qualche cena noiosa..
Ultimamente, però, faceva sempre più fatica a distrarre l’amico durante quegli incontri, a convincerlo a defilarsi per andare a spasso da qualche parte. Aveva visto Duke incupirsi negli ultimi tempi, come se avesse qualche strano presagio.
Sicuramente la partenza di Naida gli aveva inferto un colpo durissimo: lo aveva visto piangere in silenzio, con le mascelle strette: era la prima volta che lo vedeva in quello stato, ed il suo goffo tentativo di consolarlo non aveva avuto un grande effetto.
Ma non era solo questo..
Vega non piaceva a nessuno dei due: avevano avuto entrambi la stessa impressione, cioè che il sovrano del pianeta più bellicoso del sistema stesse covando qualche altro piano, dietro all’improvviso interessamento per un suo innesto nei rapporti commerciali tra Fleed ed Altair2.
Marcus aveva palesato le sue preoccupazioni proprio durante una di quelle cene, a modo suo certo, forse sempre un po’ troppo irruento, e lo avevano subito zittito.
Non potevano sapere che di lì a poco la situazione sarebbe precipitata..

(..)

Quella notte si era svegliato di soprassalto: il rumore dei passi delle guardie nel corridoio e la voce angosciata del padre lo avevano fatto ribaltare giù dal letto.
Corse nella Sala del Consiglio, dove erano già radunati parecchi dei collaboratori di suo padre, tutti in evidente stato di agitazione.
Quando entrò nella sala, si voltarono a guardarlo, ammutolendo..
Suo padre era scolvolto..
“Duke!”
”Padre, cosa è successo?”
“Hanno preso Goldrake”.. disse il Re con un filo di voce..
Se lo ricordava ancora, quelle parole bruciavano come il fuoco: aveva afferrato il padre per le spalle, ormai era più alto di lui, e lo aveva scosso.. “Cosa..cosa vuoi dire, hanno preso Goldrake, chi, come..? Maledizione, Vega..”
“Ora devi nasconderti. Non lo possono usare senza di te. “
“No, padre, non mi nasconderò per restare con le mani in mano..adesso è ora di reagire, starò in guardia, non mi farò prendere..”
Il Re aveva guardato negli occhi suo figlio..e per la prima volta aveva visto un uomo.

(..)

Preparavano il piano per il sabotaggio del deposito di vegatron nascosti nei sotterranei del palazzo reale.
Duke aveva organizzato un piccolo esercito di ragazzi che condivideva con lui e Marcus l’odio per Vega e la voglia di riscatto.
Suo padre disapprovava, ed era la prima volta che si trovava in aperto conflitto con lui da quando era nato.
Ma come faceva ad illudersi di poter ancora trattare con quella serpe?
Avevano sequestrato Goldrake..stavano devastando le città, c’era bisogno di ulteriori conferme della loro ostilità?
Dal momento in cui era successo, era stato costretto a vivere nascosto, lui era la chiave d’accesso al robot..
Non era tanto l’opposizione del padre a destabilizzarlo, quanto la palpabile angoscia che provava sua madre quando lo vedeva uscire per incontrarsi con i compagni.
Non voleva farla stare in pena, aveva con lei un legame speciale, ma la posta in gioco era troppo grande.
Aveva avuto un’infanzia serena, circondato da affetto, cresciuto per essere Re, un giorno.
Per questo ora voleva lottare: suo padre gli aveva insegnato a leggere lo sguardo della loro gente. E lo smarrimento che leggeva ora negli occhi di uomini e donne che assistevano attoniti alle immani distruzioni, lo spingeva a tentare il tutto e per tutto.
Voleva metterli in salvo, voleva difendere il suo pianeta, la sua casa, i suoi affetti..
Perché suo padre non capiva?
Tornò a concentrasi sul piano: Marcus era il trascinatore del gruppo, lui quello che doveva stare attento che Marcus non li trascinasse tutti nel fosso: l’amico era coraggioso, oltre ogni immaginazione, e lo stimava per questo, ma la tattica non era il suo forte..
Ognuno di loro avrebbe avuto compiti ben precisi: Duke e Marcus sarebbero stati le teste di ariete: dovevano distrarre le guardie all’ingresso permettendo che un secondo gruppo le cogliesse di sorpresa per immobilizzarle. Il terzo gruppo sarebbe penetrato nel deposito ed avrebbe innescato le cariche esplosive. Avevano poco tempo per allontanarsi, questo era il punto del piano più critico e rischioso, ma se fossero riusciti nell’intento, avrebbero inferto un duro colpo agli invasori: quel deposito era la principale fonte di approvvigionamento di energia che i veghiani fossero riusciti ad installare su Fleed.
Erano pronti.
Cominciarono e spostarsi per le vie della città in ordine sparso, per trovarsi poi al punto di raccolta concordato.
E proprio in quel momento avvenne l’imprevisto: una improvvisa incursione aerea di minidischi li costrinse a dividersi di nuovo. Colpivano la città sorvolandola a volo radente, seminando il panico tra la gente.
Duke e Marcus erano ancora insieme, e correvano uno dietro l’altro, verso l’obiettivo.
Duke si accorse con la coda dell’occhio che un minidisco stava sopraggiungendo a bassissima quota alle sue spalle, i puntatori miravano la schiena di Marcus:
“Marcus, a terra!” fece in tempo a gridare.
Con un balzo gli fù addosso, il minidisco sparò e caddero entrambi, rotolando al lato della strada.
Marcus si rialzò per primo, spostandosi dalla schiena il peso morto dell’amico.
Duke era privo di sensi, aveva una profonda ferita al braccio, che sanguinava abbondantemente e doveva aver battuto la testa: aveva una ferita sulla fronte e gli sanguinava il naso.
“Duke, svegliati, dobbiamo andare via di qui!”, lo colpì con uno schiaffo, e l’amico riprese conoscenza.
“Dobbiamo andare, devo riportarti a palazzo, stai perdendo molto sangue..
Credo che siano radiazioni, devono curati immediatamente!”
“No! Non possiamo abbandonare gli altri, senza di noi il piano non funziona, li mettiamo in pericolo tutti quanti!”
Cercò di alzarsi, pulendosi il naso con il dorso della mano, ma il dolore lancinante al braccio lo fece cadere di nuovo in ginocchio, tossì sputando sangue.
“Non possiamo proseguire, devo portarti a palazzo, avanti”, fece per sollevarlo, ma Duke lo fermò:
“Marcus, prosegui almeno tu, devi raggiungere gli altri, o non ce la faranno mai..lasciami qui”
Marcus lo guardò allibito..aveva davanti a sè il suo migliore amico, il principe ereditario del pianeta alleato, la chiave d’accesso alla più potente arma del sistema planetario..tutte buone ragioni per non lasciarlo lì a morire ed ignorare quegli ordini deliranti.
Cercò di nuovo di sollevarlo, ma Duke lo respinse ancora e si lasciò cadere a terra estraendo la pistola laser e puntandosela sotto al mento.
“Duke, ma cosa diavolo..”
“Non avrai più nessuno da portare a palazzo, se mi tocchi ancora.
Lasciami qui, raggiungi gli altri e porta a termine la missione.. mi nasconderò dietro quel mucchio di macerie,e ti aspetterò.
Se dovesse arrivare qualche soldato di Vega, vedrai che non mi avranno vivo..”
La risolutezza con cui gli diede quegli ordini non gli lasciò alcuna possibilità di replica, trascinò l’amico dove gli aveva indicato, gli strinse la mano, e lo salutò..

Rimasto solo, accasciato contro il muro diroccato, cominciò a pregare..
Il braccio bruciava terribilmente..
..radiazioni..
aveva visto morire molta gente a causa del vegatron..dicevano che si propagasse nel corpo col passare del tempo, intaccando gli organi vitali e portando inesorabilmente alla morte..ma ora non aveva tempo per pensarci.
Era in ansia, si sentiva responsabile per quei ragazzi e non sapere cosa stesse succedendo lo faceva impazzire.
Gli pulsava la testa, e non muoveva più il braccio destro..scivolò lentamente in uno stato di torpore.

(..)
La prima cosa che vide quando apri gli occhi fù il viso di sua madre..
“Finalmente..come ti senti?”
Duke si mise a sedere di scatto, quel movimento gli fece girare la testa e dovette aggrapparsi al braccio della donna.
“Dov’è Marcus? Come stanno gli altri? Il deposito?”
L’espressione di sua madre gli gelò il sangue..
“Il deposito è saltato, ma di Marcus non c’è traccia, credono che sia morto nell’esplosione..Duke, guardami, devi essere forte..”
Si lasciò cadere sul cuscino, gli occhi fissi nel vuoto..l’aveva mandato a morire..era colpa sua, se non si fosse intestardito, forse sarebbe ancora vivo..
Lo assalì la disperazione..
Un’altra persona amata che se ne andava, un’altra separazione.. era come se ogni volta gli portassero via un pezzo della sua anima..
Pianse tutte le sue lacrime col viso affondato nel ventre di sua madre.

(..)


Marcus si svegliò a bordo della nave ammiraglia. Aveva polsi e caviglie legate, davanti a lui uno schermo enorme, non si ricordava più nulla..un gran mal di testa , e la sensazione di odiare profondamente, di odiare qualcuno..di cui non sapeva nemmeno il nome..


(..)

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Edited by isotta72 - 2/6/2010, 22:59

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isotta72
view post Posted on 11/4/2010, 15:11     +1   -1




IL VIAGGIO

Davanti a lui, lo spazio infinito..dentro di lui, il silenzio..

Era accasciato al posto di comando, la vista offuscata, gli occhi gli bruciavano terribilmente. Si tolse il casco, che lo faceva soffocare.
Prese lentamente coscienza del suo corpo..era ferito: la cicatrice sul braccio pulsava, probabilmente era rimasta esposta a lungo alle radiazioni, aveva una gamba intorpidita e una ferita sul petto sanguinava vistosamente. Forse aveva qualche costola rotta: doveva respirare lentamente per non provare dolore.

Non c’era più nessuno intorno a lui..il buio ed il vuoto dello spazio che lo circondava gli facevano ancora più paura delle decine di minidischi che aveva dovuto affrontare durante la fuga..almeno allora la sua mente era concentrata sul combattimento..
Ma ora non voleva pensare, sentiva una stanchezza infinita prendere il sopravvento, il freddo penetrargli nelle ossa.
Si addormentò in un sonno simile allo svenimento.

Rimase privo di sensi per parecchio tempo, ma quando si risvegliò riprese una lucidità inaspettata.
Controllò l’assetto della macchina: sembrava tutto in ordine.
Non c’era una rotta impostata, ma sapeva esattamente dove si trovava, grazie alle mappe cosmiche caricate nella memoria principale.
Aveva già percorso molto spazio, e stava per uscire dal sistema planetario di Fleed.
Goldrake era al sicuro: le truppe di Vega avrebbero impiegato giorni per arrivare fino a quel punto. Nessuno dei loro mezzi poteva raggiungere la velocità fotonica alla quale si era allontanato dal suo pianeta, e sicuramente lo avevano perso di vista.
Diede un rapido sguardo agli indicatori: aveva ancora molta energia a disposizione, e prima di esaurirla completamente sarebbe sicuramente arrivato in prossimità di un'altra stella che gli avrebbe consentito di ricaricare i reattori. Cibo ed acqua per alcuni giorni, ossigeno in abbondanza, sempre disponibile finchè era agganciato allo spacer, che aveva a bordo un sistema di filtraggio dei gas cosmici.
Goldrake era una macchina perfetta, e per un attimo si lasciò rapire dal fascino che quel robot aveva sempre esercitato su di lui.

Goldrake era il metro con cui da anni misurava se stesso.

Si era confrontato col robot fin dalla prima adolescenza, quando il team dei progettisti che lo stavano mettendo a punto decise, insieme a suo padre, che sarebbe stato addestrato proprio lui alla guida di quel mezzo.
Aveva accettato di buon grado, con l’orgoglio tipico della giovane età.

Goldrake allora non era armato: era una macchina pensata per l’esplorazione del cosmo, per la ricerca scientifica, ed era il simbolo del progresso raggiunto dalla sua gente.
Su Fleed, più che in altri luoghi abitati del sistema, l’intelligenza e la lungimiranza della famiglia che per generazioni aveva guidato il pianeta, aveva portato la popolazione ad un grado di sviluppo estremamente avanzato, in perfetta sintonia con l’ambiente e la natura.
Gli addestramenti erano durissimi, ed insieme allo studio lo impegnavano per quasi tutta la giornata.
Gli restava poco per lo svago, e Naida lo mal sopportava.
Ogni allenamento lo lasciava come svuotato, senza energie.
Doveva entrare in sintonia con la macchina, reagire e pensare alla sua velocità: riuscire a dominarlo non era facile, e spesso i suoi comandi mentali non erano efficaci. Quando avevano installato le armi la questione si era fatta ancora più complessa: aveva paura ad amministrare tutta quella potenza, ed in un paio di occasioni, durante gli allenamenti, era stato sul punto di mettersi a piangere.
Ma migliorava rapidamente, ed il fisico si era abituato pian piano allo stress. Si sentiva ogni giorno più forte.
Il ricordo di quegli anni, di come si sentiva, gli provocò un dolore acuto.

Ma che importanza aveva ora tutto questo?

Goldrake non serviva più a nessuno, ormai.
Lui non serviva più a nessuno, ormai..
Vega non lo avrebbe mai posseduto, ne lui, né il robot.
Era libero, per la prima volta in vita sua da quando era cominciata quella guerra maledetta.

Era libero di morire.

Fu questa consapevolezza a farlo rilassare.. non aveva più doveri nei confronti di nessuno, nessuno poggiava più su di lui alcuna speranza di salvezza, non aveva più alcuna responsabilità.
Il peso di un’intera popolazione che guardava alla sua famiglia, e a lui in particolare, come all’unica speranza di vita, si era dissolto.

Ma aveva fallito.

Un’angoscia bruciante gli attanagliò lo stomaco, tanto violenta da provocargli la nausea.. dove aveva sbagliato?
Si mise a ripercorrere tutti gli avvenimenti degli ultimi anni.
Ora aveva tempo, poteva fermarsi a pensare, ad analizzare.
Sentiva che doveva tenere il cervello impegnato, per non impazzire, per evitare che i demoni gli invadessero la mente.

Vega aveva intuito presto che con le buone maniere e la subdola diplomazia non avrebbe mai dominato la gente di Fleed, e la situazione era degenerata velocemente. La popolazione adulta era stata totalmente incapace di reagire.
La violenza, anche solo a scopo difensivo, non apparteneva in alcun modo al loro essere. Assistevano increduli alle incursioni che nei centri abitati seminavano morte e distruzione.
Erano indifesi come la più vulnerabile delle creature.
Solo tra i più giovani c’era stato qualche focolaio di reazione, e lui aveva cercato di organizzarlo nell’unica forma di resistenza che il pianeta potesse avere.
Erano niente più che un gruppo di ragazzi, e le sole armi che possedevano erano quelle che riuscivano a sottrarre alle truppe di Vega.
Solo ora si rendeva conto che le loro possibilità erano sempre state pari a zero.
Erano morti quasi tutti, i suoi compagni, nei tentativi di sabotaggio delle postazioni nemiche. Erano caduti come mosche, uno dopo l’altro, ed anche lui era rimasto gravemente ferito in più di un’occasione.

Si erano lasciati sfilare Goldrake dalle mani..

Si ricordava perfettamente quando suo padre glielo aveva comunicato, il volto trasfigurato dall’angoscia. Quelle parole bruciavano come il fuoco nella sua mente. La loro ingenuità era stata imperdonabile e quell’errore aveva segnato la fine di Fleed. Era prevedibile, era maledettamente prevedibile..la tensione nei rapporti si percepiva chiaramente ormai da mesi..
La notte precedente i primi attacchi, i soldati di Vega avevano fatto irruzione in forze nell’hangar dove Goldrake era custodito, occupandolo.
Ma Goldrake era dotato di un sistema di sicurezza che poteva essere sbloccato solo da chi sapeva pilotarlo. La sintonia cerebrale stava alla base di ogni comando.
Quando Vega lo aveva scoperto, aveva cominciato a dargli la caccia, ed aveva intensificato gli attacchi al pianeta. Da quel momento su di lui gravava un peso ancora maggiore: doveva difendere la sua gente, perché nessun altro era in grado di farlo, e non poteva permettersi di essere catturato vivo, perché Vega avrebbe piegato il suo cervello ai suoi voleri.
Sarebbe diventato la loro arma più temibile.
Quel demonio avrebbe potuto annientare Fleed in sole due ore, spiegando tutte le forze come aveva fatto in quell’ultima, terribile notte.
Invece aveva voluto gustarsi con calma l’agonia di un popolo intero.

Aveva visto suo padre invecchiare di vent’ anni in pochi giorni.

Quei ricordi gli fecero montare dentro una rabbia incontrollabile: rabbia contro il padre, per la sua ingenuità, rabbia contro la sua gente, per la loro incapacità di reagire, rabbia verso i suoi compagni, che si erano lasciati ammazzare sotto i suoi occhi, rabbia verso se stesso, per aver sperato, anche solo per un momento, di potercela fare, e per essere ancora vivo..
Un urlo strozzato gli uscì dalla gola, i pugni premuti sulle tempie, urlò tutto il suo dolore.

I demoni stavano arrivando..

Si sentì mancare nuovamente, ed affondò in uno stato di semi-incoscienza , dove il tempo e lo spazio non avevano più alcun significato: Il suono lontano della ninna nanna con cui sua madre lo addormentava da bambino, la voce infantile della sorella che lo chiamava, due labbra morbide che giocavano con il lobo del suo orecchio, facendogli solletico, l’odore del cibo che veniva dalla cucina del palazzo..le risate degli amici, una voce di donna che lo sgridava per chissà quale motivo..tutto si fondeva in un carosello ovattato, dai suoni e dai colori sbiaditi..

Si svegliò con una sete terribile, ma riusciva a muoversi a malapena..la gamba ora era immobile e completamente insensibile e continuava a perdere sangue. Bevve un po’, e guardò il computer di bordo..erano esattamente sei giorni che vagava nel cosmo.
Sei giorni..quanto tempo avrebbe impiegato a morire?
Ebbe la tentazione di spegnere i motori, di lasciarsi andare alla deriva..ma non lo fece .
Doveva comunque allontanarsi il più possibile da Fleed: nelle vicinanze c’erano altri pianeti abitati e soggiogati al potere di Vega che avrebbero potuto organizzare ricognizioni per individuarlo.

Mentre fissava lo scorrere delle stelle immerse nel cielo nero davanti a lui, gli parve di sentire una musica in lontananza..

Stava impazzendo?

Si stava dissanguando lentamente, non mangiava ormai da giorni, perché lo stomaco chiuso non glielo permetteva e sentiva che il suo equilibrio stava incrinandosi..
La solitudine assoluta, interrotta solo dagli incubi, lo stavano facendo precipitare nel baratro..si accorse che stava cantando, sottovoce, quella musica che sentiva fino a poco prima.
Era la melodia preferita dalla sua Naida.
Lo stava ad ascoltare per ore, quando la suonava per lei..
Non riusciva a ricordarsi perché se ne fosse andata con tutta la famiglia, forse la debolezza cominciava ad intaccare anche la memoria.
Si ricordava bene però la sensazione che aveva provato nel vederla partire..come se gli avessero amputato un braccio, o una gamba..
Era stata la sua amica, la sua confidente, la sua amante, la sua consolatrice.. L’aveva amata moltissimo..ma non riusciva a ricordarsi perché fosse partita..
Si ricordava invece dell’arrivo di Rubina, della tensione palpabile di quell’incontro, di come lei lo avesse subito incantato con la grazia dei suoi modi e la forza che albergava nel suo sguardo.
Così giovane, era già una regina..
Forse aveva amato anche lei, ma in modo così diverso.. non l’aveva mai nemmeno baciata.
Avevano parlato a lungo, si erano tenuti per mano, ma nulla di più..un rapporto diametralmente opposto a quello che aveva avuto con Naida..

Cercò di bere ancora un po’..le mani tremavano, non riusciva più a controllarle, tutta l’acqua gli finì addosso, e si accasciò di nuovo sul sedile, incapace di reagire.
Non vedeva quasi più nulla..

Dodici giorni..lampeggiava sfocato sul display del cruscotto di fronte a lui.
Chiuse gli occhi e si addormentò di nuovo..

Non avrebbe dovuto farlo.

Aveva lasciato libera la mente per il peggiore dei ricordi, che arrivava, cattivo e crudele, insieme a tutti i demoni.
Si erano svegliati di soprassalto, quella notte: la terra tremava e l’aria puzzava di combustibile.
Aveva visto sua madre precipitarsi nella stanza della sorella, mentre suo padre la chiamava con la voce carica di terrore.
Si era affacciato alla finestra e aveva visto l’inferno: decine di mostri meccanici stavano atterrando sulla capitale, sputando i loro raggi mortali che incendiavano ogni cosa. Stormi di minidischi pareva si divertissero a centrare la gente in fuga, dissolvendo corpi con precisione chirurgica..urla, fumo e fiamme, e i demoni, che volavano veloci sopra la sua gente, avvolgendo ogni cosa.
Un colpo improvviso li aveva fatti cadere a terra, e subito dopo un altro aveva fatto crollare il palazzo.
Duke non capiva più nulla. Provava dolore, era accecato dalla polvere e dai bagliori, e cercava alla cieca un contatto con i genitori, con la sorella, li chiamava con tutte le sue forze, ma aveva l’impressione che la voce non uscisse dalla gola, le lacrime salate bruciavano sul viso escoriato.
Era inciampato, era un corpo, era suo padre. Lo aveva stretto tra le braccia, gli aveva parlato, cercando di rassicurarlo, lui, che era spaventato come un agnello al mattatoio.
Era allora che il padre gli aveva inflitto l’ultima feroce condanna:
“Salva Goldrake, portalo via, non deve cadere in mano loro. Lo useranno per conquistare altri pianeti..non devi permetterlo.. vattene, vai via di qui”
Non aveva mai disobbedito a suo padre, non sulle questioni importanti, per lo meno, ed agì come un automa: lo adagiò delicatamente sul pavimento e gli parve che morisse proprio in quel momento.
Poco lontano, sua madre non si muoveva, gli occhi aperti fissi nel vuoto. Nessuna traccia di sua sorella.
Cominciò a correre come un pazzo, incurante della pioggia radioattiva, delle fiamme che gli lambivano le gambe, del fumo che lo accecava.
Raggiunse l’hangar dove dormiva Goldrake e lottò come una belva feroce contro le guardie di Vega che presidiavano l’ingresso.
Goldrake fece il resto.
La forza della sua disperazione lo aveva svegliato.
Il robot sfondò l’ingresso dell’hangar ed in un secondo il giovane era seduto al posto di comando.
Si alzò in volo, e vide lo spettacolo più raccapricciante che potesse mai immaginare: una coltre luminescente stava avvolgendo l’intera superficie del pianeta, che si contorceva come un animale scuoiato vivo.
I pochi ancora in vita cadevano a terra quando venivano raggiunti da quella nebbia mortale, e i demoni correvano in mezzo a quei corpi martoriati, fissando Duke negli occhi..

E tu? Gli gridavano..Tu dove vuoi andare?Non puoi scappare! Muori con loro!

Affrontò sbranandoseli i minidischi che gli si pararono davanti, lanciò Goldrake alla massima velocità e se ne andò da lì..

Si svegliò urlando, divorato dalla febbre, no, non poteva essere vero, li aveva abbandonati, se n’era andato: se qualcuno lo aveva visto, mentre fuggiva con Goldrake, cosa aveva pensato di lui?
Il loro principe era fuggito invece di morire con loro..
La sua gente non sapeva nulla della richiesta del padre, non sapeva della potenziale minaccia che lui e Goldrake rappresentavano, sapevano solo che li aveva abbandonati..
Avrebbe voluto tornare indietro, salvare almeno uno di loro, almeno uno..per potergli spiegare che non era un traditore, che era anche lui una vittima..

Ma nessuna parte del suo corpo rispondeva più ai comandi.
Singhiozzava, immobile.
Gli occhi erano fissi ormai da alcuni minuti su un enorme pianeta azzurro, che lui non poteva vedere..
La forza di gravità fece il resto..

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isotta72
view post Posted on 11/4/2010, 15:13     +1   -1




L’arrivo

Fissava quel volto sudato, pallido e contratto..in che diavolo di guaio si era cacciato?
Solo in quel momento cominciava a ragionare.. tutto quello che aveva fatto fino ad allora era come se appartenesse ad un’altra dimensione..come se fosse successo a qualcun altro..
Quell’enorme palla di fuoco che precipitava sulla collina, la sua corsa folle per capire cosa stesse succedendo.. lo scenario apocalittico che gli si era parato davanti..
Quel .. coso.. aveva inciso il fianco della collina dietro al centro ricerche provocando una frana ed era semi sepolto dal fango..aveva raccolto quel corpo, era un ragazzo, era ancora vivo..
Ora cercava di mettere insieme i tasselli.. di portare sotto controllo l’agitazione che sentiva dentro, e che gli toglieva lucidità..
Un giovane uomo, poco più di vent’anni, in condizioni disperate.. le sue nozioni di medicina erano piuttosto buone, ma avrebbe dovuto chiamare qualcuno a dargli una mano.. quel giovane era disidratato, ferito, denutrito e la febbre lo stava divorando.. segno di qualche infezione in atto..
Ma erano nel cuore della notte..se lo avesse portato al Pronto Soccorso gli avrebbero fatto un sacco di domande, e lui voleva tenere per sè questa cosa.. almeno finchè non l’avesse capita..
L’infermeria del centro Ricerche era piuttosto attrezzata.. a lui era sempre piaciuto fare le cose per bene..
Gli medicò le ferite, gli applicò una flebo di glucosio, cercò di abbassargli la febbre con delle iniezioni di antipiretico, e gli somministrò gli antibiotici..avrebbe avuto bisogno di una trasfusione, ma questo era al di là delle sue possibilità..

Delirava.. parole incomprensibili sibilate a fatica.. il respiro era affannoso..si sedette a fianco al letto, incrociando le mani.. non poteva fare altro per lui..

Ora aveva il tempo per riordinare le idee.

Indossava una tuta di un materiale indefinibile, che si era dissolta quando lo aveva appoggiato sul letto, lasciandolo letteralmente a bocca aperta..e teneva stretto un medaglione, che emetteva bagliori intermittenti .. come se possedesse esso stesso una strana forma di energia.. non c’era il vano per inserire le batterie.. lo stringeva talmente tanto da esserselo conficcato nel palmo della mano.. ed ora era lì, sul comodino, si illuminava a tratti, e gli trasmetteva un senso di inquietudine.. come il sapere della presenza di quell’enorme macchina incastrata nel fianco della collina, a breve distanza al centro..
Nessuno l’avrebbe trovata.. era semisepolta dal fango e dalla vegetazione e lo spazio intorno al centro era interdetto al pubblico..la neve, che cominciava a cadere, l’avrebbe definitivamente nascosta.

Un alieno..

Se avesse avuto un altro aspetto, avrebbe impiegato meno tempo a convincersi di questa ipotesi.. ma quel ragazzo era così.. normale.. era tutto il resto, però, a non quadrare..

Cercò sul suo corpo dei segni che lo potessero convincere della sua ipotesi.. nulla..aveva un bel viso, anche se era pieno di lividi ed escoriazioni, i lineamenti erano regolari, la pelle chiara, i folti capelli castani arrivavano alle spalle, e la corporatura longilinea, era piuttosto alto..ma nulla di strano.

Si avvicinò per scrutarlo meglio, e proprio in quel momento il ragazzo sussultò, spalancò gli occhi, gli uscì dalla gola una specie di rantolo, parole incomprensibili, era in preda al panico, e gli afferrò un polso.. durò lo spazio di un secondo, poi si riaccasciò sul cuscino..

La testa gli scoppiava, suoni lontani gli rimbombavano nel cervello, non riusciva a muoversi, era buio, tremendamente buio..
Che sete, un’arsura insopportabile, e la sensazione di essere legato..
No, non era legato, riusciva a muovere braccia e gambe, sembravano di legno, ma si muoveva..doveva avere degli aghi, conficcati da qualche parte, pungevano..
Cercò di alzarsi, sentì un dolore lancinante al petto, come se una bestia lo avesse azzannato..si lasciò cadere di nuovo sul cuscino..
Ma dov’era? Cominciava a mettere a fuoco, nella penombra, una stanza, una grande finestra, e un uomo, sopra di lui, che lo guardava..
Ebbe un sobbalzo, voleva gridare, forse, un urlo soffocato, non era abbastanza forte per urlare, più un sibilo, era terrorizzato..
Chi era quell’uomo?
Era prigioniero? Era sotto condizionamento?
No, era cosciente della sua identità, era Duke, Duke Fleed, e stava cercando di mettere Goldrake al sicuro, stava scappando dall’inferno..
“Goldrake!” ancora un grido strozzato che non usciva dalla gola, l’uomo chino su di lui cercava di farlo coricare di nuovo, aveva una voce calma, rassicurante, ma cosa gli stava dicendo, non capiva..
Ora tutto girava intorno, c’era più luce, qualcuno lo chiamava, da lontano, ma lui non sentiva più, era stanco, tremendamente stanco..voleva dormire, dimenticarsi, andarsene..

Quegli occhi.. ecco finalmente.. lo avevano quasi spaventato, di un blu scuro che non aveva mai visto in vita sua, e così disperati..quelli non erano occhi terrestri..

“E’ svenuto di nuovo.. forse è meglio così”, pensò Procton, guardando quel viso pallido e sudato.

Anche lui ora si sentiva molto stanco..lo aveva trascinato giù dalla collina, sostenendolo per diversi chilometri.
Era stato in piedi tutta la notte, cercando di scaldarlo, di reidratarlo, di farlo smettere di sanguinare..di tenerlo in vita.

Non voleva rischiare che quel ragazzo cercasse di nuovo di alzarsi: si stese sul divano di fianco al suo letto, fissando il suo petto, che si alzava ed abbassava quasi regolarmente, solo qualche brivido, che lo percorreva da capo a piedi, interrompeva di tanto in tanto quel ritmo regolare.

Quando si svegliò ebbe un sobbalzo..quegli occhi blu lo fissavano chissà da quanto tempo, il ragazzo era seduto sul letto, quel volto provato e sofferente lo stava studiando.
Fece il primo passo, tendendogli la mano..sperando di fargli capire in quel modo che non aveva intenzioni ostili..

”Sono un amico, voglio aiutarti, mi chiamo Procton..”

Gli si strinse il cuore nel vedere quanta paura stesse incutendo in quel ragazzo, che si ritraeva schiacciandosi contro la testata del letto.
Decise di non andare oltre, e di sedersi ad aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.
Ma il giovane sconosciuto si lasciò cadere di nuovo sul cuscino, affondando in uno stato catatonico da cui sembrò non voler più riemergere nei giorni successivi.
Era evidentemente sotto shock: non rispondeva a nessun genere di stimolo, non riusciva a farlo mangiare e nemmeno a farlo stare seduto.


Si addormentava, di tanto in tanto, ma per la maggior parte del tempo stava steso su un fianco, lo sguardo spento che fissava il nulla.

Era debolissimo..non avrebbe resistito ancora a lungo in quel modo.
Uno di quei giorni non si sarebbe più svegliato..

Procton non poteva immaginare cosa scorresse davanti a quegli occhi spenti: gli orrori degli ultimi giorni di Fleed, i demoni urlanti e i fantasmi della sua gente si erano impadroniti di lui, facendo scempio di quella mente stremata ed incapace di reagire ad un simile attacco.

Un giorno, davanti all’ennesimo rifiuto del cibo, Procton perse la pazienza: si sentiva frustrato da tutti quei tentativi andati a vuoto, ma non voleva mollare.. non accettava che quel ragazzo, miracolosamente sopravvissuto a chissà quali esperienze, decidesse di lasciarsi morire proprio sul suo letto, sotto i suoi occhi.

Non accettava di lasciarlo andare senza aver saputo nulla di lui.

La rabbia prese il sopravvento: afferrò il giovane per la maglietta, lo colpì violentemente con uno schiaffo e lo trascinò in malo modo giù dal letto.
La paura tornò prepotente negli occhi dell’alieno, si lamentò, doveva avergli fatto male, ma non gli importava, voleva scuoterlo, trovare una qualunque reazione da cui poter ripartire per cercare di comunicare..

Si sarebbe pentito per sempre di quel gesto..quegli occhi impauriti sarebbero tornati spesso alla sua memoria, facendolo vergognare per quella perdita di autocontrollo..
Lo sollevò da terra mettendogli un braccio intorno alla vita, lo coprì un po’ meglio e noncurante del suo sguardo terrorizzato lo trascinò in malo modo sulla terrazza.
Era una limpida giornata d’inverno, il sole stava tramontando e da quel punto si godeva di una vista incredibile..
Lo fece sedere sulla panchina davanti alla balaustra..il giovane era come incantato, la bocca socchiusa, fissava lo splendido scenario ed i colori infuocati del sole che andava a nascondersi dietro il profilo delle montagne coperte di neve..
Lo sentì tremare, prima impercettibilmente, poi sempre di più, gli occhi si riempirono di lacrime, si mise le mani nei capelli e cominciò ad urlare, urla strazianti, disperate..come se volesse svuotarsi..
La reazione era arrivata, finalmente.. che pena infinita gli faceva, lo strinse a sé, abbracciandolo.

“Sfogati, forza, butta fuori tutto, cerca di reagire..io sono qui, con te, ti aiuterò”

Il ragazzo si aggrappò alla sua camicia, affondando il viso nel suo petto, continuando a piangere ed urlare tutta la sua disperazione.
Dopo un po’ il pianto cessò, ma continuava a rimanere ancorato a lui, il corpo scosso dai singhiozzi.
Procton capì che aveva bisogno di contatto fisico, di calore umano, e lo tenne abbracciato finchè ce ne fù bisogno.

Che strana sensazione..sentire di poter dare sollievo a qualcuno attraverso il proprio corpo..sentiva un istinto di protezione nei confronti di quel poveretto..sentiva nascere un affetto che raramente aveva provato in vita sua..

Nei giorni successivi le cose cominciarono a migliorare, il ragazzo accettò di mangiare, di prendere un po’ di aria sulla terrazza..lo seguiva con lo sguardo in ogni suo gesto, come se stesse cercando di prendere la rincorsa per dirgli qualche cosa.
Procton cercava di parlargli il più possibile, anche se il monologo alla lunga gli sembrava un po’ ridicolo.
Non sapeva che il cervello di quel giovane stava rapidamente decodificando il suo linguaggio, unendo i suoni ai concetti come una specie di algoritmo che andava per approssimazioni successive.

Parlò quando si sentì pronto.
Gli stava cambiando la fasciatura e come al solito quei profondi occhi blu lo fissavano..

”Mi chiamo Duke Fleed”, bisbigliò rompendo il silenzio..
“Procton”, gli tese la mano, e questa volta l’invito fù raccolto.

Erano le notti i momenti più difficili.. Duke era spesso preda degli incubi, che lo lasciavano spossato e scosso..non era ancora in grado di raccontare quali esperienze fossero all’origine di quei tormenti, e Procton non era nemmeno sicuro che ne volesse veramente parlare..
Continuava a dormire accanto a lui, aveva un brutto presentimento.

Proprio quegli incubi, infatti, rischiarono di portaglielo via definitivamente.
Lo agguantò all’ultimo minuto, quella notte, mentre stava per lanciarsi nel vuoto dalla balaustra, e pianse anche lui, quando si rese conto che avevano scampato il pericolo.

“Non ce la faccio..” gli aveva detto Duke quando lo aveva fatto stendere di nuovo..nella sua voce una stanchezza senza fine.. “lasciami andare, ti prego..sono tutti morti, non è naturale, non ha senso che io sia ancora in vita..è troppo grande per me.. non lo posso sopportare..”

Ma Procton gli rispose con fermezza, nonostante quelle parole gli avessero stretto lo stomaco:

“No, Duke, devi darmi una possibilità: lascia che abbia cura di te, prova a vivere, datti tempo..sei così giovane.. se poi non ce la farai.. ti lascerò libero, te lo prometto..”

Quell’episodio fù terribile, ma sentì che in Duke aveva fatto scattare qualche cosa: da allora lo guardò in modo differente, e iniziò a parlare di più, finchè, un giorno, gli raccontò tutto..

Curare il suo corpo fù una passeggiata in confronto a curare la sua anima.. si dedicò a lui completamente, trascurando i suoi studi e la conduzione del Centro Ricerche.
I suoi collaboratori, gli unici a cui non aveva potuto fare a meno di svelare l’accaduto, capivano la situazione..
Prendersi cura di un altro essere umano.. era la prima volta in vita sua, e aveva capito che, in fondo, era piuttosto bravo anche in questo!

Un giorno, al ritorno da una breve passeggiata, lo accompagnò nel suo studio, doveva prendere delle carte per Yamada.

Quando entrarono lo sguardo di Duke si fermò sulla sua vecchia chitarra.

“Questa..?” chiese indicando lo strumento, con l’aria stupita.

“E’ una chitarra..”

“Chitarra..” ripeteva ogni nuova parola, con metodo, e poi la utilizzava come se l’avesse sempre posseduta.

Si avvicinò e passò le dita sulle corde.

“Suona.. male!” , gli disse sorridendo.

“E’ scordata.. me la regalarono quand’ero giovane, non ho mai imparato.. è lì perché è un ricordo..”

“..Scordata.. posso?”

“Sai suonarla?” chiese allibito Procton..

Senza rispondere, Duke si sedette sul divano e la accordò velocemente, poi cominciò a suonare, un arpeggio lento, melodico, non triste, ma estremamente struggente.

Procton si accovacciò davanti a lui, fissandolo negli occhi..

“E’ tua, se vuoi..” Duke gli sorrise, continuando a suonare.

“Ascolta Duke, vorrei adottarti, se sei d’accordo..ho già parlato con un amico, a Tokio, potrebbe preparare tutti i documenti, crearti un’identità.. se vuoi restare qui, se vuoi restare con me..”

“Adottare?” disse corrugando la fronte..

“Si, diventare mio figlio, per legge..ti darei il mio cognome..”

Duke lo guardò commosso, quegli occhi blu brillavano e le mani tremavano leggermente..poi chinò lo sguardo..

“Non avevo più nulla, fino ad ora.. e adesso ho una chitarra.. e un padre..
Grazie..” disse annuendo.

Procton capì in quel momento che ormai non rischiava più di perderlo, che aveva vinto la sua battaglia..

Per i commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=44187433

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L'arrivo ( continua)

“Credo che sia ora di pensare a sistemare Goldrake.. disse Procton.
“Tra poco la temperatura comincerà ad alzarsi, e la neve si scioglierà.. se diventasse visibile dall’alto, sarebbe un disastro .. piomberebbero qui la stampa, le forze dell’ordine.. avremmo gli occhi del Giappone puntati addosso.. ci metterebbero un secondo a collegarlo al Centro Ricerche.. non è credibile che da qui non ci siamo accorti di quella presenza.. indubbiamente ingombrante..saremmo costretti a dare un mucchio di spiegazioni..”

“No, ti prego..” trasalì Duke..”Non me la sentirei..
Ma..dove possiamo sistemarlo?” chiese spalancando gli occhi..

“Il Centro Ricerche poggia su una grossa caverna naturale, ho verificato l’ampiezza dell’ingresso: per poco, ma ce la possiamo fare..intanto lo sistemeremo li..credi che possa aver subito dei danni, durante l’atterraggio?

Duke si fece cupo..” No, lo sentirei..”

“Lo sentiresti?” Chiese Procton, sollevando le sopracciglia ..

“Io e Goldrake siamo .. in collegamento..scusa, faccio ancora fatica a spiegare certe cose.. ci parliamo.. con il pensiero.. è così che lo governo.
Ci sono anche comandi manuali, ma sono.. lenti.. non servono in battaglia.”

“Lo controlli col pensiero?
Vuoi dire che su Fleed avete sviluppato una tecnologia che permette la comunicazione cerebrale tra uomo e macchina? Che avete superato l’ostacolo più grande che abbiamo oggi, nel campo della cibernetica? E’ incredibile..
Credo che dovremo approfondire questo argomento!” disse Procton..
Si stava infervorando, affascinato da quello che, a stento, suo figlio gli aveva appena raccontato..

Ma Duke non lo ascoltava.. vicino alla finestra, fissava pensieroso un punto lontano, verso la collina..

“Dovrò.. salirci di nuovo..” bisbigliò..

Procton sentì morirsi in gola le disquisizioni colte sulla meccanica e l’elettronica terrestre che come un fiume in piena avevano invaso i suoi pensieri.. e si accorse solo in quel momento dell’espressione contratta del figlio..

Gli capitava spesso di perderselo per strada.. lui parlava, parlava, gli spiegava concetti, cose, idee che pensava potessero essergli estranee e si accorgeva dopo un po’ che lui se n’era già andato, chissà da quando, con i suoi pensieri..

Il suo equilibrio era così fragile.. soffriva ancora, e molto.. ogni volta che la sua mente era libera dall’impegno di imparare le piccole cose quotidiane di quel nuovo mondo, precipitava di nuovo nell’abisso dei ricordi, veniva risucchiato dalla sua vita precedente, e ci rimaneva invischiato, patendo le pene dell’inferno.
Ogni volta che se ne accorgeva, lui cercava di tirarlo fuori da quel pantano, ma non era sempre così semplice..

“Vieni, andiamo a vedere in che condizioni è..” disse cercando di scuoterlo..

Si vestirono ed uscirono.. faceva ancora molto freddo, lo strato di neve sul terreno era abbastanza compatto e risalirono la collina senza grandi difficoltà, fino a trovarsi sotto alla testa del robot, che sbucava appena dalla montagna di neve e terra gelata che lo ricopriva.

“Ti ho trovato qui, più o meno.. sei stato sbalzato fuori dall’abitacolo..” disse Procton, indicando un punto sulla neve, a pochi metri dallo spacer.
“Eri più morto che vivo.. iniziava una tormenta di neve.. se quella notte non avessi sofferto di insonnia, e mi fossi accorto dell’accaduto solo il mattino dopo.. ora non saresti qui..”

Quel pensiero lo fece rabbrividire.

Era andato a cena dai Makiba, quella sera, e la figlia maggiore aveva preparato un piatto abbastanza pesante, di cui non si ricordava il nome.. era buonissimo, come ogni cosa che cucinava, ma gli si era piantato sullo stomaco, e dopo essersi rigirato nel letto per un ‘ora aveva deciso di alzarsi e salire nel laboratorio, dove aveva visto precipitare Goldrake..

Doveva essere davvero uno strano destino.. quello che li aveva fatti incontrare.
Sorrise all’idea che quel ragazzo dovesse la vita.. ad una specie di spezzatino..

Duke non lo ascoltava.. fissava il robot e stringeva nel palmo della mano quel medaglione.

“Lo faccio ora.. vieni con me” disse d’un tratto, passandogli un braccio attorno alla vita.

Procton non ebbe nemmeno il tempo di controbattere, e senza capire come, sostenuto da quell’abbraccio si trovò nell’abitacolo , seduto dietro al figlio, sul cui corpo si era materializzata la stessa tuta che gli aveva visto indosso al suo arrivo, miracolosamente intatta.

Duke si tolse il casco, e si girò verso di lui “Tutto a posto?”
Lui annuì.. non era in grado di spiaccicare una parola..

“Guidami..fammi vedere dov’è l’ingresso della caverna..”

Si disincagliarono da quella collina gelata senza alcuna difficoltà, e Procton si stupì per la potenza che dovevano avere quei motori.
Fù un’esperienza indimenticabile.. un volo di poche decine di secondi, che non si sarebbe scordato per tutta la vita.

Quando risalirono al Centro, Yamada porse a Procton un pacchetto, arrivato per posta.

“Devono essere i tuoi documenti..”

Diede il pacchetto a Duke, che lo aprì.. si soffermò a lungo a fissarli..rigiradoli tra le mani. Quel volto non lo riconosceva.. lontano anni luce dall’immagine che aveva di sé.
Un viso magro e pallido, un paio di lividi campeggiavano sulla fronte e sul collo.. e l’espressione dei suoi occhi.. così pieni di paura e di dolore..

“Actarus.., mi chiamo Actarus..” disse Duke, stupito..

“Non ti piace? Chiese Procton, imbarazzato..
“Mi hai chiesto di cambiarti anche il nome.. e mi è venuto in mente quello..

“Significa qualcosa, per te? Chiese Duke.

“E’ il nome di una stella.. “

Duke gli sorrise..

“Ho un amico di vecchia data che conduce una Fattoria qui vicino, si chiama Rigel Makiba, frequento la loro famiglia ormai da anni..è appassionato di astronomia ed è alla perenne ricerca di un contatto con gli extraterrestri.
Quando nacquero i suoi figli mi chiese di aiutarlo a cercare dei nomi che gli ricordassero le stelle, la sua passione.. la primogenita si chiama Venusia, e per il secondo, un maschio, eravamo indecisi.. tra Mizar ed Actarus.. lui scelse Mizar.. e quindi ho pensato di chiamarti Actarus..

“Actarus.. suona bene.. mi piace..” esclamò sincero.

“Duke, quello è un posto dove potresti stare bene..” disse Procton.
“Io sto bene anche qui, con te..”

Procton percepì l’ondata di inquietudine che stava assalendo suo figlio..
Ma era già un po’ che ci pensava..si era accorto di come quel ragazzo apprezzasse la natura e la vita all’aria aperta.. passava più tempo sulla terrazza a contemplare il paesaggio o a passeggiare attorno al centro, appena il clima lo permetteva, che nella sala controllo del centro..si soffermava sulle piccole cose, osservandole a lungo, come un ramo di vischio o uno scoiattolo intento a cercare il cibo..e pareva trovare un pò di serenità..

Duke stava vivendo un contrasto spaventoso.. passato e presente si intrecciavano in continuazione, in una lotta senza vincitori né vinti, che lo lasciava spossato e svuotato..cercava affannosamente degli appigli per non guardare dietro di sé, ma al contempo ne era inesorabilmente attratto.. non poteva fare a meno di restare ancorato al passato, e non smetteva di soffrire.
Il fatto che non avesse mai nominato Goldrake in quelle settimane, e che gli fosse costato così tanto salirci di nuovo, ne era la conferma..

Sarebbe stato di nuovo bene quando avesse interiorizzato che non poteva più far nulla per il suo pianeta, che era un’altra persona in un’altra vita, proiettato in una nuova dimensione.. allora avrebbe potuto guardare al suo passato con una maggiore serenità.. ma la strada era ancora molto lunga..

Alla fattoria avrebbe avuto un sacco di cose di cui occuparsi, e che non centravano nulla con il cosmo e l’esplorazione spaziale..capre e cavalli sarebbero stati terapeutici, di questo era fermamente convinto.

Provò a spiegarglielo.. Duke si lasciava condurre in ogni cosa, come se non avesse ancora la forza per imporre la sua volontà, come se si sentisse ancora troppo smarrito per capire da solo che direzione dovesse prendere.. ed alla fine acconsentì, strappandogli la promessa che non si sarebbe allontanato troppo da lui.

Per i commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=44187433

CITAZIONE (GODZILLA - GranMasterZilla @ 11/4/2010, 16:14)
CITAZIONE (isotta72 @ 11/4/2010, 16:10)
(..)


(..)


(..)

veramente si fa cosi'

( . )( . )

Fai anche lo schizzinoso? :tongue3.gif:

Edited by isotta72 - 2/6/2010, 23:00

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isotta72
view post Posted on 11/4/2010, 15:17     +1   -1




ALLA FATTORIA MAKIBA

Aveva ancora qualche problema con cerniere lampo e bottoni, e quando Procton lo pescava ad armeggiare con i pantaloni arrossiva per la sua goffaggine.
Stava meglio, ora, almeno fisicamente.
Aveva ripreso un po’ di peso, le ferite si stavano cicatrizzando, il braccio non gli faceva più tanto male. Aveva smesso di zoppicare.
Procton lo aveva accolto come un figlio, con grande pazienza e comprensione.
Lo aveva curato, aveva calmato le sue crisi isteriche, lo aveva convinto ad aprirsi e a raccontargli quanto gli era accaduto.

Lo aveva protetto da se stesso, agguantandolo all’ultimo momento, quella notte, quando stava per lanciarsi nel vuoto dalla balaustra.
Quel ricordo gli faceva provare una profonda vergogna.
Ora che conosceva meglio quell’uomo, e che sentiva di volergli bene, era come se avesse cercato di fare del male a lui, con quel gesto disperato.
Aveva avuto un altro dei suoi incubi spaventosi, quella notte. Ma era stato più insopportabile e crudele di altre volte.
Procton lo aveva consolato, come capitava sempre, e si era addormentato sul divano nella sua stanza, quasi avesse percepito che le cose stavano andando in modo diverso dal solito.
Gli aveva dedicato tutto il suo tempo prezioso, da quando si erano incontrati.
Era come se lo avesse allevato dopo una seconda nascita e lui, con quel gesto, lo aveva offeso, frustrato, e se ne dispiaceva.
Procton lo aveva afferrato per i fianchi all’ultimo secondo, e lo aveva trascinato a terra. Gli aveva preso la testa tra le mani, premendosela sul petto, ansimava. Accovacciati vicino alla balaustra, erano scoppiati in lacrime entrambi.
In quel momento aveva veramente capito quanto quell’uomo, che ancora considerava un estraneo, tenesse a lui e da allora aveva cominciato a provare affetto per quello che d’ora in poi avrebbe potuto chiamare padre.
Avrebbe voluto dimenticarsi di quello che era successo..
Procton non ne aveva più parlato da allora, non gli aveva fatto domande.
Era nel suo stile.

Era nervoso, quella mattina: se non riusciva nemmeno ad allacciarsi i pantaloni, quante altre gaffes avrebbe fatto alla fattoria!?
Non ci sarebbe stato sempre suo padre a correggerlo o a dargli istruzioni.
Aveva imparato molte cose, al centro, ma era sicuro che non sarebbero state sufficienti.
Ripassava mentalmente quello che Procton gli aveva insegnato: usare lo spazzolino da denti, le posate, un giorno intero di corso su come allacciare le stringhe delle scarpe, il trucco di leccarsi le dita quando quei maledetti fogli di carta che componevano i libri non si volevano girare..
Alcune cose le aveva invece ritrovate incredibilmente identiche: che scoperta quella vecchia chitarra nello studio di Procton, quasi uguale a quella che aveva imparato a suonare da bambino, e che sorpresa la natura e gli animali, in molti casi uguali a quelli che abitavano Fleed..

Procton riteneva che dovesse esserci una matrice comune nella genesi della vita sui due pianeti: il corpo di Actarus era del tutto simile a quello dei terrestri, il suo sangue compatibile lo rendeva donatore universale.
Sembrava solo che appartenesse ad una fase evolutiva successiva: era più forte, con capacità di recupero sorprendenti: nessun terrestre sarebbe sopravvissuto al viaggio in quelle condizioni.
Possedeva anche una struttura ossea più leggera, probabilmente in conseguenza della maggiore forza di gravità di Fleed, e che sulla Terra lo rendeva incredibilmente agile.

Tutte le nozioni pratiche impartite dal padre, che lo avevano tenuto impegnato costantemente in quelle settimane, lo avevano fatto lentamente uscire dall’apatia in cui si sentiva annegare da quando aveva ripreso conoscenza.
Gli incubi tornavano ancora, ed erano sempre feroci, ma cominciava ad imparare a conviverci, a controllarli..

Era arrivato il gran giorno: il suo debutto in società!

Procton lo aveva lasciato libero di scegliere se vivere al centro ricerche o alla Fattoria Makiba, e lui aveva scelto la seconda..
Al centro si occupavano prevalentemente di esplorazioni spaziali, e, anche se era consapevole che lì il suo apporto potesse essere sicuramente maggiore che in una stalla, preferiva tenersene alla larga ancora per un pò, voleva allontanarsi da Goldrake.
Pensare al robot gli metteva un’enorme tristezza.
Era stato parte di lui per anni, ed ora invece quasi lo detestava..
Non sapeva di preciso perché, forse per i ricordi che gli suscitava, forse perché era diventata una macchina completamente inutile: dovevano tenerlo segreto, per evitare che gli occhi del mondo venissero puntati su di lui. Procton era stato chiaro: “se dovessero scoprire chi sei, non avresti pace”.
Era ancora troppo fragile per questo..

Procton entrò all’improvviso: “Sei pronto?”

..le mani ancora sulla lampo..

”Ah, ecco, come al solito.. ora ti aiuto io”

Si sentì incendiare le guance.

Procton lo fece guidare: almeno in quel campo, problemi non ne aveva. Anni di addestramento lo avevano reso permeabile a qualunque cosa riguardasse la meccanica e l’elettronica, anche la più primitiva.

Il comitato d’accoglienza era schierato all’ingresso del ranch, Procton fece le presentazioni, e ad Actarus piacquero subito i visi puliti della gente che viveva lì.
Mizar, il figlio più piccolo del proprietario, lo prese per mano trascinandolo nell’ovile a vedere l’agnellino appena nato. La stretta di quella manina gli ricordò la sorella: Maria, se fosse stata ancora viva, avrebbe avuto più o meno quell’età..

Più tardi fu Venusia a fare gli onori di casa e a mostrargli la sua stanza.
Lo aiutò a riporre i vestiti nell’armadio, con il fare sicuro di chi amministra una casa e riordina la confusione prodotta dagli uomini della famiglia dal mattino alla sera.
Lo guardò incuriosita quando lo vide annusare i fiori che aveva accuratamente sistemato nel vaso.
“Sei il primo maschio che conosco che bada a questo genere di cose”.
Fù il suo commento divertito.

Si sentiva bene.
A cena mangiò in abbondanza, ma lentamente, come si era abituato a fare per non rischiare che gli si piantasse tutto sullo stomaco, rimasto vuoto per tanto tempo durante la fuga da Fleed.
Qualche conseguenza di quel viaggio ancora se la trascinava dietro, oltre alla compagnia dei suoi fantasmi notturni: le mani, ad esempio.. tremavano leggermente.. e l’espressione dei suoi occhi, che nemmeno lui riconosceva.
Sotto gli abiti, poi, ancora un campo di battaglia: cicatrici, escoriazioni in via di guarigione, lividi..
Ma sarebbe tornato quello di prima, ne era sicuro, adesso.
I commensali erano cordiali ma discreti. Avevano evitato di tempestarlo di domande, ed avevano parlato del più e del meno, con naturalezza, mettendolo a suo agio.
Dopo cena lui e suo padre si sedettero sul dondolo nel patio.
Procton si mise a fumare, rilassato.
“E’ un posto splendido, ti ringrazio.” Disse Actarus.
“Vorrei che tu avessi finalmente un po’ di pace.. dimmi, come ti senti?”
Actarus sospirò.. era una domanda difficile, e non rispose.
Procton gli mise una mano sulla spalla..
“Sei forte, figlio mio..ce la farai..”

L’indomani Righel decise di portare i cavalli a fare una passeggiata, dopo aver scoperto che Actarus era in grado di cavalcare senza problemi.
Liberarono tutti gli animali tranne uno, un bellissimo stallone bianco, che stava rinchiuso in un recinto separato.
“Cos’ha fatto di male quella bestia?” Chiese Actarus stupito.

“E’ un animale ingovernabile! Tanto bello quanto selvaggio! Non sappiamo più cosa farci dentro..non si lascia montare da nessuno! E’ la più grossa fregatura che abbia preso in vita mia” disse Righel, stizzito..

Actarus lo seguì con la coda dell’occhio, mentre si allontanavano con la mandria.
Fu una giornata splendida: immersi in quella natura meravigliosa, era tornato a respirare a pieni polmoni, aveva riso di gusto, si era lasciato montare sulla schiena da Mizar, rotolandosi con lui nell’erba alta, aveva aiutato Venusia ad accendere il fuoco, e lei lo aveva apostrofato come la sera prima:
“Mi sembri un extraterrestre!! I maschi che conosco io non mi aiutano mai: vengono alle scampagnate solo per farsi una birra fredda e ruttare sonoramente!”

Era ammaliato da Venusia: dall’aspetto così delicato e fresco, ma dai modi così risoluti. Trasmetteva forza e determinazione..

Tornarono dalla cavalcata stanchi e cotti dal sole.
Actarus lasciò che gli altri entrassero in casa, e quando fù solo, si avvicinò al recinto dello stallone bianco.
Non si era accorto che Righel lo osservava dalla finestra insieme a Procton, che nel frattempo era arrivato dal centro ricerche per vedere come se la cavava il suo figlioccio..

Videro Actarus avvicinarsi lento all’animale, e porgergli delicatamente il palmo della mano. Silver, questo era il suo nome, sbuffò nervoso, ma poi allungò il muso, annusandolo. Actarus lo accarezzò e l’animale fece un altro passo avanti, come per cercare nuove carezze..

“Incredibile” bisbigliò Righel.

Evitando movimenti bruschi, Actarus prese le briglie che teneva nell’altra mano, e le fece indossare al cavallo, passando poi sotto la staccionata per entrare nel recinto.
Continuava a muoversi lento, e parlava sottovoce all’animale. Dopo avergli accarezzato i fianchi, con un balzo gli montò sul dorso, e lo lanciò al trotto. Saltarono la staccionata e si allontanarono di corsa nella prateria, verso il tramonto.

“Ma dove l’hai pescato quello?
Mugugnò Righel sbigottito..
“Su un altro pianeta.. “
Rispose Procton, sorridendo.

I giorni trascorrevano ritmati dal copione delle faccende da sbrigare.
Quel ragazzo alto e magro dagli occhi tristi e dai modi gentili aveva conquistato tutti..
Actarus lavorava sodo dall’alba al tramonto. Non sapeva fare un gran chè, quando era arrivato, ma imparava velocemente.
Di tanto in tanto si recava al centro ricerche per trovare il padre, che non riusciva a raggiungerli a cena tutte le sere.
Di giorno stava bene, era sempre occupato..i guai arrivavano dopo..
Quando non c’era più nulla da fare, e la mente era libera di spaziare, raramente riusciva a tenere i suoi fantasmi lontani.
I ricordi arrivavano tutti insieme, lo colpivano allo stomaco come un montante e gli bloccavano il respiro.
Quando si sentiva così scappava lontano, in cima alla collina, per non farsi vedere.
Non voleva trovarsi nella situazione di dover dare spiegazioni.
Una di quelle sere lo raggiunse il padre: Mizar gli aveva fatto la spia, dicendogli di aver visto suo figlio molto triste allontanarsi con la sua inseparabile chitarra..
Actarus fù felice nel vederlo salire la collina: alla fattoria stava bene, ma la vicinanza del padre gli mancava, era l’unico con cui avrebbe potuto parlare e sfogarsi..

“Posso sedermi vicino a te?”
“Oh, certo che puoi!” disse il ragazzo.
“Come va con i bottoni?”

Actarus scoppiò in una risata nervosa, che si trasformò immediatamente in un pianto liberatorio.
Crollò il capo in mezzo alle ginocchia, coprendosi il viso con le mani.
Procton gli strinse le spalle, e gli accarezzò i capelli, in un gesto che esprimeva tutto il suo affetto e la sua pena per quel ragazzo tormentato, e lasciò che sfogasse la sua disperazione.
Non poteva fare altro per lui..

(..)

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ALLA FATTORIA MAKIBA (continua)

Oramai erano passati due anni dal suo arrivo sulla Terra.

Quella mattina Actarus si alzò prima del solito: sapeva che avrebbe ricevuto visite e non voleva rimanere indietro sulla sua tabella di marcia.
Procton gli aveva parlato di un ragazzo che aveva combattuto a lungo in difesa della Terra usando una macchina simile a Goldrake, anche se più primitiva.
Si sarebbe inserito come ricercatore al centro.
Pare che nell’ultimo periodo avesse studiato presso la Nasa i sistemi planetari più vicini alla Terra, alla ricerca di qualche pianeta abitato con cui stringere relazioni commerciali.
Peccato che non potesse dirgli che i pianeti abitati più vicini erano stati accuratamente asfaltati da un demonio errante nello spazio.. quel pensiero gli fece male e lo dispose ancor peggio in vista del suo arrivo.
Non capiva davvero cosa potesse avere a che fare con lui: Goldrake non apparteneva più al suo mondo, non avrebbe neanche potuto parlarne, e quel pilota non sarebbe stato certo interessato a conversazioni sulla semina dei campi o la mungitura delle vacche.
Aveva voluto fondersi con la fattoria, si era ancorato a quel posto con tutte le sue forze, nel tentativo di non farsi trascinare via dai demoni che ancora, ogni tanto, arrivavano di notte ad afferrargli le caviglie..

Aveva fatto un duro lavoro su se stesso, ed ora era Actarus, il figlio di Procton, e badava a vacche e cavalli alla fattoria Makiba.

Era come se sentisse che il suo arrivo avrebbe potuto in qualche modo incrinare il delicato equilibrio che era riuscito a raggiungere..

Ma rispettava profondamente Procton, e non lo avrebbe contrariato.

Il mezzo con cui arrivò lo scomodo visitatore però lo indispose ancora di più: il comitato d’accoglienza questa volta stava con il naso all’insù, guardando stupiti quella specie di coperchio volante che stava per planare nel piazzale.
Era stato cresciuto a pane e buone maniere, sua madre era stata una implacabile dispensatrice di rigide istruzioni, ma quel ragazzo vestito come se fosse arrivato da Marte, gli ispirava la maleducazione più assoluta.
Salutò bruscamente, tagliò corto borbottando qualche cosa sull’arrivo dell’inverno, una fesseria terribile che non sapeva come gli fosse uscita, e si allontanò sotto gli sguardi allibiti del comitato.

La sua irritazione aveva origini lontane, ma lo avrebbe scoperto solo un paio di notti dopo.

La mattina successiva, il pilota del coperchio volante voleva vestire i panni del cow boy, e si era avvicinato al recinto di Silver chiedendo ad Actarus di poter cavalcare lo stallone.
Il modo in cui lo aveva chiesto gli aveva fatto intuire che l’antipatia era ampiamente ricambiata.
Righel aveva fatto un gran chiasso, di fronte a quella richiesta, e, soprattutto, aveva detto la peggior cosa potesse uscirgli di bocca, se veramente avesse voluto evitare l’irreparabile:

“Quella bestia si fa montare solo da Actarus!”

Era stato come invitare un’oca a bere: Koji aveva quasi strappato di mano le briglie al giovane, che già si pregustava la scena.
Silver eseguì il copione alla perfezione: dopo aver strapazzato per benino il caparbio cavaliere, lo scagliò dritto nel recinto dei maiali, correndo poi a prendere col muso una carezza da colui che considerava il suo padrone..
Mentre Koji si rialzava, lordo come uno degli inquilini del recinto, Actarus si allontanò, senza dire una parola.

Erano già alcuni giorni che si sentiva irrequieto.
Non riusciva a capirne la ragione fino in fondo. Non poteva essere solo per l’arrivo di Koji, era un malessere che veniva da lontano, una sensazione di disagio che lo prendeva alla bocca dello stomaco, e gli procurava una leggera nausea. Era distratto, distante.
Cercava di darsi delle spiegazioni razionali..

Forse centrava Venusia?

Quella ragazza gli piaceva, e molto..
Era così diversa dalle donne che aveva incontrato nella sua vita, ma in quel momento riusciva a trasmettergli quello di cui aveva bisogno: concretezza, forza e sicurezza.
Si sentiva a casa, vicino a lei.
Parlavano delle cose di tutti i giorni, come se si conoscessero da sempre, era un tassello importante della sua nuova vita.
La tragedia di Fleed lo aveva profondamente segnato.
Quello che lo turbava di più, dopo aver superato il baratro della disperazione dei primi tempi, era la sensazione che la gamma dei sentimenti che poteva ancora provare si fosse irreparabilmente ristretta.
Era come se fossero stati cancellati tutti i colori, dentro di lui: viveva in bianco e nero, si sentiva estraneo alla gioia, alla spensieratezza, alla serenità, come se non le avesse mai provate in vita sua.
La vicinanza di quella ragazza gli aveva pian piano scaldato l’anima, riportando i colori dentro di lui.
Ma non riusciva a fare il primo passo. Perché?
Non era mai stato un imbranato, o almeno nessuna si era mai lamentata esplicitamente, ma nulla di quello che era poteva essere preso come riferimento..
Duke ed Actarus non erano più la stessa persona..
Non aveva paura di essere respinto: era sicuro che il suo sentimento sarebbe stato ricambiato..
Venusia gli aveva fatto percepire, qualche volta anche in modo poco discreto, che nutriva qualche cosa per lui.
Di occasioni ce n’erano state, per rimanere un po’ soli.. come quella volta al torrente, dove si erano seduti dopo una cavalcata, a chiacchierare.
Erano vicini, sentiva la coscia di lei premergli contro la sua, spalla contro spalla..era stato ad un passo dal baciarla..ma non lo aveva fatto.

Forse non era ancora del tutto pronto, o forse non era sicuro di poter essere veramente “compatibile” con i terrestri.
Era una questione non trascurabile: lui era un alieno, nato e cresciuto anni luce lontano da lì, era “diverso”.
Procton gli aveva detto che il suo gruppo sanguigno non era tra i gruppi mappabili negli esseri umani, anche se era potenzialmente un donatore universale e che le sue ossa avevano una composizione differente.

Cos’altro c’era di diverso? A livello genetico, forse..

Non lo aveva mai chiesto a Procton, aveva paura di apparire stupido.
Ma la questione lo angosciava non poco.. e si decise ad affrontare l’argomento.

“Perché me lo chiedi? Vuoi mettere su famiglia?”

Ecco, la frittata era fatta.

Procton aveva sorriso vedendo il suo imbarazzo..
“Non dirmi che ti stai innamorando!”

Sempre peggio..

“No, non so, forse..”

Procton lo aveva guardato fisso negli occhi:
“E’ meraviglioso, Actarus, non avere paura, non ci sono impedimenti, se non quelli che vuoi creare tu..lasciati andare..vivi, figlio mio, te lo meriti!”

Non poteva sapere che quelle erano le sue ultime ore serene..

Quella sera aveva voglia di stare un po’ da solo, e si incamminò in cima alla collina, con la chitarra al seguito, l’unica compagnia che accettava in quei momenti, oltre a suo padre, che però veniva sempre più raramente.
Raggiunse la quercia, si sedette e sollevò il capo.

Gli gelò il sangue..

Aveva già visto la luna diventare rossa: la prima volta era successo al centro ricerche; gli era mancato il respiro e si era sentito male, accasciandosi tra le braccia del padre che lo guardava stupito..
Procton gli aveva spiegato che era un fenomeno ottico, un riflesso creato dalla luce del sole che veniva assorbita dalla Terra e restituita filtrata verso la luna.
Su Fleed, quello era il segnale inequivocabile di un attacco imminente.
Vega si era installato su un satellite del pianeta, dove aveva costruito la sua base.
Era avvenuto in tempi non sospetti, con la benedizione di suo padre,che aveva acconsentito senza difficoltà, dato che si stavano impostando rapporti commerciali che riteneva strategici.

Era stato un errore imperdonabile.

Era diventato in seguito l’avamposto da cui partivano tutte le incursioni e gli attacchi feroci che avevano perpetrato contro il suo pianeta.

Ma questa volta era..diversa..sembrava che la luna fosse..viva..quella luce rossastra delineava dei tratti umani, come se..non aveva il coraggio di ammetterlo, gli sembrava..si, era così..un simbolo di morte.. un teschio!

Non poteva essere frutto della sua immaginazione..stava bene, ora, si sentiva più forte, anche gli incubi notturni erano diventati sempre più rari, non c’era motivo per avere delle allucinazioni.
Corse alla fattoria: voleva raggiungere immediatamente il padre al centro ricerche.
Lui lo avrebbe tranquillizzato, come aveva fatto altre volte, lo avrebbe fatto tornare con i piedi per terra, aveva bisogno di lui come si desidera l’acqua in mezzo al deserto..

Tra lui e la sua moto, Koji.

“Dove corri? Sembra che tu abbia visto un fantasma!”

“Infatti. Scusami, ho fretta!”

“Cosa c’è che non va con me? Perché ti infastidisco tanto?”

“Non dire fesserie, ho un brutto carattere, non è una cosa personale.”
Cercò di tagliare corto. Aveva MOLTA fretta.

“Non è vero, qui tutti parlano bene di te, dicono che sei una persona speciale. Sono tutti stupiti quanto me dal tuo atteggiamento.”
Non si schiodava..

“Ascolta..” continuò Koji appoggiandogli una mano sulla spalla “Non sono abituato a girare intorno alle cose. Dimmi cosa c’è che non và, sei il figlio del Dottor Procton, io lavorerò per lui, vorrei che almeno ci sopportassimo..”

Perse il controllo: l’urgenza di vedere il padre era talmente forte, la tensione gli stritolava lo stomaco, spinse in malo modo Koji da parte, saltando sulla moto, sgommando e sollevando un gran polverone.

Procton era seduto nel suo studio. Il satellite infuocato campeggiava al di là dei vetri della finestra, dietro le sue spalle.

“Chissà perché, mi aspettavo che saresti venuto qui!”

Il tono ironico, con cui ogni tanto tentava di sdrammatizzare sulle ansie del figlio, gli si smorzò subito sulla bocca quando vide lo sguardo trasfigurato di Actarus.
“Santi numi, ma che cos’hai?”
“Sono loro, padre, questa volta non mi racconterai storielle sulla rifrazione ottica, me li sono portati dietro, maledizione!”

“Actarus, calmati!”

“Come posso calmarmi? Me lo sentivo! Prima o poi sarebbe successo, mi hanno seguito, sono stato uno stupido, dovevo morire su quel maledetto robot, andare alla deriva nello spazio..sarebbe stato meglio per tutti!”

Procton non lo stava più guardando, lo sguardo fisso al di là delle sue spalle: Koji era sulla porta, immobile come una statua di gesso..
Actarus, che non si era ancora accorto di nulla, si avvicinò alla finestra, stringendo i pugni sul davanzale. Tremava.

“Entra, Koji”, disse Procton.

Actarus si voltò di scatto.

“Robot? Spazio? Chi sono ..loro..? Balbettò Koji.

Procton non sapeva se fosse meglio far passare il figlio per schizzofrenico o dare dettagliate spiegazioni a Koji.
Quel ragazzo era una persona intelligente e riservata, e decise per la seconda ipotesi.
Rimasero seduti sul divano per una buona parte della notte, Procton dava man forte al figlio quando capiva che l’emozione non gli consentiva di proseguire col racconto, e gli lasciava prendere fiato..ma capiva che non era del tutto dispiaciuto di doverne parlare..forse aveva bisogno di confidarsi con una persona più giovane, di trovare finalmente un amico..

“Posso vedere Goldrake?” chiese infine Koji.
“Seguimi”, lo invitò Actarus “devo controllare che sia tutto a posto”.
Procton li lasciò andare da soli.
Suo figlio non aveva più voluto avvicinarsi al robot da quando era arrivato, e la macchina dormiva tranquilla nell’hangar che avevano predisposto sotto la base ormai da quasi due anni.

“Non avvicinarti troppo, ti fulminerà”
Koji non avrebbe comunque mosso un altro passo. Era paralizzato da quella visione: un disco enorme e silenzioso, immerso nella penombra, campeggiava sopra di loro, appoggiato sulla piattaforma. Aveva una testa enorme che ricordava raffigurazioni mitologiche viste su qualche libro di storia. Era una macchina imponente..doveva essere almeno il doppio di Mazinga, ed aveva un che di mistico..di sovrannaturale..
Actarus salì la rampa che portava in cima alla piattaforma, appoggiò una mano sul robot, e gli occhi si illuminarono per un istante, facendo luce a giorno nell’hangar e mostrando per un attimo tutta la possanza di quella macchina incredibile.
Poi si voltò di scatto, e corse via, urtandogli una spalla.
Koji ebbe l’impressione che stesse piangendo, e provò pena per lui.
La sua storia era incredibile, ne aveva passate tante, ed ora doveva vivere un senso di colpa terribile, se era davvero convinto che Vega fosse lì perché lo aveva seguito.
Cercò di raggiungerlo, ma si era già dileguato con la sua moto.

Correva, correva come un pazzo nell’oscurità, il vento gli sferzava la faccia.
Sentiva il bisogno di sfogare la rabbia e la tensione, di sprecare energie fisiche.
Mollò la moto sul lato della strada e cominciò a correre giù dal pendio, nel prato.

“Non voglio, non voglio!” Non voglio più salirci, non lo piloterò più!”

Più lo gridava, più sentiva che non era vero, che il suo destino era diverso, che il suo sogno di una vita normale finiva quella notte, che avrebbe ancora dovuto combattere, avere paura, soffrire.
Inciampò e cadde.
Con le mani affondate nell’erba, scoppiò in un pianto disperato, sotto la luna rossa, che si rifletteva nelle gocce di rugiada..

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Edited by isotta72 - 2/6/2010, 23:01

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isotta72
view post Posted on 9/11/2010, 14:57     +1   -1




Mancava questo, non l'avevo mai inserito..


Giugno 2010, un posto qualunque..


“Presa! I riflessi sono ancora buoni” pensa sentendo il lieve ronzio che arriva dal pugno chiuso “e io sono sempre il solito..“ apre la mano liberando l’insetto.

Venusia in lontananza si volta e gli sorride, lui ricambia con un cenno. E’ ancora bella, i capelli più corti, i segni d’espressione sul viso. Lui sembra più giovane di lei, ora. E’ innegabile. I bioritmi alieni sono differenti ed un fleediano vive in media molto di più di un terrestre. Ma non c’era mai stata necessità o occasione di porsi questa questione. Una morte prematura, questo aveva creduto fosse il suo destino per tanto tempo, poi la salvezza, Vega battuto ed il ritorno su Fleed, dove l’alieno non era più alieno.
Tutto doveva finire lì, con la sigla di chiusura.
Comunque, che sia mamma ed energica organizzatrice della fattoria, che sia una splendida Regina o una brillante scienziata, ora se la ritrova accanto, a restituirgli un po’ di umanità, un po’ di normalità.
Si, perché se trent’anni fa era l’eroe che piaceva ai bambini, ora è l’eroe che piace agli adulti, o meglio, a quel manipolo di bambini ribelli che ora sono diventati adulti.
E per i quali per essere eroe non basta distruggere i mostri di Vega.
Quei bambini hanno imparato che i mostri non si distruggono: essere eroi per davvero è crescere, vivere e lottare restando se stessi, nonostante i mostri.

Il dondolo su cui è seduto cigola, anche lui risente del tempo.
Trent’anni sono sempre trent’anni, di cose ne sono cambiate.. e pensare che tutto era destinato a finire lì, con un esercito di piccoli spettatori delusi e Maria in lacrime alle sue spalle, mentre avvistavano all’orizzonte un pianeta fantasma..
Milioni di gadget venduti, 45 giri in cima alle classifiche, tutti felici e contenti. Chiuso un capitolo, il mondo va avanti, i gusti cambiano ed è giusto che sia così.
Poi succede l’imprevedibile. Sorride tra se e se..
Quei piccoli spettatori sono cresciuti fingendo di dimenticarsi, ma ad un certo punto hanno deciso di mandare al diavolo le convenzioni. La passione di bambino ti può seguire, e crescere con te, senza che questo diventi ridicolo.

Una lieve punta di orgoglio: con tutto quello che c’è a disposizione, proprio lui, e qualcuno dei suoi compagni, sono andati a ripescare questi matti..forse in loro trovano cose che altrove non ci sono più..

Ripercorre quello che ha vissuto, grazie alle loro espressioni.
Qualcuno ha dato voce a quello che era stato prima, e non può che essergliene grato: le vicende di popoli interi ridotti a pochi fotogrammi, funzionali solo a renderlo un eroe triste e malinconico..finalmente il suo mondo ha preso vita, volume, consistenza, e deve ammettere che ci sono andati vicino, ad immaginare quello che è successo davvero.
Qualcuno si è divertito con lui, ma sempre con grande rispetto.
Qualcun altro invece ha dato voce a ciò che deve essere accaduto dopo, plasmandolo e buttando dentro a quel contenitore che è il ragazzo che diventa adulto, l’eroe che avrebbe voluto vedere.
Che eroe sia diventare Re del mondo che sta ricostruendo, continuando a lottare, che eroe sia riuscire a condurre una vita normale alla fattoria, imparando finalmente ad amare davvero..poco importa. Lui è tutte queste cose messe insieme, ora.

Sente quelle note in sottofondo: è sua figlia, suona meglio di lui ormai. Hanno discusso per mezza giornata sulla faccenda dei suoi pantaloni con le frange, scovati chissà dove e che lei voleva chiudere in un sacco e gettare.. meno male che non può mettere le mani sulla sua tuta!

D’altra parte tutto ancora può servire.. guarda cosa stanno combinando questi matti dopo trent’anni.. non è proprio il caso di buttare via nulla, magari poi torna loro utile..e spera che duri ancora parecchio, che ancora per un po’ non si scordino di lui, di loro..

Entra in casa, accende il router, si connette: suo figlio è un ragazzo sveglio e gli ha insegnato come curiosare sui forum nascondendosi dietro un Bot.. d’altra parte non può mica registrarsi, i nick che gli piacciono sono già tutti occupati..e poi, come si presenterebbe?


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6 replies since 11/4/2010, 15:10   973 views
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