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H.ASTER: i racconti per la Cronologia

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isotta72
view post Posted on 11/5/2010, 07:49     +1   -1




IL TEMPO PERDUTO di H.ASTER

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Capitolo 1 – Invasione

L’assalto era cominciato per gradi.
Dapprima, Vega aveva agito in modo sotterraneo, inviando animali robotizzati a colpire punti nevralgici, distruggendo linee di comunicazione ed inquinando le acque.
Poi era avvenuto l’attacco vero e proprio: sciami di dischi erano piovuti dal cielo, sparando all’impazzata sulle città, distruggendo antichi, meravigliosi palazzi e sterminando la folla inerme. Mostri enormi avevano vomitato raggi energetici capaci di polverizzare in un unico colpo monumenti che avevano sfidato i millenni. Migliaia di persone erano state letteralmente vaporizzate, non lasciando di sé più la minima traccia.
Fu allora che Duke, il principe di Fleed che aborriva la violenza, fu costretto a compiere quanto aveva sempre sperato non dover fare: usare Goldrake per sconfiggere il nemico, distruggerne i dischi, ucciderne gli uomini. Nonostante la sua giovinezza, Duke s’era battuto come un guerriero esperto, rispondendo colpo su colpo agli avversari, incalzandoli senza dar loro tregua, uccidendoli prima che loro stessi avessero potuto fare altrettanto… e mai, mai, mai una volta si era ritirato, si era mostrato debole, vile.
Re Vega aveva reagito inviando ancora più forze su Fleed: sciami di dischi erano calati sulle città, mostri orrendi avevano ripreso la carneficina. Duke Fleed aveva risposto coraggiosamente ad ogni attacco, ma la verità, amarissima, era prepotentemente emersa.
Erano troppi.
Tutti, su Fleed, sapevano che avevano perduto. Tutti sapevano che non era certo la pietà quello che potevano aspettarsi da Re Vega. Tutti sapevano che sarebbe stato meglio morire che finire nelle mani dei nemici… e di quei nemici.
Fleed sarebbe caduto, era solo questione di tempo; che sarebbe successo se Re Vega avesse potuto mettere le mani su Goldrake? Quel robot, costruito per essere un mite garante di pace, in mano a Vega sarebbe divenuto il più tremendo, efficientissimo strumento di morte.
Questo, il Re di Fleed non poteva permetterlo.
Agì durante una tregua tra i combattimenti; avvenivano, di tanto in tanto, ma erano sempre più rare e più brevi.
Naida aveva avuto sentore di quanto sarebbe accaduto, e aveva supplicato la regina di poter essere presente. Sapeva che Duke avrebbe dovuto partire con Goldrake, e sapeva anche che si sarebbe rifiutato di farlo; lei avrebbe potuto aiutare a convincerlo.
La regina l’aveva guardata, gli occhi lustri, e aveva assentito: – Vieni anche tu, cara.
Naida l’aveva seguita nel palazzo reale. Avevano percorso in fretta corridoi, attraversato stanze: ovunque regnava un silenzio innaturale. Sporco, calcinacci e schegge di vetro ingombravano i meravigliosi pavimenti di marmo, alcune colonne candide erano rotte o scheggiate e attraverso i finestroni si poteva vedere il giardino devastato dai bombardamenti: alberi divelti, macerie, crateri di bombe esplose. Ritta in mezzo a quella che era stata un’aiola fiorita, la statua di marmo di una fanciulla che danzava; era l’opera di un grande scultore, e quella ballerina sembrava stesse per spiccare il volo, eterea, vibrante di vita… ora di lei non restavano che le gambe. Spezzata ai fianchi, il resto della danzatrice giaceva a terra, nel fango.
Naida aveva sempre ammirato quella statua: vedere quei due monconi bianchi assurdamente ritti verso il cielo oscuro di polvere la colpì più di ogni altro orrore avesse visto fino ad allora. Allibita, si costrinse a staccarsi dalla finestra per seguire la regina; ma dentro di sé sentiva ormai un freddo terribile che sapeva non l’avrebbe più lasciata.
Lo studio privato del re era rimasto ancora integro; fu là che trovarono Duke e suo padre, intenti a discutere.
– Non posso abbandonarvi! – esclamò Duke, con tutta la foga dei suoi giovani anni – Se me ne andassi, non avreste più nessuna difesa contro quei mostri!
– Siamo sconfitti, Duke – il re di Fleed non amava parlare per perifrasi – Si tratta solo di evitare una disgrazia peggiore. Ci pensi a che accadrebbe, se Re Vega arrivasse ad avere Goldrake?
Duke si morse le labbra: – Mi stai chiedendo di fuggire…!
– Ti sto chiedendo di salvare miliardi di vite – suo padre gli pose le mani sulle spalle e continuò, occhi negli occhi: – Duke, Re Vega ci ha attaccati perché vuole Goldrake. Se arriverà ad averlo, la nostra sconfitta sarà totale. Lo capisci, questo?
Il giovane chinò la testa. Comprendeva.
Suo padre continuò: – Se Vega potesse disporre di Goldrake, lo userebbe per conquistare altri pianeti, sterminare popolazioni intere, distruggere civiltà, uccidere… Duke, questo non possiamo permetterlo.
Il giovane sentì la gola serrarglisi; incapace di rispondere, si limitò ad assentire.
– Io non voglio lasciarvi…! – mormorò infine.
Il re sentì una fitta al petto: nonostante si fosse battuto come un uomo, Duke aveva appena parlato come il ragazzo che era. Lo strinse a sé, tastandogli la schiena, le braccia ancora sottili da adolescente, cercando di vivere intensamente quell’ultimo abbraccio di suo figlio; poi si costrinse a lasciarlo: – Devi andare, e devi andare subito, prima che riprendano l’attacco. Porta via Goldrake. Cerca un pianeta remoto, il più lontano che tu possa raggiungere, e nasconditi: Re Vega sa che tu sei l’unico che può pilotare Goldrake, e farà di tutto per catturarti vivo. Questo non devi permetterlo.
– Se anche accadesse – rispose con durezza Duke, affilando i tratti del viso – non mi potrà obbligare a pilotare Goldrake per lui!
Suo padre scosse il capo: – Re Vega può farlo, credimi. Può far alterare la mente d’un uomo e trasformare in suo schiavo anche il suo più irriducibile nemico… trasformerebbe anche te. Non devi farti catturare, Duke.
Il giovane drizzò fieramente la testa: – Non mi avranno mai vivo. E non avranno Goldrake. Hai la mia parola.
Suo padre si costrinse a lasciarlo, ad allontanarlo da sé: – Vai, ora.
Duke si volse, scorse il viso pallidissimo di sua madre e la sua ferma risoluzione cadde: – …Non posso andarmene senza di te! Non posso permettere che tu… tu…
La regina lo strinse a sé, impedendogli di continuare quelle parole che ferivano per primo lui stesso. Sapevano entrambi che la partenza di Duke avrebbe significato l’immediata caduta di Fleed.
Duke e sua madre non si parlarono: si erano sempre compresi senza bisogno di discorsi. Rimasero stretti l’uno all’altra, consci che quell’ultimo abbraccio era tutto ciò che restava loro. Se solo fosse stato possibile portare in salvo qualcuno… qualche passeggero, almeno uno… ma l’autonomia di Goldrake, per quanto lunga, non era infinita. Un secondo passeggero avrebbe dimezzato le risorse di sostentamento, e il viaggio interstellare avrebbe potuto essere lunghissimo. Non si poteva nemmeno prendere in considerazione una simile ipotesi.
Duke guardò sua madre, imprimendosi nella memoria quel viso stanco e così caro; poi la lasciò bruscamente, quasi avesse temuto di non riuscire a staccarsi da lei.
– Ti accompagno – mormorò Naida, ma lui scosse il capo. Sentiva di doversi allontanare subito dalle persone che amava, immediatamente, senza indugi; o non avrebbe più potuto farlo. La baciò con disperazione, sapendo che non si sarebbero mai più rivisti; si strappò dalle sue braccia quasi con violenza, precipitandosi fuori della stanza senza voltarsi più indietro.
Per fortuna Maria non era presente: non avrebbe potuto tollerare la vista di quel visetto disperato, quegli occhi colmi di lacrime.
– Duke!
Una vocetta infantile… il rumore di piedini in corsa… Maria doveva essere riuscita a sfuggire alla sua governante per correre da lui. Non era facile imbrogliare una bimba preveggente…
– Duke!!!
Il ragazzo esitò: la sua sorellina che non avrebbe mai visto crescere…
Un rombo lontano. L’attacco stava ricominciando.
Doveva far presto.
S’allontanò di corsa, imponendosi di non udire i richiami disperati di Maria, di non voltarsi, non chiedersi nemmeno che ne sarebbe stato d’una bimba piccola perduta tra i bombardamenti… non poteva farlo… Doveva portare via Goldrake.
Corse, corse, corse senza più fermarsi.


Attraverso i vetri spezzati, il cielo appariva caliginoso; ad est, lampi rossastri annunciavano che l’attacco, la distruzione erano ricominciati.
Stretti in un abbraccio, il re e la regina di Fleed guardavano ansiosamente il cielo, aspettando, aspettando… accanto a loro, Naida si torceva le mani, in attesa.
Un lampo bianco sfrecciò improvviso, prendendo velocità, scomparendo infine tra le nuvole.
Il re e la regina si sorrisero: erano due genitori che avevano messo in salvo la loro creatura. Almeno, lui sarebbe sopravvissuto.
Quanto a loro, avevano trascorso la vita insieme; insieme, avrebbero affrontato anche quello che sarebbe inevitabilmente accaduto.
Naida strinse le braccia attorno al corpo, mentre continuava a guardare là dove Goldrake era ormai scomparso.
Vai, amore mio. Io sono finita: vivi tu anche per me.


Capitolo 2 – Ricordi

Per la prima volta dopo giorni, si permise di ricordare.
I dischi che sciamavano dal cielo, devastando uomini e cose con i loro raggi energetici… le esplosioni, le grida dei feriti, il pianto urlante di chi ha perso tutto, tutto, tutto…
Erano nel loro palazzo, quando i veghiani avevano fatto irruzione uccidendo chiunque si fosse loro ribellato. Il padre di Naida, il duca Barsagik, sperava che non opponendo resistenza si sarebbe potuto evitare il peggio.
Il duca era un uomo gentile, leale. Non poteva comprendere la mentalità brutale di un soldato di Vega.
Erano una famiglia di cinque persone: Naida, il suo fratellino Sirius, i loro genitori e la nonna.
Fu proprio la nonna la causa involontaria del disastro: la povera, dolce, fragile nonna, troppo anziana e malferma di salute per essere utile come schiava. Vederla e puntarle addosso il fucile fu per i soldati di Vega un atto a dir poco ovvio.
Con un urlo la madre di Naida si slanciò sulla nonna, facendole scudo con il proprio corpo esattamente nel momento in cui il soldato faceva fuoco. Finirono a terra abbracciate l’una all’altra, morte sul colpo.


Mamma… Naida chiuse gli occhi mentre sentiva ancora le oscene bestemmie urlate dal soldato, furioso per la morte di quella donna ancora giovane e bella. Che spreco, che peccato! Ma se l’era voluta lei.
Il duca Barsagik rimase un istante attonito a fissare i resti contorti che un istante prima erano state la sua adorata moglie e sua madre; poi si gettò come una furia sul soldato, gridando ai suoi figli di fuggire.
Naida afferrò per mano Sirius e infilò di corsa un corridoio, puntando verso il giardino. Sentì dietro di sé tonfi, urla, imprecazioni… una raffica di proiettili energetici. E il silenzio.
Naida continuò a correre, pensando febbrilmente a come avrebbe potuto salvare Sirius. In fondo al giardino c’era una porticina seminascosta tra gli alberi: avrebbero potuto fuggire di lì, e poi… poi…
Il giardino s’aprì improvvisamente davanti a loro. Nel cielo sfrecciavano i dischi, che continuavano la loro opera di distruzione; alcuni pezzi di cornicione erano piombati nelle belle aiole fiorite, e un albero giaceva spezzato di traverso al viale. Naida e Sirius puntarono in fretta verso il boschetto che celava la porticina, che appariva così lontana, così lontana…
Un’esplosione, uno schianto, e furono gettati violentemente a terra.
A fatica, Naida si rimise carponi: era dolorante e stordita, ma sentiva di non aver nulla di rotto. Si voltò verso Sirius… dovette cacciarsi i pugni in bocca per non urlare.
Sirius giaceva riverso, pallidissimo: respirava a fatica, e un rivolo di sangue gli usciva dalle labbra violacee. Un pezzo di pietra giaceva accanto a lui. Lentamente, Naida comprese: un disco aveva colpito il palazzo, e quel detrito era stato sbalzato via centrando Sirius nella schiena.
Qualcosa parve frantumarsi in Naida… niente sarebbe stato più come prima. Distrutta, raccolse tra le braccia il fratello e scoppiò in lacrime, incapace di scappare, di lasciarlo, di far qualsiasi altra cosa che non fosse urlare tutto il suo dolore.
Fu così che li trovarono poco dopo, lui svenuto e lei che piangeva disperata. Mani crudeli li separarono, strappandole il fratellino dalle braccia. Mentre la trascinavano via, Naida vide un soldato chinarsi per esaminare Sirius; si divincolò furiosamente, urlando, graffiando, prendendo a calci l’uomo che l’aveva catturata. Quando gli morse una mano, lui le appioppò un ceffone che la gettò a terra. Sentì che qualcuno stava armando una pistola…
Un lampo verde, e il mondo scomparve.
Si risvegliò non seppe quanto tempo dopo, nel ventre oscuro di un’astronave.

Capitolo 3 – La prigione

Semibuio. Spazi ristretti. Niente cibo. Poca acqua, calda e che puzzava di disinfettante.
Unica concessione all’igiene, in un angolo un enorme contenitore destinato alla raccolta della sporcizia; ma le prigioniere erano qualche centinaio, e da che erano state racchiuse là dentro, nessuno aveva ancora provveduto a ripulire il recipiente. La puzza cominciava ad essere insopportabile.
Tormentata dal fetore, lo stomaco vuoto che ruggiva la sua disperazione, Naida ricadde sul pavimento metallico e appoggiò la schiena contro la parete. A quel punto, sperava solo di poter morire.


La ragazza si contorse nel suo stesso sangue, rantolando penosamente.
Ritto in piedi accanto alla sua vittima agonizzante, il soldato di Vega fece scorrere lo sguardo sulle atterrite prigioniere: – C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?
Naida si addossò alla parete metallica della cella, troppo terrorizzata anche solo per poter urlare.
L’orrore era appena cominciato.


I soldati si fecero avanti, afferrando le prime sventurate che capitavano loro a tiro: in quella cella erano state rinchiuse le prigioniere più giovani e belle, per cui l’una o l’altra era lo stesso. Molte ragazze gridarono, tantissime piansero, supplicarono, soffocarono il loro dolore… nessuna osò ribellarsi, non dopo aver visto di cosa erano capaci quei mostri. In un angolo, la loro compagna moribonda giaceva in una pozza di sangue, e il suo lamento continuo era ancora più agghiacciante delle grida delle ragazze che venivano gettate sul pavimento e sistematicamente stuprate sotto agli occhi terrorizzati delle altre prigioniere.
Quando due soldati l’afferrarono, Naida non osò opporsi, non emise un suono. Atterrita, continuò a ripetersi che non era vero, non poteva essere vero, era un’altra a venire violentata, non era lei, non era lei…


Un’eternità più tardi, lo scempio volse finalmente al termine. I soldati si rivestirono, ridendo e scambiandosi l’un l’altro battute grossolane, mentre le loro vittime gemevano sommessamente, sconfitte, distrutte. Si udiva ancora qualche grido disperato, testimone della brutalità con cui qualcuno ancora si accaniva sulla sua sventurata vittima; un graduato prese a gridare di smetterla, sferrò un calcio ad un soldato particolarmente ostinato, fece scattare in piedi quelli che indugiavano nel rivestirsi.
Le prigioniere non osavano muoversi, lamentarsi, nemmeno fiatare: il terrore di veder ricominciare quella mostruosità le aveva praticamente gelate. Non sapevano d’aver subito il normale trattamento riservato alle schiave destinate a divenire oggetto di piacere: occorreva sciuparne qualcuna e magari ucciderne una o due, ma le sopravvissute perdevano qualsiasi voglia di ribellarsi. In gergo, si diceva che erano state addomesticate.
Il graduato controllò che tutti i soldati fossero usciti, prima di avviarsi pigramente verso la porta; in un angolo, scorse la sventurata ragazza, la prima vittima, che ancora si lamentava nel suo sangue. Era immobile, respirava affannosamente e il suo fievole gemito si era perso tra le urla delle sue compagne. Senza una parola, il milite puntò il suo fucile e fece fuoco, ponendo fine a quello spaventoso supplizio.
La porta si chiuse pesantemente alle sue spalle, e nella prigione regnò un silenzio pesantissimo, irreale; poi, una voce si levò gridando tutto il suo orrore, altre piansero, altre si limitarono a restare dov’erano, incredule, inorridite, sconvolte.
Naida puntò un gomito a terra e si rialzò a fatica: tremava in tutto il corpo, per cui non osò tentare di rimettersi in piedi.
Era ancora viva.
Si guardò attorno: dovunque, non vedeva che creature sanguinanti, ferite. Poco discosto da lei, una ragazzina, poco più che una bambina, tremava violentemente tenendosi le braccia strette attorno al corpo. Naida strisciò verso di lei, le toccò una spalla; se la ritrovò singhiozzante tra le braccia. La strinse a sé, cercando di placare quello spaventoso dolore – e intanto evitando di pensare alla propria disperazione.
La ragazzina aveva un gran livido su uno zigomo, e sangue le usciva dal naso. Naida si strappò un pezzo del bordo della veste, tentando di tamponare l’emorragia. Non c’erano disinfettanti, antidolorifici… non c’era nemmeno un po’ d’acqua per pulire le ferite.
Non c’era niente.


Capitolo 4 – Il padrone

La pesante porta s’aprì, lasciando passare due soldati; un’ondata di panico percorse le prigioniere, terrorizzate all’idea che ricominciasse quello che era accaduto… quando? Avevano perso ogni cognizione di tempo, non avrebbero saputo rispondere… Un’infinità di tempo prima.
I soldati però non parevano voler dare il via a nuove violenze: insensibili al terrore delle loro vittime, presero ad esaminare le prigioniere.
Naida li guardò quasi con indifferenza: non sentiva più niente, ormai, né paura, né fame, né sete. Dentro di sé, si sentiva morta.
I soldati osservarono rapidamente Naida: il suo viso non era tumefatto o sporco di sangue, e nonostante i suoi vestiti strappati e sporchi appariva in condizioni migliori di molte altre. La spinsero nel gruppetto delle prescelte, una decina tra le prigioniere più giovani e graziose; poi le spintonarono fuori della maleodorante prigione e le fecero salire su per una rampa, portandole infine in un’ampia stanza al piano superiore.
Naida camminava senza porsi domande su dove la stessero portando: probabilmente quei due l’avevano scelta come oggetto di piacere per la truppa o, con un po’ di fortuna, per un qualche ufficiale. Ormai, non le importava più nulla.
Accomodato su una poltroncina, una coppa tra le lunghe dita, un veghiano le attendeva. Naida capì subito che si trattava d’una personalità d’alto rango; non poteva sapere che era nientemeno che Hydargos, il vicecomandante di Vega.
Le ragazze vennero sospinte davanti a lui, che prese ad esaminarle con interesse. La maggior parte di loro inorridì per l’aspetto di quel nemico, il cui viso lungo, magro e bluastro le ripugnava; altre si mostrarono fiere e sdegnose, una o due si fecero languide, provocanti.
Naida pareva trovarsi a miglia e miglia da là.
Furono proprio il suo silenzio e la sua impassibilità ad attirare Hydargos, che si alzò per esaminarla meglio. Osservò i lunghi capelli verde dorato, gli immensi occhi chiari, il visino triste e serio; poi vide quel corpo pieno e dalle linee voluttuose, e la scelta fu immediata.
– Avvicinati, tu – disse, indicandola con il frustino, il suo emblema di comando.
Naida fece un paio di passi in avanti e si fermò. Era pallidissima ed indifferente, quasi quello che le stava accadendo non la riguardasse affatto.
Hydargos fu più che soddisfatto del suo esame. Alta, curve abbondanti, pelle bianca. Bellissima. Le mise la punta del frustino sotto il mento facendoglielo alzare: anche il viso era molto bello.
– Come ti chiami? – domandò.
– Naida Barsagik.
– Naida Barsagik, signore – puntualizzò lui.
Lei non batté ciglio: – Sì, signore.
Forse fu proprio l’indifferenza di Naida a convincerlo. Non gl’interessava una ragazza provocante e disponibile, grazie al suo rango ne aveva avute anche troppe; quanto alle altre, poche cose l’innervosivano come una donna in lacrime. Ma quella creatura bellissima, dal fare freddo e remoto e dal corpo che era tutta una promessa…
– Prendo lei – annunciò.
Ci fu un movimento tra le prigioniere, che provarono un certo sollievo vedendosi scartate da quell’orribile individuo… salvo poi chiedersi nervosamente se invece non era proprio stata Naida, la fortunata.
Hydargos sospinse col frustino la sua schiava verso la porta. Si rese conto che i vestiti succinti e strappati di lei attiravano fin troppo le occhiate dei soldati, e si tolse il mantello avvolgendoglielo addosso; poi le mise possessivamente un braccio attorno alle spalle e la condusse via dalla prigione.
Fu l’ultima volta in cui Naida vide le sue sventurate compagne. Poi non ne avrebbe saputo più nulla.


Hydargos non ignorava cosa fosse successo a Naida nei giorni precedenti; fu per questo che per prima cosa la portò a fare una visita al centro medico. Non poteva certo rischiare di prendersi un’infezione.
Se è malata, posso sempre rimandarla indietro e prenderne un’altra, si disse.
Gettò un rapido sguardo a Naida, ai suoi lunghi capelli, a quel corpo meraviglioso, e decise che valeva la pena di farla curare. Difficilmente avrebbe potuto trovare tra le altre schiave una donna altrettanto bella.
Una dottoressa dall’aria efficiente prese in consegna Naida. La spinse in una cabina dalle pareti trasparenti e digitò rapidamente sui comandi, azionando i sensori e controllando i dati sul display. Niente infezioni. Non era nemmeno incinta.
La dottoressa era una donna scrupolosa; fu per questo che azionò comunque un raggio di luce che piovve su Naida, compiendo una rapida opera di disinfestazione. Dopo un ulteriore esame generale con i sensori, la dottoressa riconsegnò Naida al suo proprietario, dandogli il suo responso: disidratata e denutrita, ma sana.


La cabina di Hydargos era spaziosa e comoda, almeno secondo il metro di Vega – piuttosto spartano. Il viaggio verso la base Skarmoon sarebbe durato più di un giorno, e Hydargos aveva tutte le intenzioni di trascorrere quel tempo piacevolmente. Non per nulla si era procurato una schiava.
Per prima cosa, la mandò a farsi una doccia. Cinque giorni di carcere senza la minima possibilità di pulirsi potevano avere un effetto sgradevole sulla più affascinante delle donne. Sospinse perciò Naida verso il bagno, ordinandole di lavarsi con cura e fornendole anche un vestito nuovo.
Nonostante si sentisse morta nell’animo, Naida indugiò a lungo sotto alla doccia. Quattro giorni prima due soldati l’avevano violentata a turno, e da allora lei non aveva potuto lavarsi. Tutto quel tempo passato sentendosi addosso le loro schifose tracce l’aveva duramente segnata. Si strofinò fino a far dolere la pelle, lavò accuratamente i capelli e rimase a lungo sotto il getto freddo dell’acqua, quasi avesse potuto lavar via tutti gli orrori che aveva subito. Aprì la bocca e bevve, bevve, bevve fino a non poterne più. Poi s’asciugò diligentemente, si vestì e si pettinò i lunghi capelli.
Si guardò allo specchio, e vide un’estranea pallida e dagli occhi morti.
Così si sentiva, infatti. Non provava nulla. Aveva sofferto troppo per essere in grado di patire ancora. Aveva perso tutto: amore, casa, famiglia, amici, mondo. Se era ancora viva, non era perché l’avesse voluto lei.
Stranamente, non provava paura circa Hydargos. Il suo corpo era già stato ripetutamente violato, una nuova invasione la spaventava poco. Tanto, ormai…
Uscì dal bagno. Il suo nuovo vestito a tunica rosa pallido che le aveva dato Hydargos le lasciava scoperta una spalla e le ricadeva in piegoline leggere attorno al corpo, mettendone in risalto le curve sinuose.
In piedi in mezzo alla stanza, lui l’ammirò in silenzio. Mosse un passo verso di lei, vide il suo spaventoso pallore, il leggero tremito che la scuoteva tutta e si trattenne. Lei… si chiamava Naida, già… era digiuna da giorni, se non si fosse nutrita al più presto avrebbe potuto svenire, il che non era precisamente quel che lui voleva. Pazienza…
A malincuore accennò al tavolo, dove attendevano due vassoi colmi. Naida non mangiava da troppo tempo, e il profumo del cibo le fece provare una fitta dolorosa alla giuntura delle mascelle, là dove si trovavano le ghiandole salivari.
Hydargos sedette e le fece cenno di fare altrettanto.
Mi permette di pranzare con lui, si disse Naida. Buon segno.
Attese che il suo padrone iniziasse il suo pasto, prima di assaggiare un boccone. Improvvisamente si rese conto di avere fame, molta fame. Mangiò ogni cosa, badando solo di masticare con cura prima d’inghiottire: non avesse fatto così il suo stomaco, già provato dal lungo digiuno, difficilmente avrebbe retto quel cibo per lei esotico.
Quando ebbe terminato l’ultimo boccone osò alzare gli occhi su Hydargos: la stava guardando in maniera inequivocabile. Nonostante avesse creduto di essere ormai indifferente si accorse di sentir la paura crescere in sé, una paura folle, irragionevole… ma di che? Dopo l’orrore che già aveva subito, come poteva temere nuove violenze…? Difficilmente lui avrebbe potuto farle di peggio…
Hydargos s’alzò, gli occhi accesi sempre fissi su di lei; Naida si mise in piedi, e finalmente capì di cosa avesse paura.
Il dolore fisico.
Naida ne era terrorizzata da sempre. In quei giorni, poi, aveva visto come i soldati avevano ridotto alcune sue compagne che si erano ribellate: aveva visto donne picchiate, violate, ferite, mutilate, uccise. Ricordava ancora troppo bene cos’era successo a quella sventurata ragazza che aveva colpito un soldato che stava per stuprarla… “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?”
L’orribile punizione che aveva subito prima di venire uccisa era stata un esempio per tutte le prigioniere; Naida non avrebbe mai potuto dimenticare quella sua sventurata compagna. Quando lei stessa era stata violentata, non aveva opposto la minima resistenza: aveva visto troppi orrori, troppi… e aveva troppa paura, non tanto della morte quanto dell’agonia che l’avrebbe preceduta. I soldati di Vega non erano così pietosi da uccidere rapidamente.
Dal giorno dell’attacco a Fleed, Naida aveva provato ogni forma di sofferenza: era stata umiliata, stuprata, privata di tutto. Era stata ridotta a qualcosa di meno di un essere umano, una creatura disposta a subire qualsiasi cosa pur di non soffrire ancora. Ora, guardò di sfuggita il veghiano che era ormai il suo padrone, l’uomo che aveva su di lei ogni diritto: cosa le avrebbe fatto, lui? Non aveva più in mano il frustino, ma…
– Vieni qui – disse Hydargos.
Il momento era arrivato.
Docile, Naida avanzò verso di lui fermandosi a pochi passi di distanza.
– Io ti obbedirò, signore – disse, non osando guardarlo negli occhi – Ti sarò fedele, farò tutto ciò che desideri senza ribellarmi… solo, non farmi del male. Ti prego.
Lui, che s’era incantato ad osservare quel bellissimo corpo che presto sarebbe stato suo, si riscosse e guardò la sua schiava in viso. Fare del male a quella splendida creatura era l’ultima cosa che avesse in mente, ma naturalmente non poteva dirglielo: uno schiavo è uno schiavo, deve aver paura del suo padrone.
Vide il terrore negli occhi di Naida; beh, forse era meglio non esagerare.
– Davvero, mi obbedirai senza ribellarti? – chiese, burbero.
– Hai la mia parola, signore… ma tu, non mi farai del male…?
– No, se ti comporterai bene – Hydargos aprì le braccia; Naida esitò un solo istante, poi s’avvicinò ancora, a testa alta, fiera come una regina che sale al patibolo. Hydargos non vide la sua espressione, o meglio, non volle vederla. L’afferrò rovesciandola tra le proprie braccia e la baciò con una foga che la lasciò completamente senza fiato. Terrorizzata, lei s’impose di non opporsi, non sottrarsi a quella bocca che s’era impossessata della sua, non divincolarsi da quelle braccia che la serravano fino a spezzarla, di tollerare su di sé quelle mani estranee che le scorrevano addosso senza il minimo ritegno. Purché lui non le facesse del male, purché non la picchiasse, torturasse, o peggio…
Per Hydargos, il mondo si dissolse nel fuoco.


Naida si mise a sedere sul letto, passandosi una mano tra i capelli; diede uno sguardo ad Hydargos, che dormiva profondamente.
Era indifeso. Avrebbe potuto ucciderlo.
A lungo, Naida guardò il suo padrone addormentato: era vero, avrebbe potuto tagliargli la gola nel sonno… ma poi? Poi sarebbe stato meglio morire, piuttosto che affrontare la spietata giustizia di Vega.
Suicidio…
Naida rabbrividì. Il giorno prima sarebbe stata più che disposta a farlo: disperata, sola, affamata, sporca, avrebbe considerato la morte come una liberazione. Hydargos, anche se per fini puramente egoistici, l’aveva tolta dalla prigione, l’aveva vestita, nutrita: l’aveva richiamata a vivere. Persino il suo amore rude e vigoroso, pur imposto, aveva cominciato a risvegliare in lei una scintilla di speranza nell’avvenire che Naida aveva creduto spenta per sempre. Ora, nonostante avesse davanti a sé un futuro come giocattolo di quel veghiano, quell’uomo ruvido ma che in fondo non l’aveva trattata male, Naida non provava più il desiderio di morire.
Era viva, e voleva continuare a vivere.


Capitolo 5 – Skarmoon

L’arrivo su Skarmoon non cambiò molto le cose. Durante il giorno, Hydargos era occupato e non rientrava praticamente mai nel suo alloggio; Naida aveva allora lunghe ore da dedicare a sé stessa, curando scrupolosamente il proprio corpo e riposando molto. Le era ben chiaro che finché fosse stata giovane e bella la sua esistenza sarebbe stata sicura: il terrore di ritrovarsi sola e senza protezione, visto che su Vega nemmeno la legge tutelava gli schiavi, la spingeva a fare di tutto per ingraziarsi il suo padrone. Per questo, quando Hydargos tornava nel suo alloggio trovava la sua schiava docile e prontissima a compiacerlo. Non che ci volesse molto ad accontentarlo: bastava essere accondiscendenti e non mostrarsi mai, ma proprio mai, stanchi, maldisposti o malati.
Dentro di sé, Naida si disprezzava per questo: era una duchessa di Fleed, e s’era ridotta ad essere il giocattolo sessuale di un nemico… ma l’alternativa la terrorizzava troppo. Aveva visto morire troppa gente, e in modo troppo orribile, per osare ribellarsi.
I vantaggi comunque erano concreti: Hydargos era un buon padrone, non lesinava né il vestiario né il nutrimento, e nel complesso era abbastanza gentile. Mai una volta aveva alzato le mani su di lei. Si comportava insomma come se avesse posseduto un bell’oggetto fragile e prezioso, da trattare con ogni cura, certo, ma anche da adoperare tutte le volte che ne avesse provato il desiderio; e questo desiderio lo provava praticamente tutti i giorni.
Era un amante rude e poco incline alle tenerezze; però non la picchiava, non la sottoponeva a perversioni, non le faceva del male deliberatamente. Placate in lei le sue molte energie, si voltava dall’altra parte piombando nel sonno.
Naida allora piangeva silenziosamente, sfogando nelle lacrime tutto il suo dolore, finché non s’addormentava anche lei, sfinita; la mattina dopo, la giornata riprendeva, identica.


Per i primi tempi, il pensiero delle persone care che aveva perduto faceva sì che non passasse giorno senza che Naida non scoppiasse in lacrime, ovviamente quando Hydargos non era presente; alle volte era il ricordo della madre a farla piangere, altre volte le tornavano in mente la voce affettuosa di suo padre, oppure le sovveniva uno scherzo di Sirius.
Non passava però giorno senza che Naida pensasse a Duke Fleed.
Lui era divenuto il suo pensiero fisso, una sorta di punto fermo nella sua esistenza impazzita. Pensare a lui, al suo amore, alla sua forza le dava il coraggio di proseguire nella sua esistenza di schiava.
Alle volte, quando Naida si sentiva particolarmente depressa, le bastava rammentare la sua voce, ripensare a quando lui la stringeva tra le braccia, per sentirsi immediatamente più forte; salvo poi disperarsi per quanto aveva perduto.
Sapere poi che lui non era stato ucciso dai veghiani, pensare che forse s’era salvato, che magari un giorno si sarebbero rivisti… erano sogni, di questo Naida era cosciente; però sognare l’aiutava a non impazzire.
Evocare il viso giovane e bello di Duke confortava Naida, ma anche strideva atrocemente con la realtà, costringendola a raffrontare il suo amore perduto con l’orrendo mostro con cui doveva vivere. Pensare alla dolcezza, alla bontà d’animo del principe di Fleed le rendeva ancora più odioso il comandante di Vega che l’aveva comprata.
Immersa nel suo passato, nei ricordi della sua vita scomparsa, Naida non si rendeva conto di non essere obiettiva nei confronti del presente. Hydargos era per lei uno spaventoso individuo, orribile e crudele; non si rendeva conto che in realtà lui la stava trattando molto meglio di quanto avrebbe fatto qualsiasi abitante di Vega con la sua schiava.
E infatti, Hydargos stava rivelandosi un padrone eccezionalmente gentile. Su Vega, era la prassi nutrire i propri schiavi con rifiuti, vestirli con stracci, sfiancarli di lavoro, umiliarli con insulti, batterli o addirittura ucciderli alla minima mancanza; persa nel suo continuo raffronto con Duke Fleed, Naida non badava ai pasti abbondanti, ai vestiti, alla vita comoda che le era concessa, al fatto che mai lui l’avesse maltrattata.
Per Naida, aggrappata al suo amore per Duke, Hydargos era e restava il nemico, il padrone crudele, il mostro.


Durante il giorno, finché era sola, Naida riusciva a rilassarsi, a calmare la tensione che la divorava; man mano che s’avvicinava l’ora in cui il suo padrone avrebbe fatto ritorno, in lei l’inquietudine cominciava a crescere, divenendo infine autentico terrore.
Aveva sempre avuto timore dei veghiani, e questo da prima che Fleed venisse attaccato. Aveva sempre diffidato di loro, trovandoli individui violenti e per nulla affidabili; nella stragrande maggioranza dei casi, poi, il loro aspetto le era sempre sembrato a dir poco inquietante. Tante volte s’era rimproverata questo suo pregiudizio, tante volte s’era imposta di mascherare, dominare il suo disgusto; trovarsi ora costretta a vivere a stretto contatto con uno di quegli esseri le era praticamente insopportabile.
La verità era evidente: Hydargos la terrorizzava.
Quando lui, così cupo e silenzioso, s’aggirava per l’alloggio, Naida sentiva il panico attanagliarle le viscere: non sapeva cosa aspettarsi da quell’uomo chiuso e taciturno, e la paura le faceva temere le cose peggiori. In realtà, Hydargos non l’aveva mai trattata male, anzi; lei però continuava a provare l’irragionevole timore che senza alcun preavviso quel suo scontroso padrone si trasformasse in un aguzzino, che i silenzi divenissero urli, insulti e percosse. Si sentiva un poco come se in quelle stanze assieme a lei vi fosse stata una belva, apparentemente tranquilla ma potenzialmente letale.
Naida allora faceva di tutto per non contrariarlo, anzi, per prevenire i suoi desideri; il problema era che non sempre era facile capire cosa lui volesse. Tornava a casa stanco, certo: ma cosa desiderava? Silenzio, o qualche chiacchiera che lo distraesse? Attenzioni, o essere lasciato in pace?
Non era facile capirlo, e ancora meno facile, per lei, era avvicinarlo; e il motivo era semplice.
Lui la ripugnava.
Quel suo aspetto così strano, così alieno… quel cranio allungato, quel suo corpo alto e magro, quelle membra lunghe, sottili ma forti le ricordavano un enorme insetto.
In più, da sempre Naida aveva avuto l’idea che i veghiani fossero viscidi e avessero cattivo odore; nulla di più falso, come l’esperienza le aveva insegnato. Al contrario, gli abitanti di Vega curavano scrupolosamente la pulizia personale, e facevano larghissimo uso di detergenti e disinfettanti per l’igiene degli ambienti in cui vivevano. Ma in lei, il disgusto permaneva.
Quando Hydargos la stringeva tra le braccia, Naida chiudeva gli occhi per non vedersi preda di quel mostro: cercava allora di evocare l’immagine di Duke, Duke così gentile, così bello, Duke che lei aveva sempre amato con totale passione… ma il passato, per quanto meraviglioso, scoloriva davanti al ben più ingombrante presente, e Naida doveva mordersi le labbra per non mettersi ad urlare. Peggio ancora, per non contrariare Hydargos era costretta a simulare il suo ribrezzo. Rabbrividiva anche solo vedendo scivolare sulla sua pelle bianca la mano di lui dalle lunghe dita bluastre, simili alle zampe di un ragno.
Si sforzava comunque di dominarsi, perché era perfettamente consapevole di aver avuto fortuna: se lui non l’avesse scelta per sé, sicuramente lei avrebbe avuto un destino peggiore, dal trovarsi giocattolo per le truppe al divenire cavia per qualche esperimento. Tutto sommato, era infinitamente meglio subire e tacere.
Una sera, inaspettatamente, le cose cambiarono.
Hydargos rientrò più cupo del solito, il viso atteggiato ad una smorfia di sofferenza; toltosi il mantello, sedette sul divano tentando di massaggiarsi la base del collo.
Naida aveva visto quella scena fin troppe volte per non riconoscerla subito: suo padre che tornava la sera, la schiena irrigidita da uno spasmo…
«Naida, tesoro, mi faresti uno dei tuoi massaggi?»
«Papà, lo sai che ti succede sempre quando lavori troppo! »
«Sì, sì… guarda, è proprio qui che mi fa male… potresti…?»
«Va bene…»
Allora lei massaggiava e massaggiava il collo indurito, sciogliendo delicatamente i muscoli, fino a quando non sentiva la tensione abbandonare la schiena e le spalle del padre, che finalmente sospirava di sollievo: «Grazie, cara. Ora sto proprio meglio»
Quasi senza rendersene conto, Naida sedette sul divano accanto ad Hydargos, che continuava a strofinarsi il collo: in quel momento, lei vide solo la sofferenza e il dolore, non il mostro che l’aveva comprata. Gli posò le mani sulle spalle e cominciò a tastarle delicatamente, cercando il punto da cui partiva il male.
Lui trasalì al suo tocco, ma non protestò: lo spasimo era veramente forte, e le dita di lei sembravano muoversi con sicurezza e dargli un certo sollievo. Non gli piaceva l’idea di voltare le spalle alla sua schiava, una potenziale nemica, ma non poteva fare altrimenti; del resto, sarebbe stato all’erta, e se lei avesse tentato un qualche brutto scherzo gliel’avrebbe fatta pagare… ah, ora aveva trovato il punto giusto, che meraviglia…
In silenzio, Naida continuò a lavorare con pazienza, delicata e decisa allo stesso tempo: sapeva bene quanto dolore lui dovesse provare, e non desiderava altro che lenire il male, arrestare il tormento.
Improvvisamente, si rese conto di essere stata lei a toccare quel corpo – fortunatamente pulito e non viscido –, lei a prendere l’iniziativa.
Hydargos sembrava sentirsi meglio: proprio come un tempo succedeva a suo padre… La similitudine la lasciò senza fiato: fu proprio allora che Naida comprese che il mostro in realtà era solo un uomo.
Continuò il suo lavoro, e intanto sentì la paura abbandonarla poco a poco, cedendo il posto ad una sorta di stupore attonito: aveva avuto terrore e disgusto d’un essere che in realtà era sempre stato gentile con lei… e che comunque non era certo responsabile dell’aspetto che aveva.
Ormai la tensione era allentata, sotto le sue dita i muscoli erano morbidi, sciolti: – Signore, prova a muoverti… lentamente, non fare gesti bruschi.
Cauto, Hydargos spinse indietro le spalle, le alzò lasciandole ricadere, ruotò il collo: si sentiva un po’ indolenzito, ma il dolore che l’aveva paralizzato era scomparso. Quasi non riusciva a crederci.
In silenzio, Hydargos si voltò verso la sua schiava, tese una mano; istintivamente, Naida fece l’atto di proteggersi con il braccio, come se avesse temuto di venire picchiata. Ferito, Hydargos si tirò indietro: – T’ho mai maltrattata, io?
– No, signore! – Naida tremava, aveva paura d’averlo offeso – Tu sei sempre stato buono con me. Perdonami, io… io non avrei dovuto…
Il viso indurito di lui parve raddolcirsi; Hydargos le passò una mano sui capelli, e stavolta lei non si sottrasse alla sua ruvida carezza.
Per un attimo, lui rimase in silenzio a fissarla pensierosamente. Naida avrebbe potuto lasciarlo soffrire, sicura che in quelle condizioni lui non avrebbe certo potuto nuocerle; invece, aveva scelto di aiutarlo. Per la prima volta da che l’aveva presa con sé, lei gli si era avvicinata, l’aveva toccato spontaneamente… ma perché l’aveva fatto?
Naida alzò gli occhi e incontrò lo sguardo intenso e scrutatore di Hydargos; invece di sfuggirlo, lo sostenne.
Entrambi lo capirono, anche se confusamente: qualcosa tra di loro era cambiato.


E qualcosa era effettivamente cambiato, e più radicalmente di quanto entrambi si fossero resi conto.
Come moltissimi abitanti di Fleed, Naida aveva sempre considerato i veghiani come un popolo di mostri bellicosi, rozzi ed incivili; improvvisamente, ebbe coscienza di quanto il pregiudizio l’avesse accecata fin da subito.
Ora che aveva preso a considerare Hydargos come un uomo e non più come una sorta di belva, cominciava a notare in lui qualità di cui prima non aveva voluto rendersi conto.
Il fatto che il “mostro” amasse la musica, ad esempio: e non certo banali sciocchezze orecchiabili, beninteso. Hydargos aveva gusti ben più raffinati, e aveva anche una buona conoscenza in materia; quando lei aveva azzardato una domanda, lui le aveva risposto con la competenza del vero appassionato.
In più, nonostante fosse un uomo di poche parole, la sua conversazione non era certo quella grossolana di un ignorante: al contrario, Naida aveva intuito in lui una cultura ben più vasta di quanto avesse sospettato.
Il suo stesso alloggio, dall’arredamento sobrio ma elegante, decorato da un paio di pregevoli sculture, non era certo l’abitazione pacchiana di una persona grezza e di cattivo gusto.
Lentamente, Naida cominciò a guardare con occhi diversi il suo padrone: non era certo bello, ma il suo aspetto almeno non la disgustava più come un tempo. Non era né tenero né romantico, ma aveva sempre avuto cura di lei. Era cupo e poco loquace, ma non l’aveva mai trattata con disprezzo.
Quasi senza rendersene conto, Naida cominciò a mutare opinione su di lui, a considerarlo con rispetto e fiducia; e man mano che la sua considerazione per Hydargos aumentava, senza nemmeno rendersene conto Naida cominciava a sentir affievolire dentro di sé il suo disperato amore per Duke Fleed.
Da parte sua, anche Hydargos stava rapidamente rivedendo il suo giudizio su di lei.
Come ogni veghiano, aveva sempre considerato gli abitanti di Fleed come persone iperemotive, poco logiche, deboli nel fisico e nel carattere, anche se costituzionalmente affascinanti e dotati di naturale eleganza.
Aveva deciso di prendersi una schiava di Fleed, rassegnandosi ad avere quindi una creatura di bell’aspetto, ma fragile ed irragionevole.
L’aveva scelta attratto dalla sua bellezza, dal suo portamento aristocratico; ora si rendeva conto d’aver trovato molto, molto di più.
Un cervello, innanzitutto. Cultura. Buon carattere. Classe.
Ancora non riusciva a credere alla sua fortuna. Continuava a guardarla, incantato dalla sua avvenenza; provava una sorta di stupore nel vederla accanto a sé, nell’udirla parlare con quella sua voce dolce, nell’osservare i suoi movimenti eleganti, la sua grazia innata.
Ricordava ancora con un certo raccapriccio una schiava che aveva avuto in passato: bellissima, ma desolatamente idiota. Ridacchiava di continuo, piantava capricci su capricci e continuava a chiacchierare, inarrestabile. Oltretutto, aveva un’insopportabile voce nasale, tutta di testa, e pareva incapace di comprendere come lui, almeno mentre ascoltava musica, volesse un po’ di silenzio. Alla fine, esasperato, se n’era sbarazzato rivendendola ad un collega che, abbagliato dalla sua prosperosa bellezza, aveva sganciato senza fiatare praticamente una volta e mezza il suo valore.
Naida era tutt’altra cosa. L’aveva pagata cara, ma valeva tutta la somma spesa, fino all’ultimo centesimo.
A dire il vero, Hydargos cominciava a pensare che lei fosse stata il miglior affare della sua vita.

Capitolo 6 – Hydargos

Naida non si allontanava praticamente mai dall’alloggio del suo padrone; sulle prime, Hydargos non vi fece caso. Poi cominciò a dirle di uscire, di non rimanere sempre rinchiusa, di girare liberamente per la base; ma Naida aveva troppa paura.
– I soldati, mio signore – rispose alla domanda di lui.
– Non ti faranno niente – assicurò orgogliosamente Hydargos – Sanno che sei la mia schiava. Nessuno sarebbe così pazzo da mancare di rispetto alla donna del vicecomandante di Vega.
Nonostante le sue assicurazioni, Naida continuò a restare chiusa nel loro alloggio; ben presto, però, noia e solitudine divennero un problema serio.
Non più esausta com’era stata dopo la sua cattura, Naida non sentiva più la necessità di ore e ore di riposo: al contrario, avrebbe voluto avere qualcosa che la tenesse occupata, ma non sapeva che avrebbe potuto fare. Esaminò l’alloggio di Hydargos: soggiorno, camera da letto, bagno, uno studio privato. Ogni ambiente era perfettamente pulito e lucido, opera dei piccoli, efficientissimi robodomestici che si occupavano di mantenere l’ordine e l’igiene sulla base.
Non doveva nemmeno cucinare: i pasti venivano serviti dagli stessi robodomestici. Tutto quel che occorreva fare era ordinare le vivande che si desideravano.
Inquieta, in preda alla noia più totale, Naida non osava però manifestare il suo problema ad Hydargos, che naturalmente non si accorgeva di nulla: occupatissimo col suo lavoro, lui non si poneva certo la questione di cosa facesse lei in quelle interminabili ore solitarie. Quando tornava a casa lui voleva solo distrarsi, per cui non parlava nemmeno della giornata appena trascorsa, dei malumori di Gandal, delle sfuriate di Sua Maestà, delle sue preoccupazioni circa la riuscita della conquista della Terra. Quanto a Naida, sapeva benissimo che il compito di lui era invadere un nuovo pianeta, ed era ben felice di non conoscere i particolari: pur disprezzandosi, cercava d’ignorare che Hydargos, il suo padrone, avrebbe fatto distruggere un nuovo mondo com’era stato distrutto Fleed.
Alle volte, lei lo guardava di sottecchi, pensando che proprio quell’uomo che nel complesso con lei era abbastanza gentile, proprio lui avrebbe contribuito allo sterminio di una nuova popolazione… ma allora subito Naida si riscuoteva, obbligandosi a dimenticare.
Non devo pensarci, o non potrò più tollerare nemmeno che mi sfiori…
La noia e l’inattività, però, erano insopportabili.
Una sera, mentre era raggomitolata sul divano accanto a Hydargos, lei azzardò una domanda: sarebbe stato possibile avere magari qualcosa da leggere?
Sbalordimento totale di lui: non esisteva la zona ricreativa, per questo?
Naida sentì mancarle il fiato: – Zona ricreativa…?
– Certo! C’è di tutto: biblioteca, videoteca, un’intera banca dati che puoi consultare quanto e quando vuoi. Poi c’è la palestra…
– Ma io sono una schiava – mormorò Naida – Non so se posso andare.
– Sì, se ti autorizzo io. – s’accorse che in lei la paura era ancora più forte del desiderio e aggiunse: – Nessuno ti farà nulla.
– Sì, certo – mormorò lei, terrorizzata all’idea di uscire da quelle pareti così rassicuranti – Non so nemmeno dove sia, questa zona ricreativa.
Stavolta, Hydargos si drizzò a sedere e la guardò bene in viso: – Stai dicendomi che in tutto questo tempo non sei mai uscita da qui dentro?
Naida scosse il capo. No.
Lui ricadde contro lo schienale ed emise una sorta di sibilo esasperato.


Il giorno dopo non fu possibile discutere: Hydargos fu irremovibile, e Naida fu costretta ad uscire con lui dall’alloggio. Percorsero insieme i lunghi corridoi, presero la monorotaia che conduceva nelle aree più remote della base, poi ancora corridoi, l’ascensore… ovunque andassero, i soldati salutavano rispettosamente il loro superiore, limitandosi ad occhieggiare la meravigliosa ragazza che camminava al suo fianco; nessuno però si permise il minimo commento, la minima frase.
La zona ricreativa era nei sotterranei della base: composta da vari ambienti, comprendeva una palestra, varie camere per proiezioni olografiche, una biblioteca elettronica e una videoteca fornitissime, e una sala computer per poter accedere ai database. C’era anche un ampio salone di ritrovo, con tavoli e sedie in modo da poter pranzare in compagnia. Hydargos andò direttamente dalla responsabile, una donna alta e magra dal volto severo; quindi presentò Naida, dichiarando che le dava l’autorizzazione a frequentare l’intera zona.
Le narici della direttrice fremettero: – Volete anche che possa accedere ai database?
Fu proprio la sua disapprovazione a far decidere Hydargos: – Certo!
– Molto bene – il tono era “contento voi…”. Raccolti brevemente i dati di Naida, la donna porse poi ad Hydargos una tessera magnetica: – Dovrà presentarla ogni volta che verrà qui da noi.
Lui porse ostentatamente a Naida la tessera: – Tieni. È tua.
– Se doveste cambiare idea – insisté la direttrice, che non vedeva di buon occhio la prospettiva di quella schiava di Fleed in mezzo a videolibri, dischi e computer – basterà che mi mandiate anche una semplice comunicazione, e faremo subito annullare il permesso d’entrata.
– Non credo che succederà – rispose lui, conducendo Naida all’interno.
La donna li seguì con lo sguardo. Una schiava cui era permesso leggere, sentire musica, istruirsi… inconcepibile!


Dopo aver fatto visitare a Naida l’intera zona ricreativa, e dopo che lei ebbe chiesto timidamente un paio di dischi e un videolibro in prestito, lui la condusse verso l’ascensore per risalire ai piani superiori. Naida pensava che l’avrebbe riportata al loro alloggio, ma Hydargos prese una strada diversa, guidandola ad un secondo, altissimo ascensore, che portava sulla sommità della torre che dominava l’intera base. Una lunga salita, poi le porte si aprirono…
Stelle. Lo spazio infinito.
Naida arretrò, spaventata, mentre lui sogghignava della sua paura. Un’ampia cupola in plastivetro li riparava dal gelo dello spazio, ma in effetti l’illusione era perfetta: sembrava davvero di trovarsi all’esterno, in quel buio punteggiato di innumerevoli scintille di luce.
– Questo è l’osservatorio – spiegò Hydargos accennando con un ampio gesto al cielo stellato attorno a loro; ripreso coraggio, Naida si fece avanti, annichilita da quanto stava vedendo.
Era un pensiero banale, lo sapeva, ma era inevitabile… non avrebbe mai pensato che nello spazio ci fossero tante stelle.
L’osservatorio era una cupola a semisfera, costituita da un unico pezzo di plastivetro… o così almeno sembrava. In realtà, Naida sospettava che quelle pareti non fossero semplicemente materiale trasparente, ma fossero anche schermi su cui il computer principale potesse proiettare immagini. L’ascensore si apriva in una sorta di colonna esattamente nel centro, per cui era possibile una visione totale di quella parte di universo. La cupola non era illuminata, ma tuttavia al suo interno ci si vedeva abbastanza. Sorpresa, Naida si guardò attorno chiedendosi quale fosse la fonte della luce, e si accorse che una sezione della cupola era parzialmente oscurata per schermare i raggi di una grande stella gialla.
– I terrestri la chiamano Sole – spiegò Hydargos.
Naida si guardò attorno: – E… il pianeta? Dov’è?
– È esattamente dalla parte opposta. Vuoi vederlo?
Lei si scostò i capelli dal viso: – È possibile?
– Certo. Sull’altro lato di questo satellite abbiamo una sonda che ci trasmette immagini in tempo reale. Basta collegarsi – Hydargos andò alla colonna centrale, attivò un pannello e digitò una serie di comandi; in un attimo, le stelle scomparvero, ricomparendo un istante dopo… ma erano diverse, e disposte in altro modo. In mezzo a quelle minuscole luci era apparso qualcosa d’inaspettato: un gioiello azzurro, luminosissimo sul morbido fondo nero.
– Terra – disse Hydargos – È così che lo chiamano i suoi abitanti.
– È… meraviglioso…! – disse Naida, in un soffio.
– È bellissimo, sì – convenne lui, braccia conserte e occhi fissi su quello straordinario pianeta – Un mondo splendido. Peccato sia infestato da una razza arretrata ed incivile.
– Sia infest…? – Naida deglutì, riprese fiato – Non l’avete conquistato? Credevo…
– No, non l’abbiamo conquistato… non ancora. Quegli stupidi non sanno cosa li aspetta; se anche lo sapessero, non potrebbero certo contrastare le armate di Vega. Sono troppo primitivi anche solo per sperare di resisterci. Quel pianeta crollerà al primo assalto, vedrai.
– Ma noi siamo sul loro satellite… non si sono accorti della nostra presenza?
– Questo satellite… la Luna, come la chiamano loro… ha un lato che non è mai visibile dal pianeta; ovviamente, abbiamo costruito proprio qui la nostra base. I terrestri non sono evoluti, per loro un lancio nello spazio è un’impresa straordinaria. Non ci troveranno mai. Comunque, ormai è questione di poco tempo.
Naida rabbrividì: – In che senso?
– Questa base è operativa, ma non è completa. Dovremo ultimarla, prima di dare il via all’attacco.
– Oh…! – Naida si torse le mani: non poteva supplicare Hydargos di non dirle nulla, ma avrebbe preferito non sapere.
– In genere, non aspettiamo tanto prima di assalire un pianeta – continuò lui, imperturbabile – Un bombardamento a tappeto a suon di vegatrom, poi dischi e mostri completano lo sterminio. Ma stavolta è diverso.
Naida gemette, si morse le labbra per trattenere le lacrime.
Gli occhi fissi sulla Terra, Hydargos riprese: – Questo pianeta pare sia davvero straordinario. Il nostro Ministro delle Scienze ha chiesto di poterlo studiare con cura per poter decidere il tipo di attacco più adatto per eliminare quegli stupidi terrestri senza danneggiare l’ecosistema. Il fatto è che il vegatrom uccide ogni cosa, rendendo un pianeta completamente deserto…
– Come Fleed…! – singhiozzò lei.
– Esatto, come Fleed – continuò lui, senza accorgersi della disperazione della sua schiava – Sua Maestà Re Vega si è consigliato col Ministro delle Scienze e ha dato ordine di non distruggere la Terra. Ecco perché stiamo aspettando. Non appena avremo l’ordine, però, cominceremo a sterminare quegli inutili umani… che ti prende?
Naida s’asciugò in fretta le lacrime, si strinse le braccia attorno al corpo: – Ho… freddo.
– Va bene – Hydargos spense lo schermo, poi prese Naida per un braccio e la condusse fuori dell’osservatorio. Freddo! Non c’era assolutamente freddo, là dentro, ma naturalmente la visione dello spazio poteva dare strane sensazioni… com’erano impressionabili i fleediani!
Inghiottendo penosamente le lacrime, lei guardò di sotto in su il suo padrone: era così ottusamente insensibile… così… così veghiano…!


Frequentare la zona ricreativa cominciò per Naida a diventare un’abitudine: superati i primi timori – il bisogno di avere un’occupazione e socializzare la costrinse a vincersi – prese a recarvisi con assiduità.
Una volta superato l’ingresso in cui stazionava l’algida direttrice, per Naida si spalancavano finalmente le porte di un emozionante regno sconosciuto. Nella Sala Ricerche, seduta alla consolle del computer, Naida consultava i database cercando liberamente qualunque informazione le venisse in mente. Altre volte prendeva in prestito un olodisco e si recava in una delle camere olografiche, piccoli ambienti circolari con al centro una poltroncina girevole per lo spettatore. Inserito il disco nel proiettore che si trovava nel bracciolo della poltroncina, gli ologrammi a grandezza naturale le apparivano attorno trasportandola in qualsiasi mondo lei avesse scelto: documentari, spettacoli, concerti, commedie… la scelta era vastissima, e l’illusione di trovarsi nel mezzo dell’azione era praticamente perfetta.
Anche la palestra aveva la sua attrattiva: abituata su Fleed alle lunghe passeggiate e alle nuotate nel lago, Naida non mancava mai di andare a fare esercizio. Ricevute le direttive dalla sua istruttrice, cui si era rivolta per avere un programma completo ma vario di allenamento, Naida lavorava con impegno: il tempo che aveva trascorso praticamente inattiva al chiuso dell’alloggio di Hydargos le aveva lasciato un insopprimibile desiderio di movimento che doveva assolutamente soddisfare.
Ciò che invece le mancava, e molto, era la vita sociale.
Su Fleed aveva avuto un gran numero di amiche ed amici, e non aveva mai avuto il tempo di sentirsi sola, isolata; ma su Skarmoon la faccenda era completamente diversa.
Quanto le sarebbe piaciuto avere qualche amica con cui darsi un appuntamento, fare insieme ginnastica, vedere uno spettacolo, chiacchierare, ridere… ma sembrava che la cosa fosse impossibile. Tutti i suoi timidi tentativi di socializzare si scontravano contro un muro di glaciale cortesia, di garbato ma inequivocabile rifiuto. Naida, che all’inizio aveva temuto di venir fatta segno dell’attenzione di qualche importuno veghiano, si trovò invece ad avere il problema opposto: nonostante tutti i suoi sforzi, lei veniva sistematicamente e completamente ignorata.
Nessuno le rivolgeva la parola, nessuno rispondeva ai suoi timidi sorrisi, nessuno nemmeno la salutava se non era lei a farlo per prima; Naida all’inizio si disse che i veghiani erano un popolo molto chiuso per natura, e che magari, col tempo… ma alla fine, dovette ricredersi.
Sconfitta, delusa, si rinchiuse nuovamente per qualche giorno nell’alloggio di Hydargos, continuando a piangere la sua solitudine; ciò che la faceva soffrire maggiormente era il non capire il motivo di tanta ostilità nei suoi confronti.
Ebbe la risposta qualche giorno dopo, quando alla fine ritrovò il coraggio di uscire nuovamente – aveva bisogno di prendere in prestito qualche altro videolibro, non aveva più nulla da leggere. Naida tornò alla Sala Ricerche: voleva informarsi sulla condizione sociale degli schiavi di Vega per trovare la conferma ai suoi sospetti. E così infatti fu.
Le fu presto ben chiaro che uno schiavo era considerato davvero alla stregua d’un oggetto; ovviamente, non è possibile stringere legami d’amicizia con una semplice cosa. In più, c’era da considerare l’istintiva, atavica scarsa considerazione che i veghiani nutrivano per chiunque non appartenesse al loro popolo: guerrieri e predatori, tendevano a considerare le altre razze deboli ed imbelli, perciò meritevoli del massimo disprezzo.
Dunque, la sua duplice condizione di schiava e di non appartenente alla razza di Vega le rendeva impossibile qualsiasi rapporto sociale. Il fatto poi di essere la donna del Vicecomandante in capo era un ulteriore ostacolo. In più, questo lo comprese da sola, la sua straordinaria bellezza la destinava a destare la tacita ammirazione degli uomini e di conseguenza l’invidia e l’odio delle donne.
Naida serrò le labbra spegnendo rabbiosamente il computer: le era evidente che solo qualche altra prigioniera avrebbe potuto fare amicizia con lei; disgraziatamente, da che si trovava su Skarmoon non aveva mai incontrato alcuno schiavo. Fleed era stato conquistato ormai da un paio d’anni, e i prigionieri difficilmente sopravvivevano così a lungo: non per nulla, i veghiani non erano certo famosi per essere padroni gentili.
L’unico essere con cui poteva avere un minimo di contatto umano, assurdo a dirsi, era proprio Hydargos; fu così che lei, proprio lei che all’inizio aveva atteso con terrore il rientro a casa del suo padrone, si ritrovava ad osservare con impazienza l’orologio per vedere quando lui sarebbe tornato.
Per quanto fosse decisamente chiuso e poco incline alle chiacchiere, la sua presenza stava diventando sempre più importante per lei, che gli raccontava cosa aveva fatto, che cosa aveva letto, che cosa aveva visto; Hydargos, che non desiderava altro che dimenticare le seccature della giornata, i rimbrotti di Gandal, le invidie dei sottoposti, i mille problemi quotidiani, la ascoltava con attenzione commentando di tanto in tanto con qualche monosillabo, alle volte persino con una mezza frase. Quando poi sedevano entrambi nella penombra, ascoltando un concerto o più raramente vedendo uno spettacolo olografico – in genere Hydargos preferiva rilassarsi con la musica – lei, affamata d’un minimo di attenzione, di calore umano, si rannicchiava contro il suo oscuro, taciturno compagno. La prima volta in cui aveva osato prendersi una simile confidenza, Naida aveva temuto che lui l’avrebbe allontanata in malo modo, seccato per la sua intrusione; ma così non era stato. Hydargos non era certo tipo da indulgere in coccole e tenerezze, tutt’altro; ma non l’aveva neanche mai respinta, e mai aveva manifestato fastidio per quel suo disperato bisogno di affetto.
Da parte sua, uomo semplice e pochissimo portato all’introspezione, Hydargos non aveva mai capito la solitudine che affliggeva Naida; lei era di Fleed, apparteneva ad un popolo che come qualsiasi altro veghiano lui considerava ipersensibile ed assurdamente sentimentale, per cui gli pareva ovvio che lei mostrasse qualche bislacco atteggiamento che era solo da considerarsi un’innocua stramberia. Stranamente, non ne era disturbato, per cui da quel padrone comprensivo che sapeva di essere la lasciava fare: se lei proprio aveva bisogno di stargli addosso, bene, che lo facesse pure.
A lui non importava.


Fu sempre in quel periodo che Naida si rese conto di un nuovo problema che la riguardava: abituata com’era alla vita all’aria aperta, a contatto di piante ed animali, in quell’ambiente artificiale, asettico, si sentiva appassire poco per volta.
Da principio, Naida non volle dar peso alla cosa: era già stata incredibilmente fortunata ad aver trovato un padrone come Hydargos che non le faceva mancare nulla. Come poteva pretendere di più, quando milioni di altri abitanti di Fleed erano imprigionati, torturati, uccisi?
S’impose dunque di reprimere quei pensieri, i ricordi dei bellissimi paesaggi di Fleed, i giardini, i fiori: era viva e trattata bene, non era già abbastanza?
Continuò perciò a vivere la sua vita quotidiana sforzandosi di non pensare; purtroppo per lei, ogni giorno aveva troppe, lunghissime ore di solitudine che la esponevano ai pensieri più neri. I ricordi divennero ossessione, e Naida cominciò a temere di divenire pazza. Quelle pareti metalliche, la plastica, l’aria condizionata, la pulizia asettica, l’odore di disinfettante la stavano facendo uscir di senno: se solo avesse avuto con sé qualcosa di naturale, di vivo…! Cosa non avrebbe dato per avere un cucciolo da vezzeggiare, una bestiola che le facesse compagnia durante le ore in cui era sola!
Una sera in cui Hydargos le parve d’umore meno ombroso del normale, mentre erano entrambi seduti sul divano del soggiorno ad ascoltare musica, Naida chiese se su Vega si usasse tenere animaletti da compagnia.
Lo stupore di lui fu a dir poco enorme: animali… in casa?
Ma sì, su Fleed avevano l’abitudine di allevare cuccioli, uccellini, pesci…
Hydargos era sempre più stupefatto: tenere bestie che sporcano, seminano peli, hanno bisogno di cure? Ma per farne che?
Con la voce che le tremava, Naida tentò di spiegarsi: perché facevano compagnia… il rapporto con un animale è qualcosa di unico, di grandissimo affetto… perché…
Hydargos non rispose, limitandosi a scuotere il capo. Era evidente che se prima la sua opinione di Fleed era scarsa, adesso era decisamente diminuita.
Naida respinse le lacrime e non parlò più; ma dentro di sé il tormento continuava a roderla. Cercò di superare la delusione che continuava a bruciare: continuò a ripetersi di accontentarsi di quanto aveva, ma fu inutile. Chiusa in quell’alloggio all’interno di una base, Naida si sentiva soffocare. Riprese a piangere come le accadeva soprattutto i primi tempi, quando non si era rassegnata alla sua nuova esistenza e Hydargos la terrorizzava ancora; divenne pallida e iniziò a smagrire, mentre gli occhi cominciavano ad arrossarlesi facilmente.
Spaventata, una mattina Naida si osservò attentamente allo specchio: non aveva proprio un bell’aspetto. Hydargos avrebbe potuto trovarla brutta… e se si fosse stancato di lei? Cosa le avrebbe fatto? Era il suo padrone, aveva il diritto di torturarla, ucciderla… o peggio, rimandarla in quell’orrenda prigione, in balia delle guardie.
Naida rifletté febbrilmente: aveva bisogno di vedere un po’ di natura, qualcosa di vivo… forse, se avesse potuto coltivare qualche pianta… avere un fiore…
L’occasione di parlarne si presentò quella stessa sera. Hydargos appariva di buon umore: la costruzione della base era a buon punto, il Comandante Supremo Gandal gli aveva manifestato il suo compiacimento. Con gioia, Naida s’accorse che lui appariva meno cupo, più disteso; gli servì per cena un paio dei suoi piatti preferiti, scelse un disco di musica che lui amava particolarmente e gli si accoccolò accanto sul divano, rannicchiandosi nell’incavo del suo braccio. Poi, come per caso lasciò cadere la domanda: su Vega si coltivavano piante?
– Ma certo – rispose lui – Abbiamo serre intere. Frutta, cereali, ortaggi, piante medicinali…
– E fiori? – chiese Naida.
– Fiori? – sorpreso, Hydargos si sporse in avanti per poterla guardare in viso – I fiori non si mangiano! Perché dovremmo coltivarli?
– Perché sono belli – mormorò lei.
Hydargos parve considerare la cosa, ma la sua razionale mentalità veghiana non vedeva alcuna utilità nello sprecare tempo e lavoro per qualcosa che è semplicemente bello. Mah…
Guardò Naida: anche lei era bella. Anche lei gli era costata in termini di tempo e denaro… e ne era contento.
E se… forse…?
– …Fiori…? – ripeté, poco convinto – Li coltivavate, su Fleed?
– Avevamo interi giardini – rispose lei, la voce ridotta ad un soffio. Niente… non era riuscita a niente… lui non capiva. Non avrebbe mai capito.
Hydargos le gettò uno sguardo indagatore: notò il viso affilato, gli occhi bassi, il tremito delle labbra. Tornò ad appoggiarsi allo schienale del divano e non disse nulla, mentre accanto a lui Naida inghiottiva silenziosamente le lacrime.
Un paio di giorni dopo Hydargos rincasò portando un grande recipiente in plastivetro che senza tanti complimenti cacciò in mano a Naida: – Per te.
Era un cilindro pieno d’un liquido che sembrava acqua… dentro c’era un oggetto scuro, grosso come un pugno con una sorta di germoglio verdissimo che spuntava sulla superficie…
Un bulbo.
Senza fiato, Naida passò con lo sguardo alternativamente dal bulbo ad Hydargos: avrebbe voluto gridare dalla gioia, ma si sentiva la gola serrata, chiusa.
– Beh? Non ti piace? – borbottò lui, ruvido.
In silenzio, Naida depose con ogni precauzione il contenitore del bulbo sul tavolo; poi s’avvicinò ad Hydargos e gli gettò le braccia al collo.


Chiuso nel proprio ufficio privato, ogni giorno Hydargos sedeva per ore al suo computer, inviando ordini, leggendo rapporti, consultando il database, esaminando le ultime novità tecnologiche segnalategli dagli scienziati specialisti in armamenti.
Naida aveva l’ordine tassativo di non disturbarlo mai, finché lui lavorava nel suo studio, e lei vi si atteneva scrupolosamente. L’unica eccezione era la tazza di ween, l’infuso che gli portava sempre a metà pomeriggio: era una bevanda calda e forte, piuttosto aromatica, che su Vega era molto apprezzata. Naida scivolava silenziosamente nella stanza, deponeva la tazza fumante sulla scrivania e s’allontanava sempre senza far rumore; Hydargos in genere non alzava nemmeno gli occhi dal monitor.
Quel giorno, proprio mentre Naida stava per posare la tazza sul tavolo, Hydargos infranse le regole tirando indietro la poltroncina in modo da poter stirare la schiena, e rivolgendole direttamente la parola: – Domani devo andare ad ispezionare i quadranti cinque e sei, dove stiamo costruendo l’ampliamento della sezione scientifica. Ti piacerebbe venire?
La tazza traballò, e miracolosamente Naida la depose integra e colma sulla scrivania: lui le aveva parlato! Non solo, le aveva chiesto – non ordinato! – se desiderava accompagnarlo.
Senza fiato, Naida rigettò indietro una ciocca di capelli: – Io… io sì, signore. Mi piacerebbe molto.
– Perfetto – bevuto un sorso di ween, Hydargos s’immerse nuovamente nel suo lavoro.
Ancora stupefatta, Naida uscì dallo studio, chiedendosi nervosamente cosa gli fosse preso: mai prima d’allora lui l’aveva portata con sé quando aveva dovuto spostarsi per lavoro. Cercò una possibile spiegazione, ma non trovò risposta.
Il giorno dopo si fece trovare subito pronta. Lo seguì per i corridoi, poi sulla monorotaia; infine salirono con l’ascensore fino agli hangar. Hydargos si pose ai comandi di un disco e fece segno a Naida di sedersi accanto a lui, nel sedile del secondo pilota: il pannello di controllo era ovviamente disattivato, ma da lì lei avrebbe goduto una vista migliore che dai sedili destinati ai passeggeri.
Hydargos fece partire il disco e puntò direttamente sul quadrante che l’interessava, a breve distanza dalla base. Sorvolò la zona: sotto di loro, dalla polvere grigia emergeva l’impalcatura di una grande costruzione. Dall’alto, era possibile capire che la struttura sprofondava di parecchio sottoterra.
– Qui verranno costruiti i nuovi mostri – spiegò Hydargos alla domanda che Naida non aveva osato fare.
Mostri per assalire il pianeta azzurro… Naida represse un brivido – È… molto grande, signore.
Sembra – corresse Hydargos, con un ghigno – In realtà, per quanto spazio tu dia agli scienziati, prima o poi si lamenteranno di non aver posto sufficiente per testare i loro macchinari.
Impressionata, Naida si limitò ad assentire, gli occhi fissi sull’immensa costruzione.
Hydargos fece girare il disco attorno alla struttura, lesse i dati che gli si avvicendavano sul display e grugnì, soddisfatto. Contattò il capo della squadra di costruzione, s’informò sull’andamento dei lavori, scambiò qualche altra frase cui Naida non fece minimamente caso; quando chiuse la comunicazione, improvvisamente lei si rese conto che l’ispezione era finita, e che ora sarebbero dovuti tornare nella base, alla vita di sempre. Un improvviso senso di tristezza la colse.
– Signore, hai già finito? – chiese, impulsivamente.
Lui le scoccò un’occhiata: – Ho finito, sì.
Naida tacque, limitandosi ad un leggero sospiro.
– Ho anche terminato il mio turno di lavoro – continuò Hydargos, impassibile – Ti va di dare un’occhiata a questo satellite?
– Ma… possiamo? – chiese lei – Pensavo dovessi tornare subito…
– Adesso sono libero. Vuoi fare un giro, o no?
Naida sentì mancarle il fiato dall’emozione: – Certo! Voglio dire… mi piacerebbe molto, signore.
Hydargos rimase imperturbabile, ma un bagliore parve illuminargli lo sguardo: evidentemente, la spontaneità di lei l’aveva divertito. Puntò il disco verso l’alto, uscendo dall’immenso cratere che ospitava Skarmoon, e prese a sorvolare la superficie lunare mentre accanto a lui Naida sembrava incapace di staccare gli occhi dalle sue mani strette sulle cloches.
Hydargos scorse lo sguardo di lei fisso sulla sua postazione, più che sul paesaggio lunare: – Sei capace di pilotare una nave?
– Solo un poco, signore – rispose lei, che stava riconoscendo man mano i vari indicatori del quadro comandi – Su Fleed stavo appunto seguendo un corso per imparare, quando… – s’interruppe, glissando sul “ci avete assaliti”; per fortuna, lui non parve farvi caso.
– Prendi le cloches – disse inaspettatamente Hydargos.
– Cosa? – stavolta lo stupore era troppo perché lei potesse celarlo.
– Ma sì, prendi le cloches – Hydargos attivò i comandi del secondo pilota; vide che lei lo fissava, gli occhi dilatati dallo stupore, e aggiunse, ruvido: – Vuoi imparare a pilotare, sì o no?
Ma certo che voleva! Naida s’affrettò ad obbedire, ascoltando poi attentamente le spiegazioni di lui.
Tutto sommato, non aveva dimenticato quanto aveva appreso durante il corso, e per sua fortuna i comandi della nave di Vega non erano molto diversi da quelli dei mezzi di Fleed: non per nulla, gli scienziati di entrambi i pianeti avevano collaborato a lungo per creare astronavi sempre più perfezionate… e Goldrake era stato l’ultimo e più brillante risultato di quella cooperazione. Ma ora non voleva pensare a Goldrake… e nemmeno a Duke.
Seguendo le indicazioni di Hydargos, pilotò il disco sorvolando con perizia il suolo lunare: pilotare le piaceva molto e stava imparando in fretta, questo lo capì da sé anche se lui non era certo un maestro facile ai complimenti.
Da parte sua, Hydargos si rese conto subito dell’abilità della sua allieva. Era un insegnante scrupoloso, per cui non trascurò nulla, spiegandole dettagliatamente ogni particolare ed osservando con approvazione i rapidi progressi di lei. Alla fine, le lasciò interamente il comando: anche se non conosceva ancora bene le manovre d’attracco, lei era in grado di guidare la nave sulla superficie lunare. Hydargos si rilassò contro lo schienale della sua poltrona, lasciando scorrere lo sguardo su quel panorama grigio argento; quel vagare senza meta e soprattutto la tranquilla, silenziosa presenza di Naida avevano avuto un effetto calmante su di lui, che finalmente lontano dai suoi crucci quotidiani aveva l’impressione di riuscire a distendersi, a dimenticare.
Dover tornare fu una necessità sgradevole per entrambi, che avevano tratto beneficio ciascuno della tranquilla presenza dell’altro.
Ripiegarono verso Skarmoon; solo allora Hydargos riprese i comandi, lei non era ancora in grado di effettuare manovre delicate come il rientro.
Fu lui a riportare il disco nell’hangar, mentre Naida osservava attentamente ogni sua mossa senza perdere un movimento. Quando finalmente spense il quadro comandi del disco, Hydargos si volse a guardare Naida: aveva le guance arrossate dall’emozione, gli occhi brillanti. Gli parve bellissima.
Ovviamente, non poteva dirglielo. Che figura avrebbe fatto, altrimenti?
– Su, andiamo – si alzò dalla postazione, e lei gli tenne subito dietro.
Mentre con l’ascensore raggiungevano i piani inferiori, lui le disse in tono casuale che per il momento non avrebbe dovuto più compiere ispezioni; mentre il viso di lei pareva allungarsi, Hydargos aggiunse con noncuranza che l’indomani nel suo tempo libero le avrebbe dato un’altra lezione di volo.
I portelli chiusi dell’ascensore li riparavano da orecchie e sguardi indiscreti, e nessuno a parte lui udì il grido di gioia di Naida.


Nei giorni successivi presero l’abitudine di uscire regolarmente con un disco; dopo un rapido controllo pro-forma ai quadranti in cui veniva edificato l’ampliamento della zona scientifica, Hydargos trasferiva il comando a Naida, che sorvolava il suolo lunare, ora alzandosi sopra le montagne ora abbassandosi fin quasi a sollevare la polvere grigia.
All’inizio lui la controllava, fornendole qualsiasi indicazione che le fosse necessaria; ben presto vide che Naida aveva imparato, e imparato bene. Allora Hydargos si allungava contro lo schienale della poltroncina, facendo scorrere lo sguardo sul paesaggio lunare e lasciando fluire la tensione che aveva accumulato nel corso della giornata: uscire dalla base, allontanarsi per un poco da tutte le seccature e avere accanto a sé la presenza discreta di lei era una sorta di balsamo ristoratore.
Dal canto suo, Naida si chiedeva come mai lui le avesse insegnato a pilotare il disco: lei non avrebbe potuto usare le sue conoscenze per fuggire?
Sì, ma per fuggire dove?
Sulla Terra, forse? Un pianeta che Vega aveva condannato e che presto si sarebbe trasformato in un inferno come Fleed?
Naida sorrise, amara. Non era stato per fiducia in lei che Hydargos le aveva permesso di acquisire quella conoscenza: sapeva bene che lui, ombroso e diffidente com’era, non era certo uomo da abbassare la guardia.
No, quella di lui era stata una sorta di prova di forza: sapeva che lei non sarebbe scappata, sapeva di non correre alcun rischio. Era lo stesso motivo per cui le aveva permesso di accedere ai computer.
Lei non costituiva un pericolo, e lui lo sapeva bene.
Quando rientravano, era sempre lei a compiere le manovre di attracco, che ormai aveva imparato ad eseguire alla perfezione; Hydargos non diceva nulla, ma la guardava con approvazione, il viso ombroso che pareva finalmente rischiararsi. Naida si voltava verso di lui, sperando in una frase, almeno una parola: Hydargos allora esitava un attimo, quasi avesse avuto qualcosa da dirle, e poi regolarmente s’alzava brontolando che era ora di tornare a casa.
E la parola non veniva mai detta.


Capitolo 7 – Sirius

Il bisogno di sapere esplose in lei improvviso ed impellente. Prima d’allora, aveva sempre voluto ignorare cosa fosse successo alle persone che aveva amato, cullandosi in assurde speranze, in sogni senza consistenza.
Ora era arrivato il momento di conoscere la verità; per prima cosa, Naida ne parlò con Hydargos, che naturalmente non vide di buon occhio la cosa.
– Non vedo perché tu debba cercare notizie – sbottò infatti.
– Ti prego, signore – Naida aveva le lacrime agli occhi – È la mia famiglia… io devo sapere!
– Non scoprirai niente di piacevole; lo sai, questo?
– Lo so… ma non sapere è molto peggio.
Hydargos sbuffò: – E va bene, piccola. Fai come credi. Io ti ho avvertita.
– Grazie, signore! – Naida fece per precipitarsi alla porta, ma lui la trattenne: – Un’ultima cosa…
Naida attese, mentre lui taceva.
– …Sì? – lo incoraggiò lei.
Lui esitò un ultimo istante; poi, di colpo, esclamò d’un fiato: – Preparati a trovare il peggio del peggio.


Col cuore che le batteva furiosamente nel petto, Naida rimase incerta, le dita sulla tastiera. Sapeva che il computer le avrebbe dato tutte le risposte, ma ora non era più certa di volerle sentire… ricacciò indietro il nome di Sirius, che le si era presentato per primo alla mente, e decise di provare con qualcuno che conosceva ma che non le era altrettanto caro.
Formò il nome della regina di Fleed: deceduta. C’era ad aspettarselo…
Naida serrò le labbra: fin dall’inizio aveva saputo che non sarebbe stato piacevole venire a sapere che ne era stato delle persone che amava; eppure, l’incertezza era infinitamente peggio.
Compose il nome del re di Fleed: deceduto. Esitò ripensando a Duke: era scomparso nello spazio con Goldrake, era inutile soffrire vedendo apparire sullo schermo quel che già sapeva… passò a Maria. Scomparsa, presumibilmente deceduta.
Naida ricacciò indietro le lacrime: doveva continuare.
Sirius…?
No. Non ancora. Non sono pronta.
Digitò altri nomi: le sue amiche, i domestici che avevano lavorato nel suo palazzo, i parenti, tutti i conoscenti che le vennero in mente, dal segretario personale di suo padre alla terapista che veniva a fare i massaggi alle membra doloranti della nonna… erano tutti morti, tutti…
Naida s’asciugò gli occhi, mentre continuava a scorrere quell’interminabile fila di nomi, tutti seguiti da quell’unica, spietata parola… deceduto.
Possibile che sia sopravvissuta solo io?
Incredula, tornò a ripercorrere la lista. Accanto al nome, era brevemente scritto quello che era stato il destino di ognuno: alcuni erano stati uccisi subito, altri erano morti dopo una prigionia più o meno lunga.
Man mano che leggeva, si sentiva il petto oppresso, il respiro mozzarsi; ma continuò. Aveva pianto tanto per l’angoscia di non sapere, che ormai sentiva che avrebbe potuto affrontare qualsiasi verità, anche la più orribile.
Ripercorse da capo l’intera lista, cercando di rileggere ogni nota per avere un chiaro quadro della situazione.
Una buona metà di quelle persone era morta subito, durante l’assalto di Fleed; moltissime altre erano state uccise nel corso del loro primo anno di prigionia. Dopo tre anni, nessuno di loro era ancora vivo.
Naida scorse ancora l’elenco delle sue amiche: alcune avevano avuto un destino simile al suo ed erano divenute schiave di qualche veghiano. Parecchie di loro erano morte dopo breve tempo, altre erano state cedute… evidentemente, quando i maltrattamenti avevano fatto sfiorire la loro bellezza, i loro padroni si erano disfatti di quelle creature per loro ormai inutili.
Disperata, Naida continuò a digitare nomi, ricevendone in risposta quella spaventosa parola… deceduto. Continuò e continuò a farlo, fino a quando ad una sua precisa richiesta non comparve tutt’altro risultato.
Incredula, scorse di nuovo il testo: aveva digitato il nome di Markus, il migliore amico di Duke; con stupore, lesse che era vivo, e libero.
“Condizionamento mentale permanente… comandante in capo…”
Sentendosi girare la testa, Naida si coprì gli occhi.
Dunque, Markus era vivo: per qualche motivo era stato risparmiato, e costretto a servire Vega. “Condizionamento mentale”: Naida ne aveva sentito parlare. Le era stato spiegato che i veghiani erano capaci di distorcere la mente del più forte e volitivo degli uomini, trasformandolo in un burattino obbediente: era quel che doveva essere successo proprio a Markus.
Con una stretta al cuore, Naida rammentò il bel giovane dai capelli biondi, il viso fiero, gli occhi dallo sguardo d’acciaio: pure lui era stato piegato dai veghiani! Allora, era vero: se Duke fosse stato catturato non ci sarebbe stata speranza, sarebbe stato ridotto in schiavitù anche lui… o sarebbe morto nel tentativo di opporsi. Non c’era speranza di salvarsi da Vega, dunque. Il re di Fleed era stato saggio a farlo fuggire.
E Sirius? Che ne era stato di lui?
Naida si morse le mani per non urlare: aveva troppa paura di sapere che ne era stato del suo fratellino… troppa… ma doveva farlo. Non ne poteva più di raccontarsi storie, illudersi che Sirius fosse stato comperato da un padrone buono e gentile, o magari che fosse stato adottato da una coppia senza figli… doveva sapere.
Fece per inserire il nome del fratello nel motore di ricerca, ma si arrestò.
Non era sicura di poter reggere: la verità avrebbe potuto essere spaventosa.
Possibile che i veghiani potessero aver fatto del male ad un bambino? Un bambino bello ed intelligente come Sirius?
Forse hanno trattato bene i bambini, si disse Naida. Molti veghiani sono sterili per colpa dell’inquinamento del loro pianeta: per loro, i bambini devono essere preziosi. Non possono aver fatto loro del male.
Esitò ancora, non avendo il cuore di inserire il nome di Sirius.
Forse, prima di Sirius sarebbe stato meglio sapere che ne era stato di qualche altro bambino… per prepararsi alla verità, qualunque fosse.
Naida rifletté febbrilmente. Non c’era stato quell’amichetto di Maria, quel bimbo che aveva circa l’età di Sirius? Come si chiamava? Kein, già.
Lo ricordava bene: magro, un gran ciuffo di capelli azzurri, un ragazzino coraggioso e con l’argento vivo addosso. Messi assieme, lui e Maria avevano dato parecchio filo da torcere alle loro governanti… vivacissimi, incontenibili, due veri terremoti.
Naida compose il nome; con suo grande stupore, invece della semplice parola “deceduto” seguita da poche, scarne righe, il nome di Kein aveva fatto apparire parecchio testo.
Lesse con apprensione… era ancora vivo.
Naida dovette rileggere più volte quelle parole… era vivo! Non l’avevano ucciso… allora era vero, i bambini venivano risparmiati… allora, anche Sirius…
S’impose di calmarsi: una cosa per volta. Adesso avrebbe letto che ne era stato di Kein. Poi sarebbe toccato a Sirius.
Scorse rapidamente le righe: catturato, era stato acquistato dal Ministro delle Scienze Zuril. Iscritto all’Accademia Militare…
Naida si riscosse: uno schiavo all’Accademia? Possibile? Allora, non solo lei aveva avuto la fortuna di aver trovato un buon padrone!
Sollevata, felice, riprese a leggere: era riportato un elenco completo dei successi che Kein aveva ottenuto nei suoi studi. Era evidente che si era davvero fatto onore, visto che gli era stato conferito il premio quale miglior studente del suo corso e che aveva sostenuto l’esame finale col massimo dei voti. Il suo padrone doveva essere stato contento di lui.
E contento, quel tal Zuril doveva esserlo davvero: terminato il ciclo di studi, Kein era stato affrancato dalla schiavitù. Naida dovette leggere più volte quella parola: affrancato… quindi, era possibile riacquistare la propria libertà, e Kein c’era riuscito!
Stavolta le lacrime che le salirono agli occhi furono di gioia, ma Naida respinse anche quelle: non aveva ancora finito di leggere.
Scorse rapidamente le ultime righe: libero, Kein era sotto la tutela di Zuril, che si sarebbe occupato di lui fino a che non avesse raggiunto la maggiore età. Attualmente, grazie ai suoi brillantissimi risultati il ragazzo frequentava con grande profitto il corso superiore per allievi ufficiali.
Naida ricadde contro lo schienale della sua poltroncina: Kein vivo, libero e con davanti a sé una carriera che si prospettava a dir poco promettente… non poteva crederci!
Esultante, piena di speranza, si decise e digitò il nome del fratello.
Poche righe… quell’orrenda parola…
NO! NO! NO!
Deceduto… esperimento… espianto e conservazione dell’encefalo…
Inorridita, incredula, Naida lesse e rilesse quel che era stato il destino del fratello: “Al momento della cattura presentava fratture multiple alle costole. Impiegato per testare l’efficacia di farmaci contro l’effetto di radiazioni vegatrom. Regolarmente deceduto nel corso dell’esperimento. Encefalo espiantato e conservato per utilizzazioni future”.


Le porte si chiusero dietro di lui. Finalmente a casa.
Sorpreso, Hydargos si guardò attorno: Naida veniva sempre ad accoglierlo sulla porta. Per la prima volta, non gli era andata incontro. Strano.
Non era nel soggiorno. Diede un’occhiata al bagno, ma era deserto.
Andò alla camera da letto: buio.
Un sospiro, un lieve singhiozzo… era là.
Inquieto, Hydargos entrò, scrutando nell’oscurità. Intravide una figura gettata bocconi sul letto, le spalle scosse dai singulti, i lunghi capelli che le nascondevano il viso.
– Che ti succede? – si fece avanti, si chinò su di lei – Ti senti male?
Naida emise un suono inarticolato. No.
– E allora cos’hai?
– Sirius – articolò lei – Mio fratello…
Hydargos trasalì, parve impietrirsi: – Sì?
– È morto! – e Naida scoppiò in un pianto dirotto.
C’era da immaginarselo, si disse lui.
Sedette sul letto accanto a lei, incerto sul da farsi. Avrebbe voluto far cessare quella crisi di dolore, ma si sentiva totalmente impotente.
– Te l’avevo detto, di non cercare nulla – fu tutto ciò che riuscì a dirle.
– Io… dovevo sapere! – singhiozzò Naida.
D’istinto, lui allungò una mano, come per farle una carezza, ma si riprese. Era impazzito? Cos’erano quelle smancerie?
– Avresti dovuto ascoltarmi – brontolò, dita intrecciate e gomiti puntati sulle ginocchia.
– Un… esperimento scientifico! – esclamò lei, inorridita – Hanno ucciso Sirius per un… un…
– Avrebbe potuto andargli peggio, credimi.
– Era solo un bambino! Un bambino! Come hanno potuto, quei mostri…?
Fanno esperimenti anche sui neonati, non è certo davanti ad un bambino che si formalizzano, pensò Hydargos; ma, per quanto non fosse certo un uomo sensibile, persino lui comprese che fosse meglio tacerglielo.
– È morto…! – spossata, Naida ricadde sul guanciale – Sirius è morto…
Meglio così, si disse Hydargos. Se era tuo fratello doveva essere un bel bambino; meglio finire come cavia, piuttosto che gettato in pasto ai soldati. O come giocattolino di qualche ufficiale, se è per questo.
Naida gemette, si agitò lievemente.
Per quanto, continuò tra sé Hydargos, con la fama che hanno certi nostri scienziati… non mi meraviglierei se prima di usarlo per l’esperimento, qualcuno non l’avesse utilizzato per qualcos’altro. Non lo sapremo mai. Ad ogni modo, è finita. Meglio così.
Naida sospirò: aveva pianto fino a sfinirsi, e senza accorgersene era scivolata nel sonno.
Hydargos la guardò un istante, prima di alzarsi. Le sfiorò un braccio: freddo come il marmo. Incerto, esitò spostando il peso da un piede all’altro, chiedendosi confusamente cosa sarebbe stato meglio fare; poi pensò bene di togliersi il mantello e, con un gesto goffo, glielo gettò addosso. Naida vi si rannicchiò con un mugolio soddisfatto.
Senza far rumore, lui scivolò fuori dalla stanza.


--continua--

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Edited by isotta72 - 10/6/2010, 10:26
 
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Capitolo 8 – Guerra
L’inizio dell’assalto alla Terra coincise con un incupimento di Hydargos, che divenne ancora più ombroso; all’inizio, Naida pensò che fosse preoccupato, schiacciato dalla sua stessa responsabilità. Il tempo però passava e lui sembrava farsi sempre più chiuso e nervoso, per cui le fu evidente che qualcosa non stava andando per il verso giusto; ma cosa fosse quel “qualcosa”, non fu certo lui a dirglielo. Né lei si azzardò a domandare.
Pensare che tempo prima lui le aveva prospettato la conquista della Terra come un’impresa facile e veloce…
Ogni sera Hydargos tornava a casa sempre di cattivo umore; dapprima, Naida aveva temuto che avrebbe sfogato su di lei il suo nervosismo, ma fortunatamente non fu così. Lui non voleva altro che distrarsi, dimenticare le preoccupazioni quotidiane; le attenzioni di lei, le sue chiacchiere, il suo raccontargli come aveva passato la giornata lo aiutavano a distendersi, ricordandogli che l’esistenza non era fatta solo di insuccessi e dei rimbrotti dei superiori.
Tuttavia, nonostante la forzata allegria di Naida, per Hydargos le cose andavano sempre peggio. Partiva alla mattina rinfrancato e grintoso, tornava da lei silenzioso e cupo. Cominciò a mangiare di meno, e la notte era costretto a prendere un rilassante per poter dormire. I rimproveri di Gandal, gli insulti di Re Vega, il timore di perdere in autorevolezza davanti ai suoi uomini, tutto contribuiva ad avvelenargli l’esistenza, a privarlo della lucidità che gli sarebbe stata necessaria; ma era un comandante di Vega, gli ostacoli per lui avrebbero dovuto essergli da stimolo.
Disgraziatamente, non era così: il tempo passava, e lui stava sempre peggio.
Naida lo guardava con apprensione: lo vedeva deperire, prima o poi se avesse continuato così si sarebbe ammalato.
Una sera, non appena lei gli andò incontro lo vide con una luce strana negli occhi; quando lui la baciò, Naida avvertì un forte odore di liquore.
Aveva bevuto, era evidente… col cuore stretto dall’angoscia, Naida si sforzò di mostrarsi allegra come sempre, ma intanto lo teneva d’occhio: non sapeva cosa aspettarsi da lui, quale effetto l’alcool avrebbe potuto avere. Se Hydargos si fosse trasformato in un bruto violento, lei non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno, e nessuno avrebbe mosso un dito per difenderla.
Da parte sua, Hydargos percepì chiaramente il suo timore; avrebbe voluto rassicurarla, spiegarle che mai si sarebbe ridotto a perdere il controllo, ma naturalmente non poteva farlo. Nessun padrone può umiliarsi tenendo un simile discorso alla sua schiava.
Nei giorni successivi, le cose continuarono come erano cominciate: Hydargos beveva, e beveva forte, ma il suo fisico reggeva benissimo il liquore; orgoglioso com’era, e terrorizzato all’idea del ridicolo, lui era poi capace di comprendere quando fermarsi, quando smettere. Nonostante tutto, riusciva a mantenere il dominio di sé, anche se una volta alticcio era più facile allo scatto di collera, al momento d’ira.
Prese a rincasare più tardi: in preda ai fumi dell’alcool, preferiva passeggiare a lungo nelle zone più deserte di Skarmoon, in attesa di sentirsi più lucido, in modo che Naida non si sentisse troppo intimorita da lui – e non provasse disprezzo, soprattutto. Questo, non avrebbe potuto sopportarlo.
Un pomeriggio, esasperato dall’ennesimo fallimento e in preda alla furia, distrusse la sua poltrona scaraventandola contro una parete; il giorno dopo, ricordando l’episodio, ridusse drasticamente la dose di liquore. Mai avrebbe sopportato di farsi vedere alterato dai soldati, mai avrebbe potuto tollerare di essere causa di sguardi disgustati e risatine colme di disprezzo. Mai, soprattutto, avrebbe voluto farsi vedere debole, le gambe vacillanti. Mai avrebbe voluto perdere il lume della ragione al punto di fare del male a Naida, la sua bellissima Naida di cui era sempre stato tanto orgoglioso. Mai.
Era capace di comandare ai suoi uomini; avrebbe comandato anche a sé stesso.
Avrebbe sconfitto il suo nemico, avrebbe finalmente conquistato quel pianeta azzurro che stava rivelandosi imprendibile… avrebbe trovato il modo, e avrebbe vinto.
E allora, finalmente, avrebbe avuto tutto il merito che fino a quel momento non gli era mai stato riconosciuto.


– T’avevo avvertito, imbecille! – esplose Re Vega – Passerai un mese nelle miniere, lavorando come uno schiavo!
Hydargos trasalì, sentendosi raggelare; chinò la testa e disse l’unica cosa che avrebbe potuto rispondere: – Agli ordini, Maestà.
Furibondo, Re Vega spense lo schermo togliendo la comunicazione. Con quel suo incapace comandante aveva avuto sin troppa pazienza; ora era il caso d’impartirgli una severa lezione che gl’insegnasse ad essere più efficiente… se fosse sopravvissuto, ovvio.
A lungo, Hydargos rimase in piedi davanti allo schermo ormai spento: agghiacciato dal terrore, bruciante di collera per la spaventosa umiliazione, stava faticando non poco per recuperare il dominio su sé stesso. Né Gandal né i soldati e i tecnici presenti gli dissero nulla, nessuno lo guardò in viso.
Gandal fece segno a due soldati che si fecero avanti, pronti per prendere in consegna il loro comandante caduto in disgrazia; un altro cenno di Gandal li fece attendere. Non era ancora il momento. Nonostante non fosse certo un superiore tenero, il Comandante Supremo capiva che il suo sottoposto aveva bisogno di qualche istante per riprendersi.
Fremente d’ira, Hydargos continuava a sentir risuonare in sé gli insulti del suo sovrano: sapeva di non meritare un simile castigo, sapeva d’aver avuto sfortuna contro Goldrake, sapeva che le continue ingerenze dei suoi superiori anziché fungergli da sprone l’avevano ostacolato nella sua lotta personale contro il nemico… e d’altra parte, era sempre stato consapevole che in caso di fallimento la colpa sarebbe stata imputata a lui e solo a lui.
Ecco cos’era: un fallito.
Fu il suo amor proprio ferito a costringerlo a riprendersi, a mostrarsi impassibile quando avrebbe voluto urlare tutta la sua furia. Hydargos si drizzò nella persona, si aggiustò l’uniforme e si voltò verso i soldati, pronto a seguirli: gli ordini di Sua Maestà andavano obbediti immediatamente.
Rivolse un rapido saluto a Gandal prima di seguire i due militi fuori, nel corridoio; qui s’arrestò un attimo: – Dovrei passare dal mio alloggio.
Uno dei soldati scosse il capo con aria di scusa: – Conoscete le regole, signore. Non è possibile. Vi prego, non fateci avere dei guai.
– Certo – non posso neanche avvertire Naida. Nemmeno questo mi viene concesso!
Mentre saliva sulla monorotaia che l’avrebbe condotto agli hangar, si disse che presto lei avrebbe saputo ogni cosa… e avrebbe scoperto che il suo padrone era un incapace, un inutile, un fallito.
Questo pensiero fu anche peggiore dell’umiliazione che aveva appena subito.


Naida aprì lentamente gli occhi, stirandosi le membra indolenzite; si guardò attorno e di scatto si tirò su a sedere. Era ancora sul divano dove s’era addormentata la sera precedente, mentre aspettava il ritorno di Hydargos.
Sbadigliando, Naida controllò l’ora prima d’alzarsi: nessuna traccia di lui, né lì né in camera. Sul tavolo erano ancora posati i vassoi coperti con la cena, ormai fredda ed immangiabile.
Naida rabbrividì e si gettò addosso lo scialle in cui s’era avvolta la sera prima. Da quando era iniziata la guerra, Hydargos aveva cominciato a fare tardi, a non avere più orari, e il più delle volte non l’aveva mai avvertita se non con molto ritardo; era la prima volta però che lui non si faceva vivo da così tanto tempo. Ma naturalmente, un comandante ha ben altro da pensare che far sapere alla sua schiava quando sarà di ritorno.
Ordinò la colazione, che subito le venne portata da un robodomestico. Naida mangiò pensierosamente, continuando ad occhieggiare la porta e il display dell’intercom; quando si fu vestita, decise che sarebbe andata alla zona ricreativa. Non aveva mai voluto sapere nulla di quella guerra, ma voleva avere notizie di Hydargos.
Percorse i corridoi, con la sgradevole sensazione che tutti la guardassero in modo strano… come se avessero saputo qualcosa di cui lei non era a conoscenza.
Sciocchezze, pensò Naida.
Lo pensò anche dopo, quando la direttrice la squadrò da capo a piedi con aria ancora più altezzosa del consueto, e ancora lo ripensò quando entrò nella Sala Ricerche ed ebbe la netta sensazione che tutti i presenti la guardassero di sottecchi.
Non è possibile, si disse Naida. Non essere sciocca, è tutta un’impressione.
Sedette ad una postazione libera e cominciò la sua ricerca: digitò il nome di Hydargos ed attese.
Una schermata fitta di testo: gradi, titoli, onorificenze… imprese belliche… ma di questo, Naida non voleva sapere niente. Preferiva ignorare di quali orrori si fosse macchiato quell’uomo che con lei era sempre stato gentile.
Scorse in fretta le righe senza leggerle, arrivò in fondo (e solo allora capì d’aver temuto fin dall’inizio di trovare quell’orrenda parola, “deceduto”)…
Detenuto.
Naida si coprì la bocca per non gridare, mentre le parole parvero ballare e mescolarsi tra loro davanti ai suoi occhi.
Non era possibile… non poteva essere possibile…!
Rilesse con tutta la calma che riuscì ad avere.
Detenuto. Un mese… schiavitù… miniere… punizione…
NO!
Naida ricadde contro lo schienale, mentre continuava a fissare quelle parole spaventose: Hydargos, il comandante di Skarmoon… ridotto a lavorare come uno schiavo. Per un mese!
Spaventosa ironia della sorte, proprio lui che si era rivelato un padrone incredibilmente buono e generoso, avrebbe dovuto vivere come uno schiavo minatore… una delle condizioni peggiori, per un prigioniero di Vega.
Un mese nelle miniere poteva essere orribilmente lungo…
Alzò gli occhi, e stavolta fu sicura d’aver visto teste chinarsi in fretta sui monitor. Allora, ecco cosa sapevano tutti, ecco perché continuavano a guardarla… perché lei ora era completamente sola.
Stai calma, si disse, mentre sentiva il panico crescere rapidamente in lei.
Finse di guardare il suo monitor, mentre rifletteva febbrilmente: ora più che mai, si rendeva conto di che sicurezza le avesse dato lui con la sua semplice presenza. Che ne sarebbe stato di lei, senza Hydargos? E, pensiero ancora più spaventoso, che le sarebbe successo, se lui non avesse più fatto ritorno da quelle infernali miniere?
Altre occhiatine, qualche commento. Attorno a lei, sguardi d’intesa e ammiccamenti…
Basta!
Naida s’alzò di scatto e fece per uscire; poi cambiò idea e andò a ritirare il maggior numero di videolibri ed olodischi che poté, prima di tornare precipitosamente all’alloggio. Vi si chiuse dentro, ben decisa a non farsi più vedere: senza Hydargos si sentiva sola ed esposta, ed aveva paura, paura, paura.
Cominciò allora un periodo tra i più terribili che Naida avesse vissuto, pari forse solo alla sua detenzione nel ventre dell’astronave. Chiusa nell’alloggio, completamente e disperatamente sola, totalmente preda ai suoi terrori, Naida cominciò a trascorrere quel mese di tempo… quel mese che pareva non dovesse passare mai…
A volte leggeva, ma più spesso le parole le sfuggivano da sotto gli occhi, perdendo ogni significato; allora, lei si ritrovava a fissare il vuoto davanti a sé, incapace di proseguire con la lettura. Trascorreva la notte nel vano tentativo di dormire, sussultando al minimo rumore; quando, spossata dalla stanchezza, sprofondava finalmente nel sonno, non aveva mai quell’oblio benedetto senza sogni: incubi spaventosi la torturavano, in parte immagini del passato, in parte spaventose possibilità che le si presentavano alla mente. Naida si risvegliava agghiacciata dallo spavento, il corpo tremante e madido di sudore gelido; riprovava allora a dormire, ma per quanto fosse stanca il sonno non tornava più a darle conforto.
Nella noia delle sue giornate, l’unico diversivo era l’arrivo quotidiano dei robodomestici venuti a portarle i pasti o a riordinare l’alloggio. Purtroppo, non erano programmati per sostenere un dialogo: racchiusa in quel suo volontario isolamento forzato Naida, che era sempre stata una ragazza molto socievole, soffriva soprattutto di solitudine. Non poter parlare con qualcuno, scambiare un paio di frasi, una battuta…
Cominciò a pensare che prima o poi sarebbe diventata pazza.
Prese a mangiare poco, a deperire; un giorno si vide nello specchio – era proprio lei quella creatura pallidissima dagli occhi incavati? – ed inorridì: e se Hydargos tornando l’avesse trovata imbruttita?
Da tempo era stata abbandonata dai suoi terrori di essere rifiutata e riportata alla prigione; quel giorno, le sue paure si risvegliarono prontamente. Naida riprese a mangiare con regolarità e a praticare ginnastica per mantenersi in forma.
Fu proprio una mattina, mentre stava finendo i suoi esercizi quotidiani, che inaspettatamente ricevette il segnale che qualcuno fuori nel corridoio chiedeva di entrare.
Hydargos…?
Non era possibile: era trascorso poco più della metà del mese di punizione! Poi, lui sarebbe entrato senza aver bisogno di chiederle di aprirgli.
Naida si sentì soffocare: erano venuti a prenderla, a portarla via? Soldati che l’avrebbero ricondotta in quella spaventosa prigione?
Un altro segnale.
Naida si guardò attorno come un animale in trappola: non poteva fuggire.
Sapevano che lei era lì.
Inutile continuare a far finta di nulla…
Con le ginocchia che le si piegavano ad ogni passo, andò ad aprire alla porta.
S’era aspettata soldati dai visi nascosti dai cappucci; era solo un tecnico di mezz’età, piccolo, tozzo e dall’aria benevola, venuto per la manutenzione periodica.
– Devo pulire e controllare i filtri dell’aria condizionata, signora – spiegò gentilmente, mentre la guardava con aperta ammirazione.
– Oh… sì, certo – Naida si fece da parte – Prego, accomodatevi.
L’uomo si fece avanti e si mise subito al lavoro: era una persona gioviale, e a Naida non parve vero poter scambiare qualche chiacchiera con un altro essere umano. Parlarono di tutto e di niente, mentre lui passava in rassegna tutte le prese d’aria, controllando quali filtri fossero da sostituire e quali necessitassero solo d’una buona pulizia.
Il tecnico era un tipo tranquillo che amava lavorare senza fretta; ciò nonostante, a Naida parve che avesse finito fin troppo presto il suo compito. Gli propose di bere una tazza di ween: gliel’avrebbe preparato volentieri, no, non sarebbe stato alcun disturbo. Il tecnico, che in effetti non desiderava altro che una pausa, accettò con piacere: se davvero per la signora non era una seccatura…
Chiacchierarono ancora mentre sorseggiavano la bevanda, e continuarono a farlo anche quando le tazze furono vuote; poi lui guardò l’ora e sobbalzò. Era stata una pausa gradevolissima, ma ora doveva proprio andare, era in ritardo con gli altri lavori.
Naida lo salutò a malincuore e l’accompagnò alla porta; poi la richiuse e vi si appoggiò contro con le spalle, lasciandosi scivolare a terra.
In quel poco tempo, si era sentita nuovamente viva.
Ora, davanti a sé aveva ancora almeno due settimane di solitudine, prima che Hydargos tornasse…
Non voglio pensarci.
…sempre che lui AVESSE fatto ritorno.
Non voglio pensarci!
Le miniere erano l’inferno. Moltissimi morivano nei primi giorni dal loro arrivo.
Non voglio pensarci…!
Quasi nessuno riusciva a resistere più di qualche mese, un anno al massimo.
Non… voglio… pensarci…!
Praticamente, nessuno schiavo aveva mai fatto ritorno da laggiù.

Naida si abbracciò convulsamente le ginocchia, affondò il viso tra le braccia e scoppiò in un pianto disperato.


I soldati fecero ala al suo passaggio, mentre lui scendeva dalla nave: finalmente, Skarmoon.
Era passato un mese… nessuno di quegli uomini doveva ignorare che ne era stato di lui, in tutto quel tempo.
Hydargos dardeggiò sguardi di fuoco attorno a sé dandosi un colpo di frustino sul palmo della mano, quasi sfidando chiunque a venirgli a rinfacciare il suo fallimento, il suo essere un perdente.
Nessuno disse nulla, nessuno si permise un contegno men che corretto.
Hydargos assentì tra sé e sogghignò: evidentemente, i suoi soldati lo rispettavano ancora.
Bene. Avrebbero visto che il loro comandante non era stato sconfitto, la schiavitù non era bastata a spezzarlo. Se era una prova di forza quella che volevano da lui, l’avrebbero avuta.
Percorse i lunghi corridoi col passo del vincitore: mai e per nessun motivo avrebbe voluto mostrare quanto gli bruciasse l’umiliazione che aveva subito. Mai si sarebbe mostrato debole, mai avrebbe lasciato trasparire l’amarezza che l’invadeva. Aveva subito una punizione ingiusta, una punizione durissima; nessuno avrebbe dovuto permettersi di mostrarsi sprezzante nei suoi confronti.
I soldati lo salutavano, gli ufficiali gli mostravano la deferenza dovutagli; lui guardò ognuno di loro in viso, vide tutti gli sguardi chinarsi, non abbassò mai il suo.
Continuò a camminare con la calma autorevole del vero comandante: quanti di loro avrebbero retto quello che aveva sofferto lui? Quanti di quegli ufficialetti dall’impeccabile uniforme avrebbero anche solo immaginato un’esperienza come quella che gli era toccata?
Nonostante il suo ferreo autocontrollo, sentiva l’agitazione crescere in lui: doveva presentarsi a rapporto da Gandal, com’era suo dovere. Come l’avrebbe accolto? Era un suo superiore, se avesse fatto ironie sull’accaduto, o se anche solo ne avesse parlato, lui non avrebbe potuto ricacciargli le parole in gola…
Hydargos serrò le dita attorno al manico del suo frustino: pazienza, pazienza…
Salì sulla monorotaia e raggiunse l’ufficio privato del suo superiore; perfettamente impassibile, chiese di poter conferire con lui, e venne fatto passare praticamente subito.
Gandal alzò gli occhi dal monitor del suo computer e fissò in silenzio Hydargos mentre eseguiva un saluto impeccabile e rimaneva in piedi davanti a lui, in attesa.
Se anche aveva avuto intenzione di dire alcunché, una semplice occhiata al viso del suo subalterno gli fece subito cambiare idea. Gandal s’alzò e in un inconcepibile slancio di cordialità gli andò incontro: – Hai fatto buon viaggio?
– Ottimo, grazie – rispose Hydargos, sempre sulla difensiva.
Gandal esitò: in realtà era veramente lieto di rivederlo. Mai avrebbe pensato che un giorno sarebbe arrivato a rimpiangere quel suo sottoposto di cui tante volte aveva lamentato la presunta inefficienza: l’inefficienza vera l’aveva conosciuta proprio durante la sua lontananza, e per opera degli ufficiali che avevano tentato di sostituirlo. È proprio vero che capiamo il valore di qualcuno solo quando è assente.
Lo guardò ancora: nel viso smagrito, gli occhi parevano bruciare di febbre. Non l’aveva mai visto così… – Hydargos, stai bene?
– Perfettamente, grazie. Sono pronto a riprendere il mio posto. – fu la risposta che ottenne. Ovviamente, non avrebbe potuto essere nulla di diverso.
– Non oggi – rispose Gandal – Sei appena tornato.
Hydargos fece con la testa un cenno di ringraziamento, e non disse nulla.
Il silenzio cominciò a farsi davvero opprimente.
Gandal tossicchiò: – Immagino che vorrai ritirarti. Puoi andare.
Hydargos salutò prima di girare i tacchi e avviarsi verso l’uscita. Gandal lo seguì con lo sguardo, e lo richiamò quando ormai era sulla porta: – Ascolta…
– Sì? – Hydargos si voltò a metà, il viso di pietra.
Gandal non esitò più: – Riprenderai servizio tra qualche giorno.
– Non sono malato.
– Diciamo allora che hai l’aria stanca.
– Posso ricominciare da domattina.
– È un ordine – ribadì Gandal, reciso – Non voglio vederti per tre giorni. Chiaro?
Hydargos chinò la testa in segno d’assenso: – Chiarissimo.
E uno, pensò mentre s’avviava verso il suo alloggio. Il primo incontro difficile era andato meglio di quanto aveva previsto: fortunatamente, Gandal aveva avuto l’intelligenza di non alludere nemmeno a quanto era accaduto.
L’altro incontro, sarebbe avvenuto entro pochissimo tempo.
In tutto quel tempo, che aveva pensato Naida? Aveva saputo sicuramente che era stato punito; di certo, ora non provava che disprezzo per lui. A nessuna donna piace essere la schiava d’un fallito.
Strinse il frustino fino a far crocchiare le nocche. Avrebbe sopportato senza battere ciglio i sarcasmi, le allusioni, le cattiverie del suo comandante; il biasimo di lei sarebbe stato a dir poco intollerabile. Non dopo quello che aveva passato.
Diviso tra furia e timore, Hydargos percorse a grandi passi la distanza che lo separava dal suo alloggio: com’era nella sua natura, avrebbe affrontato direttamente quella prova, e l’avrebbe fatto subito.


Le porte scivolarono di lato, e Hydargos fece il suo ingresso.
Naida, che gli era subito andata incontro, s’arrestò nel vederlo: aveva il colorito d’un malsano grigiastro, gli occhi fondi, il viso scavato. Anche se poteva sembrare impossibile, sembrava fortemente dimagrito; camminava eretto nella persona ma con fatica, quasi ogni passo gli fosse costato sofferenza.
– …Signore…? – mormorò lei, inorridita. Non osava pensare a cosa gli avessero fatto.
– Sto benissimo – tagliò corto lui, mascherando dietro il tono brusco il sollievo: lei non lo guardava con disprezzo o con rimprovero… – Sto bene, davvero.
– Ma certo – Naida deglutì – Sono contenta che tu sia tornato.
Hydargos fece una smorfia che voleva essere un sorriso ironico: – Non starai per dirmi che ti sono mancato!
– Certo che sì – Naida fece per prendergli il mantello, ma lui si tirò bruscamente indietro; lei riprese, e nella sua voce vibrava un tremolio perfettamente percepibile: – Tutto questo tempo senza sapere niente di te… mi sono sentita molto sola.
– Non mi hanno permesso di avvertirti – lui guardò il divano come per sedercisi sopra, ma all’ultimo istante decise di rimanere in piedi: – Hai saputo cos’è successo, immagino.
– Sì, dal computer – Naida si sforzava di ricacciare le lacrime: non era così che si era immaginata il ritorno di lui… no, non così, non dopo tutto quel tempo! – Nessuno mi ha detto niente. Nessuno mi ha mai nemmeno parlato! Ho scambiato due parole solo col tecnico della manutenzione, e basta! Sono sempre stata sola, sola! E ti meravigli se ti ho aspettato?
Lui parve sinceramente sorpreso: – Pensavo t’avrebbe fatto piacere non avermi attorno per un po’.
Naida scosse la testa e gli voltò le spalle: – Pensavi sbagliato.
Non era certo il modo corretto di rivolgersi al proprio padrone, tuttavia Hydargos era troppo sbalordito per farvi caso. In tutto quel mese aveva pensato che Naida sarebbe stata felice di sentirsi libera, senza essere costretta ad obbedirgli; non aveva considerato il bisogno di compagnia così tipico degli esseri di Fleed.
Poi, naturalmente, Naida doveva anche aver avuto timore anche per sé stessa: che ne sarebbe stato di lei, se il suo padrone non avesse più fatto ritorno?
Logica preoccupazione, si disse Hydargos, che era un uomo pratico.
– Va bene, adesso sono tornato; contenta? – in un incredibile momento di espansività le passò ruvidamente una mano sui capelli; subito Naida gli si gettò tra le braccia, affamata di un minimo di contatto fisico, di calore umano.
Lui sussultò, emise un gemito strozzato.
Naida si sciolse rapidamente da lui e lo fissò in viso: era mortalmente pallido, e stringeva i denti in una smorfia di sofferenza.
– Signore! Ma che cos’hai? – chiese, stupefatta – Ti ho… ti ho fatto male?
Lui scosse il capo: – È solo un ricordino del mio soggiorno nelle miniere.
– Ma cosa…?
Hydargos esitò un istante; poi si slacciò il mantello e aprì la tuta, rimanendo a torso nudo.
La schiena, le spalle e le braccia erano devastate da lunghe piaghe coperte da croste di sangue raggrumato. Naida non aveva mai visto gli effetti della frusta elettrificata, ma non impiegò che un secondo per riconoscerli.
– Devi farti vedere subito al centro medico! – esclamò, inorridita.
– Non voglio che qui su Skarmoon si sappia cosa mi hanno fatto! – si ostinò lui – Mi hanno già umiliato abbastanza.
– Ma bisogna medicare quelle piaghe! Sdraiati, ci penserò io – e Naida corse a prendere il necessario, mentre lui si stendeva con precauzione sul divano.
Prima di cominciare, Naida esaminò ancora le spaventose ferite e rabbrividì: – Pensavo avrebbero avuto dei riguardi, dato il tuo rango.
– Hanno avuto dei riguardi – rispose lui, cupo.
Naida ammutolì e si concentrò sulla medicazione.
Le piaghe presentavano bordi di pelle ustionata; in compenso, le ferite risultavano cauterizzate, non sembrava ci fossero infezioni in corso. Lavorando con pazienza e delicatezza, Naida pulì accuratamente le lacerazioni, irrorandole con il disinfettante. Quindi stese uno strato di gel dermostimolante che avrebbe anestetizzato il dolore e favorito una rapida guarigione; infine spruzzò il tutto con uno spray protettivo che formò istantaneamente una pellicola trasparente sulle ferite, proteggendole e trattenendo il medicamento.
Hydargos si rialzò con precauzione: il gel era fresco, piacevolissimo, e il dolore stava rapidamente calando. Rimase seduto, senza abbandonare un istante con gli occhi quella sua schiava che l’aveva appena curato e che ora stava riponendo ordinatamente creme e bottiglie. Un servo in genere non ha attenzioni per il suo padrone, al massimo obbedisce ai suoi ordini; lui non le aveva chiesto di aiutarlo, ma lei l’aveva fatto spontaneamente. Perché? Gratitudine? Mah…
Cenarono in silenzio: avendo saltato fin troppi pasti, lui divorò ogni cosa con grande appetito, mentre Naida lo osservava di sottecchi sorridendo tra sé.
Pensava che Hydargos avrebbe voluto andare subito a riposare, ma lui volle rilassarsi prima con un po’ di musica; lei scelse un disco che sapeva piacergli molto e lo raggiunse sul divano. Normalmente, lei si rannicchiava contro il suo fianco: timorosa di fargli del male, Naida rimase in disparte.
Hydargos la guardò con aria interrogativa, ma lei non se ne accorse: occhi semichiusi, ascoltava il filo della musica, seguendolo ovunque l’avesse portata.
Quella sera avvenne ciò che mai si sarebbe aspettata: fu lui a prenderla ruvidamente per una spalla, lui ad attirarsela nel cavo del braccio. Naida lo guardò, sbalordita, ma lo vide impassibile, lo sguardo remoto, ben deciso a non rivelarle nulla; allora, con precauzione, si raggomitolò contro di lui e non si mosse più.
Lo conosceva abbastanza per sapere che era il suo modo di ringraziarla.


Non ricordava d’aver mai fatto così tardi.
Sulla base, le luci erano abbassate per ricreare una sorte notte fittizia, e regnava il silenzio; ben poche persone si potevano vedere in giro. Il servizio notturno era destinato solo al minimo indispensabile di personale.
Hydargos scese dalla monorotaia e s’incamminò per il corridoio che portava al suo alloggio.
Si sentiva le ossa indolenzite e un odioso senso di vuoto gli attanagliava le viscere.
Quel giorno, era stato sul punto di morire.
Aveva combattuto contro Duke Fleed, e l’aveva fatto di persona, pilotando lui stesso l’ultimo mostro creato dal Centro Scientifico; ma era stato inutile. Aveva dovuto abbandonare la lotta per non venire ucciso.
Hydargos aprì la porta, che scivolò silenziosamente di lato: era tardissimo, Naida doveva essere andata a dormire.
Entrò, si tolse il mantello gettandolo su una sedia; si guardò attorno e nella penombra scorse qualcosa di chiaro sul divano. Naida…?
Si chinò su di lei: s’era avvolta in uno scialle e s’era assopita. Sul tavolo erano posati due vassoi con la cena, che ormai nonostante i contenitori termici doveva essere fredda. Alzò un coperchio e riconobbe uno dei suoi piatti preferiti: tipico di lei aver scelto i cibi che lui prediligeva.
Naida si riscosse, riaprì gli occhi e si guardò attorno, insonnolita: – Oh, sei tornato… Che ora è?
– Tardissimo – rispose lui, molto più ruvido di quanto in realtà avrebbe voluto – Perché non sei andata a letto?
– Credevo che saresti rientrato prima – soffocò uno sbadiglio e si strinse addosso lo scialle, mettendosi seduta sul divano – Devi aver fame.
Lui scosse il capo: – Sono solo molto stanco. Tu hai mangiato?
– Ti avevo aspettato – rispose lei, che faticava a tenere gli occhi aperti – Pensavo che avremmo cenato assieme. Adesso ho solo sonno.
Lui le tese una mano per farla rialzare: – Vieni. Andiamo a dormire.
Finalmente nel suo letto, Hydargos si girò e rigirò, incapace di assopirsi. Continuava a rivedere le immagini della battaglia, le armi letali di Goldrake scatenate contro il suo mostro… la collera, la vergogna di essere stato costretto alla fuga non gli permettevano di scivolare in quel riposo che tanto aveva desiderato.
Accanto a lui, Naida si mosse nel sonno, sospirò. Stava sognando, e non sembrava che si trattasse d’un sogno gradevole.
Se io morissi, si chiese improvvisamente Hydargos, che ne sarebbe di lei?
Era una schiava, una cosa senza alcun diritto, un oggetto da vendere, scambiare, lasciare in eredità. Bella com’era, una volta che fosse rimasta senza un proprietario sicuramente altri uomini si sarebbero fatti avanti per contendersela.
Ignara dei pensieri che affollavano la mente del suo padrone, Naida si rannicchiò contro di lui; finalmente soddisfatta, scivolò in un sonno senza sogni.
Hydargos la guardò, pensoso. Se lui fosse morto, Naida sarebbe stata di un altro uomo: un altro avrebbe avuto accanto a sé nel letto quel dolce corpo tiepido, un altro avrebbe visto com’era bella mentre dormiva, un altro l’avrebbe avuta tra le braccia…
No, maledizione! Mai!
Rifletté freddamente: non per nulla, un tempo si usava ordinare che alla propria morte la schiava favorita venisse uccisa. Molti ancora lo facevano, la legge lo permetteva. Nessuno avrebbe trovato nulla da ridire.
Lentamente, Hydargos intravide la soluzione al suo problema. Avrebbe avuto bisogno d’aiuto; l’avrebbe chiesto a Gandal. Era un superiore severo, ma come uomo era affidabilissimo. Non gli avrebbe negato un favore.


– Volevi parlarmi? – Gandal fece ruotare la poltrona per poter guardare in viso il suo sottoposto.
– Vorrei che tu tenessi questo – Hydargos gli tese un plico.
Gandal lo rigirò tra le mani: sigillato e piuttosto gonfio. Doveva contenere carte e dischi magnetici. – Che devo farne?
Hydargos non rispose subito. Sull’ampio schermo alle spalle di Gandal, la Terra riluceva come un azzurro, preziosissimo gioiello. Per quanto fosse quasi arrivato ad odiarlo, quel pianeta imprendibile, la sua vista lo affascinava sempre.
– Inutile nascondercelo, questa guerra si rivela più difficile di quanto avessimo previsto – Hydargos parlava lentamente, gli occhi fissi su quel mondo ceruleo – Gli scontri sono sempre più pesanti. Io non sono un uomo che si tira indietro davanti al pericolo, e tu lo sai. Ho combattuto in prima persona, ho rischiato e rischierò ancora – si volse verso Gandal – So che in uno dei prossimi combattimenti potrei morire.
Gandal assentì gravemente e si alzò a sua volta, il plico tra le mani.
– Se dovesse succedere – continuò freddamente Hydargos – troverai là dentro il da farsi. Ho già predisposto tutto.
Gandal osservò il plico: – Non hai lasciato scritto a chi devo consegnarlo.
– Devi aprirlo tu.
– Io? Ma… la tua famiglia…
– Io non ho famiglia! – tagliò corto Hydargos, reciso – Tutto quel che ti chiedo è di conservare quel plico, aprirlo nel caso io dovessi morire ed eseguire quel che c’è da fare. Posso contarci?
– Ma certo – Gandal lo guardò dritto in viso – Me ne occuperò io, personalmente. Hai la mia parola.


Capitolo 9 – Re Vega

Non capitava praticamente mai che qualche ospite giungesse nell’alloggio di Hydargos; ma se questo fosse un uso di Vega o fosse semplice misantropia da parte del suo padrone, Naida non sarebbe stata in grado di dirlo.
L’eccezione alla regola accadde senza alcun preavviso.
Una sera giunse in visita un uomo altissimo, dal viso che pareva intagliato nella roccia; come Naida venne poi a sapere, si trattava nientemeno che del Comandante Supremo Gandal.
Il nuovo venuto si guardò attorno, soffermando lo sguardo sulla mensola su cui erano posti i vasi con le piante di Naida in coltura idroponica: uno spettacolo davvero insolito, per un alloggio di Skarmoon. Sorpreso, Gandal si girò con aria interrogativa verso Hydargos, che sostenne tranquillamente il suo sguardo ostentando indifferenza.
I due uomini sedettero, cominciarono a conversare (la Terra, su Skarmoon ormai non si parlava d’altro che della prossima invasione di quel meraviglioso pianeta). Ad un cenno di Hydargos, Naida si fece avanti portando un vassoio con bicchieri e bottiglie.
– Gradite un rinfresco, comandante? – chiese con un filo di voce, senza osar alzare gli occhi.
– Volentieri – per quanto poco incline a manifestare apertamente i propri sentimenti, Gandal la fissò con aperta ammirazione.
Naida li servì entrambi, prima di andarsene lasciandoli soli; Gandal, che fino ad allora era stato incapace di staccarle gli occhi di dosso, alzò la coppa in direzione del collega.
– Quella è la tua famosa schiava di Fleed? – esclamò – Complimenti. Adesso non mi meraviglio più che tu la tenga rinchiusa.
– Non è così – Hydargos bevve un sorso, soddisfatto: le lodi alla bellezza di Naida equivalevano per lui ad un complimento personale – Non le impedisco di uscire, anzi. È lei che non vuole farlo.
– Forse hai avuto la mano troppo pesante – osservò Gandal.
– Con una donna simile? Scherzi? Avrei avuto paura di rovinarla! E poi non ho mai avuto motivi per punirla. È molto docile.
– Sei doppiamente fortunato, allora – Gandal depose accanto a sé la coppa ancora mezzo piena – Probabilmente sarà stata maltrattata dai soldati prima che la prendessi tu.
– Penso di sì, anche se non ne ha mai parlato – Hydargos tenne la coppa tra le mani, gli occhi fissi sul liquore dorato – Posso sempre chiederglielo. Comunque, domani sera uscirà.
– Vuoi portarla alla cena in onore dell’arrivo di Sua Maestà?
– Perché no? È una donna di classe, molto educata. Farà una bella figura, non pensi?


Sua Maestà era giunto in visita sulla base di Skarmoon: svariati motivi l’avevano tenuto fino ad allora lontano dall’avamposto, non ultimo il contrasto con sua figlia Rubina, che l’incolpava della distruzione di Fleed. Purtroppo, era risaputo che la principessa Rubina, idealista com’era, non aveva mai avuto senso pratico: per lei un pianeta sconfitto corrispondeva a stragi ed orrori, non a nemici finalmente eliminati. Mah…
In visita con Sua Maestà erano venuti il Ministro delle Scienze Zuril, che Hydargos aveva conosciuto in occasione dell’attacco a Fleed, e l’odioso – e odiato – generale Dantus, Ministro della Difesa. Naturalmente erano presenti anche Gandal, Barendos ed alcuni alti ufficiali. Poi Hydargos si presentò con al braccio Naida, meravigliosa in un vestito candido a tunica che ne modellava morbidamente le forme; al collo, una cascata di gemme verdi e bianche che mandavano sprazzi di luce. Era una collana di squisita fattura, degna d’una regina; Naida la odiava. Era praticamente sicura che fosse parte di un bottino ottenuto da Hydargos dopo aver distrutto ed ucciso, ma non aveva potuto rifiutarsi d’indossarla.
Il loro ingresso produsse una certa sensazione, il che fece inorgoglire Hydargos. L’ammirazione destata dalla sua donna lo colmava di fierezza; persino Dantus, pur altezzoso com’era, era rimasto senza parole davanti alla bellezza di Naida.
Con l’aria di superiorità di chi sa d’avere con sé una donna non comune, Hydargos salutò i presenti, chiacchierò amabilmente con tutti, fu gentile persino con il detestabile Dantus, che gli rivolse un saluto forzato, gli occhi gialli fissi sulla procace giovane donna che si stringeva timidamente al fianco del suo padrone.
Per ultima arrivò trafelata la dottoressa Koyra, la primaria responsabile del Centro Medico; indossava ancora camice e calzoni che la facevano apparire più alta e magra di quanto già non fosse. In un impeto d’amor proprio femminile si passò nervosamente le dita tra gli arruffati capelli corti, scompigliandoli maggiormente. Sua Maestà la vide, sospirò e tacque: lei era un eccezionale chirurgo, non certo una modella. Non era la prima volta che si presentava ad una cerimonia ufficiale coi vestiti da sala operatoria, e non sarebbe certo stata l’ultima. Non era tipo da preoccuparsi di certe inezie come il vestiario, lei. Pure, con quel viso dagli zigomi alti, gli occhi viola cupo tagliati obliqui e la bocca morbida avrebbe potuto essere una gran bella donna…
Vennero serviti gli aperitivi, che sarebbero stati presi in piedi, in attesa di sedere al tavolo. Naida si guardò nervosamente attorno, senza osar fissare in viso nessuno. Quegli uomini e quelle donne erano i capi di Vega. Fleed era stato distrutto da loro.
Le misero in mano un bicchiere; lei si bagnò appena le labbra, aggrappandosi ancora più fortemente al braccio di Hydargos. Aveva tanto temuto di incontrare Rubina, e si era sentita sollevata nel sapere che la giovane principessa non sarebbe stata presente. Si erano conosciute su Fleed, e non erano state propriamente amiche; per Naida sarebbe stato orribile ritrovarla adesso, nella sua nuova condizione di schiava.
Nella sala si erano formati gruppetti di gente che conversava. Naida li osservò di sottecchi, cercando il coraggio che non aveva in un altro sorso del suo cocktail.
Hydargos stava parlando appunto con Dantus (l’invasione della Terra, ovvio). Più in là, Zuril era impegnatissimo in una conversazione scientifica con la dottoressa Koyra, che discuteva animandosi e agitando il proprio bicchiere, schizzando in giro il suo aperitivo. Più vicino, Gandal stava parlando a bassa voce con Re Vega, e gli spezzoni dei loro discorsi le giungevano a tratti. L’invasione di quel nuovo pianeta, naturalmente.
Naida si voltò ancora verso Zuril: dunque, quello era stato il padrone di Kein… chissà perché si era aspettata che avesse un aspetto meno mostruoso. Comunque, sembrava avere modi molto più pacati e meno aggressivi degli altri veghiani. Quanto le sarebbe piaciuto chiedergli di Kein! Purtroppo, non sapeva se avrebbe avuto la possibilità – o il coraggio – di domandargli notizie.
Naida bevve un altro sorso e cercò di prestare attenzione a ciò che Dantus stava dicendo ad Hydargos. In genere non voleva sentir parlare dell’invasione della Terra, non dopo aver visto distruggere Fleed, ma non poteva evitarlo ancora. Pareva non si potesse parlare d’altro.
– Stiamo ultimando la progettazione di un mostro da combattimento di nuova generazione – stava annunciando pomposamente Dantus – Un mostro di concezione completamente nuova.
– E cos’avrà mai di diverso dagli altri, questo nuovo mostro? – chiese Hydargos, tagliente.
– Non è interamente meccanico – rispose soddisfatto Dantus – È ottenuto partendo da un animale vivo, accresciuto, robotizzato e perfettamente controllato. La sua potenza e i suoi riflessi lo rendono infinitamente superiore ai mostri vecchio modello.
– Bene, ti auguro che sia così – sogghignò Hydargos – Vedremo se in combattimento questo mostro riuscirà a non farsi distruggere, come gli altri!
– Il mio mostro non sarà sconfitto! – proclamò Dantus – Anzi, sarà proprio il mio mostro a fare a pezzi Duke Fleed e quel suo Goldrake!
Il calice di Naida s’infranse a terra.
– Duke Fleed? – gridò lei – È VIVO?
Un silenzio terribile piombò nella sala. Improvvisamente, Naida sentì tutti gli sguardi su di sé, e d’istinto si rannicchiò su sé stessa, quasi avesse voluto sparire.
– Vieni qui, schiava – disse la voce profonda di Re Vega.
Naida riaprì gli occhi, guardò Hydargos: era pallidissimo, il viso di pietra, ma annuì impercettibilmente. Bisognava obbedire. Lei allora mosse qualche passo avanti, fermandosi di fronte al sovrano, che non osò guardare in viso.
– Sì, Vostra Maestà – mormorò.
– Conosci Duke Fleed?
Naida guardò ancora Hydargos, prima di parlare. – Sì, Vostra Maestà… ma… è vivo?
– Non sta a te fare domande, schiava. Come ti chiami?
– Naida Barsagik, Maestà.
– Barsagik – ripeté Zuril, facendosi avanti – C’era un Barsagik nella famiglia reale di Fleed, se non ricordo male… un duca. Sei sua figlia?
Naida guardò ancora Hydargos.
– Rispondi – disse lui.
– Sì, signore. Sono la figlia del duca Barsagik.
– Ti eri preso una duchessa, complimenti – sibilò velenosamente Dantus a Hydargos – Quanto scommetti che te la porteranno via?
– Taci! – ringhiò Hydargos.
– Il duca Barsagik – ripeté pensosamente Re Vega; poi si rivolse al suo Ministro delle Scienze: – Zuril, tu sei stato su Fleed e conoscevi bene la famiglia reale.
– Sì, Maestà – rispose lui, cercando di scacciare dalla mente la leggiadra immagine di Rubina.
– Questo duca, che parentela aveva con Duke Fleed?
– Erano cugini, anche se alla lontana. Tuttavia, la sua famiglia viveva in un’ala della reggia. Ricordo che mi era stato parlato di una Naida, amica d’infanzia di Duke Fleed. Erano cresciuti assieme, e si era cominciato a ventilare un possibile matrimonio.
Re Vega lo guardò un po’ in tralice: – Sei ben informato. Queste cose le hai sapute da mia figlia… da Rubina?
Zuril strinse le labbra, mostrandosi impassibile: – Sua Altezza non mi onora delle sue confidenze, Maestà.
– Ooh, molto bene – intervenne improvvisamente lady Gandal, esaminando Naida – Una cugina di Duke Fleed, cresciuta con lui e con cui c’è stato del tenero… Maestà, è un’occasione da non perdere.
– È quel che penso anch’io – Re Vega si rivolse solennemente ad Hydargos: – Mi spiace, Vicecomandante, ma dovrete rinunciare alla vostra schiava. La faremo condizionare e la useremo per distruggere una volta per sempre quel maledetto Duke Fleed.
– No…! – esalò lei.
– Maestà – esclamò Hydargos, ponendosi istintivamente davanti a Naida, facendole scudo – Voi sapete che ho sempre messo a repentaglio la mia vita per voi… ma la mia schiava… il condizionamento è rischioso, la missione è irta di pericoli…
– Verrete risarcito, naturalmente – rispose Re Vega; poi, in un impeto di grande generosità aggiunse: – Riceverete il doppio del suo valore.
– Ma, Maestà…
– Basta così – e a Gandal: – Fatela portare via, Comandante.
Un cenno di Gandal, e due soldati furono pronti ai fianchi di Naida, che guardò Hydargos, disperata; ma lui, che fremeva d’ira impotente, non poté far altro che serrare i pugni fino a farli crocchiare.
– Un momento – Dantus si fece avanti, gli occhi gialli sempre fissi su Naida, e fece cenno a due delle guardie speciali di Vega – Prendo io in consegna la prigioniera.
– Non ce n’è bisogno – obiettò Gandal, seccato di vedersi scavalcare dal collega.
– I soldati di questa base sono fedeli a Hydargos – continuò soavemente Dantus – Credo che sia più prudente se facciamo sorvegliare questa donna da delle guardie sicure.
Offesissimi, i due militi che avevano preso in consegna Naida lasciarono la loro prigioniera e si volsero di scatto verso Dantus, che sogghignò della loro reazione: – Che dicevo? Non sono affidabili.
– I soldati di Vega sono degni della massima fiducia! – esclamò rabbiosamente Hydargos.
– Ma davvero…! – rise Dantus, che stava covandosi Naida con gli occhi; un suo cenno, e si fecero avanti un paio delle guardie personali di Re Vega, pronti a portare via la giovane donna. Finché Zuril avesse preparato il condizionatore mentale, ci sarebbe stato il tempo perché Dantus potesse spassarsela con quella bellissima schiava… e naturalmente, ci sarebbe stato qualcosa anche per loro due.
Naida conosceva fin troppo bene quello sguardo; terrorizzata, s’accostò ad Hydargos, che si pose tra lei e Dantus, mento alzato e spalle squadrate, pronto alla lotta.
Anche a Zuril era fin troppo chiaro il desiderio di Dantus, e ne era urtato. Celando il disgusto dietro alla sua maschera impassibile, lo scienziato si fece avanti ponendosi tra i due avversari: – Un momento solo.
Dantus si volse rabbiosamente verso di lui, un lupo ringhioso che teme di vedersi sfuggire la preda: – Che ti prende, Zuril?
Il Ministro delle Scienze si rivolse a Sua Maestà: – Temo, Sire, che non sarà possibile preparare Naida in tempi così ridotti. Non appena giunto su Skarmoon, sono entrato nel computer principale per controllare il sistema…
– Cosa c’è che non va bene? – brontolò Gandal, piccato.
– Semplicemente, il programma è in una versione a dir poco obsoleta.
Dantus sbuffò: – Per una volta in vita tua, puoi parlare semplicemente, senza usare tanti paroloni?
Zuril si volse verso di lui, glaciale: – Sorpassato. Scaduto. Vecchio, se proprio vogliamo usare un termine di facile comprensione.
– Maledizione, Zuril, smettila! Ho capito!
– Ah, sì? – Zuril si permise un lieve sogghigno – Avevo creduto il contrario.
– Basta così – Re Vega inchiodò Dantus con un’occhiataccia, prima di rivolgersi a Zuril: – Non puoi eseguire la distorsione mentale usando il vecchio programma?
– Certo, potrei – rispose tranquillamente Zuril – Però è molto meno affidabile del programma nuovo. Consiglio vivamente di attendere che io abbia aggiornato l’intero sistema, Maestà: con Naida, non possiamo correre il minimo rischio, o ne andrà del nostro piano.
Re Vega piegò all’ingiù gli angoli della bocca: – Quanto tempo ti ci vuole?
– Alcune ore per installare e riprogrammare l’intero sistema, più altro tempo per i controlli necessari.
– E se cominci subito?
Zuril si permise un sorrisetto: – Ho avviato la procedura automatica di backup, e in questo momento sto creando una copia dell’intero database. Non potrò programmare nulla finché la copia non sia stata ultimata… il che richiederà almeno un paio d’ore di lavoro.
Re Vega gettò uno sguardo a Naida, che sembrava sul punto di svenire: – Va bene, Zuril. Sei tu il responsabile dell’operazione. Fai come ti sembra meglio.
– Grazie, Maestà – Zuril si girò verso Hydargos: – Non appena saremo pronti, manderò dei soldati a prendere Naida.
– Quanto tempo ci vorrà? – chiese Hydargos, impassibile.
– Non li manderò prima di domattina.
– Nel frattempo – intervenne Dantus – sarà meglio che questa donna venga chiusa in una cella e sorvegliata.
– Rispondo io di lei – ringhiò Hydargos.
Dantus lo guardò con aria vagamente canzonatoria: – Davvero?
– Cosa vorresti dire? – sbottò Hydargos, gli occhi che mandavano lampi.
– Dico che voglio essere sicuro che quella schiava domani ci sia, ecco cosa dico!
– Pensi che la farei scappare?
– Saresti capace di farlo.
Hydargos serrò i pugni: – Stai accusandomi di tradimento?
– No, naturalmente! – tagliò corto Zuril, asciutto, fissando in viso Dantus – Sono certo che domani il comandante Hydargos consegnerà Naida ai miei uomini.
– Ho i miei dubbi – rispose Dantus, godendo intimamente nel vedere la collera del rivale.
– Io invece non ne ho affatto – rispose Zuril sottolineando ogni parola – So di potermi fidare della parola del comandante Hydargos.
– Concordo in pieno – aggiunse inaspettatamente Gandal, godendo nel vedere l’ira impotente di Dantus.
– Basta con queste sciocchezze! – sbottò Re Vega, brusco – Zuril, l’aggiornamento del computer è troppo importante. Prenditi tutto il tempo che ti è necessario.
– Grazie, Maestà – e lo scienziato chinò educatamente il capo.
– Quanto a te, Hydargos, sei responsabile per quella donna – continuò Re Vega – È affidata a te. Se lei dovesse fuggire o suicidarsi, puoi considerarti morto.
– Non succederà, mio signore.
Un gesto di Gandal e i soldati lasciarono Naida, che subito corse a rifugiarsi presso il suo padrone.
– Grazie, ministro Zuril – Hydargos prese Naida per un braccio e si girò verso Re Vega – Maestà, chiedo il permesso di ritirarmi.
– Ma certo – concesse generosamente Re Vega – Abbi cura di Naida. Non appena il ministro Zuril sarà pronto, manderemo a prenderla.
Allora Hydargos uscì, e Naida gli tenne dietro.


– Maledizione! – Hydargos si strappò di dosso il mantello scarlatto e ne fece una palla che scaraventò a terra. Controllò che la porta dell’alloggio fosse chiusa; poi andò a versarsi un abbondante bicchiere di liquore, che trangugiò d’un fiato. Quindi, ricordatosi improvvisamente di Naida, rimasta in piedi in mezzo alla stanza, gelata di terrore, tese la bottiglia verso di lei: – Un goccio anche tu?
– Grazie, signore – lei pareva sul punto di scoppiare in pianto: – Cosa mi faranno?
Hydargos le mise in mano una coppa: – T’impianteranno un microchip sotto pelle, dietro l’orecchio; non sentirai male. Poi ti daranno le direttive.
– Quali direttive?
– Come devi comportarti. Suppongo ti diranno che odi Duke Fleed.
– Ma io… io gli voglio bene! Non posso…
Hydargos piantò gli occhi in quelli di lei: – Naida, nel momento in cui il chip rileverà che il tuo comportamento non è conforme alle istruzioni, tu proverai un dolore indicibile. È meglio se ti adegui… se non vuoi soffrire.
Naida crollò la testa. Non riusciva nemmeno a piangere.
– Perché non mi hai mai detto di essere parente di Duke Fleed? – chiese Hydargos.
– Perdonami, signore… – lei si sforzò di ricacciare indietro i singulti – Non mi hai mai fatto domande sulla mia vita. Credevo non t’interessasse.
Infatti, non m’interessava… fino ad ora, pensò Hydargos. Dannazione! Perché aveva voluto portarla a quella cena, esibirla per vantarsi della sua bellezza? Perché non l’aveva lasciata a casa, come lei stessa avrebbe voluto?
– Perché non sei stata zitta, quando hanno nominato Duke Fleed? – esplose invece.
– Mi dispiace, signore, io… io non sapevo… io credevo che fosse morto.
– No, non lo è – rispose lui, a denti stretti – È il nostro peggior nemico, invece. Il mio peggior nemico. – E lei era la tua fidanzata, Fleed. Te l’ho portata via. Adesso è mia. Almeno in questo t’ho battuto.
Hydargos terminò in fretta il suo liquore, mentre accanto a lui Naida cercava di riprendere una parvenza d’autocontrollo. Poi lui gettò la coppa sul tavolo e si voltò verso la sua schiava, una luce febbrile negli occhi.
– Abbiamo ancora questa notte – l’afferrò per le spalle e la strinse a sé, sentendosi invadere da un fuoco che ben conosceva e che solo lei avrebbe potuto estinguere – Forse è tutto ciò che ci resta.
Naida esitò un solo istante. Guardò Hydargos, quel suo padrone che tutto sommato non era mai stato crudele con lei, che l’aveva sempre trattata bene, che quella sera aveva cercato di difenderla incurante della sua stessa rovina; per la prima volta da che si conoscevano, sentì nel petto un calore che credeva non avrebbe provato mai più.
Ma allora… possibile che…?
L’immagine di Duke Fleed balenò nella sua mente.
NO!
Non voleva pensare a cosa provava veramente per quel veghiano… non voleva pensare all’orrore che l’attendeva l’indomani… non voleva pensare affatto.
Si gettò tra le sue braccia, si alzò sulle punte dei piedi e lo baciò febbrilmente.

Capitolo 10 – Tortura

Due soldati vennero il mattino dopo a prendere Naida; sulla soglia, lei si volse un’ultima volta per salutare Hydargos. Fu un addio molto freddo e formale, ben diverso dal bacio infuocato che si erano scambiati pochi istanti prima, nell’alloggio, al sicuro da sguardi indiscreti. Poi lei seguì docilmente i due uomini e lui, rimasto fino all’ultimo immobile sulla porta a guardarla allontanarsi, s’incamminò quasi di corsa giù per un corridoio puntando verso l’ufficio privato di Zuril.
Come al solito, lo scienziato si mostrò molto calmo e molto ragionevole.
Certo, avrebbe fatto in modo di non recare danni irreversibili durante il condizionamento… danni fisici, cioè. Era impossibile prevedere cosa sarebbe successo nella mente di Naida.
– Ammettiamo che sopravviva alla missione – spiegò pazientemente Zuril – Il chip può essere rimosso, e con esso il suo influsso; ma Naida avrà subito i suoi effetti da tempo, senza contare la distorsione vera e propria. È molto difficile che possa uscire da quest’esperienza senza conseguenze – vide l’espressione angosciata di Hydargos e aggiunse: – La reazione più comune è un esaurimento nervoso, che può essere curato con successo. Comunque, io seguirò personalmente tutte le fasi del condizionamento. Posso assicurarti che lavorerò con la massima attenzione.
– È già molto – mormorò Hydargos – Grazie.


Un rapido passaggio al centro medico, e il microchip venne iniettato a Naida, che sentì solo un leggero pizzicore. Controllato il funzionamento del chip, Naida fu trasferita ad una stanza nella zona detenzione (“camera per gli interrogatori”, le spiegarono). Naida venne fatta addossare ad una parete metallica e legata con cinghie; la giovane donna fece appena in tempo a guardarsi in giro, terrorizzata, quando la porta scivolò di lato lasciando passare l’immensa figura di Re Vega, seguito da un uomo che riconobbe subito… Zuril. Il padrone di Kein.
Mentre il sovrano si poneva in disparte, il ministro sedette ad un terminale, impostando rapidamente la procedura per la distorsione mentale: era un lavoro delicato, e ci teneva ad eseguirlo con cura. Lui lavorava sempre con cura.
Zuril non era un sadico: lo fosse stato, avrebbe goduto nel torturare Naida. Invece, per la sua fredda mente di scienziato non vi era alcun piacere in quanto stava per fare: anzi, lo considerava un autentico spreco. Una donna così bella… un vero peccato.
Represse rapidamente quegli assurdi scrupoli ed osservò Naida: si controllava, ma era al limite del panico.
Così non va. Con un soggetto terrorizzato non si lavora certo bene.
Evitando qualsiasi gesto brusco, un po’ come avrebbe fatto per tranquillizzare un animaletto atterrito, si alzò e le si avvicinò per esaminare i legami: – Ti stringono troppo? – aveva una voce gentile, nonostante quello che stava per farle.
Naida, che lo fissava con gli occhi sbarrati, scosse lievemente la testa. Tremava da capo a piedi, e Zuril se ne accorse: – I soldati ti hanno maltrattata?
Naida scosse ancora la testa. No.
Zuril gettò un’occhiata sopra la spalla a Re Vega, che sedeva impassibile poco più in là, e abbassò la voce: – A me puoi dirlo. Parla pure liberamente.
Lei fece ancora segno di no col capo: – Non… mi hanno trattata male, signore.
Pareva incredula di aver trovato un veghiano che la trattasse con gentilezza.
Andiamo meglio, si disse Zuril. È sempre una buona politica mostrarsi amichevoli con il soggetto di un esperimento.
Le sorrise lievemente, mentre le allacciava una sottilissima fascia metallica attorno ad un polso.
– Serve a controllare le tue condizioni – spiegò – Ora ascoltami bene, Naida. Il chip che ti è stato iniettato può scatenare crisi di dolore ai limiti del sostenibile.
– Sì – lei si umettò le labbra secche – Sì, lo so.
– Bene. Ricorda allora che non ti conviene resistere al trattamento. Più ti ribelli, più soffri. Se collabori, finirà tutto in fretta.
Naida assentì, gli occhi dilatati dal terrore.
– Un’altra cosa – Zuril parlava sempre con estrema gentilezza – Non è possibile evitare il condizionamento, ricordatelo bene. Opporsi significa solo prolungare i tempi e provare dolore. Tu verrai condizionata comunque; sta a te decidere se vuoi patire o meno.
– No – mormorò lei – No. Non voglio soffrire.
– Perfetto. Allora sarà una faccenda rapida ed indolore. …Sei pronta?
Naida assentì: – Facciamo presto.
– Bene. Cominciamo – Zuril sedette al terminale del computer che governava il tavolo, e impartì un paio d’ordini. Una gran luce s’accese sul soffitto, proprio sopra Naida, inondandola completamente. La luce prese poi a baluginare, bianca, gialla, verde… Naida avrebbe voluto distogliere gli occhi, ma non poteva farlo… la luce continuava a lampeggiare, blu, viola, rossa…
Suoni inquietanti cominciarono ad insinuarlesi nelle orecchie, un ritmo serrato simile ad un veloce battito cardiaco… poi una voce oscura ed inconfondibile, la voce di basso profondo di Re Vega.
– Sai perché sei prigioniera di Vega, Naida? – chiese Sua Maestà – Perché Fleed è caduto. Ed è caduto perché le sue difese erano inutili.
– Siamo un popolo pacifico – rispose lei, sempre abbagliata dalle luci – Non abbiamo un sistema difensivo valido.
– Un popolo pacifico capace però di costruire una macchina da combattimento come Goldrake! – obiettò Re Vega, sarcastico.
– Ma Goldrake è stato costruito per proteggere Fleed…
– Però non l’ha fatto. Duke Fleed vi ha abbandonati, è fuggito quando avevate bisogno di lui. È un vigliacco.
– Non è vero! – esclamò Naida, ma un dolore spaventoso la fece spasimare. Aveva l’impressione che le fosse stato messo un cerchio di ferro attorno alla testa, un cerchio che stringeva sempre più, sempre più…
Improvviso com’era apparso, il dolore scomparve.
– Duke Fleed è un vigliacco – ribadì Re Vega – e un traditore.
– No! – Naida gridò, mentre il dolore esplodeva in lei, più forte che mai.
– Duke Fleed non vi ha protetti, non vi ha salvati dall’invasione, vi ha traditi! – incalzò Re Vega.
– No, non è vero! – Naida lanciò un urlo lacerante, dibattendosi come una forsennata.
– Non resistere, Naida – l’avvertì Zuril – altrimenti il dolore sarà sempre più forte.
– Sai dov’è ora Duke Fleed? – continuò Re Vega, implacabile – Vive sulla Terra, tranquillo e felice. Credi che gli importi cos’è successo a te e agli altri fleediani rimasti in vita?
– No…! – Naida scoppiò in singhiozzi; chiuse gli occhi, ma le luci continuarono a baluginarle nella mente, tormentandola… Duke Fleed non era un traditore, non poteva, non doveva…
In preda ad un nuovo, lancinante attacco, Naida urlò con quanto fiato aveva in gola.


Le porte scorrevoli scivolarono di lato, e Zuril entrò nello studio di Hydargos; la prima cosa che vide fu la coppa di liquore sul tavolo davanti a lui. Uh-uh.
Hydargos non alzò la testa, non lo guardò nemmeno.
– Avete finito? – chiese, con voce sorda.
– Finito. È perfettamente condizionata – Zuril andò ad appoggiarsi contro il bordo della scrivania e rimase lì, immobile.
Hydargos bevve un sorso: – Ha sofferto molto?
Zuril si guardò rapidamente attorno, cercando con cura le parole adatte.
– Purtroppo, Naida doveva venir condizionata a considerare traditore un uomo che non lo è affatto, e di cui lei è ancora innamorata… Lo sapevi, vero, che Naida ama Duke Fleed?
Hydargos batté la coppa sul tavolo: – Naida è una schiava. I suoi sentimenti non m’interessano. A me basta che sia docile, obbediente e fedele; a queste condizioni, può amare chi vuole.
– Credevo tenessi a lei.
– Ripeto: è solo una schiava.
Zuril lo guardò, una strana espressione sul viso: – Molto bene, se la pensi così…
Hydargos alzò di scatto la testa e per la prima volta in quel dialogo fissò direttamente il collega: – Cos’è successo? Sta male?
– Il condizionamento non è piacevole da subire, e lei ha resistito parecchio, nonostante io l’avessi consigliata di non farlo. Naida non voleva assolutamente accettare la colpevolezza di Duke Fleed…
– E allora…? – chiese ansiosamente Hydargos.
Zuril esitò un ultimo istante: – Avresti dovuto avvertirci che era incinta.
Lui rimase come impietrito: – …Cosa…?
– Oh, non lo sapevi? – Zuril pareva molto a disagio – Effettivamente, era di poche settimane. Probabilmente non lo sapeva con precisione nemmeno Naida stessa.
– L’ha perso? – alitò Hydargos.
– Ha abortito, sì. Adesso è al centro medico, ma la dottoressa Koyra mi ha assicurato che si riprenderà perfettamente. Nonostante quella sua aria fragile, Naida è una donna forte.
– Di… di quanto era?
– Quattro settimane. Maschio.
Era mio, si disse Hydargos, era proprio mio. Mio figlio.
– Potrà averne ancora, in seguito – aggiunse Zuril, e la sua comprensione era sincera: aveva un figlio anche lui. Capiva.
Hydargos s’alzò: – Vado a vederla.
– È sotto sedativi – l’avvertì Zuril – Non ti potrà parlare. È inutile che tu vada.
Hydargos s’arrestò un attimo sulla soglia: – Puoi sempre provare a fermarmi.
Le porte si chiusero alle sue spalle.
Zuril guardò la sedia su cui fino ad un istante prima era stato Hydargos; poi si versò da bere e alzò il calice come per un brindisi, sorridendo: – Solo una schiava, hm?


Pallidissima, gli occhi cerchiati di ombre azzurrine, Naida giaceva in un letto del centro medico; era stata sedata, per cui non reagì quando l’ombra di Hydargos cadde su di lei.
Impassibile e silenzioso, lui osservò quella che era stata la madre di suo figlio; poi alzò gli occhi sul display sulla testiera del letto. Per quel poco che s’intendeva di medicina, capiva da sé che le condizioni di Naida erano abbastanza buone; comunque, era stata la primaria in persona a rassicurarlo. Naida fisicamente stava bene, si sarebbe ripresa senza problemi.
Purtroppo, per il bambino non c’era stato nulla da fare.
Hydargos serrò le mascelle, affilando gli zigomi, e sedette accanto al letto.
Uno dei tanti, deleteri effetti dell’inquinamento di Vega era stato un forte aumento della sterilità anche negli individui più sani. Un figlio era divenuto un bene ancora più prezioso perché raro. Perderne uno non significava automaticamente che in futuro avrebbe potuto arrivarne un altro.
Lui aveva perso il suo.
Rimase in silenzio, immobile, il viso di pietra.
Naida si mosse nel sonno, gemette. Una delle sue mani bianche scivolò sulla coperta, mentre lei, in preda agli incubi, si agitava muovendo la testa da una parte all’altra.
D’istinto Hydargos le prese la mano, gliela strinse tra le proprie; lei si rilassò, e con un sospiro sprofondò nuovamente nel sonno.
Lui la guardò: appariva così fragile, così fragile… persino la mano sembrava ancora più piccola, più minuta. Con precauzione tornò a deporgliela sul letto; avrebbe voluto parlarle, ma non sapeva che cosa dire. Avrebbe voluto carezzarle i capelli, ma non osava farlo.
Non osava proprio lui, Hydargos, che fino ad allora aveva fatto di lei quel che più gli era piaciuto.


Lei sedeva in un angolo della sala d’aspetto, remota, gli occhi persi come in un sogno – e non era un bel sogno.
Era guarita. Le avevano procurato un vestito tagliato a tunica secondo la foggia di Fleed; anche gli orecchini azzurri provenivano da Fleed, probabilmente erano tutto ciò che era rimasto di una delle tante, anonime schiave catturate.
Hydargos entrò nella saletta, rimanendo silenzioso presso la porta; lei lo guardò senza dare il minimo segno di riconoscerlo.
– Buona sera – mormorò Naida, abbassando subito gli occhi.
Lui sentì un fremito percorrergli la schiena. Lei l’aveva trattato come un perfetto sconosciuto. Si schiarì la voce: – Non ti ricordi di me?
– Ci conosciamo…? – stavolta Naida lo guardò con attenzione. Si mise in piedi ponendosi proprio davanti a lui, alzando il mento per poterlo guardare bene in viso. Aggrottò la fronte nello sforzo di ricordare, ma la memoria non venne.
Naida non sapeva chi fosse, quell’uomo che sembrava aspettarsi qualcosa da lei. A disagio, continuò a scrutarlo: sentiva confusamente di conoscerlo, e dentro di sé era sicura che lui fosse molto meno crudele di quanto il suo aspetto mostruoso potesse lasciar credere… però nessuna luce si accese a rischiarare la sua povera mente annebbiata.
Si morse un labbro, scostandosi nervosamente una ciocca di capelli dal viso; poi azzardò, incerta: – Sei… mio marito?
Hydargos fece per rispondere, capì di non potersi fidare della propria voce e scosse il capo. No.
Un rumore di passi perfettamente scanditi, e due soldati entrarono a loro volta nella saletta; alle loro spalle, Zuril s’arrestò presso la porta.
– Chiedo scusa, signore – esordì uno dei due militi – Dobbiamo portare via la prigioniera.
Il loro comandante non rispose, limitandosi a chinare il capo in segno d’assenso; si fece da parte mentre i due uomini prendevano in consegna Naida.
Lei non parve nemmeno far caso a loro: scrutava Hydargos, gli occhi colmi di domande inespresse. Continuò a fissarlo mentre la portavano via, e s’allontanò per il corridoio sempre restando voltata verso di lui, finché due porte non scivolarono chiudendosi e si frapposero tra di loro.
In silenzio, Zuril si fece avanti, fermandosi al fianco di Hydargos.
– Non si ricorda di me – mormorò questi.
– È naturale. Effetto della distorsione – rispose calmo lo scienziato – Col tempo la memoria tornerà.
Hydargos tacque, limitandosi a guardarlo con aria interrogativa; Zuril allora spiegò, scegliendo con cura le parole:
– Per attuare la distorsione mentale, abbiamo selezionato i ricordi che erano utili al nostro scopo: la vita trascorsa su Fleed, la conquista del pianeta e tutto quanto di negativo Naida abbia subito dopo la sua cattura. Altri ricordi sono stati alterati in modo da far credere a Naida che Duke Fleed si sia comportato da traditore. Sapere che l’uomo che ama l’ha abbandonata nelle nostre mani sarà un pensiero fisso, ossessionante che farà scattare in lei il bisogno di vendicarsi – Zuril occhieggiò Hydargos ed aggiunse: – Ovviamente, per ottenere questo risultato bisogna che Naida ricordi solo le proprie sofferenze. Non certo il fatto di essere stata trattata bene.
– È per questo che mi ha dimenticato? – chiese Hydargos, il viso di pietra.
Zuril si strinse nelle spalle: – Con lei, tu sei stato un padrone molto generoso. A noi serviva che Naida ricordasse solo dolore e sofferenza.
– Capisco – e Hydargos si chiuse in un silenzio glaciale.


Capitolo 11 - Terra

– Dottor Procton! – gridò improvvisamente Hayashi – C’è un oggetto non identificato in rapido avvicinamento!
– Yamada, passami il segnale sul video principale – ordinò Procton, calmo come sempre.
– Subito, professore! – un veloce comando manuale di Yamada, e sul grande schermo che campeggiava sull’intera parete del laboratorio apparve una sfera di fuoco: qualunque cosa fosse, si era incendiata a causa dell’attrito con l’atmosfera e stava precipitando al suolo a grande velocità.
– Sembra un meteorite – azzardò Hayashi.
Procton scosse lentamente il capo: – Non ne sono così sicuro. Qual è la sua traiettoria?
Hayashi controllò il suo monitor: – Dottore, se non brucerà interamente entro l’atmosfera, cadrà nel bosco dietro la montagna.
Procton strinse gli occhi. Dietro alla montagna… vicino cioè alla fattoria, al laboratorio… e a Goldrake.


La scia luminosa sfrecciò nel cielo, scomparendo dietro la vetta; un istante dopo la terra tremò.
Il cavallo s’impennò nitrendo di terrore, sbalzando di sella Rigel che piombò urlando al suolo; anche Mizar cadde, rischiando di ritrovarsi tra gli zoccoli dell’animale imbizzarrito.
Dalla fattoria si levò un improvviso coro di muggiti, belati, nitriti: tutte le bestie stavano urlando il loro terrore.
Da dietro il fienile accorsero Actarus e Venusia.
– Ma che è successo? – gridò il giovane.
Rigel si rimise a sedere, strofinandosi amorosamente la testa: – Che cos’è successo, chiede lui… era una palla di fuoco! È caduta nel bosco!
– Come? Non è stato un terremoto? – si stupì Actarus.
– Una palla di fuoco, hai detto? – chiese Venusia, allarmata.
– Una palla di fuoco, sì! – confermò Rigel, reciso – Doveva essere un UFO, te lo dico io!
Alle loro spalle, i portelloni della rimessa vennero aperti; con il consueto sibilo, il disco giallo di Alcor s’innalzò rapidamente nel cielo.
– Ecco, vedi: Alcor sì che è un ragazzo intelligente! – si compiacque Rigel; mise le mani a coppa attorno alla bocca ed urlò: – Ehi, Alcor, gli extraterrestri sono nostri amici! Vedi di trattarli bene!
Actarus gettò a terra il forcone che ancora stringeva in mano e si slanciò rapidamente verso la rimessa, dove aveva ricoverato la sua speciale motocicletta.
– E tu dove corri? – gli gridò Rigel – Tu potresti combinare solo guai! Ti ordino di tornare indietro!
Si slanciò in avanti, deciso ad inseguirlo, e subito Venusia gli tagliò la strada, afferrandolo per trattenerlo: – Papà, lascia stare Actarus!
– Quel buono a nulla, quel fannullone! Ogni scusa è buona per non lavorare…!
– Papà, smettila!
Actarus balzò sulla sua moto e l’avviò con un secco colpo di pedale. Il rombo del motore coprì per intero gli schiamazzi di Rigel e le proteste di Venusia.


Spinto a tutta velocità, il TFO oltrepassò rapidamente la vetta innevata del monte spingendosi sulla vasta abetaia che ne copriva l’intero versante.
Dall’alto, si notava subito la zona dell’impatto: alberi sradicati facevano da corona al relitto di un’astronave. Un incidente…?
Alcor sorvolò la zona, cercando se vi fossero tracce di superstiti, ma in quel punto gli abeti crescevano ancora fitti, rendendo difficile scorgere qualcosa… poco al di sotto della foresta però c’era una zona priva d’alberi, una sorta di sentiero innevato: Alcor lo conosceva bene, vi era stato più volte con la jeep, anche se…
All’improvviso, un movimento tra gli alberi sotto di lui. Alcor avvicinò il disco: dalla foresta erano emerse alcune figure che correvano proprio su quel sentiero. Una, snella e dai capelli lunghi, sembrava una ragazza; alle sue spalle correvano una decina d’inseguitori, che Alcor riconobbe subito per soldati di Vega.
Dieci contro una donna… Alcor fece per sparare i razzi contro i veghiani, ma si trattenne: la ragazza era troppo vicina, avrebbe potuto colpirla. Staccò allora un mitra dal supporto a fianco della postazione di pilotaggio, abbassò il più possibile il disco e aperto il vetro deflettore fece fuoco sui soldati, falciandone un paio alla prima raffica. I superstiti smisero subito d’inseguire la ragazza e risposero al fuoco di Alcor, che evitò per un soffio di venir centrato dalle loro raffiche e alzò prudentemente il disco.
Approfittando di quel diversivo, la giovane donna aumentò la velocità: poco oltre il sentiero faceva una curva, se fosse riuscita ad oltrepassarla i soldati l’avrebbero persa di vista e lei avrebbe potuto tentare di nascondersi nuovamente nella foresta.
I veghiani continuavano a sparare contro Alcor; uno di loro s’accorse che la ragazza stava per scomparire dietro la curva e ordinò di riprendere l’inseguimento. Gli uomini tornarono a slanciarsi dietro la fuggitiva, ma proprio allora udirono un rombo di motore alle loro spalle. Si voltarono di scatto, proprio mentre Actarus balzava con la sua moto in mezzo a loro.
Ad un comando del giovane, dai mozzi delle ruote fuoriuscirono due punte che trafissero i due militi più vicini; Actarus si gettò addosso ad un terzo soldato, colpendolo al viso e strappandogli di mano il mitra a raggi energetici.
Due dei soldati superstiti aprirono il fuoco contro Actarus; con un balzo, il giovane schivò i colpi sparando a sua volta una raffica che uccise i suoi due nemici.
Actarus respirò, guardandosi attorno in cerca di altri avversari; proprio allora, il soldato cui aveva strappato il mitra e che aveva mezzo stordito con un pugno lo assalì alle spalle, afferrandogli le caviglie e facendolo cadere al suolo. Rapidissimo, Actarus sparò al veghiano che crollò a terra senza nemmeno un grido.
Un silenzio irreale piombò sul sentiero. Actarus si rimise in piedi guardandosi attorno: nessuno dei soldati era sopravvissuto.
Percepì un lievissimo rumore alle sue spalle, e si voltò di scatto.
Da dietro lo spuntone di roccia attorno cui curvava il sentiero, era apparsa un’esile figura femminile dai lunghi capelli sciolti sulle spalle; la nuvola che velava il sole gettava la sua ombra su di lei, ma… non era possibile…
Actarus rimase a fissarla, stupefatto. Non poteva credere ai suoi occhi, non poteva essere lei… non era possibile, non era logico…
La nuvola si scostò, e un raggio di sole piovve sulla giovane donna, illuminandone il viso dai grandi occhi spauriti, accendendo di riflessi dorati la lunga chioma verde chiaro… era proprio lei.
Incredulo, Actarus dovette schiarirsi la voce, che minacciava di spezzarglisi ad ogni sillaba: – Ma tu sei… Naida…?
Lei trasalì, parve riscuotersi come da un sogno.
– Naida! – Actarus avrebbe voluto slanciarsi in avanti verso di lei, ma sentiva le ginocchia rigide, pesanti… il suo stesso corpo pareva non potesse obbedirgli: – Naida! Mi riconosci? Sono Duke Fleed!
Stavolta, lei parve finalmente reagire: sembrava quasi che fino ad allora non si fosse accorta del giovane che aveva davanti: – Duke Fleed…?
– Ma sì, sono Duke! Non ti ricordi?
Naida si riscosse, come se fosse finalmente riuscita a destarsi da un sogno sgradevole. Lo rivide, riconobbe gli occhi azzurro cupo, i lineamenti che aveva tanto amato… ascoltò quella voce che non aveva mai dimenticato, e che aveva creduto non avrebbe più potuto udire…
– Oh, sì, sì… – sentì le lacrime scorrerle liberamente sul viso, mentre gli tendeva le braccia: – Sei tu… sei proprio tu! Duke, amore mio!
Un attimo prima, Actarus era stato incapace di muoversi da dove si trovava; un istante dopo fu da lei, la stringeva tra le braccia, sentiva la seta dei suoi capelli contro la propria guancia… era pazzesco, impossibile, ma era proprio lei, lei! Naida, la sua Naida che aveva creduto d’aver perso per sempre… la sua voce dolce, il suo profumo… i ricordi parvero sommergerlo, e Actarus sentì mancargli il respiro. Caddero entrambi in ginocchio sulla neve e rimasero abbracciati, increduli d’essersi ritrovati.
– Mi ero rassegnata a non vederti mai più! – Naida gli nascose il viso contro il petto: lo ricordava ragazzo, lo ritrovava uomo. Ma era sempre lui, il suo Duke, il primo vero amore della sua vita.
– Temevo che fossi stata uccisa quando Vega ha invaso il nostro pianeta – Actarus la strinse a sé quasi avesse avuto paura che lei svanisse come un sogno – Non credevo ai miei occhi, vedendoti!
– Nemmeno io – Naida si scostò da lui quel tanto che le bastava per poterlo guardare in viso, ritrovare in lui il ragazzo che aveva tanto amato; anche Actarus la scrutava, cercando in lei la sua amica d’infanzia, il suo antico amore… l’adolescente d’un tempo era divenuta una bellissima giovane donna.
Si guardarono, e come sempre era accaduto in passato, si capirono. Fu come se entrambi fossero stati riportati improvvisamente a quanto era accaduto un’infinità prima.
All’improvviso, rividero le macerie della reggia, il cielo rosso solcato da colonne di fumo oscuro, i dischi nemici che piombavano dall’alto portando distruzione e morte… la polvere, il fumo acre, le grida di terrore e l’ancora più terribile silenzio…
Vega aveva vinto.
E gli anni erano inesorabilmente passati.
Naida sentì gli occhi bruciarle ancora: – Oh, Duke… quanto tempo perduto!
Lui la strinse tra le braccia: – Siamo di nuovo insieme. Adesso, nessuno ci separerà, Naida. Mai più.
Lei assentì, si sforzò di sorridergli; Actarus l’interrogò con lo sguardo prima di chinarsi a baciarla, dapprima timidamente, quasi con precauzione… poi il tempo perduto non fu più che un semplice pensiero di cui dimenticarsi, mentre si stringevano l’uno all’altra con la passione dei loro giovani anni.


Erano entrambi così giovani, così belli… nessuno, vedendoli assieme, avrebbe dubitato che fossero fatti l’uno per l’altra. Una meravigliosa coppia, felice ed innamorata, che passeggiava nella foresta innevata.
Hydargos non riusciva a staccare gli occhi dall’immagine sullo schermo: Naida… la sua Naida… mentre stringeva tra le braccia Duke Fleed, si alzava sulle punte dei piedi per rispondere al suo bacio (anche con me lo faceva!).
Davanti a lui, una bottiglia colma di liquido dorato scintillava, invitante. Hydargos si versò una coppa di liquore, mentre continuava a guardare sullo schermo i due giovani che ridevano, si abbracciavano, parlavano cercando di colmare quel vuoto che anni di separazione avevano scavato tra di loro.
– È stata programmata per comportarsi così – disse alle sue spalle la voce di Zuril.
– Lo so – rispose Hydargos, ostentando un’impassibilità che non provava affatto.
– Più avanti ricorderà che Duke Fleed è un traditore – spiegò Zuril, restando in piedi accanto alla poltrona del collega – Per ora, bisogna che lui non abbia il minimo sospetto sul conto di Naida, per cui lei dovrà mostrarsi… hm… amichevole.
– Capisco – occhi foschi e viso imperturbabile, Hydargos sorseggiò lentamente il suo liquore.
Zuril esitò un istante; poi non resistette: – Pensavo che tu non avresti… voglio dire, Naida…
– Credi che m’importi di quello che lei fa o non fa con quel Duke Fleed?
Francamente sì, amico mio. Penso proprio che t’importi. Solo che moriresti, piuttosto che ammetterlo, fu ciò che pensò Zuril.
– No, naturalmente – fu ciò che invece rispose – Stupido io a preoccuparmi.
Hydargos non disse nulla; bevve un altro sorso, e tornò a guardare lo schermo.

Capitolo 12 – L’ombra del passato

– L’unico modo per descrivere Fleed dopo l’occupazione di Vega è paragonarlo all’inferno.
Raggomitolata su una sedia, Naida parlava guardando fisso davanti a sé, senza vedere niente né nessuno, la mente persa in spaventosi ricordi. Immobili, Actarus, Alcor e Procton ascoltavano senza fiatare, ammutoliti dall’orrore.
– I pochi che sono riusciti a sopravvivere al massacro – continuò Naida, sempre senza rivolgersi a nessuno in particolare – sono finiti schiavi nelle miniere radioattive. Altri, sono stati utilizzati come cavie per esperimenti atroci, o sono stati trucidati per semplice divertimento… o per monito – “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?” . Naida rabbrividì, chiuse gli occhi al ricordo.
Le ci volle qualche istante prima di essere nuovamente in grado di riprendere il suo racconto: – Ogni giorno, distruzioni, torture, massacri… non hanno rispettato niente e nessuno. Sterminavano subito i deboli, i malati, gli anziani – deglutì pensando alla nonna, a sua madre, e riprese, la voce malferma: – Ho visto distruggere case, palazzi, giardini. Devastavano per il gusto di farlo. Sentivamo ogni giorno le esplosioni delle bombe, il crollo delle case… e poi urla. Urla. Urla. – tacque, chinando la testa.
Agghiacciati, i tre uomini si scambiarono un’occhiata: per quanto avessero immaginato un simile orrore, sentirlo narrare dalla voce di Naida era infinitamente peggio di ogni loro idea.
Naida parve riscuotersi, come se fosse emersa improvvisamente da un abisso; sentì tutti gli sguardi su di sé e aggiunse: – Io… io non so come sia riuscita a sopravvivere e infine a fuggire.
Era vero: non avrebbe saputo dirlo. Non ricordava niente, fino a quando non si era trovata in quella saletta d’aspetto, con quell’uomo alto che… che…
Una fitta dolorosa alla testa. Naida si portò una mano alla fronte, il viso contratto dal dolore; subito, Procton fece cenno ai due giovani di non chiederle più niente, per il momento.
Actarus s’avvicinò a Naida, le mise le mani sulle spalle: – Adesso sei qui con me, e non devi più avere paura. La Terra è bella come lo era il nostro Fleed, e la gente è buona. Qui, potrai dimenticare tutti gli orrori che hai conosciuto.
Naida serrò le labbra in una smorfia di sofferenza, gli occhi fissi sul pavimento.
Actarus le fece alzare il viso, guardandola negli occhi: – Starai con me, Naida. Anche la gente della Terra conosce il significato della parola amore, anche loro amano la vita così come anche noi l’abbiamo sempre amata. Siamo più simili di quanto tu non possa credere.
Naida non reagì, mentre Actarus l’attirava tra le sue braccia; subito, Alcor e Procton si scambiarono un’occhiata. Meglio uscire, lasciarli finalmente soli.
Scivolarono silenziosamente fuori della stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
– Mi sono venuti i brividi! – Alcor si strinse nella sua giacca – Davvero, professore, sentendo il racconto di Naida… e vedendola in viso… ma voi lo sapete meglio di me. Non era così anche Actarus, quando è arrivato sulla Terra?
– Non proprio – rispose Procton; ma non volle aggiungere altro.
Tante volte, nei libri aveva trovato il termine “abissi di disperazione” per descrivere gli occhi d’un protagonista affranto dal dolore; sempre, aveva liquidato quella frase come eccessiva, melodrammatica.
Ora, dopo aver incontrato lo sguardo di Naida, quella splendida giovane donna che gli aveva ricordato una ninfa dei boschi, capiva d’aver sbagliato.
Alcor pensava che Actarus avesse avuto un’espressione simile, un tempo… non era stato così. Era sconvolto, terrorizzato, addolorato; mai però Procton aveva avvertito in lui un simile vuoto, una tale angoscia senza speranza, una simile stanchezza di vivere.
Di una cosa era certo: nonostante tutto l’orrore provato da Actarus, per Naida le cose erano andate infinitamente peggio; e lui non era sicuro di voler sapere cosa la gente di Vega avesse fatto a quella creatura.


L’uscita di Procton ed Alcor era passata del tutto inosservata.
Naida si voltò verso un’ampia finestra, guardando senza vederlo il panorama che si stendeva davanti a lei: la pineta, il fiume, le montagne innevate che brillavano contro il cielo crepuscolare… era tutto molto, molto simile a ciò che un tempo era stato Fleed. E tutto inesorabilmente diverso.
Singhiozzò lievemente, sentendosi il petto oppresso da un’inesprimibile angoscia; ignaro del suo tormento, Actarus le cinse le spalle, osservando con lei nel cielo le ultime tracce fiammeggianti del sole morente.
– Anche su Fleed le nostre giornate erano scandite dai suoni della natura – riprese, assorto nei suoi ricordi – Correvamo a piedi nudi nell’erba dei prati… e quante volte ci rimproveravano perché stavamo troppo tempo lontani da casa!
Naida rabbrividì: rammentava ogni particolare, il profumo dei fiori, l’erba che sfiorava le loro caviglie, le loro mani strette…
– A volte c’incontravamo di nascosto – proseguì Actarus; ora che aveva cominciato a rammentare, i ricordi gli fluivano inarrestabili, affollandosi nella sua mente: – Quando lo facevamo, il tuo fratellino veniva a spiarci.
Una fitta al cuore: – …Sirius…!
Actarus sorrise, la mente sempre più volta al passato: – Ti ricordi di quella volta che ci eravamo rifugiati sotto un albero, e lui è saltato giù dai rami lanciando urla selvagge? Era dispettoso e amava fare scherzi, Sirius, ma era un ragazzino molto simpatico. …Naida! Che ti succede?
Lei singhiozzò, asciugandosi rapidamente gli occhi: – Sirius è stato ucciso!
– Ucciso?! – Actarus si riscosse: quel ragazzino vivacissimo e pieno di vita non c’era più… – Ma com’è successo?
– Nei laboratori di Vega – Naida deglutì, riprese fiato – In un esperimento… è orribile! – si coprì il viso con le mani, ma il pianto non venne.
– Sì, è orribile! – Actarus l’afferrò per le spalle, la strinse: – Dobbiamo fermare i veghiani! Odiare e far soffrire gli altri, ecco cosa li fa felici! Sono dei veri mostri!
– Mi fai male…! – gemette Naida.
– Scusami! – Actarus la lasciò immediatamente, mortificato, e lei si tirò da parte evitando di guardarlo.
Uno sprazzo di memoria… ricordò altre mani su di sé – bluastre, aliene, ma nel complesso gentili: possibile che fossero state invece proprio le mani del suo Duke a causarle dolore?
– Mi dispiace, davvero – aggiunse Actarus – ma questa notizia mi ha sconvolto!
Naida assentì, distrattamente. Perché non riusciva a ricordare altro?
Ma anche Actarus non badò alla reazione della sua compagna. Pallido d’ira, non poteva pensare ad altro che non fosse il suo nemico: – Bisogna fermare Vega! Non possiamo stare a guardare! Troverò il modo di attaccarli, di sconfiggerli!
Naida si voltò finalmente a guardarlo, il bel viso chiuso ed indurito, gli occhi gelidi, e non rispose.


– Ecco la tua camera – Actarus guidò Naida in una stanza che in genere riservavano agli ospiti. Ampie finestre davano sulle montagne oltre la pineta; arredata con eleganza e semplicità nei toni del blu e dell’azzurro, la camera era ariosa, serena. L’ideale, per una creatura tormentata come Naida.
La giovane donna si guardò rapidamente in giro: vide il letto, i mobili – armadi, dovevano essere… – lo strano tessuto colorato per terra…
– È un tappeto – spiegò Actarus.
Naida lo osservò con curiosità: abituata da anni all’asettico ambiente di Vega, tutto nude superfici lucide, metallo e plastica, i mobili in legno le sembravano qualcosa di così lontano dalle sue abitudini… e quel tappeto, poi! Nessuno su Vega avrebbe tenuto un tessuto così spesso per terra: l’avrebbero considerato un ricettacolo di sporco e germi.
Altro tessuto blu pendeva dalle finestre: evidentemente, sulla Terra non c’era la stessa ossessione per l’igiene che regnava su Vega. Naida s’avvicinò alle finestre, toccò il morbido velluto color della notte.
– Sono tende – spiegò Actarus – Devi chiuderle, o domattina la luce del sole ti sveglierà all’alba. Adesso ti faccio vedere – tirò le cortine mentre Naida, silenziosa, lo osservava con curiosità. Actarus capiva: anche lui, non appena arrivato sulla Terra, aveva trovato tutto piuttosto strano; col tempo si era abituato. Sarebbe accaduto anche a lei.
Le mostrò i vari mobili, facendole vedere come si aprivano gli armadi (girare una chiave, tirare una maniglia, niente aperture automatiche!). Poi le mostrò il bagno, che naturalmente presentava stranezze anche maggiori: la doccia senza ultrasuoni, per esempio, o lo strambo asciugacapelli… senza contare l’antiquato, ridicolo sciacquone. Actarus rise mentre gliene mostrava il funzionamento; stavolta Naida non resisté e sorrise a sua volta. Era davvero così strano… così buffo!
Actarus rise più forte, sperando che lei s’unisse alla sua ilarità, ma Naida tornò subito seria, pensosa. Sembrava che qualcosa la rodesse, tormentandola senza lasciarle un attimo di pace.
In silenzio, Naida tornò nella stanza; scostate le tende guardò fuori, beandosi di quel meraviglioso paesaggio che la luce lunare rendeva magico, irreale.
– È un mondo molto bello, non trovi? – Actarus le si pose a fianco – Anche se ormai vivo qui da anni, continuo a trovare che la Terra sia meravigliosa. Non ci si può abituare alla bellezza: ti sorprende sempre.
– È molto diverso da Fleed – mormorò Naida.
– È diverso, sì – convenne lui.
Naida alzò gli occhi sullo spicchio argenteo che sovrastava le montagne: – Come si chiama quel satellite? – un vago ricordo le s’affacciò alla memoria – È la Luna?
– Si chiama così – assentì lui.
Naida aggrottò la fronte: conosceva quel nome… qualcuno doveva averglielo detto. Ma chi? Quando? Se solo i ricordi fossero tornati…
Stelle, un’ampia cupola di plastivetro… un meraviglioso pianeta azzurro che galleggiava nell’oscurità… qualcuno con lei, una voce profonda che le diceva… le diceva… la Terra, la Luna…
Così com’era improvvisamente apparso, il ricordo svanì.
– Ti senti bene?
– Cosa…? – Naida batté le palpebre, parve emergere da un mondo remoto… un mondo in cui erano rimasti i suoi ricordi perduti – Io… sto bene, sì. Sono solo un po’ confusa.
– Sei così pallida – Actarus le sfiorò una guancia con la mano, e d’istinto lei gliela prese, se la premette contro il viso.


I pugni contratti fino a far schioccar le nocche, le mascelle serrate fino a fargli dolere l’articolazione, Hydargos fissava lo schermo senza staccare lo sguardo.


Naida chiuse gli occhi, evocando un altro luogo… acque limpide, fiori rossi profumati, alberi dalle chiome fruscianti… il palazzo dalle sottili colonne bianche, i grandi giardini… le stanze fresche e silenziose… Fleed.
Perduto, lontanissimo, irreale…
Con un singhiozzo, Naida tornò bruscamente alla realtà. Sentiva ancora contro il viso il tepore della mano di Duke, ma non poteva essere…
Invece, lui era lì. Vivo, reale. Era una vera mano – carne, nervi, ossa – quella che lei ancora teneva nella propria.
Nel caos della sua povera mente sconvolta, passato e presente parevano confondersi in un turbine d’immagini: persone vive e perdute, luoghi scomparsi per sempre… Fleed… la Terra… Vega, la base Skarmoon… un uomo alto, oscuro…
Un dolore lancinante alla testa, improvviso e violento; Naida vacillò, e subito Actarus l’afferrò, sostenendola: – Naida! Cosa ti succede?
Rapida com’era giunta, la fitta scomparve, lasciandola dolorante e ancora più confusa. Naida sentì le lacrime salirle agli occhi, la disperazione artigliarle l’animo.
– Oh, Duke! – gli gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi, disperata. Era tutto così difficile, così complicato… non ricordava più niente, niente… era forse malata…? – Duke, ti prego, aiutami…!


La sua donna tra le braccia del suo peggior nemico…
Il viso di pietra, gli occhi incandescenti, Hydargos continuava a fissare le immagini sullo schermo.
Vedere tutto lo faceva star male… non sapere, sarebbe stato peggio.


Naida continuava a piangere tenendo il viso nascosto contro il petto di Actarus, mentre lui la cullava dolcemente, mormorandole parole dolci e rassicuranti e aspettando pazientemente che la crisi passasse.
Avrebbe voluto che Naida si confidasse, gli narrasse quali orrori avesse subito; allo stesso tempo, non osava chiederle nulla, e aveva paura di sentire il suo racconto. Quella giovane donna dal viso triste e gli occhi colmi di disperazione era così diversa dalla Naida dolce e solare che lui aveva conosciuto… ma che le avevano fatto, quei maledetti?
Naida parve finalmente calmarsi; s’asciugò il viso, mentre gli ultimi singulti le spezzavano il respiro. Alzò la testa, incontrò gli occhi di lui e rimase immobile a guardarli: erano come di levigato vetro trasparente azzurro cupo, con un orlo netto di un blu più scuro. Non li aveva mai dimenticati…
Gli anni parvero volare via, divenire un semplice, inutile ricordo. Erano ancora i due ragazzi che erano cresciuti assieme, e assieme avevano giocato, parlato, pianto, gioito… e assieme, avevano conosciuto il desiderio e l’amore.
Actarus si chinò a baciarla con dolcezza, avendo in cuor suo il vago timore che lei lo respingesse; dopo un attimo di esitazione, Naida invece lo strinse a sé, rispondendo con ardore al suo bacio. Gli affondò le mani nei capelli – li ricordava bene, così fini e morbidi! – gli carezzò il collo, la schiena: si era fatto più robusto, il ragazzo sottile che lei aveva amato era diventato un uomo… ma era sempre lui, lui, il suo amore, il…
Il ricordo parve esploderle nella mente: altre braccia, un altro corpo, un’altra bocca… lunghe mani bluastre… un altro tocco, un altro odore…
NO!
Naida s’inarcò all’indietro, cercando di divincolarsi: – Lasciami!
Sorpreso, sbalordito, Actarus si staccò da lei per poterla guardare in viso: – Naida…?
Lei si dibatté con la forza della disperazione, strappandosi alle sue braccia e finendo con le spalle contro la parete: – Lasciami stare! Non toccarmi!
Allibito, lui la fissò senza comprendere: – Ma… ma io non…
– Non posso! – singhiozzò lei, sempre addossata al muro – Non posso farlo! Per piacere, vai via!
Istintivamente, Actarus fece un passo verso di lei; la vide appiattirsi ancora di più contro la parete e s’arrestò subito: – Va bene, Naida. Come vuoi. Me ne vado.
Aveva detto l’ultima frase quasi in tono interrogativo, sperando che lei cambiasse idea e lo richiamasse… ma Naida tacque, evitando anche solo di guardarlo.
Pochi attimi prima lui era stato sicuro che avrebbero fatto l’amore… e ora… – Naida, se ho fatto qualcosa di sbagliato…
– Ti prego, ti prego, vai via!
– Volevo solo chiederti scusa – rispose lui, un lievissimo rimprovero nella voce.
Lei scosse il capo: – Non sei tu, Duke… sono io che non posso… non posso… – lo guardò con aria supplichevole – Cerca di capire.
È proprio quello che vorrei… capirti. Ma non ci riesco, e tu non mi aiuti – Ma certo. Scusami ancora, non avrei dovuto… buona notte – andò alla porta, si voltò un istante a guardarla: Naida rimaneva addossata alla parete, pallidissima, gli occhi remoti, persi in chissà quali ricordi…
Ricordi dai quali lui era escluso.
Actarus uscì nel corridoio e richiuse silenziosamente la porta dietro di sé.
Scossa da un lungo brivido, Naida era ancora addossata contro la parete.


A lungo, Duke Fleed rimase in piedi davanti alla porta chiusa. In silenzio, il giovane cercava di riprendere il controllo di sé stesso, di dirsi che naturalmente lei aveva avuto ragione a respingerlo, a non voler andare oltre…
Non era possibile superare in poche ore tutto il tempo perduto, ritrovarsi dopo anni e pretendere che ogni cosa accadesse con la naturalezza del passato. Lui era stato troppo impulsivo e Naida l’aveva costretto a rientrare in sé.
Non doveva considerarlo un insuccesso… però bruciava, e molto.


Hydargos guardò il suo rivale: dolore, sconfitta, abbattimento si leggevano chiaramente sul suo viso impallidito, e la bocca aveva assunto una piega triste, amara.
Il principe di Fleed era così bello, così giovane, così simpatico… e Naida l’aveva respinto senza alcuna esitazione.
Con negli occhi l’immagine di Actarus che s’allontanava, il passo incerto e le spalle curve, Hydargos rise, rise, rise fino a restare senza più fiato.


Naida si svestì, si lavò e si preparò per la notte con gesti meccanici, la mente lontanissima da quanto aveva attorno: aveva l’impressione d’essere immersa in una sorta di incubo, da cui prima o poi si sarebbe finalmente risvegliata.
E la memoria, poi… perché non riusciva a rammentare nulla? Perché dopo la distruzione di Fleed e la sua cattura, il primo ricordo coerente che aveva risaliva a pochi giorni fa… un centro medico, infermieri, dottori… e uno strano uomo alto e magro che l’aveva fissata quasi si fosse aspettato da lei chissà cosa…
Un momento: poco prima, mentre era stata tra le braccia di Actarus, era stata sul punto di ricordare un’altra persona… lo stesso uomo che era venuta a vederla poco prima della partenza? Possibile…?
Un altro dolore alla testa. Naida si premette la fronte: non ricordava d’aver mai sofferto di cefalee; ora si sentiva sempre come se avesse avuto dell’ovatta nel cervello, e fitte più o meno forti le percorrevano il cranio ad intervalli sempre più ristretti. Alle volte aveva l’impressione di controllare male persino il suo corpo, un po’ come se fosse stata ubriaca.
Devo essere malata. Non è possibile…
Bevve un bicchiere d’acqua: era fresca, e portò sollievo alla sua bocca inaridita. S’infilò nel letto e spense la luce.
Si rialzò di scatto su un gomito ed aggrottò le sopracciglia: era sola. Perché aveva la vaga impressione di essersi aspettata di trovarsi qualcuno, al suo fianco? E chi, poi? Duke? Ma se si erano appena ritrovati, dopo tanti anni! E poi, l’aveva respinto pochi minuti prima…!
Ancora l’immagine di quell’uomo oscuro ed enigmatico… perché gli aveva chiesto se lui era suo marito? Perché aveva avuto l’impressione di conoscerlo, e molto bene?
Perché lui era stato molto importante, per lei.
Non avrebbe saputo dirne il motivo, ma era sicurissima d’aver conosciuto quel corpo alto e asciutto, d’aver provato i suoi baci…
…Hydargos…?
Un’altra fitta. Naida si premette la mano sulla fronte e con un gemito ricadde sul cuscino. Respirò affannosamente, attendendo che l’ondata di nausea cessasse; si aggrappò al pensiero di Duke, l’amore della sua vita, quasi l’averlo in mente le avesse potuto ridare un po’ di forza.
Non s’accorse che man mano che impallidiva il ricordo dell’altro uomo, il dolore calava fino ad affievolirsi del tutto. Con in mente l’immagine di Duke, Naida chiuse gli occhi sperando che il sonno venisse in fretta a darle un poco di sollievo; ma era destino che lei non potesse riposare.
Duke… Duke l’amava ancora, e lei l’aveva respinto… perché?
Duke Fleed è solo uno sporco traditore!
Naida balzò nel letto: chi aveva parlato?
Accese la luce: era sola, nella stanza non c’era nessuno: eppure, lei aveva udito quella voce… una voce che conosceva, che aveva sicuramente già sentito: non poteva sbagliarsi.
Inquieta, tornò a sdraiarsi, mentre sentiva agitarsi dentro di sé vaghe immagini evanescenti che le sfuggivano di continuo; solo qualche sprazzo di memoria le si affacciava alla mente in una sorta di mosaico spezzettato e privo di senso: uomini d’aspetto mostruoso… un’enorme cella… disperazione, sangue, violenza… scariche elettriche, un dolore spaventoso…
Duke Fleed è un traditore e un codardo! È fuggito evitando la lotta e lasciandoti sola a soffrire anche per lui!
Madida di sudore, Naida strinse la coperta serrandola con i denti per non mettersi ad urlare, mentre un sordo dolore pulsante le s’irradiava nel cranio.
– Non è vero! – bisbigliò, mentre il male aumentava sempre più – Duke non è un traditore, e io lo amo!
Uno spasimo atroce che le strappò un urlo strozzato, lasciandola poi semisvenuta e boccheggiante: e allora quella voce profonda parlò ancora dentro di lei: – Chiudi gli occhi e ascoltami.
Sconfitta, piegata dalla sofferenza, Naida cedette: sapeva che solo così quel supplizio avrebbe avuto fine. Rassegnata, ascoltò quella voce oscura che riprese a parlare, versando lentamente in lei il suo veleno: – Duke Fleed vi ha abbandonati. Ha avuto paura di lottare ed è fuggito lasciandovi indifesi. Ha abbandonato i suoi genitori, il suo popolo, tutti voi. Non si è mai curato né di te né della tua famiglia, in tutti questi anni non si è mai preoccupato di sapere nulla di te. Non ti ha mai cercata. Duke Fleed ti ha abbandonata.
– Sì… – quello di Naida fu poco più di un sospiro.
– I tuoi genitori sono morti – continuò implacabile la voce – La tua casa distrutta, i tuoi amici sterminati. Sai cos’è successo a tuo fratello?
– Ti prego… no! Era solo un bambino…
– Era solo un bambino, certo. Avrebbe potuto crescere, diventare un uomo; Duke Fleed non ha voluto difenderlo, e tuo fratello è stato ucciso.
– …No…! – Naida si tirò il cuscino sulla testa: non voleva sentire più nulla, più nulla… ma la voce era un demone dentro di lei, non era possibile sfuggirle.
– Tuo fratello è morto, e il suo cervello è stato impiantato dentro un mostro di Vega – riprese la voce, scandendo impietosamente ogni parola – Quel mostro è stato distrutto proprio da Duke Fleed! Non solo ti ha tradita: ha anche ucciso quel che restava di tuo fratello!
Naida non aveva più nemmeno il fiato di urlare: completamente annientata, piangeva fievolmente.
– Ora, tu puoi vendicare tuo fratello assassinato, i tuoi genitori uccisi, la tua casa distrutta, il tuo popolo massacrato, il tuo pianeta devastato – continuò la voce – Uccidi Duke Fleed e avrai vendicato tutti; e tu conoscerai finalmente la pace.
Naida aggrottò la fronte: lei… uccidere…?
Rimase immobile sotto le coperte, mentre la voce si faceva sempre più lieve, un semplice soffio appena percepibile: – Uccidi Duke Fleed… uccidilo…uccidilo…

--continua--



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isotta72
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Capitolo 13 – Duke Fleed

Il giorno dopo, Naida si risvegliò stanca, il corpo indolenzito: sconvolta, la memoria colma degli orrori che l’avevano perseguitata tutta la notte, faticò parecchio ad alzarsi e a rivestirsi.
Si guardò allo specchio appeso in bagno: si vedeva talmente stanca, talmente brutta… cos’avrebbe detto, Duke?
Sussultò, ricordando improvvisamente quanto era accaduto la sera prima, con che violenza lei l’avesse respinto. In pratica, l’aveva letteralmente cacciato fuori dalla sua stanza, e senza la minima spiegazione. Lui doveva essere in collera, offeso.
Con lo stomaco contratto dal timore, Naida uscì dalla sua stanza, percorse il corridoio che portava alla cucina del laboratorio, dove le era stato spiegato che venivano preparati i pasti. Sicuramente, là avrebbe trovato Duke: gli avrebbe chiesto di perdonarla.
Accanto alla cucina, vi era una saletta da pranzo; Procton ed Alcor stavano facendo colazione con tè e biscotti. Sul tavolo era posto un grosso pacco avvolto in carta colorata.
– Ciao, Naida! Hai dormito bene? – Actarus le sorrise, affacciandosi sulla porta della cucina.
– Io… – lei esitò, non voleva parlare davanti ad estranei di quanto era successo la sera prima; ma Actarus non sembrava nemmeno ricordarsi dell’accaduto. Portò in tavola un grande bricco e le servì una tazza di tè, mentre Alcor le porgeva la zuccheriera.
– Vuoi dei biscotti? – Procton le offrì la biscottiera – Ti conviene prenderne, prima che Alcor li faccia sparire tutti.
– Ce l’avete sempre con me – si lamentò scherzosamente il giovane.
– Davvero? – esclamò Actarus, versandosi a sua volta il tè – Chi è che ha finito il sacchetto nuovo di biscotti che avevo aperto ieri mattina?
Alcor strizzò l’occhio a Naida: – Non potevo certo lasciarli lì, ad invecchiare!
– E oggi, ho dovuto aprirne un pacco nuovo – continuò Actarus.
– Così abbiamo i biscotti freschi, invece di quelli vecchi di ieri! – ribatté Alcor, prontissimo – Dovreste ringraziarmi!
Nonostante la sua agitazione, Naida sorrise lievemente: quei tre uomini sembravano così a loro agio tra di loro, così sereni… scherzavano, ridevano. Naida non ricordava nemmeno quando fosse stata, l’ultima volta che aveva riso.
– Ti sei alzata presto – Actarus le tese un piatto con dei dolcetti; poi accennò al pacco: – Pensavamo che avesti dormito fino a tardi. Quelli sono per te… vestiti. Non puoi andare in giro con degli abiti di Fleed!
– Grazie – la gentilezza di lui la faceva sentire ancora più colpevole. Come aveva potuto trattarlo così male? Lo conosceva abbastanza da sapere che lui avrebbe rispettato il suo no; invece, lei aveva gridato, aveva… non riusciva nemmeno a pensare a come s’era comportata.
Actarus, Alcor e Procton scambiarono un’occhiata preoccupata. Tutti e tre vedevano chiaramente la sua tristezza, quel suo essere così demoralizzata.
– Oggi mi sono preso una giornata di libertà dal lavoro – annunciò Actarus, sforzandosi di parlarle con gaiezza – Ti piacerebbe fare un giro a cavallo?
– Io non so cavalcare – osservò lei.
Actarus sorrise: – Non è un problema.


L’aria del mattino era frizzante, freschissima; lentamente, quasi con riluttanza l’inverno stava cedendo il posto alla nuova stagione. L’erba stava rinnovando il suo verde, e le gemme che punteggiavano i rami degli alberi cominciavano ad inturgidirsi, a pulsare vita.
Lanciato al galoppo, il cavallo sfrecciava veloce sul sentiero; seduta in sella davanti al suo Duke, Naida si sentiva inebriata dalla velocità, dall’aria fresca che le scorreva sul viso e nei capelli, da quella meravigliosa natura che tanto le era mancata negli ultimi anni.
Metallo, plastica, aria condizionata, detergenti chimici… per troppo tempo gli innaturali odori di Vega le avevano intasato i polmoni.
L’improvviso ricordo la fece trasalire; proprio in quel momento, Actarus l’afferrò gettandosi con lei giù dal cavallo. Rotolarono sul prato, e lui le rubò un rapidissimo bacio, proprio come accadeva un tempo, quando erano entrambi ragazzini… lei s’indispettiva, allora, e s’indispettiva ancora di più se lui non gliene rubava un altro…
Persa nei ricordi, Naida rimase a terra, immobile. Actarus scorse una margheritina, un primo timido accenno della primavera in arrivo; la colse e solleticò il naso a Naida, strappandole una risata: – Ti sei fatta male?
Lei riaprì gli occhi, riemerse lentamente dal passato: Fleed, i giardini, il cielo azzurro… le persone che aveva amato e che non avrebbe mai più rivisto… si sforzò di sorridergli, ma fu difficile.
Actarus sentì serrarglisi il cuore: lei appariva sempre così seria, così remota… persino quando rideva i suoi occhi restavano seri, duri. Cosa le avevano fatto, quei maledetti?
Si rialzò, le tese la mano: – Vieni. Andiamo a fare una passeggiata.
Docile, lei si mise in piedi, rimanendo però immobile, il viso serio. Nella tasca del suo vestito sentiva quell’oggetto freddo, metallico… un pugnale.
Un pugnale per uccidere chi aveva tradito…
Actarus, che era avanti di qualche passo, si volse a guardarla: – Naida, vieni! Cosa aspetti?
Le sorrideva, tenero, così simile al ragazzo che lei aveva tanto amato, il ragazzo per cui avrebbe dato la vita… il ragazzo che li aveva traditi tutti.
Naida strinse il pugnale: affondarglielo nel cuore, vederlo morire, lui, il traditore…
– Su, corri con me! – forzatamente allegro, deciso a riscuotere dalla mestizia la sua compagna, Actarus la prese per mano e imboccò a tutta velocità il sentiero che portava al lago; Naida non rispose ma lo seguì.
Dietro la schiena, stringeva ancora il pugnale.


Le acque del lago frusciavano, infrangendosi contro i pali del molo di legno. Tutt’attorno a loro, i monti facevano da corona a quello specchio d’acqua tondeggiante. Grandi macchie d’abeti verdeggiavano sulle rive.
Actarus condusse Naida fino al bordo del molo: – Senti: c’è l’eco. – gridò il nome di lei, e la sua voce parve tornare con la brezza.
Naida serrò il pugnale.
Duke le stava voltando le spalle, intento ancora a gridare nel vento il suo nome.
Colpisci! È il momento giusto! Uccidilo!
La voce di lui ritornò ancora, riportandole il suo nome…
Non posso farlo! Non posso, non posso…!
Le tremavano le mani. Traditore o meno, lei l’amava ancora, e non poteva assassinarlo…
Lo guardò: così pieno di vita, così fiducioso… così ignaro d’avere la morte alle sue spalle…
Actarus si voltò a guardarla: la vide pallidissima e smarrita. Vide il suo tormento, ma non poté comprenderlo. Si sforzò ancora di mostrarsi allegro: – Adesso prova a chiamare anche tu.
Lei trasalì: – Io…?
Un sorriso incoraggiante: – Su, prova.
Naida emise un singhiozzo e aprì le dita. Il pugnale cadde, e con un lieve tonfo s’inabissò nelle acque scure.
Actarus sentì il rumore, ma non vide nulla: evidentemente, lei doveva aver gettato un sasso nell’acqua.
La spinse dolcemente in avanti, facendola arrestare sul bordo del molo; lei si sentì morire.
Perché un traditore del suo popolo doveva apparire così buono e gentile?
Angosciata, in preda alla più totale confusione, lei sentì salirle alle labbra parole che non avrebbe dovuto dire; ma le gridò, e l’eco le moltiplicò all’infinito: – Amore! Ho bisogno del tuo aiuto!
Actarus si volse a guardarla, la prese per le spalle: – Ma io sono qui, Naida! Sono con te, non ti lascerò mai più…
Lacerata dalla disperazione, lei avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia, posargli la testa sul petto, appoggiarsi a lui, così forte, per farsi aiutare a portare quel peso insopportabile… confidargli il suo tormento…
Ma era lui il suo tormento.
Di scatto si tirò indietro, strappandosi alle sue mani. Rabbrividì, e in un gesto che le era abituale si scostò dal viso i lunghi capelli: – Duke, sono molto stanca. Possiamo ritornare?


Dalla portafinestra della cucina, Venusia guardò: seduto sotto al suo albero prediletto, Actarus suonava, assorto.
Ultimamente, da quando era giunta quella ragazza di Fleed, Actarus si faceva vedere ben poco alla fattoria: era evidente che la nuova venuta lo assorbiva parecchio.
Reprimendo a fatica la gelosia che le pungolava l’animo, Venusia s’avvicinò al giovane, sedendosi sull’erba al suo fianco. Rimase in silenzio per un poco, poi non resistette: – Actarus, chi è Naida?
Un giro d’accordi stridenti: – Era la figlia del duca Barsagik, un lontano cugino di mio padre. Fin da piccoli siamo cresciuti come fratelli.
– Vi volevate molto bene, non è vero? – sussurrò Venusia.
Actarus aprì la bocca come per rispondere, ma le parole non gli vennero. Chinò il capo sulla sua chitarra e riprese la sua nenia malinconica.
È così distante…!, si disse Venusia, serrando le labbra in una smorfia di sofferenza. Se mai ho avuto qualche speranza, con lui… come potrei lottare con una donna come Naida?
Strinse gli occhi, e sentì bruciare le lacrime.
Accanto a lei, Actarus non s’accorse di nulla e continuò a suonare.


Naida spalancò la finestra ed uscì sul balcone della sua camera. L’aria fresca, profumata di resina, le diede un sollievo solo momentaneo.
Il tormento era dentro di lei, e non poteva lenirlo, o anche solo sfuggirgli…
Tentò d’analizzare quello che provava, ma concentrarsi era sempre più difficile: era come se la sua mente fosse perennemente ovattata, confusa. Una sorta di sordo rumore di fondo le ottundeva il cervello, impedendole di pensare coerentemente, e soprattutto di ricordare.
Perché la sua memoria era come uno specchio appannato? Attraverso il vapore lei intravedeva qualche sprazzo di ricordo, ma gli avvenimenti dopo la sua cattura le sfuggivano quasi completamente.
C’era stato Hydargos… ma pensare a lui le causava sempre un dolore fortissimo alla testa, che le impediva di ricordare…
Naida drizzò improvvisamente la testa: non poteva ricordare… o non glielo permettevano?
Un’altra fitta fortissima. Naida si strinse le tempie tra le mani, sentendone contro i palmi il furioso pulsare: il dolore non l’abbandonava mai, alle volte si faceva leggerissimo, ma era sempre percepibile. Ma perché? Non pensava d’essere malata, ma…
È tutta colpa di Duke Fleed!
Ancora quella voce che dilaniava la sua coscienza, tagliente come una lama. In genere taceva, ma lei sapeva che non l’avrebbe mai abbandonata, che da un momento all’altro le avrebbe parlato, perseguitandola…
E sapeva anche di venir tormentata a causa di Duke Fleed.
Un sordo rancore parve montare minacciosamente dentro di lei: il solo pensiero di Duke Fleed le ispirava repulsione, furia.
Ma lei lo amava!
Ami chi ti ha abbandonata?, esclamò la voce, beffarda, Ami chi ha tradito il tuo pianeta?
Naida si sentì mancare il fiato: ricordava perfettamente quel giorno! Duke aveva lasciato Fleed, era fuggito con Goldrake… era scappato…
– Naida? Sei lì fuori?
Lui!
– Ah, eccoti! Ti stavo cercando – Actarus si affacciò sulla portafinestra, arrestandosi vedendo il viso pallido ed alterato di Naida: – Stai bene?
– Sto benissimo – mormorò cupamente lei.
– Volevo chiederti una cosa – continuò Actarus; attese un invito a proseguire che non venne ed aggiunse: – Ho bisogno di sapere quanti abitanti di Fleed sono ancora vivi.
Naida scosse il capo, evitando il suo sguardo: – Non so. Uno schiavo ha vita breve, su Vega. C’erano altre donne prigioniere con me, ma non ho mai potuto sapere che ne è stato.
Actarus la guardò. – Tu sei sopravvissuta.
Naida si morse le labbra: – Ho avuto fortuna.
Un attimo di silenzio pesante.
Un oscuro bisogno di ferirlo, di vedere quegli occhi blu colmarsi di dolore la spinse a dire quello che mai avrebbe pensato di dirgli.
– Vuoi sapere perché sono sopravvissuta, non è vero? – quella di Naida era un’affermazione.
– No, non devi spiegarmi niente – esclamò Actarus.
– Non è vero – Naida afferrò la ringhiera del balcone, la strinse fino a far sbiancare le nocche e parlò, gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a lei: – È ovvio che tu voglia saperlo. Ti sarai chiesto perché sono viva mentre tanti altri sono stati uccisi.
– Naida, non devi sentirti obbligata a…
– In effetti, c’è un motivo per cui sono sopravvissuta – continuò lei, fissando cupamente il fiume e la vallata che si stendeva davanti a loro – e il motivo è che sono stata la schiava di uno di loro.
Actarus si sentì mancare il fiato: – Naida, ti prego, non devi giustificarti…
Lei lo fissò, gli occhi gelidi: – Io non mi sto affatto giustificando, Duke. Non devo certo rispondere a te del fatto di essere viva.
– Perdonami, Naida… io non volevo che… Voglio dire, mi dispiace che tu abbia dovuto… con uno di loro…
– A me non dispiace affatto, invece – rispose lei, impassibile – Se non fosse stato per lui, sarei morta.
Meglio non parlare, si disse Actarus. Qualunque cosa io dica, sembrerà goffa e sbagliata.
Naida attese un attimo, interrogativa; visto che lui taceva, il viso rivolto a terra, continuò: – Credimi, sono stata fortunata. Tu non hai idea di come i veghiani si comportino con gli schiavi… noi non trattavamo nemmeno gli animali, a quel modo! Avrei potuto finire come cavia per esperimenti, o a lavorare in una miniera, o come giocattolo per le truppe; invece, uno di loro mi ha presa come… diciamo, trastullo personale.
Actarus si coprì il viso con le mani. Avrebbe voluto dirle di non parlare più, di tacere; allo stesso tempo, doveva sapere, e sapere era una tortura.
– Sono stata davvero fortunata – continuò lei, stringendosi le braccia attorno al corpo – Lui avrebbe potuto essere… molto sgradevole. Invece, mi ha trattata bene. Mi ha sempre dato cibo e vestiti, e non mi ha mai picchiata. – gli diede un’occhiata di traverso: – Non vuoi sapere come si chiamava il mio padrone?
– No, se non vuoi…
– Ma io voglio dirtelo! – scattò lei – Sono la schiava di Hydargos. Vivo e vado a letto con lui da anni.
Hydargos! Proprio lui! – Naida, mi spiace…
– Non dovresti, invece. Hydargos è stato molto buono, con me. Se sono viva e in salute, lo devo solo a lui.
– Ma ti ha… ti ha…
– “Violentata” non è il termine giusto – rispose lei, secca – Io ero d’accordo. Lo sono sempre stata. Avrei fatto qualunque cosa, purché lui non mi facesse del male. Lui voleva una donna da portarsi a letto, e io gli ho dato quel che desiderava.
– Mi spiace…
– L’hai già detto. Ma ti ripeto, Hydargos è stato molto buono con me. Non mi avesse presa lui, sarei finita chissà come, magari in pasto alle truppe. Ho avuto fortuna.
Actarus si afferrò alla ringhiera, crollando il capo.
– Praticamente, è come se lui ed io avessimo fatto un patto – continuò Naida, che pareva indifferente al tormento del suo compagno – Io gli davo quel che voleva senza fare storie, e in cambio avevo sicurezza e protezione. Ecco come sono sopravvissuta. – Si voltò a guardare Actarus – Dimmi la verità, Duke: mi disprezzi, per questo?
Lui deglutì, riprese fiato: – Naida, io… mi dispiace.
– Ti dispiace che io mi sia prostituita per sopravvivere?
– Io… io non avrei mai voluto che tu…
– Non avevo molta scelta, sai? Certo, piuttosto avrei potuto morire. Una duchessa di Fleed schiava di un veghiano! Una vergogna, non trovi?
– Non dire così!
– Ma è quel che pensi! – esplose lei – Meglio morire che ridursi come mi sono ridotta io! Perché non me lo dici? Perché non gridi che avrei dovuto suicidarmi, piuttosto che accettare di… di…
– Naida, ti prego! Basta!
– Che ne sai di quello che è successo? – urlò lei, completamente fuori di sé – Tu non c’eri! Non eri là! Non hai visto cosa hanno fatto, cosa sono capaci di fare! Non hai il diritto di giudicarmi per quello che è successo! – rivide la ragazza contorcersi nel sangue… “C’è qualcun’altra che vuole ribellarsi?” Scoppiò in singhiozzi, disperata. Actarus la strinse tra le braccia e lei urlò, come se quel contatto l’avesse ustionata; lui tentò inutilmente di trattenerla e lei di scatto lo respinse.
– Vattene! – urlò – Va’ via! Lasciami in pace!
Vedere il dolore, la mortificazione sul viso di lui le diede una sorta di gioia selvaggia, primordiale. Esaltata, vittoriosa, aspettò che lui fosse uscito per sprangare la porta: averlo ferito le diede un’ebbrezza che non aveva mai provato prima d’allora.
Lui era il nemico, il traditore. Doveva soffrire.
Doveva pagare.


Secondo il personale metro di Procton, per il relax perfetto erano necessari un po’ di tempo, il proprio letto e un libro interessante. Quella sera tutte e tre le condizioni erano rispettate, per cui era ragionevole aspettarsi un riposo benefico…
Un lieve bussare alla porta.
Addio alla mia lettura, si disse filosoficamente Procton mentre Actarus faceva il suo ingresso. Gli bastò una semplice occhiata al viso tirato del figlio per capire che per quella sera sarebbe stato assurdo parlare di relax.
– Che ti succede? – Procton si mise a sedere sul letto – Stai bene?
– Hai un paio di minuti? – chiese Actarus, senza guardarlo.
– Ma certo – altro che un paio di minuti, ci vorranno… – Siediti, su.
Actarus non se lo fece ripetere. Con la disinvoltura della consuetudine sedette sul bordo del letto del padre, le mani intrecciate strettamente e il capo chino; Procton avrebbe voluto far domande, ma preferì che fosse lui a parlare quando si fosse sentito di farlo.
– È per Naida – cominciò il giovane.
Procton assentì: – Me l’immaginavo.
– È… così cambiata! Non sembra nemmeno la stessa. Così diversa, così… – Actarus scosse il capo: non riusciva a trovare le parole adatte per esprimere la sua angoscia.
Procton gli strinse affettuosamente una spalla: – Actarus, si capisce che Naida sia cambiata! L’hai lasciata che era poco più che una ragazzina, la ritrovi donna…
Actarus strinse le labbra, ostinato: – Non è solo questo.
– E poi – continuò con dolcezza Procton – devi considerare quello che le è successo, che cosa ha passato… ha avuto esperienze orribili.
– Le ho avute anch’io.
– Scusa, Actarus, ma credo che la cosa sia differente – rispose con calma Procton – Sappiamo entrambi cosa tu abbia passato, cosa sia successo al tuo mondo, alla tua famiglia, a tutto ciò che amavi; però tu non hai provato l’orrore di essere prigioniero di Vega. Naida sì.
Actarus serrò le mascelle: – Lo so.
– Ti dico la verità: non oso pensare a cosa i veghiani le abbiano fatto. Non ho mai visto occhi come i suoi… disperati, a volte totalmente vuoti. Deve avere avuto esperienze orribili.
– Infatti – mormorò Actarus.
– Dovrai avere molta pazienza, con lei. Per certe ferite ci vuole tempo, molto tempo, perché guariscano.
– Purché possano guarire – rispose il giovane, cupo.
– Purché possano guarire – assentì Procton.
Actarus rimase in silenzio qualche istante, gli occhi fissi su un punto della parete di fronte a lui; poi, improvvisamente, esplose: – Sembra che ce l’abbia con me. Abbiamo appena parlato… non le avevo chiesto niente, non volevo nemmeno chiederle… non mi sarei mai permesso… e lei mi ha gettato addosso di essere stata… – annaspò, cercando parole migliori che non gli vennero – …essere stata la schiava di Hydargos. Me l’ha detto apposta, questo l’ho capito! Voleva ferirmi, e ci è riuscita!
Procton, che era trasalito, si riprese immediatamente: – Sono sicuro che in realtà lei non volesse farti del male… te l’avrà detto in modo maldestro, ma…
– No. Sono certo che l’abbia fatto apposta. – Actarus s’alzò e prese a camminare in su e in giù per la stanza, stringendosi le braccia attorno al corpo: – È in collera con me, e non riesco a capirne il motivo. A volte mi sembra persino che mi odi.
– Non esagerare, adesso…
– Non sto esagerando. Ho visto come mi guarda… non sempre, solo certe volte, e solo se pensa che io non le stia badando… non sembra nemmeno che sia lei!
– Pensi che sia un veghiano mutaforma che abbia assunto il suo aspetto? – chiese quietamente Procton.
Se suo padre avesse negato, se gli avesse contestato quella sua idea, Actarus forse vi si sarebbe aggrappato; il fatto che Procton avesse accennato a quell’eventualità, e l’avesse fatto con un tono così ragionevole, ottenne l’effetto contrario. Improvvisamente, Actarus si sentì molto sciocco.
– No, sono sicuro di no – rispose – È proprio Naida, non posso sbagliarmi. La conosco. Probabilmente hai ragione tu, lei ha solo bisogno di tempo.
– E di molto affetto – aggiunse Procton – E pazienza. Dovrai averne molta, con lei.
Actarus assentì, sforzandosi di mostrarsi allegro: – In genere non sono un tipo impulsivo ed impetuoso.
– Tranne che con i veghiani – stette al gioco Procton.
Il sorriso di Actarus si fece più aperto: – Infatti. …Ti prego di scusarmi, ti ho fatto far tardi.
Salutò il padre ed uscì, chiudendo la porta dietro di sé. Esitò un attimo guardando giù nel corridoio, verso l’uscio di Naida… per nulla al mondo avrebbe voluto risentirsi dire quello che gli aveva urlato in faccia.
No, basta. Per stasera, è stato anche troppo.
Rientrò in camera propria, si spogliò, aprì la doccia e vi s’infilò sotto, pulendosi con cura quasi avesse potuto lavarsi via di dosso i cattivi pensieri.
Continuava a rivedere il viso duro di Naida, sentiva ancora la sua voce secca, ostile…
Actarus s’appoggiò con le spalle alle piastrelle azzurre, mentre l’acqua continuava a scorrergli addosso.
Lei era Naida, era sicurissimo che fosse lei e non un’impostore… ma era altrettanto sicuro che covasse un enorme rancore, forse addirittura dell’odio verso di lui.
Ma perché? Perché?

Capitolo 14 – Il traditore

Il rumore dei passi pareva rimbombare nel laboratorio silenzioso. A quell’ora, il guardiano notturno era praticamente l’unico essere vivente che s’aggirasse in quei corridoi, che passasse nelle sale deserte, che vegliasse mentre gli altri riposavano.
Quella notte, qualcun altro non dormiva.
Acquattata nell’oscurità, Naida attese che l’uomo continuasse il suo giro di perlustrazione: era molto tardi, il sonno cominciava a farsi sentire e il guardiano sembrava meno vigile di quanto non fosse stato qualche ora prima. Era evidente che non s’aspettasse attacchi; che il nemico fosse già nel laboratorio, questo il guardiano non l’avrebbe mai immaginato.
Il rumore dei passi s’allontanò, attenuandosi poco a poco; solo quando il silenzio regnò nuovamente, Naida scivolò fuori dal suo nascondiglio e imboccò rapidamente la scala che portava ai sotterranei.
Era stato utile farsi accompagnare in giro per il laboratorio, mostrarsi interessata, fare domande: ora, sapeva esattamente dove fosse il suo obiettivo, e come raggiungerlo. Nessuno aveva sospettato di lei, mai.
Davanti a lei, la rampa di lancio di Goldrake; nella semioscurità, il robot sembrava un gigante mitologico immobile, addormentato.
Naida lo guardò con odio, mentre sfilava da sotto il vestito un oggetto oblungo. Gliel’avevano dato su Skarmoon: una bomba al vegatrom ad alto potenziale, con cui avrebbe potuto distruggere Goldrake facendo così giustizia per i caduti di Fleed.
Naida respirò a fondo: non fosse stato per quel robot, Duke non sarebbe fuggito da Fleed, non si sarebbe macchiato di tradimento, non si sarebbe comportato da vigliacco… la colpa di tutto era di quel maledetto robot. Per colpa sua, Vega aveva attaccato Fleed. Per colpa sua, Duke era divenuto un abominio per il suo popolo.
Lei ora avrebbe fatto giustizia.
La bomba stretta in pugno, gli occhi fissi sull’enorme sagoma oscura che la sovrastava, Naida cominciò a salire la rampa di lancio. Ancora pochi passi… ancora poco…
– Attenta! – Actarus le balzò addosso trascinandola con sé giù dalla rampa proprio nell’esatto istante in cui le corna dorate di Goldrake s’accendevano d’un’improvvisa luminescenza. Una potente scarica elettrica s’abbatté sul pavimento dove un istante prima si era trovata Naida.
Lei serrò le labbra: era stata così vicina a riuscire…! Se solo lui non si fosse svegliato, se non l’avesse seguita…!
– È un miracolo che tu non sia rimasta fulminata! – Actarus le tese una mano, l’aiutò a rialzarsi – Ma come? Dimenticavi che nessuno, tranne me, può avvicinarsi a Goldrake senza attivare una potente scarica elettrica?
Silenziosa, gli occhi foschi, Naida si rimise in piedi, una mano dietro la schiena per celare la bomba. Il suo gesto furtivo attirò l’attenzione di Actarus: – Che cosa stai nascondendo? Fammi vedere!
Naida si tirò indietro e lui le afferrò il braccio, trattenendola; lottarono brevemente, poi lei fu costretta a cedere. Allibito, Actarus fissò l’oggetto che le aveva strappato di mano: – Ma questa è una bomba!
Lei scattò come un gatto selvatico, tentando di riprendersi l’ordigno; lottarono ancora, lei riuscì ad afferrare la bomba e lui gliela strappò nuovamente di mano, facendola ruzzolare al suolo.
– A che cosa ti serve, questa? – gridò Actarus, alterato – Rispondi!
Naida scattò in piedi: – Per distruggerti! – lo vide impallidire e continuò: – Per eliminare dall’universo un traditore!
Actarus sussultò come se fosse stato frustato; prontissima, Naida balzò in avanti per recuperare la bomba. La lotta stavolta fu più serrata, più feroce, ma ancora una volta fu lui a respingerla; Naida perse l’equilibrio e cadde in ginocchio, restando immobile, lo sguardo dritto davanti a sé.
Ci volle qualche istante perché Actarus riuscisse a riprendere fiato, a parlare di nuovo.
– Naida! Perché mi hai chiamato traditore? – esclamò infine.
Lei si voltò di scatto, come una serpe pronta a colpire: – Vuoi dire che l’hai dimenticato?
Actarus trasalì, come se lei l’avesse percosso in pieno viso; Naida si rialzò, gli occhi colmi d’accuse fissi su di lui: – Quando siamo stati aggrediti da Vega, quando è cominciato il massacro, tu… tu sei fuggito sul tuo disco! Invece di combattere per noi, tu ti sei messo in salvo!
Actarus sentì mancargli il respiro, mentre tanti ricordi che aveva sempre voluto dimenticare gli tornavano inesorabilmente alla memoria: l’addio ai genitori, il viso pieno di lacrime di sua madre… la vocina di Maria, che lui era stato costretto ad ignorare…
Ma lui non aveva voluto andarsene, e Naida doveva saperlo! Era stata presente, quando il padre gli aveva ordinato di portare via Goldrake… aveva visto, aveva sentito!
– Non è vero! – esclamò, forte della sua ragione – Io non sono fuggito! Ho sempre combattuto, anche quando il pianeta era completamente distrutto!
– Il pianeta non era completamente distrutto! – lo rimbeccò prontamente lei – C’erano ancora dei superstiti! Io sono viva, infatti!
Ogni parola era come veleno su una ferita riaperta, e ogni goccia bruciava ancora più della precedente: – Naida, ma io…
– Non voglio sentire le tue scuse! – gridò lei, esasperata – La verità è che sei fuggito, lasciandoci indifesi nelle mani di quei mostri di Vega! Dov’eri quando hanno distrutto le città, sterminato le persone, assassinato vecchi e bambini?
Oh no, no, no… questa realtà era ancora peggio di tutti gli incubi che da allora avevano funestato le sue notti, tormentato i suoi giorni di sopravvissuto… come poteva Naida, proprio la sua Naida, accusarlo a quel modo? Perché non comprendeva quanto gli era costato essere costretto ad andarsene, abbandonarli al loro destino? Perché non aveva capito che solo lui avrebbe potuto portare via Goldrake, impedire che cadesse in mano a Vega? Perché l’accusava a quel modo, quando lui stesso era sempre stato il proprio principale accusatore?
– Naida… non hai capito…? – articolò, la voce che gli si spezzava.
Se lei, la donna che l’aveva amato, lo considerava un traditore, un vigliacco… che avevano pensato gli abitanti di Fleed di lui, il loro principe…?
La vergogna, l’orrore gli tolsero il fiato, mozzandogli il respiro.
In lacrime, Naida evitava di guardarlo, e la disperazione vibrava in ogni sua parola: – Ti ho amato tutta la mia vita, ti ho amato sempre… ti ho amato ogni giorno, ogni ora… e tu ci hai traditi! – singhiozzò, spezzata dal dolore; le ginocchia le cedettero e lei crollò sul pavimento strappandosi i capelli: – Io non posso perdonare un traditore!
Actarus aprì la bocca, fece per parlare, ma le parole morirono sulle sue labbra. Inorridito, incapace di reagire, fissava Naida che, a terra, piangeva tutta la sua disperazione.
Non era possibile, non era possibile…
Di scatto, lei s’asciugò il viso, si voltò di nuovo a guardarlo, gli occhi gelidi: – Ci hai uccisi, Duke Fleed, e continui ad ucciderci anche qui, sulla Terra! Tu distruggi l’unica forma di vita che quei mostri ci hanno concesso!
IO… avrei ucciso…?
Actarus scosse il capo, arretrò, incapace di reggere quell’attacco.
Naida si rialzò, fissandolo in viso e preparandosi freddamente a scagliare il colpo finale, quello che l’avrebbe annientato.
Adesso è il momento!, esclamò l’oscura voce velenosa dentro di lei. Accusalo dei suoi crimini, lui è responsabile della morte di tuo fratello!
…Sirius…!
Con deliberata freddezza, Naida puntò il dito contro Actarus, quasi avesse potuto inchiodarlo alla sua responsabilità: – I dischi di Vega che tu hai distrutto avevano all’interno il cervello di un abitante di Fleed!
Annientato, Actarus vacillò; la bomba gli sfuggì dalle dita, rotolò sul pavimento finendo dentro la presa d’aria che dava sul piano inferiore.
L’esplosione scosse l’intera base, ma né Actarus né Naida, troppo impegnati nel loro duello personale, parvero farvi caso.


Procton trasalì, balzò a sedere nel letto.
Che era stato quel rumore?


– In ognuno di quei dischi – stava continuando Naida, scandendo bene le parole perché ciascuna di esse penetrasse nella coscienza di lui – in ognuno è stato inserito un cervello prelevato da un uomo!
Uno spasmo improvviso al torace: – …Cosa…?
– Un cervello cui hanno tolto il potere della ragione – continuò impietosamente lei, sempre spinta dal suo oscuro demone interiore – Un cervello condizionato ad essere a fedele a Vega! – le mancò il respiro, un singhiozzo le spezzò la voce: – Ricordi il primo mostro che hai distrutto?
Actarus assentì senza quasi accorgersene. Ogni battaglia era ormai scolpita indelebilmente nella sua memoria…
– In quel mostro c’era il cervello di Sirius!
NO…!
– Tu hai ucciso tutto quel che restava di mio fratello! – urlò lei, con quanto fiato aveva in gola.


Gandal ghignò: – Guardalo! Il maledetto Duke Fleed non riesce nemmeno a spiccicare più una parola!
– Così pare – rispose Zuril, che non condivideva tanta esultanza.
– Non sembri molto contento – si stupì Gandal – Eppure, oggi abbiamo sconfitto il nostro peggior nemico!
– Non è ancora morto – osservò Zuril.
– Adesso morirà – Re Vega riattivò il microfono per dare a Naida gli ultimi ordini.
Alle loro spalle, Hydargos non disse nulla, gli occhi sempre fissi sullo schermo.


Annientato, distrutto, lui vacillò, parve sul punto di cadere; a terra invece finì Naida, colpita da un’improvvisa scarica di dolore che le si era irradiata nella testa, facendola spasimare.
Vendicati! Uccidi Duke Fleed! UCCIDILO!!!
Il dolore cessò, la voce tacque. Naida si guardò rapidamente attorno, in cerca di un’arma, un’arma qualsiasi: in un angolo, uno dei tecnici aveva dimenticato un pezzo di tubo passacavi in materiale plastico, rigido e pesante. Balzò in piedi, afferrò il tubo e colpì ripetutamente Actarus sulla testa, facendogli schizzare sangue dal naso, dalla fronte…
Cadi, maledetto assassino! Cadi! Muori! MUORI!!!
Un rumore alle sue spalle… Naida si voltò di scatto, il tubo tra le mani, come una belva pronta ad uccidere nuovamente.
Sulla porta erano apparsi Procton ed Alcor. In un istante videro Actarus a terra, la testa sanguinante, e Naida invasata come una furia che lo sovrastava per finirlo.
Scorgere quei nuovi avversari e scagliarsi su di loro fu per Naida affare di un attimo.
Senza una parola, Procton alzò la pistola a raggi che stringeva in mano e sparò: colpita in pieno petto, lei vacillò, annaspando penosamente, e crollò a terra come fulminata.
– Che cos’è successo? – esclamò Alcor, sconvolto – È morta?
– No, soltanto tramortita – Procton si chinò sul figlio, gli esaminò rapidamente le ferite – Chiama il centro medico, Actarus ha bisogno di cure immediate.
Alcor obbedì e premette il pulsante d’allarme; poi si voltò a guardare con disprezzo il corpo inanimato di Naida: – Diceva di amarlo, e l’ha quasi ucciso!
Procton controllò il polso di Actarus: batteva, ma debolmente – Forse Naida non è responsabile di quello che ha fatto.
– Volete dire che non è stata lei a colpire Actarus? – sbottò Alcor, incredulo.
– Voglio che tu la esamini con lo scanner – rispose Procton – Se è come penso, le troverai addosso qualcosa che non dovrebbe esserci.


Allibito, Alcor fissava sul monitor l’immagine TAC della testa di Naida: dietro l’orecchio destro campeggiava un minuscolo oggetto metallico… qualcosa che non avrebbe dovuto esserci, proprio come aveva immaginato Procton.
– Dottore! – esclamò Alcor – Naida ha un frammento metallico nella testa!
Procton si voltò di scatto verso di lui: – Come?
– Sembra… una capsula ricevente.
– Una capsula! – Procton si chinò sul monitor ed annuì a sé stesso: – Allora i miei sospetti avevano un fondamento! È necessario operarla immediatamente.


Capitolo 15 – Dolore

Naida aprì gli occhi, guardandosi in giro: era in un letto. Attorno a lei, muri, mobili di legno… una finestra da cui si vedevano alberi… Non era su Skarmoon.
La Terra…?
Lei si trovava sulla Terra…?
Naida aggrottò la fronte nel tentativo di riflettere, ma i ricordi le si agitavano come farfalle impazzite nella sua povera mente confusa.
Pure, era sicura di trovarsi sulla Terra, anche se non ricordava come ci fosse arrivata.
Aspetta… un’astronave… soldati che la inseguivano, e poi… lui, Duke…
Fu come se qualcosa fosse esploso nel suo cervello: frammenti di memoria parvero attrarsi, riunirsi fino a formare un mosaico di cui cominciava a vedere il disegno…
Duke. L’orribile voce che la torturava spingendola ad odiare, uccidere…
Duke steso a terra… sangue…?
– Duke! – esclamò, tirandosi a sedere sul letto; solo ora s’accorse che nella sua stanza v’era una giovane sconosciuta, che s’avvicinò prontamente al suo letto: – E tu chi sei?
– Mi chiamo Venusia, e sono un’amica di Duke – rispose gentilmente – Non preoccuparti, va tutto bene.
Naida si guardò attorno come un animale in trappola: – E dove si trova adesso? Dov’è Duke?
Venusia esitò un attimo solo: poi capì che una sua menzogna non avrebbe ingannato Naida e decise di dirle la verità: – È ancora sotto shock.
Naida sbarrò gli occhi: – Sotto shock?
– Per i colpi che gli hai dato sulla testa – ecco, l’aveva detto.
L’orrore si dipinse sul viso di Naida: – Io l’ho colpito? Vuoi dire che IO l’ho colpito sulla testa?
Venusia si sentì piegare le ginocchia: allora era vero quello che aveva detto il dottore… lei era stata controllata, usata. Non era colpevole… e lei, che era arrivata quasi ad odiarla per il male che aveva causato ad Actarus!
– Naida – Venusia sedette sul letto accanto a lei, le prese una mano: – non ti ricordi più cos’è successo stanotte?
Naida scosse il capo e ricadde sul cuscino. Sentì un lieve dolore e si portò una mano alla testa: una fasciatura? Era stata ferita? Non ricordava nulla, nulla… aveva vissuto tutti i giorni passati come in un incubo. Si era sempre sentita come immersa in un mondo irreale, ogni sua sensazione era sempre giunta a lei come attraverso un filtro… a parte quegli spaventosi mali di testa. Anche la sera prima aveva avuto un violentissimo attacco d’emicrania… c’era stata quella voce che le aveva parlato… poi…
– Ma che è successo? – gemette.
Venusia avrebbe preferito non doverle dire cose che, lo sapeva, l’avrebbero sconvolta; d’altra parte, Naida aveva il diritto di sapere.
– Hai detto che Duke è un traditore – mormorò – e hai cercato di distruggere Goldrake. Non lo ricordi, questo?
– Ho… come un vuoto nel cervello – rispose Naida in un soffio – Tutti questi ultimi giorni sono così confusi… mi sentivo sempre come se fossi stata in un sogno…
– Perché non eri in te – disse la voce di Procton.
Le due ragazze si voltarono verso di lui, che era apparso sulla soglia.
– Come sta Duke? – chiese ansiosamente Naida.
– Non preoccuparti, si rimetterà. Stai tranquilla – rispose in fretta Procton – Non sei responsabile di quello che è successo: i veghiani t’avevano impiantato una minuscola capsula ricevente dietro l’orecchio.
– Sì – mormorò Naida – Sì… adesso comincio a ricordarmene.
– Con questa capsula ti costringevano ad obbedire ai loro ordini – continuò Procton – Ora non possono più farlo, non devi avere paura.
– Volete dire… che sono libera? – esclamò Naida.
– Abbiamo rimosso quel congegno – Procton tese la mano aperta: sul palmo, un minuscolo oggetto metallico dall’aria inoffensiva. Pure, Naida lo guardò con orrore.
– Era… questo…?
– Era con questo che ti governavano – spiegò gravemente il professore – Ora però non hanno più alcun potere su di te: non possono più dominare la tua mente – tolse di tasca un contenitore di plastica foderato di uno spesso strato di materiale isolante e vi chiuse dentro la capsula – e ormai non possono nemmeno più vedere né sentire nulla. Adesso Venusia ed io ti lasciamo riposare.
Il professore aprì la porta, fece uscire per prima Venusia; poi si girò a guardare un’ultima volta la giovane donna che giaceva nel letto e aggiunse, con uno dei suoi lievi sorrisi: – Coraggio, Naida. È tutto finito.
Naida trasalì come se avesse ricevuto una scossa, ma il professore era ormai uscito e non se ne accorse. Lei ricadde sul cuscino tirandosi le coperte fin sulla bocca, gli occhi fissi nello sforzo di ricordare…
“Coraggio, Naida. È tutto finito.”
Aveva già sentito quelle parole… le aveva sentite poco tempo prima, dette da un’altra voce.
Il ricordo esplose nella sua mente, inarrestabile e devastante…


…Le luci s’affievolirono, i suoni si spensero.
Appesa per i polsi ai ceppi, Naida si reggeva in piedi a malapena: le ginocchia le si piegavano, un tremito violento la scuoteva tutta.
– Coraggio, Naida. È tutto finito. – Zuril spense il display di controllo; s’avvicinò alla giovane donna, le liberò le caviglie. Quando aprì l’anello che le stringeva un polso lei si accasciò su sé stessa, e lui fu costretto ad afferrarla per impedirle di cadere; aprì anche l’ultimo anello e Naida gli crollò addosso, mezzo svenuta.
– Sta bene? – la voce profonda di Re Vega tradiva una certa preoccupazione: se Naida fosse morta il piano di colpire a tradimento Duke Fleed sarebbe sfumato.
Zuril esaminò rapidamente la giovane donna: – Si riprenderà presto.
– Ha resistito alla sonda mentale più di quanto mi aspettassi – osservò Sua Maestà.
Lo scienziato assentì. Incapace di accettare l’odio per Duke Fleed che volevano inculcarle, lei s’era ribellata, e il condizionamento era stato lungo e doloroso. Teoricamente non avrebbero dovuto esserci problemi, ma…
Di colpo Naida trasalì, spalancando a dismisura gli occhi: un dolore lacerante al basso ventre, come una coltellata… in preda agli spasimi Naida si piegò in due, lanciando un urlo strozzato.
– Che le succede? – sbottò Re Vega.
– Non dovrebbe fare così! A meno che… – Zuril tacque, mentre un atroce sospetto si faceva strada in lui; Naida urlò ancora, divincolandosi, e lui non poté fare altro che adagiarla sul pavimento.
Il dolore era sempre più violento, vivo, pulsante… poi improvvisamente Naida sentì il sangue, la sua stessa vita fluire da lei. Con orrore s’accorse d’essere immersa in una pozza rosso vivo.
– Sta’ calma, andrà tutto bene – Zuril balzò in piedi e scattò verso l’intercom, mentre Re Vega si faceva avanti.
– Che cos’ha? – chiese il sovrano, allarmato.
– Un aborto – con un pugno Zuril accese il display – Non potevo sapere che era incinta!
– …Cosa…? – allibito, Sua Maestà tornò a guardare la straziata creatura che si torceva nel suo stesso sangue. In vita sua, Re Vega aveva ordinato e visto la morte d’innumerevoli esseri; la fine di quell’esistenza appena iniziata lo scosse profondamente.
Sullo schermo apparve il viso d’un giovane tecnico; in tono reciso Zuril ordinò che venisse mandata subito un’unità di pronto soccorso. Spense lo schermo prima che il giovane potesse replicare e tornò ad inginocchiarsi accanto a Naida, incurante del sangue che lo lordava. Se fosse morta, lui sarebbe stato ritenuto responsabile, e non voleva pensare alle conseguenze…!
Lei lo fissò, gli occhi resi folli dal terrore, e si aggrappò alla sua mano. Zuril le prese anche l’altra, gliele strinse nelle proprie come per trasmetterle la propria forza: – Stanno arrivando, Naida. Devi resistere. Devi farcela…!
Poi, fu il buio.


Riemerse lentamente dall’oblio. Non poteva vedere nulla, ma sentiva parlare attorno a sé… una voce femminile… la primaria, Koyra.
– …Un aborto, sì.
– Non sapevo che fosse incinta – questo era Zuril – Naida non me l’aveva detto!
– Perché di sicuro non lo sapeva nemmeno lei – rispose la dottoressa – La gravidanza era appena iniziata. L’embrione era esattamente di quattro settimane e un giorno.
Embrione…?, si disse Naida. Gravidanza… io?
– Non è proprio stato possibile salvare il bambino? – chiese la voce di Zuril.
– È stato ucciso dalle scariche elettriche dovute al condizionamento – rispose seccamente Koyra – L’aborto è stato solo la naturale espulsione, non la causa del decesso.
– Capisco – rispose Zuril, e per una volta tanto la sua voce non suonava certo fredda ed indifferente – Cos’era?
– Un maschio.
Mio… figlio…?, pensò Naida.
Un attimo di silenzio; poi la Koyra aggiunse: – Qualcuno dovrà dirlo al comandante Hydargos.
– Me ne incarico io – rispose piano Zuril – Naida sta bene?
– Abbiamo fermato l’emorragia. Si riprenderà.
Mio figlio…! Il mio bambino…
Le voci s’allontanarono, s’affievolirono e l’oscurità benedetta l’inghiottì portandola via dal dolore, dalla disperazione, dalla morte.


Naida si rizzò a sedere sul letto, le mani sul ventre.
Il suo bambino!
Ora, solo ora ricordava… in tutto il tempo in cui era rimasta sotto il controllo del chip di Vega, era vissuta come in un incubo, alcune parti della sua mente erano state sopite, la sua memoria era rimasta in parte bloccata, chiusa… ma ora ricordava, il dolore, il sangue… e poi i discorsi della dottoressa e di Zuril. Un aborto.
Per un breve periodo era stata madre, e senza saperlo.
Un maschio… quattro settimane e un giorno…
Non sarebbe mai nato.
Naida lanciò un urlo da animale ferito a morte e ricadde sul letto, scoppiando in un pianto dirotto.


La mano di Procton e il coperchio che si chiudeva fu l’ultima cosa che videro, la sua voce l’ultima cosa che sentirono.
– Avreste dovuto immaginare che i terrestri avrebbero capito che Naida era condizionata – osservò Zuril, asciutto – Ora che le hanno tolto la nostra sonda, abbiamo perso ogni contatto.
– Sapevamo che sarebbe accaduto – ringhiò Gandal, sedendosi sulla sua poltrona di comandante – Solo, pensavamo che prima d’essere scoperta lei sarebbe riuscita ad uccidere Duke Fleed o a danneggiare Goldrake. Comunque, al momento Duke Fleed non è in grado di reagire, il che è un vantaggio – ruotò la sua poltrona verso Hydargos, seduto alla sua postazione: – Fai partire il mostro Dari Dari e i minidischi e attacca il laboratorio. Vedremo se riusciranno a salvarsi, senza quel dannato robot.
Hydargos esitò un istante solo: Naida era laggiù, avrebbe potuto morire durante l’attacco.
Impassibile, la voce fermissima, diede gli ordini necessari, prima d’alzarsi e avviarsi frettolosamente verso la porta.
Gandal si voltò verso di lui: – Vuoi essere tu a pilotare il mostro?
Hydargos sostenne il suo sguardo: – Voglio seguire personalmente l’attacco dalla mia astronave – e voglio tentare di riprendermi quello che è mio.
Il Comandante di Vega fece un cenno d’assenso e tornò a fissare lo schermo, mentre Zuril si poneva al suo fianco.
Le porte si chiusero dietro Hydargos.


Gli occhi ormai asciutti – non sapeva quanto tempo fosse passato – Naida si rialzò faticosamente, mettendosi a sedere sul letto.
Il pensiero del suo bambino era ancora orribile, ma aveva sfogato il suo dolore, pianto tutte le sue lacrime. Per il momento si sentiva un po’ meno peggio.
Naida si portò le mani alla fronte, toccò la fasciatura che le avevano fatto per medicarle la ferita; e in quel momento le tornò in mente Duke, il suo Duke, e come lei l’avesse colpito selvaggiamente. Il dolore si rinnovò in lei: come aveva potuto arrivare a tanto? Come aveva potuto fare del male all’uomo che amava?
Naida serrò i denti. Il condizionamento mentale. Maledetti…!
Tutto, le avevano tolto i veghiani, tutto… la libertà, la dignità, suo figlio, il suo amore. Avevano fatto di lei una furia omicida.
Procton aveva detto che Duke era vivo, ma non aveva detto che stava bene…
Oh, amore mio! Se solo potessi… potessi…
In preda allo sconforto, Naida ricadde sul letto.
Se solo avesse potuto andare da Duke, vederlo un istante, magari digli…
Cosa potrei dirgli? Che in tutti questi anni sono stata la schiava del suo peggior nemico?
In preda alla vergogna, Naida si coprì gli occhi con le mani. Ricordava quando aveva urlato in faccia a Duke quella che era stata la sua vita dopo la caduta di Fleed. Allora l’aveva accusato di tradimento e si era sentita fiera del suo passato perché aveva voluto fargli del male, ferirlo; adesso, tornata in sé, il rimorso la tormentava. Come aveva potuto parlare così a Duke… trattarlo da vigliacco, traditore… e gettargli in faccia la relazione che aveva avuto con Hydargos?
Trasalì al ricordo di Hydargos, e sentì bruciarle le guance.
Quando era divenuta la sua schiava, anni prima, si era sentita confortata dal fatto che lui fosse abbastanza gentile con lei; ora, sentiva la vergogna lacerarle l’animo. Se lui fosse stato un padrone crudele e violento, ora lei sarebbe stata una vittima degna di rispetto e comprensione; ma non era stato così. Lui l’aveva protetta, nutrita, aveva avuto cura di lei. Non le aveva mai fatto del male.
Come poteva ora sostenere lo sguardo di Duke, sapendo di essersi salvata perché aveva accettato di essere il giocattolo del suo peggior nemico? Lui avrebbe avuto tutti i motivi per disprezzarla, e avrebbe avuto ragione. Lei aveva calpestato la sua dignità per quel veghiano…
Un pensiero improvviso la lasciò senza fiato: era un’ingrata. Hydargos era davvero stato buono con lei, e lei lo stava disprezzando.
I ricordi le si affollarono alla mente… Hydargos che la strappava a quell’orrenda prigione, che le dava una casa, cibo, vestiti… quando l’aveva condotta alla biblioteca… quando le aveva donato il bulbo… quando aveva rischiato in prima persona tentando di difenderla davanti a Re Vega… arrossì violentemente pensando all’ultima notte che avevano trascorso assieme. No, con quello che era successo allora non poteva certo pensare che fosse stata solo la paura a legarla a lui. Quella notte lei non era stata semplicemente il suo giocattolo: erano stati davvero un uomo e una donna che si erano amati. E per poco non avevano avuto anche un figlio.
Naida si gettò ancora sul letto, stringendo tra le braccia il cuscino. Amava Duke, l’aveva sempre amato e nonostante tutto non avrebbe mai cessato d’amarlo; come poteva allora sentirsi legata ad un altro uomo? Cosa provava davvero per Hydargos?
Come poteva essere attratta da due uomini? Cos’era diventata…?
Duke. Hydargos. Il bimbo…
In preda alla più totale confusione, Naida affondò il viso nel cuscino.
Se fossi morta…!


Capitolo 16 – L’attacco

Il segnale d’allarme pulsava, insistente.
Hayashi sussultò, fissando l’immagine che era appena apparsa sul suo monitor: – Dottor Procton, un’intera flotta di UFO si sta avvicinando rapidamente all’atmosfera terrestre!


Ovunque, tutt’attorno a lui, disperazione, grida, sangue. Un intero mondo in agonia, urlante e senza più speranza.
E tutto era successo per colpa sua: era lui il vero responsabile, il solo colpevole.
Aveva abbandonato la sua gente, era fuggito portando con sé l’unica difesa contro i nemici; un vero principe avrebbe dovuto restare e morire con i suoi sudditi, non scappare lasciandoli al loro destino.
Era un traditore… un vigliacco.
Non poteva esserci pietà, non poteva esserci comprensione per un individuo spregevole come lui.
Actarus avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non sentire quelle grida, avrebbe voluto chiudere gli occhi per non vedere quei corpi dilaniati, ma era tutto inutile: il suo tormento era nel suo animo, persone ormai scomparse per sempre dimoravano nella sua memoria costringendolo a ricordare. Rivide suo padre, sua madre… risentì le grida disperate della sua sorellina Maria, che lo chiamava e che lui aveva voluto ignorare… e poi, lei, Naida, con in braccio il corpicino sanguinante di Sirius.
– Assassino! – urlò Naida – Traditore! Hai ucciso mio fratello!
– …No…! – articolò Actarus, incapace di difendersi, di giustificarsi.
– È morto! Guardalo! Era solo un bambino!
– Naida, ti prego…
– È morto per colpa tua! Colpa tua!
Actarus urlò, e urlò, e urlò.


Un urlo lunghissimo, da animale in agonia. Un altro. Un altro…
– Lasciatemi andare da lui! Vi prego! – supplicò Naida; ma Procton scosse il capo.
– Non è in sé. Non è in grado di riconoscerti. Non si accorgerebbe nemmeno della tua esistenza… potrebbe persino farti del male – nonostante il ferreo autocontrollo, lo sconforto vibrava nella voce di Procton. – Non posso farti correre un simile pericolo.
– È tutta colpa mia! – aggrappata alle sbarre della cella di Actarus, Naida crollò il capo: non aveva più lacrime, ormai, ma la sua disperazione, il suo dolore sincero erano più che evidenti. Se mai Venusia o Procton avevano provato del malanimo nei suoi confronti, vederla così abbattuta li commosse entrambi nel profondo.
– Non è colpa tua – Venusia le cinse affettuosamente le spalle con un braccio – Tu non sei responsabile! La colpa è solo dei veghiani, che ti hanno usata!
– Sì – rispose Naida, la voce sorda e il viso improvvisamente indurito – Sì, i veghiani mi hanno sempre usata.
Procton guardò ancora Actarus che smaniava e rabbrividì; osservò le due ragazze e intuì che avessero da parlarsi e che quindi fosse meglio lasciarle sole, per cui s’allontanò in fretta, nelle orecchie sempre le urla del figlio.
– Lo vedi? – Venusia si sforzava di non far tremare la voce – È come se vivesse in un mondo tutto suo, senza contatti con la realtà. Ma la cosa peggiore è che sembra aver perso la volontà di vivere. Il dottor Procton tenterà di creargli un controshock con una forte scarica elettrica – represse il brivido che l’aveva scossa da capo a piedi ed aggiunse, in tono che voleva assolutamente essere convinto: – È molto pericoloso; ma io credo che ce la farà.
Naida chinò la testa: – Che cosa ho fatto…!
Un nuovo urlo, ancora più angosciato dei precedenti.
– Actarus…! – Venusia si premette una mano sulla bocca, reprimendo le lacrime: non voleva piangere, non ora… non davanti a Naida…
Ma Naida aveva già compreso tutto: – Senti… tu sei innamorata di lui, vero?
Il sangue affluì alle guance di Venusia, che si fece scarlatta: – Ma… io…
– Lo avevo immaginato – Naida le sorrise, triste: lei e Venusia amavano lo stesso uomo, ma non erano rivali tra loro, né lo sarebbero mai state: – Anch’io lo amo… forse anche più di te. L’amore è una gran forza – le mise una mano sul braccio, glielo strinse; solo allora Venusia osò alzare gli occhi e guardarla.
Fu un attimo: si conoscevano a malapena, ma si compresero al volo, e si sorrisero.
Naida gettò un ultimo sguardo ad Actarus, poi tornò a fissare Venusia, accennò a lui, parve sul punto di dire qualcosa; le parole le mancarono e Naida si voltò di scatto, allontanandosi di corsa.
Actarus lanciò un altro urlo, viscerale e straziante.


Immobile, inutilizzata, la salvezza era a portata di mano. Goldrake attendeva solo che qualcuno osasse animarlo e condurlo in battaglia; quel giorno, però, non sarebbe stato il suo solito pilota a farlo.
Alcor si precipitò di corsa verso la rampa di lancio: naturalmente non avrebbe potuto compiere lo spettacolare salto con cui Actarus saliva sul suo mezzo, ma…
– Alcor! – Venusia tentò di raggiungerlo, ma lui era troppo veloce – Alcor! No!
Lui non l’ascoltò nemmeno, troppo concentrato sulla sua meta: ancora pochi metri, e…
Le grandi corna dorate brillarono, minacciose; una scarica s’abbatté sul pavimento là dove un istante prima s’era trovato Alcor. Solo i suoi eccezionali riflessi avevano permesso al giovane di balzare via prima di venire fulminato.
Pallido per lo scampato pericolo, il giovane finalmente s’accorse di Venusia: – M’ero dimenticato del sistema di difesa di Goldrake… a momenti ci restavo!
Lei gli mise una mano sulla spalla e scosse il capo: – Non puoi far nulla. Solo Actarus può salirvi sopra!
Alcor balzò in piedi: sembrava che la sconfitta l’avesse reso più agguerrito: – Ci salirà!


– Professore, gli UFO stanno per entrare nell’atmosfera! – esclamò Hayashi, sforzandosi di controllare la voce. Quel giorno, non ci sarebbe stato Goldrake a difenderli…
Procton assentì, cupo. Sapeva che, a meno d’un miracolo, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto fino all’indomani.


Fu mentre si precipitava nuovamente verso il centro medico che Alcor quasi andò a sbattere contro Naida. Fece per scostarla da sé e continuare la corsa, ma lei lo trattenne: – Io posso fare qualcosa, ma ho bisogno del tuo aiuto!
– Quei dischi stanno puntando su questo laboratorio! – esclamò Alcor – Cosa vorresti fare, tu?
– Posso tenerli impegnati e darvi del tempo! – Naida l’afferrò per il polso e puntò verso l’uscita del laboratorio, tirandosi dietro Alcor.
– E come potresti fermarli? – chiese di rimando lui, puntando i piedi – Nemmeno io, col mio disco…
– Hai dimenticato l’astronave di Vega che è ancora sulla montagna? – ribatté Naida, prontissima – Io posso usarla per tenere quei mostri lontani dal laboratorio, e intanto voi potrete cercare di rianimare Duke!
L’astronave… Alcor se n’era completamente dimenticato: per quel che ne sapeva lui, era rimasta nella pineta, semiaffondata nella neve. Era un mezzo abbastanza grande, avrebbe potuto servire.
Senza accorgersene, riprese a seguire Naida che l’aveva ormai condotto fuori del laboratorio, verso il posteggio delle automobili.
– Muoviti! – Naida lo sospinse sulla jeep – Devi portarmi là, e devi far presto! Io non posso guidare questa macchina e andarci da me, non sono capace!
Galvanizzato da quella nuova possibilità, Alcor fece partire l’auto, che con un ruggito imboccò a tutta velocità la strada che s’inerpicava su per la montagna. Guidò con l’incoscienza di chi non ha più nulla da perdere, affrontando a tutta velocità quel sentiero tutto curve e dossi; accanto a lui, Naida si teneva saldamente al suo posto, gli occhi fissi sulla strada e il bel viso indurito, deciso.
Ad entrambi parve che il viaggio fosse durato un’eternità, mentre invece si trattò di nemmeno un quarto d’ora, meno della metà del tempo che in condizioni normali Alcor avrebbe impiegato per coprire quella distanza, e su quella strada.
Alcor fermò la jeep: l’astronave era a breve distanza da dove si trovavano, nascosta dentro la pineta. Fece per scendere, ma Naida lo precedette: – Adesso ci penso io.
– Non vorrai andare tu! – solo allora Alcor si rese conto di quello che Naida aveva veramente inteso – Andrò io contro quei mostri, tu non puoi…
– Tu non sei capace di pilotare una nave di Vega – Naida sbatté la portiera – Io sì!
S’allontanò di corsa senza più voltarsi, prima che la sua determinazione cedesse: doveva far presto, doveva salvare quei terrestri… e Duke…
Ti amo, ti amo!, pensò, mentre correva verso la nave. Non dovrai più vergognarti di me, te lo giuro!


Inerte, totalmente immerso nel suo inferno personale, Actarus giaceva sul letto: ormai non urlava più, non si agitava più, rimaneva semplicemente lì, gli occhi morti, lo spirito che vagava in luoghi remoti, inaccessibili.
Alcor entrò come una furia nella cella. Lo afferrò per il bavero, lo scosse: – Actarus, devi tornare in te! La Terra è attaccata da Vega, i tuoi amici sono in pericolo! Devi muoverti!
Actarus sembrava non essersi nemmeno accorto di lui. Gli occhi apparivano pallidi, slavati, e avevano un’impressionante fissità vitrea; era sempre più lontano, più lontano…
Alcor lo colpì con un ceffone: – Svegliati! Ci sono i dischi di Vega! Naida gli è andata incontro da sola, devi salvarla! Svegliati, Actarus! – lo colpì ancora e ancora, sperando in una reazione, una reazione qualsiasi…
– Alcor, no! – Venusia si precipitò nella stanza, gli afferrò il polso impedendogli di colpirlo ancora – Sei impazzito?
– Lasciami stare, Venusia! – Alcor si liberò con uno strattone.
Nonostante tutto, qualcosa era penetrato nella coscienza di Actarus; un lieve barlume si accese nei suoi occhi: – …Naida…?
– Sì, Naida! – urlò Alcor, aggrappandosi a quell’esigua speranza – È andata incontro al nemico, si è sacrificata! Mi hai capito? Morirà, se tu non andrai a salvarla!
La minuscola luce si spense, e Actarus parve afflosciarsi su sé stesso, nuovamente lontanissimo, nuovamente irraggiungibile.
– Professore! – Venusia s’asciugò gli occhi e si volse di scatto verso Procton, entrato proprio in quel momento – Che possiamo fare?
Procton dovette fare uno sforzo per controllare completamente la sua voce, non lasciar trasparire l’angoscia che lo gelava – Non c’è altro mezzo. Proveremo con lo shock, anche se è pericoloso.
Alcor assentì: – Avete ragione. Non abbiamo altre possibilità.
Completamente indifferente a quanto avveniva attorno a lui, Actarus si accasciò a terra.
Sono un traditore. I traditori non meritano di vivere.


Capitolo 17 - Redenzione

Naida sedette al posto di pilotaggio. Una semplice occhiata le confermò quanto aveva immaginato: i comandi di quell’astronave erano molto simili a quelli dei minidischi. Perfetto.
Aprì lo sportello del vano davanti al posto del pilota: cinque bombe ad alto potenziale. Con freddezza, ne tolse una e l’applicò sul vetro davanti a sé: l’impatto l’avrebbe fatta esplodere, scatenando una reazione a catena con le altre bombe. Sarebbe successo tutto in un istante.
Accese il quadro di controllo, attivando i comandi nella sequenza corretta, come le aveva insegnato Hydargos…
Hydargos.
Naida sentì la gola contrarlesi: richiamare alla mente lui, quel veghiano duro ed orgoglioso che per anni era stato il perno del suo universo, la fece star male. Mai avrebbe immaginato di provare dolore per lui, mai! Ma, ora se ne rendeva finalmente conto, quell’uomo era stato per lei molto di più che un padrone… molto, molto di più.
Non devo pensare a Hydargos! Non devo, o non avrò il coraggio di fare quel che bisogna che faccia!
Si aggrappò al pensiero di Duke, ed accese i motori dell’astronave.
“Non avere fretta di partire. Lascia passare qualche istante perché il motore sia pronto. Devi sentirlo solo ronzare.”
Le parole di Hydargos risuonarono ancora in lei; severo ed esigente, era stato però un buon maestro, e le aveva insegnato davvero molto. Naida attese che il rombo del motore si affievolisse in un sibilo, prima di sollevarsi in volo.
Una partenza perfetta. Hydargos, saresti fiero di me.
Un pensiero improvviso la colse: con tutto quel che c’era stato tra di loro, mai, in nessuna occasione, lei si era permessa di chiamarlo in altro modo che non “signore”. Fu scossa da un riso nervoso, quasi isterico, da cui si riprese a fatica.
Sfrecciò oltre le cime degli alberi, lasciandosi alle spalle la montagna, la neve… e più in giù, il laboratorio… e Duke.
Amore mio… ti amo, ti ho amato tanto! Ti prego, non dimenticarti di me!


– Che ordini, signore? – ritto sull’attenti, il primo ufficiale si rivolse direttamente ad Hydargos, che dalla sua poltrona di comandante stava fissando il paesaggio terrestre sotto di loro. Ormai si distinguevano bene le montagne, il fiume, persino il laboratorio appariva come un minuscolo puntolino ben visibile.
– Goldrake è praticamente fuori uso – rispose lentamente Hydargos – Voglio assalire quel laboratorio e prenderli vivi. Tutti.
Nonostante il suo perfetto autocontrollo, qualcosa dovette trasparire dall’espressione del suo subalterno, perché Hydargos si voltò a guardarlo, interrogativo.
– Perdonate, signore – si scusò in fretta l’ufficiale – Credevo avreste dato ordine di radere al suolo quel laboratorio.
– Lo faremo, ma dopo. Abbiamo la possibilità di catturare Duke Fleed, quel Procton e tutti i loro dannati collaboratori; sarà una grande vittoria che ci compenserà per tutto quello che abbiamo dovuto subire. Sua Maestà dovrà ricompensarci.
– Come volete, signore – stavolta la voce dell’ufficiale risuonò più convinta, evidentemente l’idea gli sorrideva.
– Atterreremo circondando il laboratorio – continuò Hydargos – Entreremo, e prenderemo prigionieri tutti i presenti. Fate regolare le armi sui raggi paralizzanti. Se qualcuno dovesse morire, il responsabile ne risponderà direttamente a me. Avete capito?
– Sì, signore! – e l’ufficiale gli rivolse un saluto prima di andare a dare gli ordini necessari.
Hydargos teneva lo sguardo sempre fisso sul laboratorio, che continuava ad ingrandirsi sullo schermo.
Lei doveva essere lì: non poteva immaginare un altro posto in cui potesse trovarsi.
A meno che, s’intende, Duke Fleed non l’avesse nascosta da qualche parte, nel qual caso sarebbe stata solo questione di tempo venire a conoscenza del suo rifugio. Sarebbe bastato torturare uno di quegli stupidi umani davanti a Duke Fleed perché lui, o qualcun altro, cedesse; e anche così, presto lui avrebbe riavuto Naida.
Per anni aveva atteso il momento in cui avrebbe sconfitto Duke Fleed per godersi la vittoria e riceverne gloria ed onori; ora, ad un passo dal compimento di tutti i suoi sogni, tutto quel che riusciva a pensare era solo lei, lei, lei. Una schiava. Una cosa di nessun valore.
Devo essere impazzito, si disse Hydargos; e scosse le spalle.
Il fatto era che non gliene importava.


– Ancora – disse Procton.
– Ma, professore… – cominciò il medico.
– Ancora – la voce decisa di Procton non lasciava trapelare la paura che ne agghiacciava l’animo.
– Può essere molto pericoloso – insisté il dottore.
– Me ne assumo io la piena responsabilità – Procton vide il medico esitare ed aggiunse: – So che rischiamo di uccidere Actarus; ma se non riusciamo a scuoterlo saremo tutti morti, e la Terra cadrà in mano a Vega. Dobbiamo rischiare, non abbiamo alternative.
Il medico crollò il capo e si chinò sui comandi. Venusia si premette una mano sulla bocca per non urlare; Alcor la strinse tra le braccia e rimasero entrambi immobili, in attesa, gli occhi fissi sulla figura accasciata di Actarus.
Il medico diede corrente; il corpo di Actarus si tese in uno spasmo, dalle labbra gli uscì un gemito strozzato.
– Basta! – gridò il dottore, togliendo il contatto – Così lo ammazziamo!
Venusia sussultò, ed Alcor la strinse maggiormente. Procton si chinò sul corpo di Actarus, che s’era afflosciato su sé stesso. Il giovane respirava affannosamente, ma gli occhi che aprì non erano più vacui, inespressivi: stanchi ma consapevoli, fissarono Procton con l’affetto di sempre.
– Che è successo…?
Uno dei suoi rari, pallidi sorrisi animò il viso di Procton: – Bentornato tra noi.


Gandal fissò l’astronave di Vega apparsa improvvisamente sullo schermo: – E quella da dove sbuca?
– Mi pare evidente – rispose Zuril, asciutto – È la nave con cui abbiamo portato Naida sulla Terra. Tutti i soldati che avevamo inviato sono stati uccisi da Duke Fleed e dal suo collaboratore, e la nave era rimasta dove l’avevano lasciata.
Gandal assentì: – Probabilmente la sta pilotando quell’Alcor, l’amico di Duke Fleed. Vorrà usare la nostra nave contro di noi; purtroppo per lui, le armi a bordo sono poco potenti, anche se sono più pericolose di quel suo ridicolo disco giallo. Riuscirà a fare ben poco.
– Vorrei esserne anch’io così sicuro – rispose Zuril, assorto, l’unico occhio fisso sull’immagine dell’astronave.
– Ti ripeto che quella nave è armata al minimo. Anche un minidisco potrebbe distruggerla senza troppi problemi.
– Non avevate fornito a Naida quelle bombe ad alto potenziale? – insisté Zuril.
– Sì, ma si tratta di bombe a mano, non possono essere lanciate dalla nave. Ti stai preoccupando per niente.
E tu, mio caro comandante, temo ti stia comportando con superficialità, si disse Zuril, che aveva l’abitudine di non trascurare nulla. Inquieto, continuò a guardare l’immagine di quell’astronave che sfrecciava nel cielo.
Qualcosa non gli tornava.


Con cautela, Actarus si rimise in piedi, sostenuto da Procton.
– Finalmente stai meglio! – esclamò Alcor.
– Actarus! Come ti senti? – chiese ansiosamente Venusia.
Actarus si guardò attorno, come cercando qualcuno; aggrottò la fronte: – Dov’è Naida?
Un improvviso silenzio cadde nella stanza. Actarus passò con lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi amici; tutti e tre evitarono di guardarlo.
– Dov’è? – ripeté Actarus, teso.
– Ascoltami – cominciò Procton, mettendogli una mano sulla spalla.
– Non c’è – Actarus si liberò dal padre, mentre un orrendo sospetto si faceva strada in lui – Cos’ha fatto? Avevi detto… – si voltò verso Alcor – Avevi detto che si è sacrificata… sta andando contro i veghiani? Da sola?
Venusia scoppiò in pianto, e questa fu per lui la conferma ai suoi peggiori sospetti. Fece per slanciarsi verso la porta, ma aveva le gambe intorpidite, e fu più lento di quanto non avesse voluto.
– Actarus, fermati! – gridò Procton, tentando di trattenerlo per una manica – Sei ancora debole, non puoi…
– Padre, lasciami andare! – Actarus si divincolò, liberandosi senza difficoltà, e partì di corsa.


– Signore, quella nave sta puntando dritto sul mostro! – esclamò il primo ufficiale.
– Usano contro di noi la nostra stessa nave – Hydargos si appoggiò allo schienale della sua poltrona – Dev’esserci quell’Alcor, ai comandi. Avrei preferito catturarlo vivo, ma temo che non ci lascerà molta scelta.
– Dobbiamo abbatterlo?
– Non subito. Mettetevi in contatto con lui e ordinategli di arrendersi. Ditegli che avrà salva la vita.
– Non possiamo farlo, signore – disse dopo un attimo l’addetto alle comunicazioni – Sulla nave, hanno chiuso tutti i canali.
– Lo attacchiamo? – chiese il primo ufficiale.
– Probabilmente Alcor non sa che quella nave ha le armi al minimo – rispose Hydargos – Lasciamogli la prima mossa. Quando vedrà che potrà fare ben poco contro di noi, magari accetterà di arrendersi; altrimenti, lo abbatteremo.


– È come temevo! – ringhiò Zuril.
– Di cosa stai parlando? – sbottò Gandal.
– Guarda: quella nave sta puntando dritta sul mostro!
– Non preoccuparti, Dari Dari non sarà nemmeno scalfito dal suo attacco.
– Proprio non capisci! – Zuril si voltò di scatto verso di lui – Quella nave non si limiterà a sparare con i suoi miseri cannoni laser… questo è un attacco suicida! Guarda, gli sta puntando direttamente addosso!
– Cosa? – Gandal osservò meglio l’immagine sullo schermo: la piccola nave stata dirigendosi direttamente contro l’enorme mostro, senza la minima esitazione – Non è possibile, Alcor non è tipo da…
– Non Alcor… Naida.
Stavolta lo stupore di Gandal fu tale da lasciarlo letteralmente senza parole. Esterrefatto, si voltò a guardare il collega che riprese, la voce sorda: – Sono pronto a scommettere quello che vuoi che è Naida a pilotare quella nave. Si getterà contro Dari Dari.
Gandal aprì il canale di comunicazione col mostro, ruggendo l’ordine di ripiegare.
– Sono praticamente sicuro che Naida abbia con sé le bombe che le sono rimaste – continuò Zuril, con collera repressa – Una sappiamo che è esplosa, ma le altre, messe assieme, provocheranno un disastro che distruggerà mostro, dischi, tutto. – si volse verso Gandal che continuava a dare l’ordine di ripiego: – È troppo tardi, la nave di Naida è troppo vicina. Se anche venisse distrutta, mostro e dischi resteranno coinvolti nello scoppio.
Gandal cambiò rapidamente canale, si mise in comunicazione con l’astronave di Hydargos, che rimasta indietro seguiva il gruppo ad una certa distanza: – Ripiegare immediatamente!
– Cosa? – sul monitor apparve il viso stupefatto di Hydargos.
– È un ordine! – esclamò Gandal, in tono che non ammetteva repliche – Ritirati subito! Su quella nave c’è Naida che sta tentando un attacco suicida!
– Naida?! – talmente sbalordito da restare senza fiato, Hydargos si volse a guardare attraverso il proprio schermo la nave che puntava dritta sul mostro; fu proprio allora che vide anche qualcos’altro apparire tra le nuvole: – Goldrake… ma come…?
– Ritirati! – ripeté Gandal, reciso; e Hydargos, quasi senza rendersene conto, fece cenno al suo primo ufficiale di obbedire.
Il grande disco violaceo decelerò virando bruscamente: una manovra azzardata che solo la perizia dei piloti portò felicemente a termine. Totalmente incapace di reagire, Hydargos continuava a fissare la piccola nave che s’avvicinava al mostro… s’avvicinava sempre più…
Naida, non farlo… NON FARLO!


– Naida! No! – Actarus spinse la velocità del robot al massimo consentitogli, ma era ancora distante, troppo distante… e la piccola nave era troppo vicina – Naida, ti prego, no!!!


– Naida, no! Naida!
La voce di Duke… era là, sul suo robot… dunque, si era ripreso! Stava bene!
Oh, Duke… allora sei tornato a combattere!
Naida sentì lacrime di gioia scenderle giù dalle guance, mentre continuava a dirigere la sua nave contro il mostro. Davanti a lei, una attaccata al vetro e le altre nel loro alloggiamento, le bombe attendevano, immobili e minacciose. Al primo impatto sarebbero esplose.
– Naida, ti prego, non farlo!
Naida spense la radio. Perdonami, Duke…
Guardò davanti a sé. Oltre il mostro ora scorgeva un’altra nave che riconobbe subito: era stato con quella che era giunta su Skarmoon… la nave di Hydargos. Dunque, anche lui era lì, anche lui stava vedendo ogni cosa. Con sollievo, constatò che era troppo distante per restare coinvolto nell’esplosione. Il pensiero che lui non sarebbe morto le diede un’irragionevole felicità: eppure, era un comandante nemico… ma era anche il padre di… del bambino…
La verità era sempre stata davanti ai suoi occhi; solo in quel momento la vide.
Amo anche lui!, realizzò improvvisamente. Ma come…?
Duke… Hydargos…
BASTA!!!
Con un singhiozzo, Naida si gettò sulle cloches spingendole con tutta la sua forza; l’astronave fece un brusco balzo in avanti.
Un boato, e il mondo scomparve in una vampata incandescente.


– Naida! Naida! – Actarus urlò disperatamente, continuando a ripetere quel nome, quasi avesse potuto richiamare a sé quella donna che fino a pochi istanti era stata viva… quella donna che aveva perduto, aveva ritrovato ed ora aveva perso per sempre. Non sarebbe mai tornata, stavolta.
Balzò in piedi, battendo disperatamente i pugni contro il vetro della cabina di pilotaggio, gli occhi fissi sulla massa infuocata che stava precipitando a terra. Si strappò di testa l’elmo e lo gettò di lato, incurante delle lacrime che gli scorrevano per il viso.
Lei si era sacrificata per lui, per sottrarlo alla morte; l’avrebbe ripagata combattendo contro quei mostri di Vega, respingendo i loro attacchi, non dando loro tregua. Solo così avrebbe potuto dare un senso al sacrificio di lei, che pagando il più alto dei prezzi gli aveva donato la salvezza.
Sapeva che sarebbe stato giusto così… che Naida stessa avrebbe voluto questo…
In quel momento, non poteva fare altro che piangere.


L’esplosione illuminò improvvisamente il grande schermo della sala comando; poi non rimase che una scia di fuoco che piombava sulla Terra. Un’alta colonna di fumo si levò dai rottami contorti di quella che fino a pochi secondi prima era stata un’astronave. Contro il cielo arrossato, la sagoma di Goldrake spiccava, scura e solitaria.
E così, tu ti sei salvato. C’era da aspettarselo.
Hydargos fece una smorfia, guardando la nave del suo eterno nemico. L’unica cosa che lo facesse sentire bene era il pensiero di quanto stesse soffrendo anche Duke, in quel momento… perché lei non c’era più.
Non c’era più niente da vedere, ormai. Era finita.
Dato brevemente l’ordine di rientro su Skarmoon, Hydargos si alzò dalla sua postazione, lasciando il comando al suo primo ufficiale.
Si drizzò nella persona. S’aggiustò il mantello. Uscì nel corridoio senza guardare nessuno.
Orgogliosamente eretto, spalle dritte, raggiunse la propria cabina personale e vi si chiuse dentro.
Sedette, e con mano fermissima si versò da bere.


Le porte si chiusero dietro alle sue spalle; in silenzio, Zuril si diresse verso la solitaria figura seduta alla consolle del computer.
Hydargos non alzò la testa, non disse nulla. Continuò a guardare senza vederle le immagini che si susseguivano sul suo monitor. L’astronave che sfrecciava, lo schianto, l’esplosione, il cielo rosso… la silhouette di Goldrake. Poi daccapo: ancora l’astronave che sfrecciava, lo schianto…
Zuril si pose al suo fianco, ma il Comandante di Vega non lo degnò di uno sguardo. Sul tavolo vicino alla consolle, una coppa e una bottiglia vuota. L’odore del liquore era perfettamente percepibile.
Per un poco tacquero entrambi, ciascuno incapace di cominciare; naturalmente, fu Hydargos a cedere. Con un gesto di stizza arrestò il filmato e posò il mento sui pugni chiusi, evitando di guardare il collega: – Naida è morta.
– Lo so – Zuril esitò: non era nella sua natura mostrarsi espansivo – Io… mi spiace molto. Non avrei mai voluto che finisse così.
– Era solo una schiava – Hydargos parlava muovendo appena le labbra, gli occhi fissi sul monitor – Solo una schiava.
A chi vuoi darla ad intendere? – Certo. Capisco.
Nuovo silenzio. Pesantissimo.
Stavolta fu Zuril a cedere e parlare per primo: – Io… se posso fare qualcosa per te…
Hai già fatto abbastanza. – Sì – per la prima volta in quel dialogo, Hydargos lo fissò dritto in viso – Puoi lasciarmi solo.
Zuril si tirò indietro come se fosse stato colpito da una frustata: – Come… come vuoi.
Ostile e remoto, Hydargos si chinò nuovamente sul suo monitor, indicando chiaramente come per lui quella conversazione fosse terminata. Zuril fece per uscire, si fermò un ultimo istante sulla porta, come se avesse dovuto dirgli qualcosa… ma qualsiasi parola sarebbe stata ormai inutile, ridicola. Lui non avrebbe ascoltato.
Zuril scosse lievemente la testa ed uscì.
Hydargos non se ne accorse neppure.


Epilogo

Nel chiuso del suo studio privato, Hydargos sedette alla scrivania; poi prese in mano il plico che tempo prima aveva affidato a Gandal e che si era appena fatto restituire.
Tutto inutile, ormai.
Spezzò i sigilli e rovesciò il contenuto sul piano del tavolo.
Il contratto d’acquisto di Naida… l’atto con cui l’aveva affrancata dalla schiavitù… i documenti che la rendevano una libera cittadina di Vega.
Hydargos guardò oltre: altre carte che attestavano i suoi beni, con un elenco completo, e infine la transazione con cui, alla sua morte, ogni suo avere sarebbe divenuto proprietà di Naida. Poi c’erano i dischi su cui erano riportate le copie degli atti, le registrazioni ufficiali, tutto.
Se lui fosse morto, Naida sarebbe stata una donna libera e ricca. Nessun altro uomo avrebbe potuto accampare diritti su di lei.
Naida non l’aveva mai saputo: tante volte Hydargos aveva tentato di dirglielo, arrestato dal timore di ciò che le avrebbe letto nello sguardo… speranza, avidità…?
Hydargos serrò le mascelle: e se invece avesse visto il dolore negli occhi di Naida all’idea della sua morte? Sarebbe riuscito, lui, a continuare a combattere in prima persona e rischiare ancora la vita com’era suo dovere?
Domande inutili, si disse. Inutili e tardive. È finita, lei è morta. Lei e… il bambino…
Hydargos parve raggelarsi, farsi di roccia.
Basta così.
Con gesti misurati e precisi, batté il bordo del fascio di carte per compattarle, prima di gettarle nel distruttore: gli scritti sarebbero scomparsi, la carta riciclata. Non c’era posto per lo spreco, su Skarmoon.
Prese i dischi e li inserì nel computer, dando l’ordine di cancellarne i dati e riformattarli.
Si guardò nervosamente attorno. Il suo alloggio appariva ora silenzioso, così vuoto e freddo; non era più un piacere tornarvi, ed era insopportabile restare.
S’alzò ed uscì, il viso di pietra e con nel petto l’inferno.


Tutt’attorno a lui, le stelle splendevano, remote e bellissime.
L’ultima volta che era salito nell’osservatorio, c’era anche lei. Ricordava bene come s’era spaventata davanti allo spettacolo dello spazio infinito; poi s’era calmata, e avevano parlato assieme.
Era sempre stato così, tra loro: lei aveva avuto molta paura, all’inizio, e poi si era rilassata, si era abituata. Avevano diviso la quotidianità, avevano chiacchierato, ascoltato musica… lui le aveva insegnato a volare, Naida gli aveva insegnato ad avere fiducia in lei.
Mai, in tutta la sua vita, Hydargos era stato bene con qualcuno quanto lo era stato con Naida.
Quante volte si era chiesto cosa provasse veramente lei, nei suoi confronti? Quante volte avrebbe voluto chiedere, e s’era arrestato per il timore di essere ridicolo, o peggio, col terrore che lei gli ridesse in faccia, o lo guardasse con odio, o assumesse un’espressione ipocrita?
Quante volte era veramente stato sicuro che Naida provasse qualcosa, almeno un minimo d’affetto, di gratitudine?
Eppure, all’ultimo istante, lei si era scagliata contro Vega… contro di lui.
In realtà, Naida non era mai stata sua.
Hydargos strinse i pugni serrando le mascelle, mentre la consapevolezza si faceva strada lentamente in lui. Naida era stata solo la sua schiava. Nient’altro.
Però… quell’ultima notte… il bacio d’addio che si erano scambiati… possibile…?
Non lo saprò mai, si disse, battendo il pugno contro una parete. Non capisco! Sono un guerriero, io, non un dannato psicologo!
Guardò con rancore quel meraviglioso pianeta che non era riuscito a conquistare… la Terra. La Terra, su cui viveva il maledetto Duke Fleed… la sua disperazione, la sua nemesi. Tutta la sua vita era stata rovinata, distrutta da quel mortale, implacabile nemico.
Mi sei costato maledettamente caro, Duke Fleed. La mia donna. Mio figlio. Ora sto per giocarmi la carriera. E per cosa, poi? Solo fallimenti.
Hydargos alzò orgogliosamente il mento.
Ormai non aveva più nulla da perdere, a parte la sua stessa vita.
Va bene, Duke Fleed. Mi hai portato via tutto. Mi hai sconfitto coprendomi di ridicolo davanti tutta Vega, al punto che alla prossima battaglia non potrò tornare se non vincitore.
Mi hai messo con le spalle al muro; te la farò pagare. Ti attaccherò come non ho mai fatto, e non avrò alcuno scrupolo, né per te, né per i tuoi aiutanti, né per quegli stupidi terrestri che ti ostini a difendere.
Se mai ci troveremo ad essere tu ed io, l’uno contro l’altro, ti converrà combattere senza pietà, perché io non ne avrò per te. Mi hai tolto tutto: prenditi anche la mia vita, se ti riesce.
E ch’io sia dannato se non ti trascinerò con me all’inferno.

FINE


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UN GIORNO TORNERÒ
di H. Aster


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Oggi
Dover obbedire era sempre stato l’obbligo della sua vita.
Fin da bambina, aveva dovuto imparare a sue spese una cosa: se era pur vero che lei era la Principessa Imperiale di Vega, l’erede al trono, era altrettanto vero che suo padre esigeva da lei la più totale sottomissione.
Ho sempre dovuto cedere, pensò Rubina. Da sempre, fin quando poteva spingersi con i ricordi… disciplina severa, regole inderogabili, nessuna concessione. Nemmeno come padre, Re Vega era mai stato tenero.
Devi saper obbedire, se vuoi imparare a dare ordini, le ripeteva.
Rubina sorrise, amara: ormai, doveva essere una comandante straordinaria…


La vista che godeva dall’ampia finestra delle sue stanze private non era esaltante: un grande cortile circondato da edifici oltre i quali si vedevano lontane alture rossastre. Anche il cielo era cupo, sanguigno: Ruby era diventato un pianeta morente, da quando Re Vega l’aveva incluso nel suo mai abbastanza vasto impero. Un pianeta che era stato fiorente di vita, che aveva ospitato un’antica civiltà… devastato, ridotto ad essere una sorta di colonia penale. Distrutto. Come tutti gli altri mondi verso cui suo padre aveva allungato le mani… come Moru… come Fleed.
Rubina batté le palpebre. Non sentiva più nulla: un tempo, il solo pensare a Fleed le risvegliava in petto un dolore vivo, cocente, che la faceva spasimare… ora, niente. Non provava più nulla… solo una grande tristezza…
Premette la fronte contro il vetro, sentendone il contatto freddo contro la pelle. Ma il freddo era dentro di lei, un gelo che non l’abbandonava da anni, ormai… da quando suo padre le aveva spezzato la vita.
Rubina strinse le braccia attorno al corpo, quasi cercando in sé stessa quel conforto che nessun altro, e suo padre meno di tutti, pareva disposto a darle.
È come se fossi morta, si disse; e per lei non era certo una novità pensarlo.
Non provava più nemmeno odio per suo padre: a suo tempo gli aveva rinfacciato i suoi delitti, lo aveva accusato di tutte le atrocità di cui si era macchiato; lui non aveva negato nulla, se ne era persino gloriato. Distruggere civiltà, conquistare mondi era un vanto per colui che veniva chiamato Imperatore della Nebulosa. Lo faccio anche per te, figlia ingrata. Un giorno, tutto questo immenso impero sarà tuo. Così ragionava Sua Maestà.
Rubina scosse il capo. Sembra che mio padre non possa toccare nulla senza distruggerla… come ha causato la morte d’innumerevoli esseri… come ha distrutto la mia vita, o fatto morire la mamma.

Nemmeno pensare a sua madre parve riscuoterla. Sua mamma, annientata da anni di vita accanto ad un uomo crudele ed insensibile, spezzata infine proprio dalla nascita di quella figlia che avrebbe potuto donarle finalmente tutto l’amore e l’affetto che il marito le aveva negato…
Mamma… che sarebbe stata la mia vita se ci fossi stata anche tu?
Sapeva che era inutile chiederselo. La mamma non c’era mai stata.
Aveva vissuto all’ombra di suo padre, un uomo duro, ruvido e dal carattere inflessibile. Aveva sempre percepito la pietà di chi le stava vicino… poverina, una bimba così dolce, come potrà andare d’accordo con quel mostro?
Niente di più sbagliato, pensò amaramente Rubina. Andare d’accordo con mio padre è semplice: basta obbedire sempre e comunque, senza fiatare. Salvo sentirsi rinfacciare di essere troppo accondiscendenti, e quindi di non aver spina dorsale.
Così era trascorsa la sua vita, dall’infanzia alla giovinezza.


Il lungo soggiorno su Fleed era stato una sorpresa, per lei. Naturalmente, suo padre aveva deciso tutto senza consultarla, come sua abitudine; ma quella volta, lei era stata felice di obbedirgli. Fleed le era stato descritto come un mondo meraviglioso… e poi le sorrideva l’idea di allontanarsi per un poco dall’opprimente presenza di Sua Maestà.
Solo quando si era recata a salutare doverosamente suo padre prima della partenza, le era stato finalmente chiaro lo scopo di quella sua inaspettata vacanza. Ricordava ancora tutto come fosse appena successo…


Ieri
– Il re di Fleed ha un figlio, che ha solo qualche anno più di te – Re Vega non era tipo da perdersi in preamboli – Un giorno il trono sarà suo. Un’alleanza tra le nostre casate sarebbe auspicabile – si voltò a considerare la figlia, rimasta in agghiacciato silenzio alle sue parole – Ormai sei in età da poter pensare al matrimonio.
Rubina si sentì crollare il mondo addosso. Matrimonio? Io?
– Ho solo quindici anni – fu tutto quello che riuscì a dire.
– Tua madre non ne aveva molti di più, quando l’ho sposata – fu la secca risposta.
– Ma… ma io non ho mai nemmeno visto il principe di Fleed… – cominciò lei, aggrappandosi a qualsiasi cosa potesse aiutarla in quell’incubo in cui si stava trasformando la sua esistenza – Io non so nemmeno se mi piacerà, se…
– Per questo ti mando su Fleed – rispose magnanimamente Re Vega, che sapeva di essere un padre comprensivo – Avrai tutto il tempo di conoscerlo e di fartelo piacere.
– Ma… – lei esitò, prese fiato – Potrebbe essere lui a non volermi…
Re Vega sogghignò: – Sei l’erede al trono di Vega, un giorno avrai un potere ed una ricchezza immensi. Sono certo che gli interesserai moltissimo – diede un altro sguardo alla figlia e pensò bene di aggiungere il tocco finale: – Comunque, non sei certo brutta.
– Ma se lui non volesse…
– Sarebbe molto stupido da parte sua – Re Vega liquidò quell’eventualità con un gesto – Molto, molto stupido. In ogni modo, il re di Fleed ha fama di essere una persona intelligente, per cui non credo che dovremo preoccuparci. Adesso vai. La tua nave è pronta, ti stanno aspettando.
Rubina ricacciò indietro le lacrime. Opporsi, tentare di discuterne… tutto inutile, lo sapeva fin troppo bene. Anche quella volta chinò la testa, la morte nel cuore.
– Rubina – la richiamò suo padre.
Sulla porta, lei si voltò a guardarlo, interrogativa: – Sì?
Lo sguardo duro che lei conosceva molto bene: – Non deludermi.


Durante il viaggio, Rubina rimase tutto il tempo asserragliata nel proprio alloggio: non faceva che pensare all’ingrato compito affidatole dal padre. Che sarebbe successo? Come sarebbero stati il re e la regina di Fleed? Freddi, alteri? Se conoscevano i progetti di suo padre, non potevano che disprezzarla… E il principe? Duke, si chiamava, almeno questo l’aveva già saputo. Ma come sarebbe stato, lui? Un giovane immaturo, arrogante, viziato? O magari un ragazzo bruttino, goffo, impacciato?
Purché mi voglia almeno un poco di bene, pensò disperatamente Rubina. Non m’importa come sarà… basta che sia gentile, e non mi tratti come… come…
…Come mio padre…


Oggi
Rubina riaprì gli occhi: il freddo, desolato paesaggio di Ruby. Nubi rossastre di polvere sollevata dal vento velavano le montagne, che apparivano ora violacee. Un panorama così diverso da Fleed… ricordava ancora la sua meraviglia, quando era sbarcatasi quell’incantevole pianeta: prati verdi, alberi, e dovunque fiori di ogni colore. Splendide città giardino, abitate da persone che vivevano a contatto con la natura… la reggia stessa, tutta marmo candido e ampie vetrate, era immersa in un parco meraviglioso. L’aria stessa, così leggera e gradevole, era diversissima da quella di Vega, pesante ed acre. Respirare su Fleed, dopo essere rimasta a lungo nella nave, con il suo asettico odore di plastica e detergenti, era come rinascere. Sentirsi il vento nei capelli, il sole sul viso, il canto degli uccelli, camminare sull’erba e la pietra, invece che su lisce superfici metalliche…
– Era… meraviglioso…! – mormorò, chiudendo gli occhi per ricordare meglio quei suoni, quei colori – Meraviglioso…
Già. Troppo bello.


Ieri
Contrariamente a quanto aveva temuto, il re e la regina di Fleed furono da subito molto cordiali con lei. Sicuramente dovevano essere contrariati con suo padre, di questo Rubina era perfettamente cosciente; comunque, da quelle persone cortesi che erano non vollero far pesare il loro disappunto sulla loro ospite, verso la quale avevano provato fin dall’inizio una gran simpatia. Con suo immenso stupore, Rubina si sentì da subito come in famiglia… o meglio, come immaginava ci si dovesse sentire in una famiglia di persone che si amano. Il re e la regina erano molto affettuosi con lei, e pieni di premure. Anche la principessina Maria era una bimba deliziosa: Rubina, che amava molto i bambini, aveva preso subito confidenza con lei, giocando e divertendosi a sua volta come raramente le era capitato nella sua vita. Tante volte aveva rimpianto di non aver avuto almeno una sorellina, un fratellino…
Poi, naturalmente, c’era Duke… o meglio, non c’era. In quel periodo si trovava sul pianeta Moru ospite del suo amico Markus; sarebbero però tornati entrambi molto presto. Comunque, Rubina era lieta della sua assenza: aveva il tempo di prendere confidenza con quel luogo per lei così meravigliosamente diverso, di abituarsi a persone e cose… non aveva fretta.
In realtà, quasi sperava che il tempo si fermasse e che lui non tornasse proprio.


Oggi
Le cose non capitano mai come si desidera.
Prima di conoscere Duke, quante volte si era chiesta come sarebbe stato, cosa le avrebbe detto…? Si era immaginata varie scene: una presentazione ufficiale, oppure – visto il clima familiare che albergava nella reggia – una conoscenza molto meno formale, magari in presenza della regina: “Rubina, questo è Duke”. Altre volte sognava qualcosa di più romantico… un bellissimo sconosciuto che si aggirava per il palazzo, un incontro fortuito… batticuore, e poi…
Anche allora lei scartava poi quest’eventualità: illusioni, si diceva. La realtà sarebbe stata ben diversa. Duke si sarebbe rivelato magari per un buon ragazzo educato, ma nulla più. Sognare un favoloso principe significava solo prepararsi ad una cocente delusione… perché lei partiva dal presupposto che lui sarebbe stato deludente, o quantomeno banale. Almeno, non avrebbe corso il rischio di restare avvilita.
Suo malgrado, Rubina si lasciò scappare un sorriso. Duke, deludente! Del resto, come avrebbe potuto immaginare la verità? Intimorita com’era, non aveva fatto domande su di lui alla regina, non aveva nemmeno chiesto di vedere una sua immagine: tante volte persone che in fotografia sembrano interessanti, dal vivo si dimostrano inferiori all’attesa. Aveva deciso di aspettare di conoscerlo quando lui sarebbe tornato: fino ad allora, avrebbe vissuto alla giornata, senza pensare al futuro.


Ieri
La palla variopinta rimbalzava quasi fosse stata dotata di vita propria.
Maria aveva chiesto a Rubina di scendere in giardino e giocare con lei, e la giovane principessa aveva accettato, lasciandosi coinvolgere in quel passatempo puerile fino ad esserne totalmente assorbita: con l’infanzia che aveva avuto, appesantita da obblighi e divieti e funestata dall’opprimente presenza del padre, non le pareva vero di poter giocare, ridere, scherzare come una bambina. Completamente infervorata, si gettò di lato per afferrare la palla scagliatale da Maria, finendo lunga distesa nell’erba; rilanciò a sua volta la palla, ma il tiro le venne più lungo e più forte di quanto avesse voluto. Proprio in quel momento, da dietro un cespuglio uscì un ragazzo, e la palla lo prese in pieno viso.
– Scusami! – Rubina si rialzò in fretta e corse incontro al giovane – È stato un incidente, non volevo proprio colpirti!
– Allora, preferisco non sapere cosa succede quando vuoi davvero centrare qualcuno! – rispose allegramente lui, tastandosi con precauzione il naso.
– Mi dispiace, credimi! Non ti avevo visto! Ti ho fatto tanto male?
In quel momento, alle spalle di Rubina esplose un unico, acutissimo strillo: – DUKE!!!
Rubina ammutolì, mentre Maria si precipitava addosso al giovane sconosciuto, avvinghiandosi a lui, continuando a ripetere il suo nome, e quanto sei stato via, non dovevi andartene, mi hai portato qualcosa?
Duke Fleed… lui?
Scarlatta in viso, Rubina si ricordò improvvisamente d’avere i capelli arruffati e di essere sporca di erba e terra. Si risistemò in fretta come poté, poi alzò timidamente il viso verso quello che era il suo promesso sposo: lui le ricambiò lo sguardo, gentile ma con uno scintillio d’umorismo che gli danzava in fondo a quegli incredibili occhi blu cupo… il tempo parve fermarsi…
Fu così che Rubina conobbe Duke Fleed.


Cominciò così per Rubina quello che sarebbe stato il periodo più felice della sua vita.
Praticamente, s’era innamorata di Duke Fleed a prima vista, questo l’aveva capito subito; altrettanto evidente, anche lui era rimasto decisamente colpito. Si erano trovati da subito bene assieme, avevano cominciato a parlare, scoprendo d’intendersi su molte cose. Lui s’era rivelato un ragazzo gentile e di buon carattere, portato nonostante la sua giovane età alla riflessione; era comunque capace di ridere, scherzare come qualsiasi altro suo coetaneo. Le aveva inoltre presentato il suo amico Markus, un bel giovane biondo dai tratti decisi; in compagnia di quei due, Rubina si era divertita come non mai in vita sua. Scherzavano, ridevano con una spontaneità che le era sconosciuta. Markus a volte faceva delle smorfie buffe per divertire Maria, col risultato che l’ilarità contagiosa della piccola coinvolgeva anche Rubina, che si trovava a ridere fin quasi a soffocare.
Un’altra persona era spesso in loro compagnia: si trattava di una cugina di Duke, Naida. Non sempre veniva con loro, e spesso era accompagnata da Sirius, il suo vivacissimo fratellino.
Rubina era rimasta allibita, quando gliela avevano presentata: Naida era bellissima, talmente bella nel corpo e sicura nell’atteggiamento che la principessa al confronto si era sentita improvvisamente giovanissima, goffa ed acerba.
Fin dall’inizio, Rubina aveva provato un certo timore nei confronti di quella splendida ragazza… pure, Naida era molto gentile, con lei. Era bastato però che la giovane donna parlasse a Duke, si voltasse a guardarlo, perché Rubina capisse il perché dei suoi timori: Naida era innamorata di suo cugino. Rubina avrebbe dovuto essere cieca per non rendersene conto.
Col cuore stretto, aveva allora osservato Duke, cercando uno sguardo, un gesto che confermasse i suoi sospetti… ma non vide nulla. Lui era gentile con Naida esattamente come lo era con chiunque altro. Quanto a lei, c’era un velo di tristezza nei suoi occhi… Rubina ebbe così chiara la situazione: Naida era perdutamente innamorata di Duke, ma lui non la contraccambiava. Non solo, anche in presenza della cugina lui continuava ad avere attenzioni per lei, Rubina. Quando ebbe avuto la certezza di questo, Rubina si sentì molto sollevata; tuttavia continuò a provare imbarazzo nei confronti di Naida. Quegli occhi immensi e tristi che fissavano intensamente Duke la mettevano a disagio, per cui era ben felice quando lei e Duke si allontanavano assieme e Naida restava in compagnia di Markus e Maria.
In genere Duke la portava a fare un giro in barca, oppure andavano a passeggiare per il vasto giardino loro due soli. La prima volta in cui lui l’aveva invitata, Maria s’era risentita per essere lasciata da parte; Markus, allora, da quel vero amico che era, aveva preso la bambina sulle spalle dicendole che allora anche loro due sarebbero andati a passeggio da soli. Duke e Rubina si erano allontanati ridendo nel sentire gli strilli di gioia di Maria mentre il ragazzo partiva di corsa tra i cespugli, avendo cura d’imboccare la direzione opposta alla loro.
Per Duke e Rubina quel periodo fu caratterizzato da una serie di scoperte meravigliose. Più stavano assieme, più si rendevano conto di capirsi, di avere idee simili. Erano entrambi giovani, inesperti; il loro primo bacio fu più un timido esperimento che non un suggello di quanto provavano. Si ritrovarono entrambi completamente euforici, incapaci di pensare ad altro che non fossero loro stessi e il loro amore nascente; si cercavano in modo quasi febbrile, parlavano di tutto e di niente, ridevano, ridevano, ridevano.
Non si erano ancora spinti oltre il bacio: nonostante fosse innamoratissima, Rubina era un po’intimorita, sembrava che tutto stesse accadendo fin troppo in fretta… e Duke rispettava i suoi timori. Del resto, nonostante quello che provava, lui stesso capiva che era meglio frenare un poco, aspettare.
Erano giovani, in fondo. Avevano davanti a loro tutto il tempo…


Tutto sembrava immobile, in quel placido pomeriggio estivo; unica cosa animata, una barchetta che scivolava pigramente sull’acqua.
Rubina si guardava attorno, mentre ascoltava distrattamente la musica che Duke traeva dal proprio strumento; normalmente non avrebbe perso una sola nota, ma in quel momento era troppo nervosa, troppo preoccupata. Il giorno prima aveva ricevuto una comunicazione video da suo padre, che voleva notizie. Quando aveva saputo che Duke non aveva ancora parlato di matrimonio, si era molto inquietato: lui pretendeva risultati, e molto rapidi. Rubina era avvertita.
La giovane si guardò disperatamente attorno: era tutto così meraviglioso, così perfetto… Duke le sorrise, e lei si sentì stringere il cuore. Doveva parlare, e subito.
– Si sta bene, qui – disse; vide il sorriso di lui farsi più aperto, e aggiunse: – Stiamo bene, assieme.
Senza smettere di suonare, lui assentì con aria convinta. Incoraggiata, lei si decise.
– Duke, lo sai perchè mio padre mi ha mandata qui, sul pianeta Fleed? Lo sai? – chiese d’impulso.
Lui parve decisamente sorpreso: – Ma cosa c’entra tuo padre con noi due?
– Mio padre vorrebbe che tu mi sposassi. – esitò un istante – Mi sposeresti?
Duke scosse il capo: – Non si possono imporre certe cose.
Rubina si sentì morire. Si tirò su di scatto, gli occhi immensi nel viso pallidissimo: – Io non ti piaccio! Duke, ti prego, dimmelo…
Lui mise da parte il suo strumento e le strinse le mani nelle proprie: – Io non volevo dire questo! Credimi, Rubina!
La guardava direttamente in viso, gli occhi blu diretti e sinceri; rassicurata, Rubina lo abbracciò, rannicchiandosi contro di lui: – Allora dimmi: che cosa provi per me?
– Tu… – si guardò attorno, cercando le parole adatte; vide sulla riva i cespugli cosparsi di corolle scarlatte e completò: – …sei bella come un fiore.
Rimasero stretti l’uno all’altra, immersi in quel felice silenzio che regna solo tra due animi in perfetta sintonia; però anche per quel giorno non parlarono più di matrimonio.


Rubina scostò una fronda del cespuglio, e subito uno scoppio improvviso di risa le segnalò che aveva scoperto il nascondiglio di Maria.
– Ah, lo sapevo che eri lì! – ridendo, Rubina raggiunse la bimba in mezzo al fogliame: all’esterno il cespuglio sembrava frondoso e compatto, ma all’interno i rami formavano un ampio spazio libero, una sorta di cupola naturale. Niente di strano che Maria lo usasse come rifugio segreto… e ancora meno strano che nessuno potesse scorgerla quando era nascosta. Rubina aveva davvero avuto fortuna, nel trovarla.
– Il mio palazzo segreto – disse orgogliosamente Maria; con un gesto da regina, indicò alla compagna un grosso ramo orizzontale: – Puoi sederti.
– Grazie – con una certa meraviglia, Rubina si rese conto di trovarsi benissimo nel palazzo di Maria. Doveva stare con le ginocchia ripiegate fin sotto il mento, certo, ma era così piacevole restare nascosta in mezzo a quelle lucide foglie verdi, ascoltando le chiacchiere allegre della bimba…
– …una ragazza deliziosa – disse la voce della regina di Fleed.
Rubina trasalì, mentre Maria taceva bruscamente.
Attraverso le foglie, videro giungere la regina, assieme al marito e al figlio. A pochi metri da loro si trovava un grande albero dai rami ricurvi, alla cui ombra era stata posta una panchina di pietra: il posto favorito della mamma, le aveva spiegato Maria ancora tempo prima. Mamma viene sempre qui, quando scende in giardino.
Già, e ovviamente un giorno, proprio mentre giocava vicino alla panchina della mamma, Maria aveva trovato il suo nascondiglio…
La regina sedette al suo posto, e il re si pose al suo fianco. Duke rimase in piedi, un poco discosto. Adesso tacevano, ma era evidente che stavano preparandosi ad affrontare un argomento spinoso; altrettanto evidente era il fatto che il colloquio che stava avvenendo non era certo destinato ad orecchie estranee.
– Dobbiamo andare via – bisbigliò Rubina, tirando Maria per il vestito.
– Ci sentiranno – le fece placidamente notare la bambina, mettendosi comoda per non perdersi nemmeno una parola.
– Ma non possiamo stare qui! – sibilò Rubina – Ascoltare non è educato!
– Però è divertente – Maria le fece segno di stare zitta – Smetti di tirarmi il vestito, o mi metto a strillare e ci troveranno.
Il cuore in tumulto per l’imbarazzo, Rubina dovette cedere: si sentiva morire all’idea che i genitori di Duke potessero pensare che lei li stesse spiando… cosa che in effetti era costretta a fare, visto che non poteva muoversi di lì. In quel momento, avrebbe avuto molta voglia di dare a Maria una sacrosanta sculacciata.
– Tua madre ed io te ne abbiamo già parlato – cominciò il re di Fleed – Sai che non vorremmo mai che tu facessi qualcosa senza esserne convinto…
– Lo so, padre – sorrise Duke.
– Avevamo già parlato di questo matrimonio, tempo fa – disse la regina.
Rubina sentì mancarle il fiato. Stavano parlando di lei, ne era certa!
– Re Vega tiene molto che io sposi sua figlia – disse cupamente Duke.
– Non pensare a quello che vuole lui – rispose la regina – Quello che conta, è ciò che desiderate tu e Rubina.
Maria si voltò verso la sua attonita compagna, gli occhi che brillavano: – Parlano di te!
– Ti prego, Maria, taci…!
– Oh, adesso t’interessa, vero? – ridacchiò la piccola, tornando a seguire la scena.
Duke appariva molto serio, ora: – Re Vega vuole questo matrimonio – insisté – Non è così?
Suo padre fece un gesto di stizza, cosa insolita per un uomo pacato come lui: – Lui vuole cementare un’alleanza con noi… questo è quello che dice. Sappiamo tutti come stiano le cose, in realtà.
– Certo – rispose Duke, con una voce aspra che Rubina non gli aveva mai sentito – Vega non ha alleati. Solo sudditi.
– Ha sempre avuto mire su Fleed – aggiunse cupamente il re.
– Probabilmente – intervenne la regina, con dolcezza – lui pensa che questo matrimonio sia il modo più rapido e pacifico per legarci a lui. Altri pianeti non hanno avuto questa occasione.
– No, sono stati conquistati e basta – Duke si guardò attorno senza vedere nulla – Insomma, io dovrei sposare Rubina per evitare una guerra? Ma se anche noi ci sposassimo, Re Vega crede davvero che io mi sottometterei a lui?
– Facile che lo pensi – disse il re – Vega è una potenza che fa paura.
Padre e figlio si guardarono in silenzio: sapevano entrambi che cosa sarebbe successo se per evitare una guerra il giovane avesse accettato un simile giogo… il popolo di Fleed, il pacifico ma orgoglioso popolo di Fleed, avrebbe nutrito solo disprezzo per il suo principe, reo d’aver accettato una simile sudditanza. Mai, nella storia di Fleed, era stato fatto nulla di simile. Molti erano i mondi amici ed alleati di Fleed; nessuno però ne era il padrone.
– Pensate che Rubina sia d’accordo con suo padre? – chiese improvvisamente Duke.
– No, non credo – rispose la regina – Penso che Re Vega abbia deciso tutto senza nemmeno consultarla… deve averle fatto credere che il vostro matrimonio sarà una garanzia di pace – tacque un attimo e aggiunse: – Rubina è una carissima ragazza, e sono veramente affezionata a lei. Se solo…
– Se solo non fosse figlia di suo padre – concluse il marito per lei.
– Infatti – Duke si voltò verso i suoi genitori: – Io non voglio che Re Vega interferisca con le nostre vite. Se Rubina ed io ci sposeremo, è giusto che sia perché l’abbiamo deciso noi.
Il re e la regina si scambiarono un’occhiata; poi il padre s’avvicinò a Duke, mettendogli le mani sulle spalle. – Quello che tua madre e io vogliamo che tu sappia, è che si tratta d’una decisione che devi prendere tu. Abbiamo fiducia nel tuo giudizio, per cui qualsiasi cosa tu decida, noi ti appoggeremo.
– Possono esserci conseguenze molto gravi – osservò cupamente Duke.
– Ci saranno senz’altro, qualsiasi cosa tu decida… ma le affronteremo insieme.
Duke chinò il capo. Sposare Rubina significava dare modo a Re Vega di aumentare le sue pretese su Fleed… rifiutarla, sarebbe stata la guerra.
– In un modo o nell’altro, sarà un disastro – osservò Duke.
– Temo di sì – mormorò il re – Questo però significa anche poter scegliere solo in base a ciò che provi. Se ami Rubina, sposala: penseremo poi a trovare il modo di tenere le mani di suo padre lontane da Fleed.
Duke tacque, mentre gli occhi di tutti erano puntati su di lui… compresi due occhi azzurri, intensissimi e colmi di lacrime, che non lo lasciavano un secondo…
Alla fine, il giovane alzò lo sguardo e scosse la testa, stringendosi nelle spalle: – Siamo ancora tanto giovani, per una cosa importante come il matrimonio…!
Sua madre s’alzò, lo strinse tra le braccia: – Non devi sentirti obbligato. Se non la ami…
– Non ho detto questo – parlava a fatica, gli era veramente difficile riuscire ad esprimere quanto stava provando – Rubina mi piace molto, moltissimo, ma non so ancora se… È passato così poco tempo… e succede tutto talmente in fretta…!
Sua madre prese fiato, prima di rivolgergli la domanda più importante: – E… Naida?
Naida! pensò Rubina, chiudendosi la bocca con entrambe le mani per non gridare. Allora avevo ragione a pensarlo… vi amate! Oh, Duke…
Lui scosse ancora il capo, fissando un punto indefinito: – Le voglio molto bene. Tutto qui.
Sua madre lo fissò dritto in viso: – Lei ti ama, Duke.
Il giovane chinò la testa, guardò da un’altra parte: – Mi dispiace che soffra per causa mia.
Un attimo di silenzio. Poi il re di Fleed batté sulla spalla del figlio: – Va bene, Duke. La prossima volta in cui sentirò Re Vega, gli dirò che è ancora prematuro parlare di matrimonio.
Il ragazzo fece un pallido sorriso: – Grazie, padre.
La regina lo prese affettuosamente per un braccio e si allontanò con lui; il re li seguì con lo sguardo, il volto grave, prima di andar loro dietro.
Per un lungo istante, nel cespuglio regnò il più perfetto silenzio; poi Maria gettò le braccia al collo di Rubina: – Sono sicura che sposerà te, vedrai!
– Maria, ti prego…
– Glielo dirò io. Non vorrà fidanzarsi con Naida, spero bene!
Nonostante il gelo che la invadeva, Rubina si trovò a sorridere a quell’uscita della piccola: – Naida è bellissima, e se Duke preferisce lei…
– Sì, è carina – concesse generosamente Maria – e non è nemmeno antipatica. Però non voglio che sposi Duke, perché altrimenti quell’odioso di suo fratello sarebbe sempre a casa nostra. …Adesso vediamo se mi prendi!
Uscì di scatto dal cespuglio e corse via, ridendo. Rubina tentò di seguirla, ma si sentiva le ginocchia stranamente pesanti, intorpidite… e non certo a causa dell’immobilità forzata cui era stata costretta fino a quel momento.
Duke non aveva detto chiaramente di amarla… e nonostante le sue parole, Rubina non era ben sicura che fosse davvero così poco interessato alla sua splendida cugina.
Se solo Naida non fosse così bella…

Oggi
Naida, pensò Rubina.
Le parve di rivederla: alta, il corpo pieno e maturo, i verdi occhi immensi… all’epoca lei, Rubina, snella e fragile, si sentiva scomparire davanti a quella meravigliosa bellezza.
C’era stato un tempo in cui s’era tormentata a lungo, chiedendosi cosa ci fosse davvero tra lei e Duke.
Che Naida lo amasse, era a dir poco evidente; se lui la contraccambiasse, era difficilissimo a dirsi. Duke teneva i propri sentimenti per sé, gli era quasi impossibile manifestarli.
Per tutto il periodo in cui lei, Rubina, aveva soggiornato su Fleed, Naida era stata una discreta presenza sullo sfondo. Mai una volta s’era permessa una parola di troppo, un commento pesante, un atteggiamento sgradevole… e sì che era davvero innamorata di Duke, e doveva sapere che cosa c’era in ballo! Pure, si era sempre mostrata gentile, con lei.
Riflettendoci a lungo (negli anni successivi a quei fatti, Rubina aveva avuto tutto il tempo d’interrogarsi a proposito, e anche di raccogliere informazioni), era arrivata alla conclusione che all’epoca Duke fosse semplicemente affezionato alla sua bellissima cugina.
L’amore, perché amore tra loro c’era stato, era venuto dopo.


Ieri
– Non voglio più che tu sposi il principe di Fleed – disse Re Vega, reciso – L’argomento è chiuso.
– Ma perché? – dolore, rabbia, sconcerto, paura, tutto sembrava agitarsi nell’animo di Rubina come in una giostra impazzita – Spiegami almeno il perché! Tu stesso volevi questo matrimonio…
– È stato uno sbaglio – serrò le labbra, contrariato. Non gli piaceva affatto ammettere d’aver fatto male i suoi calcoli, ma con Duke Fleed aveva davvero commesso un grave errore di valutazione. Là dove aveva pensato di trovare un giovane malleabile da poter manovrare facilmente, aveva invece trovato un carattere forte e orgoglioso. Mai, questo gli era stato chiarissimo, mai il principe di Fleed avrebbe accettato di sottomettersi all’autorità del futuro suocero. A questo punto, il matrimonio con Rubina perdeva ogni significato. Era evidente che Fleed sarebbe stato un mondo non da assoggettare, ma da conquistare. Dopo l’ultimo colloquio che aveva avuto col re di Fleed, colloquio che gli aveva permesso di capire come stessero esattamente le cose, Re Vega era piombato all’improvviso su Fleed, deciso a riprendersi la figlia e troncare i rapporti. Il tempo delle ostilità era cominciato.
– Partiremo immediatamente – continuò Sua Maestà, il tono che non ammetteva repliche.
Rubina serrò i denti, ricacciando indietro le lacrime. Ribellarsi, rifiutare di partire… non poteva farlo, avrebbe messo in una posizione orribile i genitori di Duke, che erano stati tanto gentili con lei. Discutere era impossibile, almeno per il momento: peggiorare la situazione sarebbe stato tutto quello che avrebbe ottenuto, questo lo sapeva per esperienza. Conosceva abbastanza suo padre da capire che la cosa migliore era fingere di cedere: poi, quando la collera fosse scemata, quando si fosse calmato, allora sarebbe stato il momento di parlare, di farlo ragionare. In passato era riuscita, con pazienza e dolcezza, a far tornare suo padre su una qualche decisione; questa volta sarebbe stato più difficile, ma avrebbe dovuto riuscire. Non voleva rinunciare a Duke: lo amava, erano fatti l’una per l’altro. Non sarebbe stato certo suo padre a separarli.
Drizzò la testa, affrontò il viso irato di suo padre: – Vado a salutarli.
– Non è necessario – brontolò lui.
– Non è necessario, certo, se vogliamo mostrarci maleducati.
Re Vega le voltò le spalle: – Sbrigati.


Prendere commiato dai genitori di Duke fu difficile. Il re le carezzò affettuosamente la testa mormorandole un saluto, la voce rotta dall’emozione. La regina l’abbracciò, tenendola stretta a lungo e baciandola come avrebbe potuto fare sua madre. Maria pianse tutte le sue lacrime, incapace di capire, di accettare quella separazione che la feriva profondamente.
Con Duke, fu molto peggio.
Lo trovò in giardino, vicino al lago su cui tante volte lui l’aveva portata con la sua barchetta. Tutt’attorno a loro, quei cespugli dai fiori scarlatti che lei aveva tanto ammirato; però, quel giorno la loro vista, il loro profumo parevano ferirla.
– Non partire! – Duke appariva veramente angosciato – Tuo padre non può costringerti a farlo!
Non può…? Oh, Duke… non lo conosci proprio… – Non posso restare. Sarebbe peggio. Gli parlerò, lo farò ragionare, vedrai!
Duke serrò le mascelle, e per un attimo il suo viso di ragazzo lasciò trasparire l’adulto che sarebbe diventato – Non si può ragionare con Re Vega.
– Forse no – ammise Rubina; poi alzò la testa, gli occhi azzurri decisi – Se non riuscirò a fargli cambiare idea, tornerò ugualmente da te. Non può decidere lui per le nostre vite.
Duke scosse il capo, triste. Alzò una mano per scostarle dolcemente i capelli dal viso: – Se partirai, non ti vedrò più.
Lei scosse il capo, gli sorrise: – No. Tornerò.
Tacquero entrambi, tenendosi per le mani. Avevano tante cose di cui parlare… ma quel che dovevano dirsi era troppo, per quel rimasuglio di tempo che restava loro.
– Vostra Altezza…?
Si voltarono di scatto: alle loro spalle, il ministro Zuril li guardava con aria impassibile.
Già, Zuril… l’uomo di cui Re Vega aveva una così gran stima. Rubina invece provava sempre un vago timore davanti a lui… tuttavia non ce n’era motivo, Zuril era sempre impeccabilmente corretto, con lei. Eppure la guardava in un modo…
– Perdonate, principessa – riprese Zuril – Vostro padre è impaziente e vuole partire al più presto.
Rubina drizzò la testa: la ragazza innamorata era sparita, lasciando il posto alla figlia di Re Vega.
– Certo, ministro Zuril. Sono pronta – si voltò verso Duke : – Arrivederci a presto.
Lui occhieggiò rapidamente Zuril: riservato di natura, gli era ancora più difficile esprimere i propri sentimenti davanti a quel veghiano freddo e severo che li osservava. Avrebbe voluto dire tante cose, a Rubina… soprattutto che, ne era sicuro, quello era un addio, non certo un arrivederci. Dentro di sé, intuiva che non ci sarebbe stato un futuro, per loro; pure, non aveva il coraggio di dire qualcosa che potesse addolorare ulteriormente Rubina, che gli appariva così sicura, così fiduciosa… in silenzio, si chinò e raccolse da un cespuglio uno di quei fiori rossi che le piacevano tanto – Non ti dimenticherò mai.
Portandosi il fiore alle labbra, Rubina si voltò e mosse qualche passo verso Zuril, che l’aspettava in silenzio.
Improvvisamente, qualcosa parve infrangersi in lei… forse fu il doversi separare dal ragazzo che amava, forse fu ciò che lesse nello sguardo di Zuril, che non la perdeva di vista un secondo… Rubina tornò indietro di corsa, gettò le braccia al collo di Duke e alzandosi in punta di piedi gli diede un rapido bacio.
– Io tornerò, Duke – disse, recisa – Hai la mia parola.
Prima che il giovane potesse replicare, si staccò bruscamente da lui.
Vai via, ora… e non voltarti più, si disse.
La testa orgogliosamente eretta, raggiunse Zuril, che scoccò un’occhiata eloquente a Duke prima di seguire la sua principessa.
– Non un commento, ministro Zuril – ammonì lei. Aveva il tono severo che avrebbe potuto usare suo padre; ma in mano, stringeva ancora il fiore scarlatto che le aveva donato Duke.


Suo padre non le permise nemmeno di comunicare più con Fleed: ben deciso a non cedere, pensò bene di evitare qualsiasi discussione con la figlia mandandola dapprima su Vega, e poi affidandole l’incarico di ispezionare i vari pianeti facenti parte dell’impero “così ti impratichirai con il tuo futuro ruolo di regina”. In realtà, non intendeva perdere tempo in inutili discussioni.
Vista la mala parata, Rubina pensò di accontentare il padre: presto si sarebbe calmato, e allora…
Mesi e mesi trascorsero, Rubina dovette trasferirsi da un mondo all’altro in missione per il padre, gli incarichi s’accumularono, ma il tempo per riparlare del suo fidanzamento con Duke Fleed non era ancora venuto.
La notizia dell’attacco a Fleed le giunse all’improvviso, lasciandola completamente senza fiato. Il pianeta devastato… milioni di persone sterminate… i sopravvissuti, deportati in schiavitù… la famiglia reale, trucidata. Nessuno di loro si era salvato.
Il viso di cera, senza una parola Rubina si ritirò nelle sue stanze, congedando con un gesto le sue cameriere; poi cadde a terra come fulminata.
Si risvegliò nel suo letto non seppe quanto tempo dopo e capì d’essere svenuta per la prima volta in vita sua.


– Come hai potuto…! – dolore, ira furibonda, smarrimento, tutto contribuiva a spezzarle penosamente le parole in bocca.
Dall’altra parte dello schermo, il volto severo di suo padre la scrutava, impassibile: – Sei la principessa di vega. Dovresti saperti dominare un po’ meglio di così.
– Fleed è un mondo pacifico! – urlò Rubina – Non ci avevano attaccati! Non erano un pericolo per noi! Perché l’hai fatto? Loro sono… sono…
Erano, vuoi dire – la corresse suo padre, imperturbabile –.Saranno anche stati gente pacifica, ma la loro arroganza non aveva limiti. Prima o poi sarebbero divenuti pericolosi, per noi. Era solo questione di tempo.
– Prima o poi? – Rubina era senza fiato dall’incredulità – Li hai assaliti perché pensavi che avrebbero potuto danneggiarci? Ma come? Un singolo pianeta contro un impero!
– Non sarebbero rimasti a lungo un singolo pianeta, come dici tu. Altri si sarebbero uniti a loro. Occorreva dare subito una dimostrazione di forza.
– Non l’avevi già data distruggendo Moru? – esclamò lei, con amarezza.
– Non era bastato, evidentemente – si compiacque di spiegare Sua Maestà – Ora non corriamo più pericolo.
– Per forza! Li hai… li hai… – annaspò, non riusciva nemmeno a pronunciare quella parola spaventosa; suo padre non aveva di questi scrupoli e le venne incontro.
– Li ho sterminati. Dillo pure, è il termine giusto.
Rubina lo guardò come se non l’avesse mai visto prima d’allora. Fece per gridare, ma sentì che i polmoni non le rispondevano: si erano contratti, impedendole di respirare a fondo.
– Sei un mostro – sibilò, e fu peggio che se avesse urlato – Non voglio più vederti. Mai più!
Spense rabbiosamente lo schermo e rimase in piedi in mezzo alla sala, come tramortita.
Cominciò a tremare violentemente, a battere i denti. Si sentiva male come non le era mai successo prima d’allora. Se solo avesse potuto piangere…
Ma non aveva più lacrime, ormai.


I tempi successivi furono un lungo, buio periodo di cui lei aveva dimenticato con cura il più possibile.
Alla disperazione iniziale, violenta e lacerante, era subentrato un dolore sordo, cupo, che le avvelenava lentamente l’esistenza impedendole anche le gioie più elementari, come godere una bella vista, gustare un frutto, trarre piacere da una musica.
Tutto era grigio, insipido, privo di qualsivoglia attrattiva. Sprofondata in una sorta di nebbia che aveva avvolto ogni cosa, Rubina ne era emersa faticosamente non sapeva nemmeno lei quanto tempo dopo, a suon di farmaci e soprattutto di forza di volontà; si era ritrovata duramente provata, ma nonostante la sua fragilità si era sentita stranamente più forte.
Lentamente, aveva ripreso in mano i brandelli della propria esistenza e aveva finalmente accettato di ricordare. Aveva ripensato a quel meraviglioso giardino, dai grandi fiori scarlatti… la regina, così gentile e materna, il re che l’aveva sempre trattata con gran gentilezza… Maria, così spontanea e affettuosa… e…
…Duke…


Dopo la sua partenza obbligata da Fleed, Rubina non aveva più potuto comunicare in alcuna maniera con Duke. Aveva però cercato di tenersi al corrente di quanto stava accadendo, ma non era mai riuscita ad avere informazioni precise… aveva sempre provveduto papà a far censurare ciò che non voleva le giungesse.
Anche quando Fleed era stato distrutto, Rubina non aveva avuto che poche, scarne notizie.
Adesso, anche se erano ormai passati anni e Fleed non era che un mondo deserto, devastato dalle radiazioni, Rubina sentiva il bisogno di saperne di più… e ne aveva anche la maniera.
Markus era stato principe del pianeta Moru, ed era anche stato il migliore amico di Duke Fleed. Quando Moru era stato assalito dalle truppe di Vega, Markus si era battuto con straordinario coraggio; Re Vega allora aveva ordinato che venisse catturato vivo, e aveva fatto distorcere la sua mente in modo da renderlo un fedelissimo comandante di Vega.
– È coraggioso ed intelligente, sarebbe stato un peccato ucciderlo – aveva commentato Sua Maestà; e Markus, il giovane principe che non aveva voluto sottomettersi a Vega, ne era diventato il servo più fidato.
Nonostante l’orrore che provava all’idea della violenza subita dal giovane, Rubina aveva deciso di incontrarlo. Malgrado la distorsione mentale cui era stato sottoposto, Markus aveva intatti i suoi ricordi, e da lui Rubina avrebbe finalmente saputo che ne era stato di Duke e della sua famiglia.
Quando le annunciarono il suo arrivo, dovette far ricorso a tutto il proprio autocontrollo per restare perfettamente padrona di sé stessa.
Markus entrò a grandi passi e la salutò militarmente, rimanendo in piedi in attesa. Lei l’osservò con curiosità: l’aveva conosciuto ragazzo, si trovava ora davanti un uomo fatto.
Alle domande della giovane principessa, Markus rispose senza esitare un istante. Da quel che gli risultava, sia il re che la regina di Fleed erano morti, trucidati nel loro palazzo. Il giovane principe aveva tentato la fuga con Goldrake, ma non era più stato rintracciato, e sicuramente era perito nelle profondità dello spazio. Peccato aver perso quel prezioso robot…
Rubina si sentì soffocare. Dovette riprendere fiato, prima di tentare un’altra domanda: – E… la principessina Maria?
Markus si strinse nelle spalle: – Altezza, era una bambina così piccola… non vedo come possa essersi salvata. Il suo cadavere non è stato trovato, certo, però resta il fatto che non l’abbiamo rintracciata tra i prigionieri superstiti. Nessuno dei membri della casa reale di Fleed si è salvato… a parte Naida, la fidanzata di Duke.
Rubina sentì il cuore darle un balzo: – Naida… e Duke…?
Markus non notò l’agitazione di lei; con la calma indifferenza di chi racconta un episodio risaputo, spiegò all’allibita principessa che un anno circa dopo la sua forzata partenza Duke aveva cominciato a fare coppia fissa con Naida.
Mentre Rubina sentiva piegarlesi le ginocchia e si lasciava cadere su una sedia, Markus aggiunse che a corte si era cominciato a ventilare la possibilità di un matrimonio… o meglio, era stata Naida a parlarne. Duke non si era mai pronunciato in quel senso.
Rubina raccolse tutto il suo coraggio per l’ultima domanda: ma Duke amava Naida?
Markus esitò un attimo, prima di rispondere: – Per quel che ne so, Duke era molto affezionato a Naida, trascorreva volentieri il suo tempo con lei, probabilmente ne era anche un po’ innamorato… del resto, lei era bellissima.
– “Era”?
– È morta – la voce di Markus risuonò fredda, senza la minima inflessione – Non conosco i particolari, ma so che aveva tentato di fuggire sulla Terra... quel pianeta che il comandante Gandal sta cercando d’invadere.
Rubina assentì. La nuova impresa militare di suo padre. Ne aveva sentito parlare, naturalmente.
– Com’è successo? – chiese, con un filo di voce.
– Ripeto, Altezza, non conosco i particolari. So solo che si è lanciata in un attacco suicida contro le nostre navi.
Rubina si sentì mancare il fiato. Anche Naida era morta…
– Posso esservi ancora utile, Altezza? – chiese lui.
Rubina scosse il capo.
– Vi ringrazio, comandante Markus – mormorò, senza osare guardarlo. Vedere l’amico di Duke così trasformato, così gelido da apparire una maschera, le era insopportabile.
Lui, quello schiavo senz’anima che un tempo era stato un giovane fiero e deciso, si esibì in un perfetto saluto prima di girare sui tacchi ed allontanarsi a grandi passi, le spalle dritte e quella sua sciarpa azzurra che gli ondeggiava attorno al collo.
Rubina rimase immobile, come congelata, sola con i suoi fantasmi.
Erano morti tutti, tutti…


Rubina non capì mai quando ebbe accettato il fatto che dopo di lei, nel cuore di Duke c’era stata un’altra.
In tutti quegli anni, aveva sempre pensato che prima o poi sarebbero tornati insieme; lui invece aveva cercato di dirle che non sarebbe mai successo – non perché non l’amasse, no, di questo lei era più che sicura. Duke aveva avuto paura, con ragione, che Re Vega sarebbe riuscito a separarli.
Quando aveva saputo di Naida, Rubina aveva provato un dolore immenso misto ad un’incontenibile rabbia. Aveva pianto e urlato, dando sfogo alla sua sofferenza; successivamente, più calma, aveva infine riflettuto a lungo su quanto aveva saputo.
Il fatto era che lei era dovuta partire da Fleed, mentre Naida era rimasta là, con Duke… e la natura aveva seguito il suo corso.
Anch’io avrei potuto trovarmi qualcun altro, in questo tempo… se non l’ho fatto, è solo perchè non ho conosciuto nessuno che mi piacesse.
Duke, invece, aveva Naida.

Ripensò a quella splendida, giovane donna… lunghi capelli verde chiaro, occhi immensi e passionali, un corpo stupendo… e si chiese se poteva dare torto a Duke se l’aveva amata.
Rubina era una ragazza onesta. Strinse i denti, ricacciò le lacrime e si sforzò d’inghiottire la gelosia che ancora la tormentava.
Nonostante tutto, ti capisco, Duke…

Per accettare di rivedere suo padre, ci volle molto più tempo.
Dopo anni che si rifiutava di parlargli, Rubina infine cedette: lui era un mostro sanguinario, ma era pur sempre suo padre.
Lo ritrovò come l’aveva lasciato, come se quei quattro anni di silenzio non ci fossero mai stati, come se interi pianeti non fossero mai stati devastati. Re Vega non era cambiato per nulla, e non accennò minimamente al passato. Per lui non contava, era evidente.
Fu allora che Rubina comprese che la pazzia aveva irrimediabilmente corrotto la mente di suo padre.


Oggi
L’ennesima esecuzione capitale cui doveva assistere.
Un tempo, Rubina avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non essere presente a quell’orrore; ora, vi assisteva quasi avesse potuto condividere in quel modo almeno una parte delle sofferenze dei condannati.
Non poteva fare nient’altro, per loro…
Anni prima, era giunta su quel pianeta colma d’entusiasmo, decisa a migliorare le condizioni di vita dei prigionieri.
Non era stato possibile.
Ruby, un tempo pianeta fiorente popolato da gente pacifica e civile, era ridotto ad essere una sorta di immenso campo di lavoro per i prigionieri dell’impero di Vega. Condannati a sopravvivere in condizioni disumane, abbrutiti dal lavoro massacrante, spinti dalla disperazione i prigionieri avevano cominciato a ribellarsi, subendo così le rappresaglie dei soldati, che al minimo segno di rivolta compivano vere e proprie stragi.
Nemmeno questo riusciva a spegnere i focolai di ribellione; gli animi si calmavano, ma il fuoco dell’odio covava sempre sotto le ceneri. Re Vega lo sapeva, ed invece di migliorare le condizioni di vita dei prigionieri aveva preferito mostrarsi ancora più spietato ed inflessibile; quindi, date le sue personali disposizioni ai suoi ufficiali, aveva inviato Rubina “per mantenere l’ordine”.
In realtà, Rubina aveva potuto fare ben poco. Aveva capito subito che l’unico modo di far cessare le ribellioni sarebbe stato quello di alleggerire le pene dei detenuti; quando aveva provato a mettere in pratica le proprie idee, si era scontrata con un vero e proprio muro. In breve, gli ufficiali le avevano fatto capire che avrebbero sicuramente obbedito ai suoi ordini, purché fossero in sintonia con quelli di Sua Maestà. Questo significava che la giovane principessa non aveva nemmeno il potere di concedere una grazia ad un condannato.
I primi tempi erano stati terrificanti. Costretta dal suo rango ad assistere alle esecuzioni, Rubina trovava intollerabile veder giustiziare ragazzi, bambini, persino neonati. Visti totalmente inutili tutti i suoi tentativi di salvare almeno i piccoli, frustrata ogni sua speranza di intenerire il proprio ferreo genitore, Rubina aveva provato il desiderio di fuggire da quell’inferno; l’aveva trattenuta il pensiero di cosa sarebbe stato dei prigionieri, in balia dei soldati. Finché lei era presente, si attenevano almeno alle regole, per quanto spietate; abbandonati a sé stessi, sarebbe stato un massacro.
Rubina era rimasta, quindi, ed aveva sempre assistito alle esecuzioni quasi avesse potuto così espiare la colpa di essere la figlia di suo padre. Il viso di pietra, guardava morire la gente rimanendo in perfetto silenzio; dentro di sé, però, si sentiva spegnere poco per volta, una sorta d’agonia interiore che peggiorava ad ogni sentenza eseguita.
Adesso, a distanza di anni, si ripeteva che per quella gente la morte era pur sempre una liberazione; nonostante questo, non riusciva ancora ad accettar di vedere giustiziare dei bambini.


Scortata dalla sua guardia personale, Rubina scese nel cortile dove si sarebbe tenuta l’esecuzione.
Lontano, oltre delle pesanti transenne si trovava una folla di spettatori: amici, parenti dei condannati, gente che urlava, piangeva, supplicava. Tutt’attorno a loro, gruppi di soldati armati fino ai denti, prontissimi a soffocare nel sangue qualsiasi tentativo di ribellione, di fuga. Sul fondo, un alto, spoglio muro rivestito in metallo. Nonostante si trattasse di una delle leghe più forti conosciute, il metallo era segnato in più punti, tracce di innumerevoli fucilazioni. Poco discosti dal muro, un gruppo di condannati, una dozzina circa, attendevano in silenzio.
Rubina li guardò in fretta: niente bambini, per fortuna. Si trattava soprattutto di uomini, anche se un paio non erano che ragazzi.
La giovane principessa prese fiato, drizzò la testa e s’incamminò con passo deciso verso una piccola tribuna da cui avrebbe assistito all’esecuzione.
La sua apparizione fu accolta dapprima da un gran silenzio; poi, più forti, ricominciarono le urla, le suppliche.
Io speravo di portar loro la pace… invece mi odiano, e con ragione.
Rubina si sforzò di non affrettare il passo, mentre la folla implorava con più forza, lanciando infine insulti ed urla di rabbia contro quella principessa dal viso d’angelo e dal cuore spietato.
I soldati cominciarono ad armare i fucili contro la folla; subito Rubina diede un ordine reciso, non voleva che si sparasse contro quella gente. La sua voce si perse nel boato della folla strepitante, che urlava la sua rabbia battendo ritmicamente contro le transenne metalliche, in un furioso crescendo.


Tutto accadde in un attimo.
Uno dei condannati più giovani si staccò improvvisamente dal gruppo, spingendo da parte un soldato e facendolo rotolare addosso ai compagni. Urlando, il ragazzo si precipitò contro Rubina, il viso reso folle dall’odio, mentre lei, agghiacciata, lo fissava senza reagire…
Un ufficiale si gettò contro la principessa, spingendola di lato e proteggendola con il proprio corpo, mentre gli altri soldati facevano fuoco. Colpito da più parti, il ragazzo s’accasciò a terra, contorcendosi un attimo nella polvere; poi, con un ultimo spasmo, rimase immobile.
La folla lanciò un urlo terribile, che non si smorzò nemmeno alla vista dei fucili spianati. Un soldato sparò, gli altri lo imitarono; dalla folla giunsero sassate (sassi contro fucili laser!), persone caddero, altre nonostante tutto tentavano di abbattere le pesantissime transenne.
Inorridita, Rubina non riusciva a staccare gli occhi da quella cosa che fino a pochi istanti prima era stata un ragazzo; nelle orecchie le risuonavano ancora le parole che aveva urlato vedendola…
– Altezza, siete ferita? State bene?
Lei guardò l’ufficiale senza vederlo: – Cos’aveva gridato, quel povero ragazzo?
L’ufficiale sembrò non accorgersi della sua domanda: – Vi sentite bene, Altezza?
Rubina fece un gesto di stizza: – Sì, sì… vi ringrazio per avermi salvata. Ma cosa aveva detto quel giovane?
L’ufficiale pareva veramente imbarazzato: – Sono solo le grida d’un pazzo.
Lei scosse il capo: – Ha detto… “Duke Fleed è vivo… e ci vendicherà tutti”. È vero? Duke Fleed è vivo?
Sotto quel diretto sguardo azzurro, l’uomo chinò la testa: – Così dicono i prigionieri… ma non dovete dar peso alle loro chiacchiere. C’è una rivolta. Dovete rientrare subito, venite. – La prese per un braccio per ricondurla nel palazzo, al sicuro.
Rubina non lo ascoltava nemmeno. Non si accorse neppure del fatto che le sue fedeli guardie la stessero proteggendo: senza rendersene conto, seguì l’ufficiale che la stava trascinando all’interno dell’edificio, lontano dai ribelli che sotto una pioggia di proiettili energetici stavano riuscendo a divellere le transenne.
La rivoluzione era scoppiata, violentissima ed inarrestabile.
La giovane principessa però non vedeva, non sentiva più nulla attorno a sé… più niente aveva importanza, niente… tranne quelle quattro, semplici parole.
Duke Fleed è vivo.


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Edited by isotta72 - 10/6/2010, 10:29

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NON LASCIARMI
di H. Aster


L’aveva perduto, l’aveva ritrovato e poi l’aveva perso ancora, e stavolta per sempre. Non sarebbe mai tornato, mai più... Kenzo Kabuto, suo padre, era morto.
Le mani in tasca e il viso indurito, Koji fissò il mare che si rifrangeva ai suoi piedi, come un mostro domato. La spiaggia era completamente deserta. Poco lontano da lì, fino a pochi giorni prima si sarebbe vista emergere dall’acqua la sagoma inconfondibile della Fortezza delle Scienze... ma era tutto scomparso per sempre. Come suo padre.
Koji prese a camminare lungo la riva del mare, senza meta, incurante delle conchiglie sotto i suoi piedi scalzi; rimboccò l’orlo dei pantaloni ed entrò nell’acqua. Rabbrividì sentendola fredda e alzò gli occhi verso l’orizzonte.
Alti sopra di lui, stridevano i gabbiani; il mare era grigiastro, ostile. Il cielo nuvoloso si stava rapidamente scurendo, la spiaggia era una distesa di arida sabbia incolore… un paesaggio triste, bigio, senza speranze né prospettive.
Adattissimo a come si sentiva lui, dunque.
Per anni e anni era stato convinto di essere un orfano: lui e Shiro erano stati allevati dal nonno, baby sitter e governanti si erano succedute. Il padre e la madre erano stati solo alcune fotografie che stavano sbiadendo e un mucchio di ricordi in cui era dolorosissimo sprofondare.
La notizia l’aveva colpito anni dopo, come un fulmine inaspettato: il padre, da anni creduto morto, era invece sopravvissuto.
La seconda notizia era stata ancora più scioccante: in tutto quel periodo, invece di tornare da loro, i suoi figli, Kenzo si era occupato di due orfani... due perfetti estranei.
Koji raccolse un sassolino, lo scagliò con rabbia nell’acqua. Ricordava ancora la sua collera, la sua delusione bruciante: perché in tutto quel tempo lui non aveva mai saputo niente? Perché suo padre aveva lasciato che lui e Shiro lo piangessero come morto? E soprattutto, perché invece di tornare dai suoi figli aveva adottato quei due orfani? Che cosa c’entravano, loro?
Kenzo Kabuto era stato un uomo logico e ragionevole, e logiche e ragionevoli erano state le sue spiegazioni.


– Koji, tu non puoi sapere dell’addestramento cui ho dovuto sottoporre Tetsuya per trasformarlo nel guerriero che è diventato... e ho dovuto farlo, o non avremmo avuto alcuna speranza di sconfiggere i Mikenes. Tu non hai la minima idea della vita che ha fatto Tetsuya – Kenzo gli aveva messo le mani sulle spalle, gliele aveva strette; per una volta, la sua voce fredda e controllata aveva tremato leggermente: – Non avrei mai potuto imporre una cosa simile a te. Non a mio figlio.
Koji aveva chinato il capo, mentre sentiva un piacevole tepore nel petto: suo padre aveva agito così perché era preoccupato per lui, gli voleva bene!
Un istante dopo, un pensiero insidioso si fece strada nel suo animo: ma per tutti quegli anni era stato Tetsuya a stargli accanto. Non lui.
Aveva lasciato parlare Kenzo, ascoltando ognuna delle sue logiche e ragionevoli parole; ma dentro di lui, nascosto ma presente, il tarlo della gelosia aveva continuato a lavorare. Si era sforzato di ignorare tutti quei pensieri negativi, di comportarsi normalmente e di essere gentile con Tetsuya, e in effetti era sempre riuscito a nascondere il suo disagio: ora, tutto rispuntava prepotentemente, come un pallone gonfio di gas putrido che riaffiora con violenza dall’acqua.


Koji scagliò furiosamente un altro sasso tra le onde.
Il suo rancore era improvvisamente emerso, avvelenandogli l’animo: non un solo pensiero astioso era però rivolto al padre. Tutto il suo odio era per quel fratellastro, quell’estraneo scostante e pieno di sé che lui s’era sforzato di sopportare. Aveva sempre cercato d’ignorare la disapprovazione implicita di Tetsuya per il suo stile di vita e il suo atteggiarsi a vero guerriero, forte del severissimo addestramento cui solo lui era stato sottoposto; ma ora basta.
Era lui, Tetsuya, l’estraneo, che si era insinuato nelle loro vite, lui che si era frapposto tra padre e figlio, lui che in tutti quegli anni aveva avuto solo per sé l’intera attenzione di Kenzo – attenzione che sarebbe spettata a lui, Koji, il figlio legittimo.
Come non bastasse, era sempre per colpa di Tetsuya che Kenzo era morto, scagliandosi con la Fortezza delle Scienze contro il mostro che stava per distruggere il Grande Mazinga ed uccidere Tetsuya. Sempre Tetsuya, sempre Tetsuya che si frapponeva tra padre e figlio…
Il pensiero che lui, l’estraneo, fosse ferito e in ospedale attraversò fugacemente la coscienza di Koji: in quel momento provava troppo dolore per soffermarsi a pensare agli altri, e la possibilità che anche Tetsuya stesse soffrendo non lo sfiorò nemmeno. Anche in quel momento, riusciva a pensare al fratellastro solo come individuo arrogante, pieno di sé, sprezzante.
Sei sempre stato insopportabile, Tetsuya… se solo penso che mio padre è morto per salvare un bastardo come te!
Formulare quel pensiero e provare una fitta di rimorso fu tutt’uno: le parole di suo padre, le ultime che aveva articolato a fatica mentre la vita lo abbandonava, risuonarono ancora in lui: “Tetsuya mi è caro come un figlio, proprio come te, Koji… è dovere di un padre sacrificarsi per il proprio figlio”.
Per papà, Tetsuya era proprio come me… io avevo sempre pensato di essere qualcosa di speciale per mio padre, e invece…
Koji chinò la testa, reprimendo le lacrime, mentre la collera riprendeva a montare in lui. Respinse rabbiosamente le altre parole che gli aveva detto Kenzo – quelle solo per lui, quelle che adesso non voleva ricordare – e strinse rabbiosamente i pugni.
Non avrebbe mai potuto perdonare Tetsuya. Voleva che soffrisse anche lui, voleva rovesciargli addosso tutto il suo rancore, voleva vedere quegli occhi grigi, sempre alteri e sprezzanti, riempirsi di dolore. Solo allora lui avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo dal suo tormento.
Se Koji fosse stato più riflessivo, più maturo, avrebbe capito che odiare Tetsuya era infinitamente più facile che elaborare il lutto per il padre. In quel momento, addossare ogni responsabilità al fratellastro, detestarlo, era una possibilità che si stendeva davanti ai suoi piedi come un sentiero spianato; e lui lo intraprese senza la minima esitazione.
È tutta colpa tua, Tetsuya. Colpa tua. Maledizione a te, e al giorno in cui sei entrato a far parte della nostra vita.
Adesso basta.
Sordo a qualunque cosa non fosse la sua collera, Koji tornò indietro di corsa, verso la sua motocicletta che aveva lasciato al limitare della spiaggia. Si pulì alla bell’e meglio i piedi dalla sabbia, s’infilò calze e scarpe e balzò in sella. Si mise il casco: quante volte aveva dovuto dire al suo fratellino, Shiro, d’indossarlo? Praticamente, ogni volta che l’aveva portato con sé in moto. Certe cose proprio non si vogliono apprendere…
Il pensiero di Shiro lo bloccò, ma fu solo per un attimo: l’aveva affidato a Sayaka e al professor Yumi, non c’era da preoccuparsi.
Avviò rabbiosamente la moto: voleva discutere alcune cose con Tetsuya, e l’avrebbe fatto subito.


La grande costruzione bianca si ergeva davanti a lui, severa: del resto, gli ospedali non sono mai edifici dall’aspetto frivolo.
Koji controllò l’antifurto della moto, prima di lasciare il parcheggio ed avviarsi a grandi passi verso l’ingresso.
Non si pose problemi circa lo strano orario che aveva scelto per la visita, scartò l’ipotesi che Tetsuya per qualche motivo non potesse o non volesse parlare con lui: troppo preso dal cruccio che l’angustiava, Koji non era certo in grado di badare a certi dettagli.
Vagamente, ricordò d’aver sentito bisbigliare sulle condizioni di salute di Tetsuya: era rimasto ferito nell’ultimo scontro, ma non doveva essere nulla di così grave. Koji era sicuro che le lesioni che aveva riportato non fossero pericolose.
Percorse corridoi, salì con l’ascensore, camminò per altri corridoi: incontrò pochissime persone, non fece caso a nessuna di loro e nessuno fece caso a lui.
Entrò nel reparto in cui Tetsuya era stato ricoverato e prese ad osservare le porte della camere, cercando il numero che Jun gli aveva comunicato… quando? Due giorni prima…? Era passato così tanto tempo, da quando Tetsuya era stato ferito e suo padre era… era…
Scosse la testa: non voleva pensare a papà.
Si concentrò sul suo astio, invece.
La sigla che cercava… era arrivato.
S’arrestò sulla soglia: l’uscio era socchiuso, e da dentro non proveniva alcun suono.
Koji rimase un attimo sospeso, e per un istante parve chiedersi se fosse opportuno piombare in camera di Tetsuya per rovesciargli addosso il suo rancore; sentì echeggiare nelle orecchie la voce dura e sferzante di lui, ricordò l’ostilità che aveva percepito nelle sue frasi secche, le continue discussioni, i puntigli… e il fatto che il tutto fosse culminato nel non voler collaborare con lui, nel non volersi battere al suo fianco nell’ultimo scontro.
Pensavi che io non fossi alla tua altezza, vero?, Koji sentì bruciargli gli occhi e respinse le lacrime. Non hai voluto ascoltare, hai fatto di testa tua… e papà si è sacrificato per salvarti. Sarebbe stato meglio se fossi morto tu, Tetsuya. Sarebbero stati ben pochi a rimpiangerti.
Si passò rabbiosamente la mano sugli occhi; poi, con un gesto brusco spinse da parte la porta.


Scivolò in silenzio nella stanza: era andato fino là proprio per affrontare Tetsuya, ma in quel momento non volle nemmeno gettare uno sguardo alla figura immobile nel letto.
La sua attenzione era tutta per Jun, accasciata su una poltrona, il viso nascosto tra le mani.
Piange per... per Tetsuya...? si disse Koji, allibito. È così grave...?
In quel momento, lei parve percepire la sua presenza; s’asciugò rapidamente le lacrime e si voltò a guardarlo.
Appariva grigiastra in viso, gli occhi rossi, incavati e gonfi di chi ha pianto a lungo; le mani che tese verso di lui erano scosse da un tremito violento: – Koji, sono così contenta che tu sia qui...!
Attonito, lui fece un passo verso di lei; un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia, scossa dai singhiozzi. Rimasero così a lungo, lei che piangeva tutto il suo dolore e lui che tentava in qualche modo di consolarla, balbettando parole impacciate.
– Scusami – mormorò infine Jun, quando ebbe ripreso una parvenza di controllo – Con quello che è successo... il professore, e ora Tetsuya... – improvvisamente, parve ricordarsi che Koji era il vero figlio dello scomparso professor Kabuto: lui aveva più diritto di lei al dolore per la perdita del padre – Koji, mi spiace! Non dovrei dire proprio a te...
– Lascia stare – tagliò corto lui, più brusco di quanto avrebbe voluto – Come sta Tetsuya?
Jun lo condusse più lontano dal letto, quasi avesse temuto che il malato potesse sentirli: – Le ferite sono serie, ma lui è forte. Ce la farebbe sicuramente, se... – si morse il labbro, scossa da un nuovo tremito.
– Se...? – l’incoraggiò Koji.
– Se solo lui volesse ancora vivere – disse Jun, in un soffio.
Koji gettò un rapido sguardo verso il letto: – Stai scherzando...!
Jun scosse il capo, reprimendo le lacrime.
– Mi avevano detto che non era grave…! – esclamò Koji, con voce soffocata.
– Non lo sarebbe… ma il problema è un altro – mormorò lei – Tetsuya si sente spaventosamente responsabile di quello che è successo. Si accusa per la morte del professore...
Infatti, è tutta colpa sua!, si disse rabbiosamente Koji, Non potrò mai perdonarlo!
– ...e poi, si sente colpevole verso Shiro e te.
Verso me? Figuriamoci...
– È davvero sconvolto – continuò Jun – Koji, dico sul serio, non l’ho mai visto così! Mi ricordo di quando s’incolpava per la morte del cane di quella bambina, Midori: era fuori di sé dal dispiacere, ma almeno allora sperava che Midori lo perdonasse – si voltò a guardarlo rapidamente in viso, poi chinò la testa: – Adesso temo che sia convinto che tu non voglia perdonarlo.
Koji trattenne il fiato. Perdonare Tetsuya? Perdonare il pazzo che ha causato la morte di mio padre?
Jun gli mise una mano sul braccio: – Koji...
Lui le prese la mano, gliela strinse: provava un misto d’affetto e ammirazione per Jun, ma non poteva – non voleva – dire nulla, promettere nulla... in quel momento vide la profonda stanchezza di lei. Quanto tempo era rimasta, accanto a Tetsuya? Ormai erano passati più di due giorni da quando lui era rimasto ferito...
– Jun, non puoi continuare così – disse con dolcezza – Vai a riposare.
– Non posso lasciarlo...
– Resto io con lui – disse impulsivamente Koji – Ti prego, Jun, devi dormire un poco.
Lei parve esitare: si sentiva veramente distrutta, l’idea di sdraiarsi, di riposare era davvero attraente.
– Non mi muoverò di qui – assicurò lui, guidandola verso la porta – Hai la mia parola.
Jun si fermò proprio sulla soglia: – Koji, lui... lui sta veramente male. Ho davvero paura che... che lui...
– Vedrai, ce la farà. – asserì Koji, in tono leggero – Tetsuya è molto forte.
– Oh, no! È molto fragile, invece!
Fragile? Ma vogliamo scherzare? Quello è fragile come un blocco di cemento armato... – Va bene, Jun. Ci penso io. Alla peggio, basta che suoni il campanello e chiami l’infermiera, no?


Uscita Jun, Koji chiuse la porta e si voltò verso il letto, fissando ostilmente il corpo che vi giaceva.
Passare la notte a vegliare Tetsuya… proprio quello che mi ci voleva! Imparerò mai a stare zitto?
Si riprese, provando una fitta di vergogna: aveva agito d’impulso, come sua deplorevole abitudine, ma l’aveva fatto per Jun. Gli era parsa talmente stanca, talmente provata, che in lui il buon cuore aveva agito prima del buon senso; ora lei avrebbe potuto finalmente riposare, mentre lui si sarebbe trovato a dover dare assistenza proprio all’ultima persona con cui avrebbe voluto aver a che fare.
Inutile recriminare, ormai è fatta.
Koji s’accomodò sulla vecchia poltrona di fianco al letto: non era poi così scomoda. Prese una coperta in pile che Jun aveva ripiegato e lasciato sullo schienale e se la gettò addosso, disponendosi filosoficamente a passare una notte che, lo sentiva, sarebbe stata molto, molto lunga.
Tetsuya non si mosse, non emise un sospiro: era sprofondato in un sonno pesante, e fortunatamente era voltato dall’altra parte, in modo che Koji non fosse nemmeno costretto a guardarlo in faccia. Meglio così. Con un po’ di fortuna avrebbe dormito fino all’indomani, magari non si sarebbe nemmeno accorto del cambio avvenuto al suo capezzale.
Koji guardò l’ora: le otto e mezzo. Non aveva nemmeno portato con sé un libro, e naturalmente a quell’ora lui non aveva affatto sonno. Dannazione…
Si guardò in giro: una camera quadrata, molto pulita come qualsiasi camera d’ospedale. Mobili semplici e lineari, pareti chiare, due grandi finestre. Un vaso di fiori dava un tocco di gentilezza a quell’ambiente così asettico e severo: Jun, senza dubbio.
Fiori per Tetsuya… un cactus spinoso sarebbe più indicato.
Koji gettò un’occhiata colma di desiderio al piccolo televisore sul tavolino: magari, tenendo il volume molto basso…
Tetsuya si mosse nel sonno, gemette. No, niente TV.
Tornò a guardarsi attorno, e finalmente scorse quello che aveva tanto sperato di trovare: dall’anta semiaperta dell’armadio facevano capolino alcuni giornali.
Koji li esaminò: un paio di quotidiani, un mensile scientifico e una rivista di moda femminile. Scartò i quotidiani che aveva già letto, diede una rapida scorsa alla rivista (“Ma in che modo si conciano, queste?”) e sprofondò nuovamente nella poltrona immergendosi nella lettura del mensile scientifico.
Dopo essersi istruito sulle relazioni tra parte destra e sinistra del cervello, sugli ultimi ritrovamenti nella zona di Stonehenge e sulla vita sessuale dei celenterati, Koji pensò d’averne avuto abbastanza e passò all’ultima pagina, dove campeggiava il temuto, complicatissimo cruciverba.
Stava impazzendo sull’otto orizzontale (L’ultimo faraone della XVIII dinastia, otto lettere) quando un gemito lo riportò alla realtà.
Alzò gli occhi dal giornale: Tetsuya si era voltato sulla schiena, il viso contratto in una smorfia di sofferenza. Una mano era tesa verso di lui, quasi fosse stata alla ricerca di qualcosa, di qualcuno.
Ostile, Koji guardò quella mano che si protendeva inutilmente verso... verso cosa, verso chi? Forse sperava che lui gliela avrebbe stretta?
Fissò quasi con odio quelle lunghe dita forti, tanto forti da poter guidare il Grande Mazinga; ma dentro di sé non sentì pietà, compassione.
Hai ucciso mio padre, si disse Koji, affondando ostinatamente il naso nel giornale. Non è per te che resto qui: lo faccio solo per Jun, perché gliel’ho promesso. Non fosse per lei, me ne sarei andato da un pezzo.
Si obbligò a tenere gli occhi sul cruciverba, mentre Tetsuya, il viso stravolto dall’angoscia, continuava ad agitare la mano nel vuoto. Sembrava un uomo che stesse brancolando alla cieca nel buio, e tendesse la mano nella speranza di trovarne un’altra che lo tenesse saldamente, lo guidasse alla luce... suo malgrado, Koji abbassò il giornale. Guardò ancora quel viso sconvolto, quelle dita tremanti, e provò vergogna. Fece per afferrare quella mano tesa: ma il braccio ricadde.
Koji rimase un istante come sospeso; poi alzò le spalle. Ovviamente, nemmeno nella malattia Tetsuya aveva bisogno degli altri... benissimo, che s’arrangiasse da solo.
Riaprì il giornale e tornò al cruciverba.
Tetsuya parve sprofondare in un sonno più profondo; ma non era certo un riposo ristoratore, il suo. Il viso gli si contraeva in smorfie di sofferenza, le mani stringevano convulsamente le coperte, qualche parola inintelligibile gli usciva dalle labbra contratte e secche. Senza degnarlo d’uno sguardo, Koji chiuse il giornale, spazientito: non riusciva più ad andare avanti col cruciverba. Tanto valeva cercare di dormire un poco. S’avvolse meglio nella coperta e cercò una posizione più comoda.
All’improvviso, Tetsuya sbarrò gli occhi, fissando un punto davanti a sé, un’espressione incredula sul viso sfatto: – ...Professore...?
Koji sobbalzò, ma si riprese subito: naturalmente, non c’era proprio nessuno in quella stanza, oltre loro.
Di bene in meglio… adesso delira. Sono proprio fortunato.
Pallidissimo, due chiazze scarlatte sugli zigomi, Tetsuya tentò di rialzarsi su un gomito; il braccio gli tremò, ma lui tese l’altra mano davanti a sé, rivolgendosi ancora ai suoi fantasmi: – Professore...
Stavolta, Koji guardò meglio il fratellastro: era stravolto ma sorrideva, come se avesse visto qualcuno che mai avrebbe sperato di rivedere. I suoi occhi, cerchiati e fondi, adesso d’un grigio chiarissimo, slavato (morti, pensò con un brivido Koji) fissavano ostinatamente sempre uno stesso punto, guardando quello che solo lui poteva scorgere.
In quel momento, Koji fu invaso da una paura come non ne aveva mai provata in vita sua, mai nemmeno quando in battaglia si era sentito spacciato. Solo allora capì quanto avesse sottovalutato lo stato di Tetsuya... “È molto fragile”, aveva detto Jun; e lui non le aveva creduto.
Improvvisamente, il terrore che lui morisse gli tolse il fiato.
– Tetsuya, no! – lo strinse tra le braccia, come per ancorarlo a sé stesso, al mondo reale: trasalì sentendolo così magro e fragile, proprio lui che era sempre stato vigoroso e pieno di vita. Attraverso il tessuto del pigiama percepì il bruciore del suo corpo esausto, divorato dalla febbre. Pareva impossibile che un uomo potesse sopportare una simile temperatura...
– Tetsuya, no! – Koji non sapeva nemmeno cosa stava dicendo, le parole gli uscivano da sole dalle labbra – No! Non ti lascio andare! Non puoi! Non te lo permetterò!
Tetsuya non lo ascoltava. In preda alla febbre continuava a protendersi verso ciò che lui solo era in grado di vedere, il viso trasfigurato dalla gioia: – Professore...!
Koji non faticava a trattenerlo: quel corpo fragile, indebolito dalle ferite e dalla febbre non poteva certo opporre resistenza. Ma la battaglia che si stava svolgendo non era sul piano fisico, e Koji non era affatto sicuro di riuscire a vincere: – Tetsuya, ti prego! No!
Rimasero qualche istante immobili, Tetsuya sempre teso verso ciò che lui solo vedeva, e Koji aggrappato a lui in quella che, lo sapeva, era la sua battaglia più disperata. Tetsuya tentò un’ultima volta di protendersi in avanti; poi le sue misere forze gli mancarono, e s’accasciò su sé stesso, restando completamente immobile. Terrorizzato (tutta quell’inerzia, in un corpo che era sempre stato scattante, pieno di vita!) Koji capì di essere sul punto di perdere. Un grido di vera angoscia gli eruppe dalla gola: – Tetsuya! Resta con me, non lasciarmi anche tu!
Tetsuya emise un singhiozzo, mentre un’altra espressione (delusione?) prendeva il posto di quella spaventosa gioia ultraterrena; Koji continuò a tenerlo stretto, lottando con la morte come non aveva mai lottato prima d’allora: tutti i suoi combattimenti con i mostri non erano nulla, nulla, in confronto a quest’ultimo scontro. Pregò, supplicò, chiamò il fratello, implorò, promise... nemmeno lui aveva più coscienza di cosa stava facendo.
Tetsuya parve riprendere un minimo di forze; si rialzò sul gomito, una luce folle negli occhi, e tentò ancora una volta di gettarsi in avanti; Koji lo strinse tra le braccia e si rivolse all’unica persona cui ancora non aveva osato ricorrere.
Papà, ti prego, non portarmelo via... ti prego, ti prego... non potrei sopportarlo... non anche lui...
Rimasero così a lungo, Tetsuya che tentava inutilmente di protendersi verso ciò che si stava ormai allontanando da lui e Koji che continuava a stringerlo a sé, trattenendolo con tutto il suo essere; poi improvvisamente il corpo martoriato di Tetsuya cedette e il giovane si afflosciò sul materasso, il viso contratto dalla sofferenza: – Papà...
Era stato appena un soffio, un sussurro per una parola che lui mai prima d’allora si era mai permesso di dire. Per la prima volta da che si conoscevano, Koji provò una pena indicibile per il fratellastro: – Ci sono io, qui. Penserò io a te, andrà tutto bene...
Tetsuya non rispose: era nuovamente sprofondato nel torpore della febbre.
Solo allora Koji osò lasciare il fratello, solo allora osò riprendere fiato; gli toccò una mano, poi la fronte, e scattò subito verso il campanello per chiamare l’infermiera.
Poco prima era stato troppo occupato a trattenere Tetsuya per pensare di chiedere aiuto; ora premette il pulsante con disperazione. Sapeva di non poter farcela da solo.
Una dottoressa entrò col passo frettoloso di chi è abituato alle emergenze. Non fece domande, le bastò guardare in viso Tetsuya per capire. Gli tastò il polso, scosse il capo e gli rilevò la temperatura. Emise un’esclamazione soffocata e si precipitò fuori della stanza, tornando subito con una siringa; alzò una manica del pigiama di Tetsuya e gli praticò l’iniezione nel braccio, poi gli tastò nuovamente il polso.
Spaventato, Koji riuscì finalmente a spiccicare parola: – È... molto alta?
– Quarantuno e due – sussurrò lei – L’iniezione dovrebbe abbassargli la temperatura. Ha avuto convulsioni?
– Ha... ha delirato – disse in fretta Koji. Avrebbe voluto chiedere se c’era pericolo, ma aveva troppa paura della risposta che avrebbe ricevuto.
Guardò ansiosamente Tetsuya. Gli era sempre apparso alto e forte, pieno di vigore e di spirito: in quel momento gli sembrò incredibilmente piccolo e minuto, inaspettatamente fragile e indifeso. Lo guardò in viso e gli parve di vedere altri lineamenti sovrapporsi a quei tratti forti: per un attimo, Koji ebbe una visione del bambino che era stato, del ragazzo che anni prima il professor Kabuto aveva scelto d’adottare.
Un’infermiera entrò di corsa, portando un paio di borse del ghiaccio; ne pose una sulle caviglie di Tetsuya e l’altra contro la parte alta della schiena, prima d’affrettarsi fuori.
– Abbiamo un altro paziente molto grave – spiegò in tono di scusa la dottoressa – È tutta notte che siamo impegnate con lui... anche se temo che non ne avrà per molto. Non è un giovanotto forte come... è vostro fratello?
– Sì – rispose lentamente Koji – È mio fratello.
La dottoressa gli rivolse un sorriso stanco; poi toccò la fronte di Tetsuya: – Bene, sta cominciando a sudare.
Koji sentì piegarglisi le ginocchia e ricadde nella poltrona. Non seppe per quanto tempo la dottoressa rimase accanto a Tetsuya, tastandogli il polso e misurandogli la febbre ad intervalli regolari; di tanto in tanto entrava un’infermiera, si consultava a voce bassa con la dottoressa e s’allontanava in fretta. D’istinto, Koji mormorò una preghiera per quell’altro malato che stava lentamente morendo.
– Va meglio – disse infine la dottoressa.
Koji trasalì, incredulo, e lei gli mostrò il termometro: trentotto e uno.
– Grazie, papà – mormorò, mentre lei esaminava rapidamente le medicazioni sul torace di Tetsuya, controllando che le fasciature fossero ancora a posto e le ferite non avessero ripreso a sanguinare; quindi gli richiuse la giacca del pigiama e gli sistemò le coperte: – Devo andare da quell’altro paziente. Non penso che ci sia da preoccuparsi, almeno per il momento; se ci sono problemi, chiamate subito.
Koji assentì, incapace di spiccicare parola; quindi rimase a fissare Tetsuya, che ora era sprofondato in un sonno tranquillo. Il viso non presentava più quelle spaventose chiazze scarlatte di febbre, il respiro era regolare. Guardò l’orologio: le due meno cinque.
Stanchissimo, infreddolito, Koji s’avvolse nella coperta e cercò una posizione un po’ più comoda. Non voleva dormire, naturalmente, ma...
Piombò nel sonno senza nemmeno rendersene conto.


Non seppe cosa fu a svegliarlo: semplicemente sussultò, aprì gli occhi e vide puntato su di sé lo sguardo grigio e serio di Tetsuya: – Koji...?
– Come stai? – represse uno sbadiglio.
Tetsuya si guardò rapidamente attorno, quasi stesse chiedendosi dove si trovasse. Riconobbe la sua stanza d’ospedale, e i ricordi di quanto era successo lo assalirono all’improvviso. Dolore, senso di colpa e profonda vergogna s’alternarono rapidamente nei suoi occhi; Tetsuya voltò di lato la testa, non osando guardarlo in faccia: – Io... il professore… è tutta colpa mia.
Koji trattenne il fiato, mentre sentiva agitarsi nell’animo una pallida traccia dell’odio che aveva nutrito per Tetsuya; ma era una pallida traccia appunto, e scolorì rapidamente davanti al ricordo freschissimo di quella notte che non era ancora trascorsa del tutto.
– No – disse lentamente – Non è colpa tua – riprese fiato, cercando le parole che faticavano a venirgli – È stata una sua scelta.
Tetsuya non rispose, non si voltò nemmeno, ma Koji era sicuro che non stesse perdendo una parola, e continuò: – Lo so perché me lo ha detto lui, prima... prima di morire – affrontare il ricordo della morte di suo padre era dolorosissimo, e allo stesso tempo gli dava un inaspettato sollievo; Koji riprese, con maggior decisione: – Lo sapevi che mi ha parlato di te?
Tetsuya scosse lievemente il capo: no, non lo sapeva.
– Ha detto – Koji sentì risuonare in sé quella voce così cara – Ha detto che un padre deve sacrificarsi per i suoi figli... e che tu sei come un figlio, per lui. Proprio come me.
Tacque: non poteva vedere Tetsuya in viso, ma poteva sentire il suo respiro accelerato, poteva vedere la mano contratta sulla coperta. Attese in silenzio, mentre risentiva anche le ultime parole di suo padre... parole destinate solo a lui, e che sarebbero state il suo tesoro più prezioso: “Koji, non dimenticare di essere gentile ed premuroso con tutte le persone che ti sono amiche”.
Allora, quelle parole l’avevano ferito: come avrebbe potuto essere gentile, provare affetto per quel pazzo che l’aveva reso orfano?
Ora che aveva rischiato di perdere anche Tetsuya, ora che aveva lottato per lui, Koji provò un’ondata profonda d’affetto per quel suo fratello adottivo ruvido e orgoglioso. Come avrebbe potuto odiarlo, dopo averlo visto moribondo, indifeso, in preda alla febbre? Dopo averlo sentito invocare disperatamente l’uomo che per lui era stato come un padre?
Era un Koji molto maturato quello che prese una mano di Tetsuya e la strinse: un Koji che aveva perso moltissimo, ma che sapeva anche che avrebbe potuto guadagnare altrettanto. Certo, con il carattere spigoloso di Tetsuya non si poteva sperare che le cose sarebbero state sempre facili, tutt’altro; ma adesso la sofferenza li aveva avvicinati, e lui non intendeva rinunciare a ciò che aveva già conquistato.
– Koji... mi dispiace – bisbigliò Tetsuya.
– Lo so – adesso capisco quanto gli hai voluto bene anche tu, pensò Koji.
– Non posso perdonarmelo... sono stato un pazzo.
Anch’io, pensò Koji. Ho anch’io le mie colpe verso di te… ma ne parleremo quando starai meglio.
– Tu e Shiro avete perso così tanto... – la voce di Tetsuya parve spezzarsi.
– Adesso ascoltami – disse con fermezza Koji.
Col coraggio di chi è abituato a guardare in faccia ostacoli e nemici, Tetsuya si voltò verso di lui e Koji riprese: – Tutti noi abbiamo perso tanto: Shiro e io, certo, ma anche tu e Jun. Non vogliamo però perdere anche te, per cui smetti con i sensi di colpa e cerca di guarire in fretta, o avrai reso inutile il sacrificio di nostro padre.
Tetsuya trasalì, sorpreso dal tono secco di Koji, o forse dalle parole che mai si sarebbe aspettato, “nostro padre”; ma fu un attimo. Gli occhi grigi cercarono ansiosamente quelli neri: s’incontrarono, si guardarono e si capirono più che se avessero parlato.
Tetsuya si rilassò, il suo corpo contratto si distese; uno scintillio del suo antico spirito guizzò nel suo sguardo.
– D’accordo, Kabuto – mormorò, soffocando uno sbadiglio – ... e grazie.
È di nuovo lui, pensò Koji, sorridendo tra sé; quindi guardò il suo orologio: – Le quattro e un quarto. Vediamo se riusciamo a dormire un poco.


Jun s’affrettò per il corridoio dell’ospedale.
Aveva riposato alcune ore, svegliandosi improvvisamente quella mattina con l’orrenda sensazione che fosse successo qualcosa d’irreversibile; l’angoscia l’aveva spinta a vestirsi in fretta e precipitarsi a tutta velocità al capezzale di Tetsuya. Aveva avuto un bel ripetersi che in caso d’emergenza Koji l’avrebbe sicuramente chiamata: dentro di sé, lei era sicura che fosse successo qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe fatto sì che nulla sarebbe stato più come prima.
Disperata, Jun aveva guidato l’automobile come una pazza, continuando a pregare che non fosse successo niente, che Tetsuya fosse ancora vivo; mentre percorreva a tutta velocità gli interminabili corridoi dell’ospedale, continuò a rimproverarsi per aver lasciato proprio Koji ad accudire Tetsuya. Come aveva potuto fare una cosa simile? Quei due non erano mai andati d’accordo, ultimamente erano stati come cane e gatto, e ora che era successo... che il dottor Kabuto... non voleva pensarci... beh, sicuramente quello che era accaduto non avrebbe certo migliorato i già pessimi rapporti tra Koji e Tetsuya.
Sono stata pazza, pazza, pazza, continuava a ripetersi Jun, senza voler pensare a quanto era stata stanca, quanto aveva avuto bisogno di riposare un poco, quanto quel po’ di sonno le era stato prezioso...
Bussò alla porta ed aprì senza nemmeno aspettare una risposta... e s’arrestò immediatamente.
Tetsuya dormiva nel suo letto, il viso disteso e sereno come non l’aveva mai visto. Accanto a lui, avvolto nella coperta, Koji riposava nella sua poltrona.
Meravigliata, Jun fece un passo avanti, rimanendo attonita a guardarli. Ultimamente li aveva sempre sentiti ostili l’uno verso l’altro, li aveva sempre visti accapigliarsi, provocarsi, coprirsi di insulti; ora, la pace che emanava da loro era talmente evidente da essere palpabile.
Si sono trovati, pensò Jun, sentendosi bruciare gli occhi, Dio mio, si sono trovati...
Sorrise, incredula. S’asciugò le lacrime e tornò a guardarli, chiedendosi come fosse possibile, cosa fosse accaduto, perché... all’improvviso rivide dentro di sé il viso del professor Kabuto, quell’uomo che lei aveva amato come un padre, e per un folle istante ebbe la percezione di sentirlo vicino, vicinissimo... ed ebbe la sua risposta.
Grazie, papà...

Mai avrei pensato di inserire questo racconto, ma Isotta ha insistito tanto, e sapete com'è... non capisco, ma mi adeguo.


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LOVE HISTORY


Primissima infanzia

Nei giardini reali, all’ombra di un albero fiorito, seduta nel suo box, Naida guardò con estremo interesse il bimbetto che veniva fatto accomodare nell’altro angolo.
Duke gettò uno sguardo svagato alla bimbetta dall’altra parte, e riprese a succhiare il suo ciuccio.
Naida tentò un sorrisetto.
Duke continuò a succhiare il suo ciuccio.
Naida batté le manine, fece “ciao”.
Duke continuò imperterrito la sua opera di succhiaggio.
Naida rise, fece delle smorfie, tentò infine d’attirare l’attenzione con un tentativo di conversazione: – Giggle! Giggle!
Duke non alterò nemmeno il ritmo di ciucciata.
Naida afferrò il giocattolo più pesante e spigoloso che trovò a portata di manina, e con una mira notevole per una frugoletta lo scagliò addosso a Duke.
Lui si strofinò l’occipite, guardò Naida con aria di rimprovero: – Pecché?
Poi recuperò il suo ciuccio, e si rimise all’opera.
Naida si trascinò fino da lui, gli afferrò la testa e gli fece dare una capocciata contro la parete del box.


Prima infanzia

Ai piedi d’uno degli alberi secolari che ornavano il giardino del palazzo reale, seduta nel bel mezzo d’una vasta pozza di fango, Naida giocava al pasticcere; accanto a lei, Duke sedeva con lo sguardo remoto, perso verso lontani orizzonti.
Davanti a sé, lei aveva la bellezza di dodici torte di fango, tutte regolari, tonde, artisticamente eseguite.
Prese la più bella, la più grossa e spessa, e la tese a Duke: – Totta. Vuoi?
– Gracchie – rispose lui con la consueta buona grazia, e Naida gli depose la torta sulle ginocchia.
Il fango prese a scorrergli in rivoli giù per le gambe, insinuandosi fino nei sandaletti; Duke parve non farvi caso e riprese a fissare l’orizzonte.
Naida rimase in attesa: gli aveva donato una cosa sua, fatta con le sue mani, era naturale aspettarsi qualcosa in cambio.
Duke continuava a fissare l’orizzonte, mentre la torta gli si squagliava in grembo.
Naida gattonò verso di lui.
Niente.
Lei mise il viso a due centimetri da quello di lui.
Duke le gettò uno sguardo interrogativo che era tutto un “ma che vuoi, adesso?”.
Esasperata, lei si tese in avanti e gli schioccò un bacione sulla guancetta tonda.
Duke prese ad ululare come se fosse stato scottato.
Senza far motto, con l’aristocratica compostezza che le era propria, lei gli rovesciò in testa le altre undici torte di fango.


Seconda infanzia

A quell’ora del primo pomeriggio, il giardino del palazzo reale era praticamente deserto; Naida e Duke si ritrovarono sotto un grande albero fiorito. Cespugli in fiore li circondavano, il prato era una festa di corolle multicolori.
L’animo femminile di Naida fu ispirato da un sì meraviglioso spettacolo: – Duke, giochiamo che tu eri un principe e io una belliffima principeffa?
Lui era troppo ben educato per farle notare che una principessa non può essere bellissima quando le sono caduti i denti davanti: – Va bene.
– Però poi veniva un cavaliere cattivo – continuò lei.
– Va bene.
– Il cattivo mi rapiva e tu venivi a falvarmi.
– Va bene.
– E poi tutto finiva bene, perché noi ci fpofavamo e vivevamo felici e contenti... Duke...?
Si voltò dove un secondo prima si trovava lui.
In vita sua, Naida non avrebbe mai visto nessun altro talmente veloce nella corsa dei trecento piani.


Adolescenza

Sotto il caldo sole estivo, il lago riluceva come uno specchio. L’aria era immobile, dai cespugli fioriti veniva un intenso, dolce profumo.
Sdraiati l’uno accanto all’altra, Naida e Duke prendevano il sole: avevano fatto una lunga gita in barca, avevano fatto un lungo bagno (non si erano dedicati ad altre, proficue attività a due, ma purtroppo Duke da quell’orecchio ci sentiva pochino). In quel momento, si sentivano perfettamente in pace con sé stessi e con il resto del pianeta.
Naida aprì un occhio, gettò uno sguardo a Duke: – Come si sta bene.
– Proprio vero – ammise subito lui.
Lei aprì entrambi gli occhi, azzardò uno sguardo più diretto: – Intendo che sto proprio bene… con te.
– Anch’io – ammise subito lui.
Naida raccolse il coraggio a due mani e si rialzò su un gomito: – Io… io ti amo, Duke.
– …Eh…? Oh, certo, anch’io, sì – omise all’ultimo il “ci mancherebbe, che diamine”.
Naida sentì il cuore scoppiarle di felicità: – Allora… ci siamo messi assieme…?
– Suppongo di sì – fu la romantica risposta che ottenne.
– Allora siamo fidanzati! – trepidò lei – Vivremo insieme, e un giorno ci sposeremo, e…
Lui balzò subito a sedere: – Oh… non te l’ho detto? Che stupido…
– Detto, cosa?
– Sai Re Vega? Quel tizio odioso, quel tiranno della nebulosa di Vega…?
– Allora?
– Vuole allearsi con noi, e per questo vuole che io sposi sua figlia… Rubina, credo si chiami. Buffo, vero?
Calma, si disse Naida – Duke, ma tu… tu cosa farai? Dovrai… sposarla…?
Lui si strinse nelle spalle: – Non ho molta scelta, lo sai… nella mia posizione, purtroppo… – emise un sospiro molto artistico; poi, da quello sciagurato che era, disse l’ultima cosa che avrebbe dovuto anche solo pensar di poter dire: – Ma noi due resteremo sempre amici, no?
Naida afferrò il remo della barchetta e glielo picchiò selvaggiamente sulla testa.


Giovinezza

Il giardino reale traboccava di fiori. Corolle odorose e coloratissime s’affacciavano da alberi e cespugli. Da ogni angolo giungevano dolci, romantici effluvi.
– Mi dispiace che la tua storia con Rubina sia andata a finire male, Duke – disse Naida, con un tono afflitto che puzzava parecchio di falso.
– Che vuoi… – mormorò lui, l’aria disillusa di chi ben conosce il mondo e le sue delusioni – Cose che succedono.
Non volle dirle che essersi trovato ad un passo da confetti e marce nuziali e venirne salvato all’ultimo istante, dato che il futuro suocero aveva cambiato idea, era stato per lui un’esperienza terrificante: il sollievo era stato talmente forte da risultare traumatico. Certo, Rubina aveva fatto un po’ di capricci, ma presto si sarebbe consolata con qualche altro malcapitat… ehm, uomo fortunato.
Quanto a lui, era libero.
– Non ho più obblighi, adesso – esclamò, compiaciuto.
Naida sentì la gioia traboccarle nel cuore: – Oh, Duke…!
– Non sono più costretto a sposare Rubina… posso fare quello che voglio!
Di scatto, lei gli balzò al collo: – Duke, è meraviglioso!!! …Quando ci sposiamo?
Lui inorridì. Svegliarsi da un incubo per ritrovarsi in un altro ben peggiore è uno scherzo del destino ben crudele: – Ma Naida, io veramente…
– Cosa vuoi dire? – esclamò lei, e sarebbe stato ben difficile scorgere un minimo di calore umano nel suo sguardo – Un tempo, tu amavi me! Me l’hai detto!
– Sì, ma…
– Poi è arrivata questa Rubina… Vega, gli obblighi dinastici eccetera… e va bene, l’ho accettato!
– Certo, però…
– Adesso Rubina se ne è andata, tu non devi più sposarla, sei libero… stai cercando di dirmi che non vuoi impegnarti con me?
– Ecco, a dire il vero…
– Insomma, Duke! – Naida lo mise letteralmente spalle al muro, o meglio all’albero, incantonandolo contro un tronco secolare – Voglio una risposta precisa! Vuoi sposarmi, sì o no?
Duke esitò, mentre gelidi sudorini cominciavano a ruscellargli giù dalla fronte… e proprio allora, lontano ma inconfondibile, giunse il più spaventoso dei suoni.
L’allarme.
Vega aveva dichiarato guerra.
– Quanto mi dispiace, devo andare subito – lui fece per svicolare, ma Naida, che se l’era aspettato, fu rapidissima ad acchiapparlo – Naida, non senti l’allarme? Io devo andare, Fleed ha bisogno di me…
– IO, ho bisogno di una risposta! – ruggì lei, occhi baluginanti e denti digrignanti.
– Non essere assurda… proprio ora… poi adesso c’è la guerra, rischieresti di restare vedova – assunse un’aria molto, molto nobile: – Non posso importi un simile sacrificio!
– Ma Duke…!
– Ne riparleremo a guerra finita, d’accordo? – finalmente riuscì a liberarsi dalla pervicace fanciulla e tentò una nuova fuga.
Per terra giaceva un piccone, dimenticato da uno dei giardinieri.
Naida lo prese e cominciò a lavorare con tutta la sua notevole energia.


Pochi minuti dopo, mentre sfrecciava con Goldrake nell’azzurro dei cieli, gli occhi che faticavano a fissarsi contemporaneamente sullo stesso soggetto e l’elmo che gli premeva dolorosamente sui bernoccoli fioriti sul cocuzzolo, Duke si disse che Re Vega era sì un tiranno, una carogna, un colossale fetente… ma in fatto di tempismo, tanto di cappello.
Era la seconda volta che lo salvava in punto di morte…
Se avesse potuto farlo, gli avrebbe stretto la mano.


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Edited by isotta72 - 10/6/2010, 10:30
 
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Il seguito di "Non lasciarmi".

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VATTENE


Uno… due… destro… sinistro…
I sei metri più faticosi della sua vita. Probabilmente, nemmeno quando aveva imparato a camminare aveva compiuto un simile sforzo... senza contare il dolore.
Destro... sinistro... uno... due... ancora un metro... uno... due... mezzo metro... ancora... un passo... era arrivato.
Il corpo madido di sudore, Tetsuya ricadde sulla sbarra, respirando a pieni polmoni. Le gambe gli tremavano e parevano piegarsi sotto al suo peso, lo stomaco era squassato dalla nausea e dalla schiena s’irradiava un dolore che lo percorreva dai calcagni alla sommità della testa.
Devo riposare un poco, si disse Tetsuya, e chiuse gli occhi.


Un tempo si sarebbe gettato a testa bassa in qualunque sfida, pronto a travolgere ogni ostacolo; adesso stava imparando a portare pazienza. Anni prima avrebbe negato ferocemente la sofferenza, colpevolizzando le proprie membra doloranti; adesso stava cominciando a rispettare quel suo corpo martoriato che aveva le sue esigenze, i suoi ritmi.
Stai facendo progressi, gli aveva assicurato Jun; era vero, fino a poche settimane prima alzarsi dal letto e restare in piedi era stato un pensiero impossibile. Adesso stava addirittura riprovando a camminare.
Nell’ultimo scontro con i Mikenes, Tetsuya ne era uscito più morto che vivo: trauma cranico, fratture varie e soprattutto una lesione a livello delle vertebre sacrali e un’incrinatura al bacino. Era stato operato alla schiena, ma per il bacino non c’era stato nulla da fare: solo restare a letto in riposo assoluto e sperare che le ossa si aggiustassero senza problemi.
Settimane d’immobilità gli avevano atrofizzato i muscoli della schiena e delle gambe: Tetsuya aveva considerato con disgusto i propri arti inferiori, ridotti a due irriconoscibili stecchi.
«Gambe di sedano», aveva borbottato.
Elvy, la sua infermiera preferita, con il consueto buon senso non gli aveva permesso di autocommiserarsi troppo: «I muscoli si svilupperanno di nuovo. Quel che importa adesso, è che le tue ossa si aggiustino bene».
Tetsuya aveva bofonchiato, ma dentro di sé aveva sentito rinascere un po’ di speranza: era l’effetto benefico che Elvy aveva su di lui e su tutti gli altri pazienti affidati alle sue cure. Irradiava positività e simpatia, con lei un ammalato non era semplicemente un numero.


Afferrando le sbarre Tetsuya sorrise tra sé, mentre si sforzava di rimettersi in piedi: le gambe non lo reggevano ancora, doveva procedere lungo le sbarre a forza di braccia.
Sei metri di lunghezza.
Ok, ricominciamo.
Uno... due... destro... sinistro...


Ricordava ancora quando si era rivisto per la prima volta a torso nudo: era stata proprio Elvy a togliergli le medicazioni, in attesa che il medico gli levasse i punti.
Vedere il reticolo di cicatrici rossastre che gli solcavano il torace l’aveva lasciato senza fiato. Non si era trattato di ferite profonde o gravi, ma erano davvero tante.
«Le ragazze impazziranno per te», aveva detto subito Elvy. «Moriranno per la curiosità di sapere come ti sei fatto tutte queste ferite, e non degneranno d’uno sguardo quei ragazzotti palestrati che vanno per la maggiore. Vedrai se non ho ragione».
«Sembro una carta geografica», aveva obiettato lui.
Elvy gli aveva strizzato l’occhio: «Anche la geografia può avere il suo fascino!»
Tetsuya non aveva più aperto bocca, chiedendosi nel contempo se Jun avrebbe apprezzato quella specie di mosaico.


Destro... sinistro... arrivato.
Aggrappato alle sbarre, Tetsuya respirò a fondo: fortunatamente, le ferite al torace non gli facevano quasi più dolore, e le braccia erano rimaste pressoché intatte. Un bene, visto che ora doveva contare sulla forza dei suoi bicipiti per poter rieducare le gambe.
Mentre riprendeva fiato, ripensò ad una decina di giorni prima, quando i medici gli avevano assicurato che vertebre e bacino erano in buone condizioni. L’operazione era perfettamente riuscita, le lastre avevano rivelato che le ossa si erano saldate. Era il momento di cominciare con la rieducazione.
«Dovrai avere pazienza», l’aveva ammonito Elvy. «La rieducazione è dolore».
Oh, beh, la cosa non l’aveva preoccupato troppo: lui e il dolore erano vecchie conoscenze.
Il problema, se mai, era la pazienza.


Solo alcuni giorni prima era stato fatto sedere in poltrona: una vera conquista, una grandissima sorpresa per Jun che era rimasta meravigliata di non trovarlo come al solito sdraiato a letto; lui le aveva sorriso, ma in realtà si era sentito malissimo. Ondate di nausea, vertigini… come avrebbe potuto tornare quello che era stato un tempo?
Scoraggiato, aveva guardato con disgusto il proprio corpo smagrito che sguazzava in un pigiama che un tempo gli era andato a pennello.
«Sono un relitto», aveva mormorato.
«Non dire sciocchezze!», Jun l’aveva abbracciato quasi avesse voluto trasmettergli la sua forza. «Tu guarirai! È solo questione di tempo… devi avere pazienza!»
Pazienza, già.


Avanti, ricominciamo.
Uno… due… destro… sinistro…


Una settimana prima, gli era stato prospettato il programma di rieducazione.
Ogni mattina presto, un fisioterapista veniva a massaggiargli vigorosamente schiena e gambe.
Poi gli erano stati insegnati alcuni esercizi, da eseguire più volte al giorno, per tonificare i muscoli di cosce e polpacci.
Nella tarda mattinata era la volta della ginnastica da eseguirsi in una speciale piscinetta piena d’acqua; Tetsuya si era illuso che quei nuovi esercizi fossero meno faticosi, ma regolarmente usciva dalla vasca stremato.
Dopo vari giorni di trattamenti, l’ortopedico venuto a visitarlo si era dichiarato soddisfatto dei risultati raggiunti.
«Ma se nemmeno mi reggo in piedi!», aveva esclamato Tetsuya, scoraggiato dalla lentezza dei suoi progressi. Le sue gambe sembravano ancora due stecchi…
Sentendolo sfiduciato, quella sera Elvy gli aveva fatto un predicozzo: lui avrebbe ripreso a camminare, sarebbe tornato addirittura ad essere quello di prima: ci volevano costanza ed applicazione, e soprattutto nessuna fretta.
«Credi che i muscoli si riformino così?», Elvy aveva schioccato le dita. «Ci vuole tempo!»
«E pazienza», aveva ringhiato Tetsuya.
«E pazienza», aveva confermato lei. «Vedo che stai imparando».


Fino ad allora, tutte le attività di rieducazione erano state concentrate nel mattino; il giorno prima, Elvy era venuta a prenderlo, l’aveva fatto salire su una sedia a rotelle e l’aveva portato in palestra.
Allibito, Tetsuya aveva fissato le due traverse, lunghe sei metri. Avrebbe dovuto aggrapparsi a quelle sbarre per camminare… percorrere tutta quella lunghezza gli era parso un compito irrealizzabile.
Un tempo correvo chilometri e chilometri, si era detto Tetsuya; ora, sei metri mi sembrano un’impresa impossibile.
Ma non era impossibile: aggrappandosi, sforzandosi, stringendo i denti aveva percorso quella distanza una volta, due, tre… ce l’aveva fatta.
Cosa più importante: aveva capito che non gli avevano mentito. Lui avrebbe potuto guarire.


Jun, che era sempre venuta tutti i pomeriggi a trovarlo, l’aveva accompagnato in palestra, dove l’aveva incoraggiato e spronato.
«Credo di essere l’unico malato di questo ospedale ad avere una cheerleader», aveva commentato lui, sfinito, mentre Jun gli apriva una lattina di limonata.
Lei gli aveva sorriso e gli aveva retto la bibita mentre lui, ancora aggrappato alle sbarre, beveva avidamente con una cannuccia; quindi Tetsuya si era rimesso in piedi e aveva ricominciato a camminare. Destro… sinistro…
Jun era stata una presenza costante, nella sua degenza; l’altra, a sorpresa, era stato Koji.
Lui e Jun si alternavano per tenergli compagnia nel pomeriggio: in genere lui veniva sul presto, lei verso sera.
Praticamente, non c’era stato giorno in cui il giovane non fosse venuto a trovarlo: era gentile, sollecito, premuroso. Si comportava come se si fosse sentito in debito nei suoi confronti, e la cosa lasciava in Tetsuya un senso di disagio.
Sono io che mi sento in debito verso di lui. Koji ha perso suo padre… cioè, nostro… insomma, è colpa mia. Non potrò mai perdonarmelo.


Destro… sinistro… destro… capolinea.
Tetsuya riprese fiato, gettando uno sguardo torvo alle due stampelle che qualcuno aveva lasciato appoggiate contro le sbarre. Presto avrebbe potuto cominciare ad usarle, finalmente, e allora avrebbe guadagnato un po’ d’indipendenza.
Quel giorno, non c’era nessuno con lui nella palestra: era stato accompagnato da una giovane allieva, piuttosto inesperta, che si era allontanata dopo averlo aiutato a raggiungere le traverse. Tetsuya era praticamente sicuro che Elvy non l’avrebbe lasciato solo, ma era contento di potersi concentrare sul camminare senza aver nessuno a distrarlo.
Però…
Guardò l’orologio sulla parete: a quell’ora, in genere Koji era già arrivato. Strano…


«Mi spiace aver fatto tardi», Koji entrò a passo svelto nella palestra. «Sono stato trattenuto. Una telefonata».
«Qualcosa d’importante?», Tetsuya raggiunse l’estremità delle sbarre e si voltò, pronto per un nuovo percorso.
«No, niente di speciale», incontrò lo sguardo indagatore del fratello e scoppiò in una risata imbarazzata: non era mai stato bravo a nascondere la verità, lui. «In realtà è importante… non indovineresti mai chi mi ha telefonato».
«Non ci provo nemmeno», Tetsuya mosse un passo, poi un secondo.
«Mi ha chiamato la NASA».
Se anche era sorpreso, Tetsuya riuscì a non darlo assolutamente a vedere: «Ah, sì? E cosa volevano?»
«Ti sembrerà buffo…», Koji era sempre più imbarazzato. «Hanno contattato anche Sayaka, non solo me; ci hanno offerto di andare a specializzarci in robotica spaziale. Capirai, con l’esperienza che abbiamo…»
«Ma certo». La stessa esperienza che ho anch’io. Ma forse alla NASA vogliono studenti sani, non ruderi anzitempo.
«Credo che Sayaka abbia accettato di volata», continuò Koji, sempre più imbarazzato.
«Naturale», rispose Tetsuya, impassibile. «Quando partite?»
«Ecco…», Koji intrecciò le dita, «A dire il vero, io non parto». Deglutì. «Credo che rifiuterò».
Un attimo terribile di silenzio.
Tetsuya si appoggiò con i gomiti sulla sbarra: «Non ho capito bene le ultime parole».
«Ho detto», Koji scandì bene ogni sillaba, «che voglio rifiutare. Mi troverò un lavoro qui, in Giappone. Penso che le proposte non mancheranno».
Il silenzio cadde tra loro. Rimasero immobili a fissarsi, Koji orgogliosamente eretto nella persona, Tetsuya chino in avanti che lo guardava di sotto in su: due contendenti in un duello.
«Sei ancora più idiota di quel che pensassi», sbottò infine Tetsuya. «E bada che ho una buona immaginazione».
«Non voglio discuterne», tagliò corto Koji. «È una decisione mia».
«Visto che mi hai coinvolto in questa scelta, direi che riguardi pure me», osservò seccamente Tetsuya.
«Non è un problema tuo».
«Ragazzino, se sei così imbecille da rifiutare un lavoro alla NASA… la NASA, ripeto… ho qualcosa da dire, eccome! È l’occasione della tua vita, e vuoi gettarla per… per cosa?»
«Solo per mio fratello», sorrise Koji.
Tetsuya non rispose al sorriso: un’ombra parve scendergli sul volto. Poi fissò Koji, gli occhi grigi luminosi e freddi come l’acciaio.
«Non siamo fratelli», disse, reciso. «Fino a poco più di un anno fa nemmeno ci conoscevamo. Non abbiamo nessun rapporto, nessun obbligo, nessun vincolo…»
«Nostro padre voleva che…»
«È morto», ringhiò Tetsuya. «Lui era l’unico legame tra noi. Non c’è più. Fine della storia».
«Però noi ci siamo ancora», insisté Koji. «Noi possiamo…»
«No, non possiamo. Lascia perdere i sentimentalismi e guarda le cose per quel che sono: noi non andiamo d’accordo. Siamo cane e gatto».
«Ma in questi ultimi tempi…»
«In questi ultimi tempi io ti faccio pena, Koji. Lo so. È per questo che porti pazienza; ma la realtà è che noi non ci sopportiamo. Non appena starò meglio, vedrai che ricominceremo a litigare come abbiamo sempre fatto».
«Ma…»
«Non abbiamo nessun legame. Se credi poi che io sia disposto a sopportare ancora le tue sbruffonate da moccioso viziato, il tuo voler fare da solo senza ascoltare gli altri… Koji, sembra che tu ti senta il depositario della Verità. Proprio come stai facendo ora, che decidi da solo cose che riguardano anche gli altri». Scosse il capo, rabbioso: «Giuro che ti picchierei!»
«Ma non puoi farlo» esclamò Koji, trionfante. «Che tu voglia o no, hai bisogno di me».
Tetsuya lo fissò a lungo, in silenzio, e Koji sentì un brivido scorrergli per la schiena: così doveva aver guardato i mostri di Mikenes prima di dar loro il colpo di grazia…
Un istante dopo, una stampella d’acciaio volò sopra la testa di Koji, mancandolo d’un soffio e andando poi a cadere sul pavimento, con un fracasso infernale.
«Ma sei impazzito?», urlò Koji. «Potevi uccidermi!»
«Sì, se avessi voluto farlo». Tetsuya strinse l’impugnatura dell’altra stampella: «Ho ancora una buona mira, Kabuto».
«Sei… sei un criminale!»
«Non ho bisogno di te!», ringhiò Tetsuya, pallido d’ira. «Ma chi ti vuole? Esci dalla mia vita!»
Koji scosse la testa, incredulo. Non aveva mai visto un simile odio negli occhi del fratello… era pazzo di collera, di gelosia. L’essere stato tagliato fuori dalla proposta della NASA era stato troppo…
«Tetsuya, io…»
Suo fratello alzò la stampella, lo sguardo folle: «Vattene!»


«E tuo fratello?», chiese Elvy, che aveva molta simpatia per Koji e che era rimasta male non trovandolo assieme a Tetsuya.
«Un impegno improvviso», tagliò corto Tetsuya.
«Beh, verrà senz’altro domani a trovarti».
«Come no…»
Elvy sospinse verso di lui la sedia a rotelle, l’aiutò ad accomodarsi.
Lui rimase in silenzio, il viso cupo. Gettò uno sguardo alle due stampelle appoggiate contro le sbarre: aveva dovuto strisciare per terra per recuperare quella che aveva scagliato. Riportarla indietro e rimettersi in piedi da solo era stata una vera faticaccia, ma non avrebbe mai voluto che restasse una traccia di quel che era avvenuto là dentro.
«Allora!», esclamò allegramente Elvy, afferrando i manubri della sedia e cominciando a spingerla fuori, nel corridoio. «Abbiamo avuto una giornata proficua, oggi?»
«Altrochè», rispose Tetsuya.


«Koji era sconvolto e furioso», disse quella stessa sera Jun. «Ha detto che non avrebbe voluto litigare con te, ma che tu… beh, non voglio ripetere le parole che ha usato».
«Posso immaginarmele».
«Ha detto che uno come te non merita niente… Tetsuya, ma sei stato proprio così orribile?»
Lui fissò una crepa sul soffitto: «Abbastanza».
«Koji era davvero fuori di sé», continuò Jun. «Dice che non vuol più vederti».
«Tanto meglio».
«Ha telefonato in America. Accetta. Domani andrà a prendere il biglietto aereo».
«Perfetto».
Jun tacque un attimo. «Era proprio necessario trattarlo a quel modo?»
«Certo», rispose lui, improvvisamente stanco. «Altrimenti avrebbe gettato via il suo futuro per star dietro a me. Non potevo permetterlo. Gli ho già fatto abbastanza male».
«Un giorno dovrai dirglielo».
Lui prese una mano di Jun, se la premette contro la guancia: «Un giorno glielo dirò. Promesso».


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Edited by isotta72 - 10/6/2010, 10:30
 
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view post Posted on 9/1/2011, 22:43     +1   -1
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Finalmente ce l'ho fatta, ho finito il racconto (leggi: malloppone) su Kein, di cui qui sotto vi posto il prologo e il primo capitolo.

Ma... c'è un ma: per contenuti e temi trattati, è una FF decisamente più "adulta" di quel che generalmente viene letto su queste pagine. Ho cercato di tenere la mano il più possibile leggera, ma la storia è quel che è.
Mi sento perciò in dovere di avvertire che in particolar modo il primo capitolo, gli altri sono più "tranquilli", può urtare la sensibilità di qualcuno. Se lo desiderate, potete saltare questo primo capitolo, di cui metto sotto spoiler il riassunto, e leggere i successivi.
A tutti, buona lettura.


SPOILER (click to view)
Prologo: Zuril osserva la superficie di Fleed, devastato dal bombardamento al vegatron, e si dice che distruggere un simile pianeta sia stato uno spreco imperdonabile.

Capitolo 1: Nel corso dell'invasione di Fleed, i soldati devastano la casa dell'undicenne Kein e gli uccidono il padre. La madre viene violentata da un gruppo di soldati proprio sotto agli occhi del figlio, che a sua volta viene brutalizzato. Il ragazzo viene poi gettato in un magazzino assieme ad altri ragazzini, tutti sofferenti quanto lui. Dopo alcuni giorni di prigionia da incubo, in cui Kein ha tentato inutilmente di soccorrere una bambina in stato catatonico per lo shock, i ragazzi vengono fatti uscire dalla prigione per venir trasferiti su un'astronave di Vega. Kein ha un'idea fissa: scappare. La bambina e altri piccoli troppo malridotti per venire usati come schiavi vengono uccisi dai soldati.



Se volete commentare: https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=555#lastpost


Prologo

Idiozia pura, si disse Zuril, l’unico occhio fisso sull’enorme immagine che torreggiava sopra di lui.
Sul megaschermo, il pianeta Fleed appariva avvolto da una densa coltre di nuvole d’un malsano giallastro: il bombardamento a tappeto a suon di ordigni al vegatron aveva compiuto la sua opera nefasta. Fleed era un mondo morto.
Zuril serrò le mascelle, stringendo convulsamente i pugni: mesi trascorsi nel vano tentativo di far ragionare Sua Maestà, di convincerlo a conquistare quel mondo fertile senza distruggerlo... infinite ore di lavoro per progettare un attacco che ne avrebbe eliminato la popolazione senza danneggiarne il delicato ecosistema... e poi tutto il tempo trascorso a raccogliere il materiale che suffragava la sua tesi circa il disastro ecologico che incombeva sul pianeta Vega. Da anni si era sforzato di chiedere la riduzione dell’uso del vegatron, così potente, così radioattivo... non era stato ascoltato, anzi, era stato persino deriso. “Zuril, tu e le tue idee ecologiste! Tu non capisci il progresso, la crescita economica...”
Per anni era stato trattato come un profeta di sventura da far tacere; ora, lui sapeva che presto, molto presto Vega avrebbe collassato, stroncato dallo sfruttamento eccessivo. Avere la possibilità di conquistare un mondo fertile ed incontaminato gli era parsa una sorta di ancora di salvezza, e l’aveva fatto presente al sire.
Aveva persino tentato di tirare dalla propria parte il ministro della difesa, Dantus: tra loro non erano mai intercorsi buoni rapporti, ma Zuril aveva sperato che gli interessi comuni avrebbero avuto la meglio sulle loro divergenze. Dantus, per quanto detestabile, non era un imbecille, doveva immaginarsi anche lui che un disastro incombeva sul loro pianeta; e infatti, pur a denti stretti Dantus aveva ammesso di temere qualcosa di simile, ed aveva accettato di parlarne con lui al sovrano.
Disgraziatamente, conquistare Fleed senza danneggiarlo avrebbe richiesto molto tempo; troppo secondo Sua Maestà, che aveva fretta di sterminare gli odiosi fleediani ed aggiungere la conquista di quel pianeta all’elenco dei suoi successi. In questo aveva avuto l’entusiastico sostegno del generale Barendos, comandante in capo delle forze d’invasione del pianeta Fleed. Barendos non era certo uomo da porsi troppi problemi per il futuro: a suo parere i timori di Zuril erano solo teoria campata in aria. Quel che contava veramente era conquistare, dare una prova di forza, annientare totalmente il nemico.
Vista la mala parata, Dantus s’era ben guardato dall’appoggiare Zuril, che si era ritrovato da solo a tentar di convincere Re Vega... un’impresa disperata fin dall’inizio. Il sire non era certo un uomo ragionevole.
Le ragioni della vanità avevano avuto la meglio sul buon senso, e Fleed era stato inesorabilmente distrutto.
Zuril girò di scatto le spalle allo schermo e si allontanò senza voltarsi indietro, il viso fosco.
Un errore enorme, si disse. So già che lo pagheremo caro. Molto caro.


1. La fine di un mondo


Dolore, dolore, dolore.
In quel momento sembrava non potesse esistere altro.
Non avrebbe voluto ripensare a quel che era accaduto, – quando? Secoli prima, o solo pochi giorni? – ma non poteva impedirselo.
Ancora, come in un incubo spaventoso da cui non è possibile risvegliarsi, ripercorse quel che gli era successo negli ultimi tempi… e per l’ennesima volta, rivide la sua vita sconvolta, distrutta. Niente sarebbe mai più potuto essere come prima.


Venne trascinato nel salone e scaraventato in avanti; Kein s’insaccò contro il divano e scivolò sul pavimento, senza fiato.
Il ragazzo sbarrò gli occhi, fissando un qualcosa gettato in un angolo: un mucchio di stracci, sangue… una mano…
Con orrore, si rese conto che quelli che aveva preso per stracci assomigliavano fin troppo ai vestiti che quel mattino aveva visto addosso a suo padre… ma allora…?
Un grido lo strappò da quella mostruosità, gettandolo in un orrore anche peggiore.
Si girò a guardare: un gruppo di soldati che trascinava sua madre.
Kein aveva sempre visto la mamma in perfetto ordine, elegante, mai un capello fuori di posto: quella creatura scarmigliata e dagli abiti stracciati non poteva essere lei! E cosa volevano quei mostri che la circondavano, e che ridevano, ridevano… Voci volgari, che parlavano in un modo osceno che il ragazzo non aveva mai udito prima d’allora.
«…Abbiamo tutto il tempo che vogliamo!»
«Allora possiamo spassarcela!»
«Forza! Chi è il primo?»
Incredulo, Kein vide sua madre venire gettata a terra. I suoi abiti furono strappati, uno di quei mostri si gettò su di lei mentre gli altri li attorniavano, ridendo ed applaudendo. Lei si morse le labbra per non urlare, gli occhi persi in quelli inorriditi del figlio; e mentre Kein si chiedeva disperatamente che stava succedendo, che cosa quegli assassini stessero facendo alla sua mamma, una mano d’acciaio l’afferrò per il collo, lo sollevò da terra gettandolo contro il divano. Kein udì sua madre urlare, guardando qualcosa alle sue spalle che lui non poteva vedere; sentì un corpo gravare su di lui, un colpo forte alla testa, e per un istante fu tutto oscuro. Poi fu un dolore orribile, impensabile, a richiamarlo dalle tenebre.
Urlò e continuò ad urlare, gli occhi persi in quelli morenti di sua madre.


Ancora una volta, fu il dolore a farlo tornare indietro dall’oscurità.
Voci confuse attorno a lui, qualche risata; aprì con fatica gli occhi e si guardò attorno.
Giaceva sul pavimento di… ma era il salotto di casa sua? Con quei mobili rovesciati, le vetrate infrante, le tende strappate? L’immacolato salotto cui la mamma teneva tanto…
La mamma…!
Nonostante il forte dolore alla testa, Kein si sforzò di guardarsi in giro: schizzi rossi sulle pareti, un mucchio informe in un angolo, dove già l’aveva visto… (papà…?) Un sottile corpo bianco chiazzato di rosso, orribilmente contorto… immobile, troppo immobile… (mamma…?)
Kein si rialzò di scatto su un gomito: subito, una coltellata di dolore lo trafisse nelle viscere, facendolo spasimare. Con orrore, il ragazzo s’accorse d’avere le gambe lorde di sangue. Ma cosa gli avevano fatto…?
Ancora quelle voci volgari, quelle risate. Vide quei mostri di Vega che avevano invaso e violato la sua casa, li vide distruggere i mobili per strapparne via gli oggetti più preziosi. Cose che conosceva da sempre distrutte o rubate da quella gentaglia… in preda al furore, Kein fece per rialzarsi ma una nuova spaventosa fitta lo fece cadere al suolo, gemendo per il dolore.
Rimase lì, dimenticato da tutti, per un tempo che gli parve interminabile: nel frattempo, quelle bestie andavano e venivano, razziando e distruggendo quella che era stata la sua casa.
Poi qualcuno si chinò su di lui, sentì un osceno scroscio di risa; il soldato l’afferrò e lo rivoltò sulla schiena, strappandogli un nuovo gemito di dolore.
«Questo qui è ancora vivo».
«Fatti da parte, ci penso io» e uno dei suoi compagni spianò il fucile, puntandolo su Kein.
«Lascia stare, non è così malridotto. Può ancora servire» il primo soldato l’afferrò e se lo gettò in spalla come avrebbe fatto con un pacco; Kein strinse i denti per non urlare, e ancora una volta la tenebra l’avvolse, pietosa, impedendogli di vedere oltre.


Duro, freddo.
Rabbrividendo, Kein riaprì faticosamente gli occhi: nella semioscurità che lo circondava, intravide altre sagome, altri corpi… dove l’avevano portato?
Si rialzò sui gomiti, mosse le gambe e subito un dolore spaventoso lo trafisse, costringendolo a serrare i denti per non gridare. In un flash rivide la sua casa devastata, suo padre… sua madre… i soldati, risentì il dolore rosso che lo devastava, la vergogna, la rabbia, l’umiliazione…
In genere, ci si risveglia con sollievo dai propri brutti sogni; destarsi in un incubo era un qualcosa che Kein non aveva mai provato prima. Era successo davvero, era stato tutto vero…
Non piangere. Non ora.
Kein trasse dei lunghi respiri, sforzandosi di calmarsi: c’erano altri vicino a lui, e non voleva assolutamente farsi vedere piegato dal dolore. Avrebbe resistito.
Seppellì dentro di sé i propri incubi: non voleva pensarci. L’avrebbe fatto un’altra volta, quando ne avesse avuto la forza
Conta il presente.


Quando finalmente si sentì di farlo, si guardò attorno.
Attorno a lui, decine e decine di ragazzi, anche bambini più piccoli di lui; molti giacevano a terra come era costretto a fare lui, che riconobbe in loro il suo stesso dolore, la sua stessa vergogna.
Degli altri, molti piangevano sommessamente, altri tacevano, gli occhi sbarrati nel vuoto; in un angolo, una ragazzina urlava e urlava, isterica, mentre altri la guardavano incapaci di intervenire, di darle soccorso.
Si sforzò di alzarsi puntellandosi sui gomiti, ed ignorando le fitte spaventose che gli attraversavano le viscere: erano stati rinchiusi in un ambiente molto grande... un magazzino, o qualcosa del genere. Alcune finestre, altissime e irraggiungibili, fornivano loro aria e luce; per il resto, là dentro non c’era assolutamente nulla, solo creature dalla vita spezzata.
Kein sentì un’onda di disperazione crescere prepotentemente in lui; non voleva abbandonarsi al dolore. Si guardò attorno, cercando una qualsiasi cosa che potesse distrarlo da sé stesso.
A pochi metri da lui sedeva una ragazzina, praticamente una bimba; aveva i vestiti strappati, il viso tumefatto, le cosce esili macchiate di sangue. Tremava violentemente, incapace di emettere un qualsiasi suono.
Kein si trascinò sulle braccia fino a lei, la strinse a sé; la bambina emise un sospiro e continuò a tremare, lo sguardo fisso, completamente persa in un mondo tutto suo, come se non avesse nemmeno percepito la presenza di lui.


Kein riemerse faticosamente dai suoi ricordi, sperando di non doverli rivivere ancora e ancora.
Accanto a lui, persa in sé stessa, la ragazzina giaceva a terra, gli occhi fissi nel vuoto, totalmente incurante di lui, che continuava a stringerla tra le braccia per farle coraggio – e anche per trarre da lei la forza di andare avanti, di non farsi abbattere.
Ce la farò, continuava a ripetersi, come un ritornello ossessivo. Ce la farò. Ce la farò…


Per quattro giorni, i ragazzi rimasero prigionieri in quel magazzino. Di tanto in tanto venivano soldati a portar loro da mangiare e da bere: ma, come Kein ebbe subito modo di verificare, si trattava sempre di una disgustosa brodaglia ricavata da chissà quali avanzi di cibo, e le porzioni erano molto ridotte. Anche l’acqua, scarsa, era sporca, e ovviamente non ce n’era abbastanza per pulire le ferite, figuriamoci per l’igiene personale. Nonostante le finestre aperte, il puzzo era nauseabondo: escrementi, sudore, corpi non lavati e, sopra tutto, l’odore pungente della paura.
Kein strinse i denti, mentre si sforzava d’inghiottire quel pasto che, nonostante la gran fame, sentiva come immangiabile. Vide che la bambina di cui si era preso cura non aveva mosso un dito verso il recipiente con il cibo: troppo persa in sé stessa, non sentiva forse nemmeno i morsi della fame, chissà... Kein non era riuscito a farla parlare, nemmeno aveva saputo come si chiamasse; occuparsi di lei era diventato per lui un bisogno primario, almeno in quel modo non avrebbe dovuto pensare al proprio personale orrore.
Vide un paio di ragazzini occhieggiare il pasto della bambina, e li cacciò via. Finì d’inghiottire gli ultimi bocconi e cominciò ad imboccare la ragazzina, che teneva i denti serrati. Riuscì faticosamente a cacciarle in bocca qualche cucchiaiata di brodaglia, accertandosi ogni volta che lei deglutisse; nemmeno allora lei lo degnò d’uno sguardo.
Infine, stravolto, sedette accanto alla sua silenziosa compagna, che non batté ciglio.
Prima o poi dovranno farci uscire di qui, e allora troverò il modo di scappare.
Guardò la ragazzina, sempre immobile, e si sentì in colpa: non avrebbe potuto far fuggire anche lei, così totalmente inerte... Passò lo sguardo sugli altri: erano tutti come inebetiti, incapaci di reagire. Da loro non avrebbe avuto nessun aiuto.
Dovrò tentare da solo.
Questo fu il pensiero che continuò ad accompagnarlo per tutto il periodo della sua prigionia in quel magazzino: scappare, scappare, scappare.
Il quinto giorno, i soldati gridarono loro di alzarsi in piedi; tra le urla e gli insulti, spintonati in malo modo, i ragazzi vennero incolonnati e scortati all’esterno, pronti per essere fatti salire su una delle astronavi di Vega.
Mentre usciva da quella che era stata la sua prigione, Kein si voltò rapidamente a guardare: alcuni di loro erano rimasti a terra, chi ferito, chi malato, chi semplicemente ormai troppo lontano da tutto e da tutti, come la bambina di cui in quei giorni lui aveva avuto cura e che nonostante tutti i suoi tentativi non aveva voluto saperne di rialzarsi.
Un paio di soldati entrarono nel magazzino, i fucili spianati; le porte vennero chiuse, i ragazzi fatti allontanare, ma questo non impedì loro di udire il rumore secco degli spari.





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Secondo e terzo capitolo. Qui non ci sono particolari problemi, per cui non metto spoiler o altro. Buona lettura.

Se volete lasciare un commento:https://gonagai.forumfree.it/?t=30613338&st=555#entry435290967

2.Zuril

Scortati da quattro soldati, stretti l’uno all’altro e tenendosi per mano i bambini andavano incontro ad un futuro che era facile immaginare mostruoso. Stavano per venire condotti nel ventre dell’astronave, in una prigione da cui sarebbero usciti solo per finire come cavie umane, o come minatori nei campi di lavoro, o peggio.
Zuril alzò la testa dal display del suo computer portatile e li guardò: un centinaio di marmocchi tra gli zero e i dodici anni, chi agghiacciato dal terrore, chi piangendo apertamente, senza vergogna. I più grandi portavano in braccio i più piccoli, gli altri si stringevano tra di loro in cerca di un conforto impossibile da trovare; tutti erano terrorizzati fin nel più profondo del loro animo.
Fleediani, pensò Zuril. Esseri educati all’emotività, alla bontà, alla generosità... alla debolezza.
Scosse il capo, guardando quelle creature tremanti e piangenti: non avevano torto ad essere così spaventati, il loro destino sarebbe stato sicuramente tremendo. Era raro, rarissimo che una coppia decidesse di prendere un bambino per allevarlo: per quanto il pesante inquinamento avesse diffuso la sterilità su Vega, ben difficilmente la scelta di un figlio adottivo sarebbe caduta su un rampollo di una razza notoriamente debole come quella di Fleed. I veghiani erano guerrieri, erano predatori: l’intimo pacifismo di Fleed ai loro occhi non era altro che intollerabile mancanza di forza di carattere. Un figlio rammollito e privo di spirito guerresco sarebbe stata una vergogna.
Zuril rimase assorto ad osservare quelle creature che andavano incontro al loro destino senza reagire, senza combattere: eppure dovevano sapere che li aspettava un futuro come cavie di laboratorio, come trastullo per qualche ufficiale o come lavorante in una qualche miniera radioattiva; e nonostante questa consapevolezza, niente. Nessuna reazione, nessuna ribellione.
Inerti, fiacchi, deboli fin nel midollo.
Molti di quei bambini erano veramente belli, come tutti gli abitanti di Fleed: peccato che a tanta grazia fossero associate viltà e debolezza... Ma evidentemente, rifletté Zuril, fa parte del loro essere. Non si può andare contro il proprio dna.
E se non fosse così?, si trovò a chiedersi poi. Se fosse un problema d’educazione? Che succederebbe, se si prendesse uno di questi bambini e lo si crescesse come un vero guerriero? Sarebbe interessante scoprirlo...
Un urlo seguito da un trambusto riscosse lo scienziato, che riemerse frettolosamente dai propri pensieri.
Un bambino s’era ribellato ed era sfuggito ai propri carcerieri; tre dei soldati tenevano a bada gli altri piccoli prigionieri, che si erano risvegliati dal loro torpore e stavano seguendo la prodezza del loro compagno, inseguito senza troppo successo dal quarto milite.
Il ragazzino era magro e svelto, tutto gomiti e ginocchia; grande e grosso, il soldato faticava a tenergli dietro mentre gli sfuggiva correndo a zig zag tra i compagni e gli altri tre carcerieri.
Improvvisamente, il piccolo si rivoltò contro il soldato che era sul punto di agguantarlo e gli sferrò un potente calcio in un ginocchio, sfuggendo così alla cattura.
Non male, pensò Zuril. Abilità o fortuna?
Pur dolorante, il soldato riuscì ad acchiappare il ragazzo per un braccio; subito il bambino si rivoltò e gli colpì il polso col taglio dell’altra mano. Con un grido strozzato il soldato fu costretto a mollare la presa.
Abilità, decise Zuril.
Un fremito passò tra i bambini, che vedendo il loro compagno vittorioso si erano improvvisamente animati; subito i tre militi li sospinsero verso la porta. Non era bene che quei prigionieri vedessero il loro compagno farsi beffe di un soldato di Vega.
Incuriosito, Zuril osservò attentamente il ragazzo: appariva teso, concentrato, perfettamente presente a sé stesso. Gli occhi che fissava sul soldato erano seri, attenti e scrutatori: non c’era traccia di paura in lui, solo fredda determinazione. L’impressione era che si sarebbe lasciato ammazzare piuttosto che cedere.
Il soldato si fece avanti per ghermirlo; il ragazzino fu rapido a cacciargli due dita negli occhi e, in rapidissima successione, a sferrargli un pugno in piena faccia.
L’urlo del soldato fu spaventoso; sul cappuccio si allargò una macchia rossa e densa.
Naso fratturato, pensò Zuril.
Uno degli altri militi lasciò i prigionieri e si fece avanti, ma il soldato ferito gli urlò di non immischiarsi: era una faccenda personale, ormai.
Zuril trattenne il fiato: il soldato era imbestialito, c’era il rischio che uccidesse il ragazzo ottenendo così il duplice scopo di vendicarsi e dare agli altri bambini un esempio di cosa succede a chi si ribella. Era prassi comune ammazzare un prigioniero per ottenere la terrorizzata obbedienza degli altri. Fece per intervenire, ma un’occhiata al viso determinato del giovane fleediano lo trattenne: curioso di vedere come avrebbe reagito, attese.
Il soldato fece l’atto di attaccare: rapido, il ragazzo si gettò di lato per schivare l’assalto, accorgendosi un istante troppo tardi che si era trattato di una finta. Con un ruggito di trionfo il soldato afferrò per la collottola la sua vittima, scuotendola come una bambola di pezza.
Intontito ma deciso a non cedere, il ragazzino gli allentò un poderoso calcio in uno stinco; il soldato reagì con un manrovescio che lo lasciò stordito.
«Fermo!» disse Zuril, ma il soldato era troppo inferocito per ascoltarlo.
«Hai finito di fare il furbo, vero?», il soldato gli appioppò un altro schiaffo, e continuò a colpirlo, scandendo con i ceffoni la propria collera: «Questo è perché ti sei ribellato... Questo per i calci... Questo perché impari chi è che comanda qui... Questo...»
«Basta così!», esclamò con forza Zuril, mettendosi in mezzo.
Il soldato s’arrestò con la mano a mezz’aria: «Come dite, signore?»
«Ho detto basta!», Zuril gli afferrò il polso. «Così lo ammazzi!»
«È quel che si merita! Questo bastardo mi ha...»
«Ho visto tutto, soldato», Zuril non mollò la presa. «Però non voglio che tu gli faccia ancora del male. Basta».
«Ma signore...!»
«Ha dimostrato d’avere coraggio e cervello. Merita qualcosa di più che venir massacrato di botte. Lascialo».
«Ma...»
L’unico occhio di Zuril ebbe un bagliore metallico: «Mi hai sentito, soldato?»
Rimasto fino ad allora inerte come un corpo morto, il ragazzo si riprese e agì all’improvviso mordendo rabbiosamente il polso del suo carnefice, e sferrandogli nel contempo un potente calcio. Aveva mirato all’inguine, lo colpì invece all’interno della coscia; furioso, prima che Zuril potesse impedirglielo il soldato scaraventò la sua vittima contro la parete. Il ragazzo batté la testa e s’afflosciò a terra senza un grido.
«Maledetto idiota!» Zuril lo scostò rabbiosamente e si chinò sul ragazzo. Lo rigirò con delicatezza sulla schiena, gli tastò il petto: il cuore batteva. Gli sollevò una palpebra, verificò il respiro: era solo svenuto.
Zuril prese il suo scanner scientifico e lo passò sul corpo esanime del ragazzo: non aveva la precisione di un analizzatore medico, ma per un primo test era più che sufficiente.
Esaminò la testa: non c’era commozione cerebrale. Controllò il resto del corpo: nessuna frattura, solo ematomi. Meglio così.
Zuril si rialzò e si girò verso il soldato: «Buon per te che non l’hai ucciso. Lo prendo io. Fatemi portare i documenti, così regolarizziamo l’acquisto».
I soldati esitarono solo un attimo: quegli schiavi avevano già una loro destinazione... comunque, nessuno avrebbe badato ad un bambino in meno, e loro non volevano assolutamente inimicarsi il potente ministro Zuril.
«Va bene, signore», rispose il soldato, tamponandosi il naso fratturato; con la mano dal polso insanguinato per il morso accennò al ragazzo inerte: «Dove volete che ve lo portiamo?»
«Penso io a lui», Zuril ripose lo scanner. «Voi procuratemi i documenti necessari, verserò il denaro e sarà fatta; e tu va’ a farti medicare».
«Grazie, signore», tenendosi la mano premuta sul viso, il soldato fece cenno agli altri di andare. Inorriditi, i bambini videro il loro compagno in potere di quello spaventoso veghiano... poi ordini vennero urlati, i piccoli prigionieri furono spintonati e condotti via.
Zuril si chinò sul suo nuovo schiavo e lo esaminò rapidamente: undici-dodici anni, magro e nervoso, un gran ciuffo di capelli tra il verde e l’azzurro.
Sarebbe stato interessante scoprire se aveva investito bene il suo denaro.
Lo raccolse con precauzione da terra: non pesava molto. Sogghignò pensando che un affarino da nulla come lui aveva spaccato la faccia ad un feroce soldato di Vega.
Aveva idea che quel ragazzo sarebbe stato un’interessante fonte di sorprese.


3.Patto

Morbido.
Aprire gli occhi fu una fatica indicibile. Ci volle qualche istante perché le immagini sfuocate si facessero nitide ed acquisissero un senso.
Soffitto. Pareti. L’impressione di soffice sotto di sé. Doveva essere sdraiato su un letto, o qualcosa del genere.
Come mosse il capo, una fitta lancinante gli tolse il respiro. Si premette la mano contro la fronte ma il dolore continuò, martellante.
Altro dolore… la schiena, le spalle, il petto, il viso, tutto gli doleva… oltre al dolore segreto alle viscere che non l’abbandonava da giorni.
Improvvisamente ricordò il soldato che l’aveva riempito di botte, e comprese.
Sono prigioniero di Vega, si disse, mentre un misto di rabbia e angoscia montava rapidamente in lui.
I ricordi presero a scorrere nella sua mente: la cattura, la deportazione, i suoi compagni di sventura… quell’orrendo veghiano che aveva cercato di fermare il soldato che lo stava massacrando…
Con fatica, si rialzò su un gomito; la testa sembrava dovesse spaccarglisi dal dolore.
Si guardò attorno: pareti, mobili metallici e lineari.
Aveva creduto di risvegliarsi sul pavimento d’una cella e si ritrovava invece sul divano di uno studio.
Solo allora s’accorse d’un lieve ronzio che proveniva da un angolo: un uomo era seduto a una scrivania, intento a lavorare al suo computer. Kein poteva vederlo solo di spalle, ma non ebbe esitazioni nel riconoscere in lui il veghiano che s’era opposto al soldato.
Assorto nel suo lavoro, l’uomo non s’era accorto che lui, Kein, s’era risvegliato. Proprio sulla parete opposta a quel veghiano s’apriva una porta: se lui fosse riuscito a raggiungerla…
Ignorando la fitta lacerante alle viscere, s’alzò. Occhieggiò l’uomo: nessuna reazione.
Un primo cauto passo verso la salvezza… un altro…
«Se esci da quella porta diventi uno schiavo fuggiasco», Zuril parlò con calma, senza nemmeno voltarsi. «Credimi sulla parola se ti dico che non ti piacerebbe sapere quel che si fa agli schiavi fuggiaschi».
Il ragazzo s’arrestò immediatamente, guardando con palese antipatia l’uomo che aveva davanti. Non aveva certo intenzione di mostrarsi intimorito, anzi! Strinse i pugni e urlò tutta la sua sfida: «Non potete tenermi qui! Io... io troverò il modo di scappare!»
Zuril fece ruotare la sua poltroncina girevole e considerò con attenzione il ragazzino magro e pallidissimo che lo stava affrontando: un mocciosetto capace di rivolgersi a lui con spavalderia nonostante fosse chiaramente spaventato e sofferente. Stava in piedi a malapena e parlava con una simile arroganza... fantastico.
«Ammiro il tuo coraggio», disse infine Zuril, «anche se dimostri una deplorevole mancanza di buon senso. Rassegnati: sei prigioniero, e non hai più nessun posto in cui scappare».
Kein si sforzò d’ignorare le fitte spaventose alla testa: «Tornerò su Fleed! Troveremo il modo di combattervi... noi... »
Zuril scosse il capo, guardandolo con sincero compatimento: «Mi spiace, ragazzo. Temo che non sarà proprio possibile».
«Riuscirò ad andarmene, vedrete!», insisté Kein ostentando una baldanza che non provava affatto. «Scapperò, troverò il modo di tornare su Fleed!»
«Sono sicuro che ci proverai», rispose calmissimo Zuril. «Si tratterà però di un viaggio piuttosto lungo, perché abbiamo lasciato l’orbita di Fleed da parecchio tempo… per la precisione, da due ore, trentasei minuti e diciassette secondi».
«…Cosa…?»
«Se anche tu riuscissi a scappare, evitare di essere ripreso, impadronirti d’un mezzo qualsiasi, pilotarlo fino a Fleed ed atterrare… se tu riuscissi a fare tutto questo, cosa di cui dubito… non sopravvivresti a lungo. Fleed è stato bombardato pesantemente col vegatron, le radiazioni non ti darebbero scampo».
Kein sbarrò gli occhi: «Non ci credo!»
Senza una parola, Zuril digitò qualcosa sulla sua tastiera; un’immagine apparve sullo schermo del monitor. Kein allungò il collo per vedere meglio e Zuril si scostò facendogli cenno d’avvicinarsi.
Fleed, inconfondibile… avvolto in una nuvola d’un malsano giallastro.
«È una nube radioattiva», spiegò Zuril. «Per qualche anno, scendere su Fleed sarà un autentico suicidio».
Kein deglutì, sentendosi la bocca improvvisamente arida. Vacillò, fece un paio di passi indietro, mentre pian piano prendeva coscienza dell’orrore accaduto al suo pianeta: contaminato, distrutto... morto.
«In più, siamo ormai molto distanti», Zuril parlava senza cattiveria: non voleva ferire il ragazzo, solo fargli comprendere la situazione. «Non credo tu sia in grado di pilotare un’astronave e compiere un viaggio interstellare; moriresti stupidamente nello spazio nel tentativo inutile di raggiungere un pianeta morto».
Nello spazio… via da Fleed… Fleed, devastato dalle radiazioni…
Kein non era mai stato così lontano da casa – una casa che nemmeno più esisteva, ormai. Lo assalì uno spaventoso senso di perdita irrimediabile, e il ragazzo sentì cedergli le ginocchia. Un capogiro lo colse, e Kein si ritrovò seduto sul divano, scosso dalle vertigini e con la testa che gli pulsava dolorosamente.
Le lacrime gli bruciavano gli occhi, ma non avrebbe mai pianto davanti a quel veghiano. Sarebbe morto, piuttosto.
Zuril strinse l’occhio, osservandolo; quel che vide dovette allarmarlo parecchio perché si alzò, lo raggiunse in due falcate e passò nuovamente lo scanner su di lui. Rassicurato, Zuril porse al ragazzo un bicchiere d’acqua e due pastiglie bianche e tonde: «Prendile. Ti sentirai subito meglio».
Kein guardò le pastiglie, poi l’uomo, poi ancora le pastiglie, senza accennare di volerle toccare.
«Puoi fidarti», aggiunse Zuril. «Non è veleno. Se avessi voluto ucciderti l’avrei fatto prima, mentre eri svenuto».
Giusto, pensò Kein. La testa gli pulsava sempre più dolorosamente, come se un artiglio d’acciaio stesse conficcandoglisi nel cervello… prese le pillole e le inghiottì, bevendo fino all’ultima goccia d’acqua. Non s’era accorto d’avere così tanta sete.
Accennò timidamente al bicchiere vuoto: «Posso… averne ancora?»
Zuril glielo tolse di mano, lo infilò in una nicchia nella parete e digitò un codice sul display di fianco. Poi gli rese il bicchiere, colmo d’acqua fresca.
Kein lo sorseggiò pian piano, guardandosi attorno. In quel momento, qualsiasi cosa l’avrebbe incuriosito, qualsiasi… pur di non dover pensare a Fleed. A casa sua.
Pareti e pavimenti metallici. Mobili in metallo e plastica. Lieve odore di detergenti chimici… Vega, insomma.
Zuril prese la propria poltroncina e sedette davanti a lui: «Ti senti meglio?»
Con suo grande stupore, Kein s’accorse che il dolore alla testa era quasi completamente scomparso, lasciandogli solo il collo indolenzito e un lieve senso d’intontimento.
«È… passato» mormorò, incredulo.
Zuril aprì un documento, lo scorse: «Ti chiami Kein, non è vero?»
«S-sì», rispose il ragazzo, a disagio.
«Bene». Zuril ripiegò la carta. «Ti ho comperato, per cui d’ora in poi i soldati non potranno più farti del male; solo io avrò il potere di punirti».
Kein trasalì: schiavo! Era uno schiavo… Lui! Di quel veghiano.
«Sono il Ministro delle Scienze Zuril, casomai t’interessasse saperlo», continuò quello che ormai era a tutti gli effetti il suo proprietario. «Non mi piace maltrattare i ragazzini, ma non sopporto stupidità e disobbedienza, tanto vale che tu lo sappia subito. Comportati bene, e andremo d’accordo. Hai capito?»
«Sì…»
Zuril lo guardò in tralice: «Sì, cosa?»
Per un paio di secondi che gli parvero eterni, Kein non comprese; poi, all’improvviso capì cosa intendesse Zuril: «Sì, signore. Come volete».
Zuril scosse il capo: «Puoi darmi del tu. Sarebbe ridicolo continuare con le cerimonie, non trovi?»
Già, niente formalismi con uno schiavo... «Come vuoi, signore» .
«Perfetto». Ora che il suo schiavo aveva capito qual era il suo posto, Zuril riprese, discorsivo: «Sarai contento di sapere che non ti manderò a scavare in una miniera, né intendo ammazzarti di fatica in un campo di lavoro».
«Perché mi hai comprato, allora?», chiese bruscamente Kein. «In genere, voi veghiani non usate gli schiavi per i lavori più pesanti e pericolosi?»
«In genere sì», rispose Zuril, imperturbabile. «Ovviamente, possono esserci anche delle eccezioni».
Kein sentì marcargli il fiato: forse...? Inorridito, fissò Zuril con autentico raccapriccio. Sarebbe morto, piuttosto!
«No, oh no», rispose ridendo lo scienziato allargando le mani in un gesto di pace. «Non è quello che pensi. Puoi stare tranquillo». Vide che Kein lo guardava un po’ di traverso ed aggiunse, fissandolo in viso perché comprendesse che gli stava dicendo la verità: «I ragazzini non m’interessano; e poi hai la stessa età di mio figlio».
Kein tacque, sentendosi la bocca improvvisamente arida, e si limitò lanciare al suo interlocutore un’occhiata poco convinta.
«Non ho bisogno di un giocattolo», tagliò corto Zuril. «Ho intenzione di compiere un esperimento scientifico, e tu mi aiuterai».
Terrorizzato, Kein s’addossò allo schienale del divano, gli occhi sbarrati.
«Non intendo vivisezionarti, se è questo che ti preoccupa», con un gesto secco, Zuril parve spazzar via quell’atroce eventualità; quindi prese a spiegare rapidamente i suoi dubbi circa l’importanza dell’educazione e del dna per avere un vero guerriero.
Immobile, Kein ascoltava senza comprendere granché: secondo quel suo padrone, l’educazione che veniva impartita su Fleed era errata, il pacifismo, il rispetto dell’avversario erano sbagliati… lui faticava a comprendere.
«Io… credo di non capire», mormorò, confuso. «Tu, signore, mi hai comperato per… per educarmi come un veghiano?»
«Ti ho visto combattere con quel soldato», spiegò Zuril. «Hai dimostrato d’avere coraggio e cervello. È un peccato sprecare queste qualità ammazzandoti di lavoro in qualche cava. Ho deciso di farti istruire come uno dei nostri ragazzi; però voglio dei risultati. Questo dev’esserti chiaro».
«Sissignore», balbettò Kein. L’alternativa dei campi di lavoro lo terrorizzava.
«Voglio vedere cosa diventerà un ragazzo di Fleed addestrato come un guerriero di Vega», continuò Zuril. «Noi diciamo di voi che siete gente debole, senza spina dorsale; tu potrai dimostrarmi che voi siete forti, sono solo la vostra educazione e filosofia ad essere sbagliate».
«C-certo, signore», Kein si sentiva soffocare. Non capiva perché ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, ma avrebbe fatto di tutto per non deludere Zuril… e per non finire in fondo a qualche miniera.
«Avrai le stesse possibilità di un ragazzo di Vega». Zuril gli posò le mani sulle spalle e lo guardò dritto negli occhi: «Voglio vedere cosa riusciremo a cavare, da te. Dimostrami il tuo valore, e hai la mia parola che saprò ricompensarti come nemmeno t’immagini».

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4. Incubi

«Signore», chiese timidamente Kein, «potrei lavarmi? Mi sento sporco».
«Forse perché sei sporco», osservò Zuril.
Risentito, il ragazzo si voltò di scatto verso il suo padrone, ma non percepì cattiveria in lui; al contrario, nonostante la sua estrema serietà nel suo unico occhio guizzava una scintilla d’umorismo. Suo malgrado, Kein sorrise lievemente.
«Quello è il bagno», Zuril accennò ad una porta, «troverai tutto quel che ti serve». Considerò con aria disgustata gli abiti di Kein, sporchi, stracciati ed insanguinati, poi osservò con occhio critico il ragazzo, valutandone l’altezza e la corporatura: «Hai bisogno di un cambio di vestiti. Vedrò per il momento che cosa posso procurarti».
Andò ad un pannello nella parete, lo aprì e digitò sulla tastiera una serie di comandi; come Kein avrebbe saputo successivamente, in quel modo potevano essere dati ordini ai robodomestici per qualsiasi esigenza, dall’ordinazione di un cibo alla richiesta di un farmaco... o, in questo caso, per la confezione d’un indumento.
Zuril lesse rapidamente la risposta sul monitor ed assentì, soddisfatto: «Vai a lavarti. Vedrai che poi troverai pronti i vestiti nuovi».
«Grazie, signore» rispose Kein, chiudendosi nel bagno; venne poi colto dall’idea che Zuril, scrupolosamente pulito ed attento all’igiene come tutti i veghiani, non sopportasse aver attorno uno schiavo sporco e maleodorante e si sentì un po’ meno grato nei suoi confronti.
Si liberò con sollievo dei suoi stracci luridi e puzzolenti, e si chiuse nella cabina della doccia; impostò sul display la temperatura dell’acqua, scelse a casaccio un sapone sperando che non emanasse fetore di disinfettante e s’infilò sotto il getto tiepido.
Dopo giorni di sporcizia, poter finalmente usare una doccia ad ultrasuoni era un po’ come sentirsi tornare un essere umano. Kein s’insaponò vigorosamente (tra l’altro, il sapone aveva un aroma un po’ secco e asprigno per nulla spiacevole) e si sciacquò frizionando la pelle fino a farla dolere. Voleva levarsi di dosso fin l’ultimo residuo di sporcizia, quasi avesse potuto eliminare con il lerciume anche quel che era successo in quella spaventosa prigione. Si lavò con cura anche i capelli; sotto le dita sentì le croste di sangue, un ricordo del soldato cui aveva tentato di sfuggire poche ore prima.
Asciugatosi, si esaminò rapidamente in uno specchio: dopo vari giorni di semidigiuno il suo corpo magro appariva tutto spigoli, le ossa sembravano dovessero bucargli la cute. Lividi e croste di sangue maculavano la sua pelle pallida, i capelli penzolavano un po’ flosci ai lati del suo viso smunto; ma era vivo. Quel che più contava, aveva un minimo di sicurezza, di certezza nel futuro. Era uno schiavo, ma a quanto pareva il suo padrone non era un uomo spietato: una fortuna indicibile, per un prigioniero di Vega.
Si avvolse in un telo da bagno e fece capolino alla porta: come promesso, sul tavolo erano posti dei vestiti accuratamente piegati. Kein li prese: biancheria, pantaloni e una tunica blu. In terra, un paio di stivali.
Accanto agli abiti c’era un tubetto di crema: lo rigirò tra le mani, senza capire.
«È per te», Zuril, che sedeva alla sua scrivania, girò la sedia verso di lui. «Ti ho esaminato con il mio scanner per controllare il tuo stato di salute... so cosa ti è stato fatto».
Kein sentì la vergogna fargli avvampare le guance e chinò il capo.
«Sono... sono delle bestie», mormorò infine, stringendo i pugni.
Zuril tacque. Violentare i prigionieri era uno dei modi più usati per incutere terrore, per stroncare qualsiasi desiderio di ribellione; personalmente, lui aveva sempre considerato la cosa con estremo disgusto. Uomo logico, sapeva che esistono mezzi molto più sottili ed efficaci per ottenere obbedienza e sottomissione; tuttavia, era conscio di non poter pretendere simili finezze dalla truppa.
«Mi dispiace» aggiunse, ed era la verità.
Kein ricacciò indietro le lacrime. Non voglio piangere, non davanti un veghiano...
Si richiuse in fretta nel bagno, ma portò il tubetto di crema con sé.
Quando uscì, parecchio tempo dopo, aveva gli occhi arrossati ma aveva riacquistato un perfetto autocontrollo; con suo grande sollievo, la crema gli aveva lenito in gran parte il dolore, che in quei giorni non l’aveva mai abbandonato. Guardò Zuril quasi sfidandolo a dirgli qualcosa, ma per fortuna lui sembrava aver dimenticato completamente quel che era successo poco prima.
I vestiti nuovi gli andavano bene di lunghezza, anche se gli erano un po’ larghi; incerto, Kein teneva in mano i suoi abiti vecchi, sporchi e strappati.
«Gettali via», disse Zuril.
Kein esitò: erano tutto quel che gli restava di Fleed, della sua vita passata. «Signore, vorrei... vorrei tenerli. Se è possibile».
Zuril fece per sbottare, ma era un uomo troppo sensibile per non comprendere il desiderio del ragazzo, e si riprese subito: «Se proprio ci tieni... però falli lavare».
Stavolta il sorriso di Kein fu più aperto: «Grazie, signore!»
Entrò un robodomestico, portando due vassoi termici; improvvisamente, Kein s’accorse d’avere veramente fame. In quei giorni di prigionia, i pasti erano stati molto diradati e scarsi.
Il ragazzo fece per impossessarsi d’un vassoio; sentì su di sé lo sguardo di Zuril e si tirò subito indietro. Era uno schiavo, era uno schiavo! Gli schiavi mangiano e vivono solo finché viene loro concesso...
Zuril sedette al tavolo; vide il viso smunto di Kein, intercettò il suo sguardo d’animale affamato e gli fece cenno di sedersi. Non voleva tormentarlo: solo, ci teneva che il ragazzo capisse da subito quale fosse il suo posto.
Cominciarono il pasto; o meglio, Zuril interruppe quasi subito il suo e rimase a guardare Kein che divorava sistematicamente ogni cosa. Solo quando ogni piatto del suo vassoio fu vuoto, il ragazzo s’accorse che il suo padrone lo stava fissando.
Ho fatto qualcosa che non va?, pensò Kein, preoccupato.
«Avevo... avevo fame», mormorò, a mo’ di scusa.
Un lampo d’umorismo scintillò nell’occhio di Zuril: «Ho avuto quest’impressione».
Non avendo molto appetito, allungò al ragazzo uno dei propri piatti, ancora intatto; incredulo, Kein lo vuotò rapidamente.
Sentendosi finalmente sazio come da fin troppo tempo non gli era più accaduto, il ragazzo s’appoggiò con le spalle allo schienale della sua sedia; subito, come su comando, una spaventosa stanchezza s’impadronì di lui. La testa gli ciondolò sul piatto, gli occhi gli si chiusero. Si rialzò di scatto, ma sentì che non avrebbe potuto restare sveglio a lungo.
«Hai bisogno di dormire», quella di Zuril non fu una domanda.
Kein soffocò uno sbadiglio, e ancora gli ricadde la testa: «Sì, signore».
«Ci sistemeremo meglio quando saremo arrivati», disse Zuril; passò nella propria camera, uscendone con una coperta che tese a Kein: «Intanto, tu puoi usare il divano».
Kein lo guardò con scetticismo: nonostante poco prima vi fosse stato disteso sopra, quel mobile gli pareva troppo squadrato e lineare per essere accogliente. Dovette sedervicisi per comprendere che era molto più comodo di quanto non potesse apparire a prima vista. Si tolse gli stivali, s’allungò sui cuscini avvolgendosi nella coperta e s’addormentò all’istante.


Zuril si ritrovò sveglio e seduto sul letto, chiedendosi confusamente cosa fosse successo; l’urlo si ripeté, viscerale, quasi disumano, e il ministro d’un balzo fu fuori dalla sua stanza.
Sul divano, Kein s’agitava convulsamente, la bocca spalancata in un grido d’angoscia. Zuril si chinò su di lui, lo scosse; il ragazzo continuò ad urlare, gli occhi sbarrati e fissi, incapaci di vedere nulla che non fosse lo spaventoso incubo che lo tormentava.
Sempre chiamandolo, Zuril cercò ancora di destarlo, ma fu inutile: perso nei suoi orrori, il ragazzo continuava ad urlare, agitandosi sempre più pazzamente. Zuril dovette rinunciare a scuoterlo, preferendo afferrargli i polsi e tenerlo bloccato: nelle condizioni in cui era, Kein avrebbe potuto farsi del male, era meglio trattenerlo finché non fosse rientrato in sé.
Zuril tentò di nuovo di chiamare Kein, ma il ragazzo, sentendosi immobilizzato, si dibatté ancora più furiosamente, rivelando di possedere in quel suo corpo gracile una forza notevole. Per quanto fosse un adulto robusto, non volendo fargli del male Zuril faticò parecchio bloccarlo: il ragazzo si divincolava come una serpe, e pareva sempre sul punto di riuscire a liberarsi. Alla fine, stremato, Kein cedette e smise di combattere, mentre le sue grida si spezzavano in singhiozzi convulsi. Nonostante avesse smesso di lottare, Zuril continuò a trattenerlo: Kein avrebbe potuto riprendere ad agitarsi come un forsennato, e allora…
Un’esclamazione soffocata, e Kein parve finalmente rientrare in sé: fino ad un istante prima si era trovato in quella spaventosa prigione, con i soldati che… che gli… e invece…
«Va meglio, ora?» Zuril lo lasciò libero, pronto però ad afferrarlo ancora se la crisi fosse ripresa.
Kein si guardò rapidamente attorno, come cercando una conferma del posto in cui si trovava, prima di rivolgersi a Zuril: «Signore…? Ma che è successo?»
«Un sogno». Zuril gli toccò la fronte: niente febbre. «E, a giudicare da quanto hai urlato, un sogno davvero brutto».
I ricordi lo sommersero, e l’orrore lo sopraffece; Kein si coprì il viso con le mani, mentre un brivido incontrollato lo scuoteva da capo a piedi. Zuril s’era aspettato a questo punto un pianto salutare e liberatorio; Kein invece prese a tremare sempre più violentemente, i denti che gli battevano fino a dolergli, ma non emise suono.
Zuril scattò in piedi e sparì nel bagno, tornandone poi con un bicchiere colmo d’acqua: «Kein, bevi».
Il tono non ammetteva repliche, e il ragazzo tentò d’obbedire: afferrò il bicchiere, ma le mani gli tremavano talmente da rischiare di fargli rovesciare l’acqua. Con fermezza, Zuril gli pose il bicchiere contro le labbra, costringendolo a bere.
L’acqua era fresca ma singolarmente amarotica; Kein avrebbe voluto respingere il bicchiere ma Zuril fu irremovibile, e lo costrinse a vuotarlo fino all’ultimo sorso.
Il ragazzo ricadde sul divano stringendosi convulsamente le braccia attorno al corpo magro; si vergognava troppo per chiedere cosa gli stesse succedendo, ma…
«Una crisi nervosa», disse Zuril, che pareva avergli letto nella mente. «È perfettamente normale, data la situazione. Presto starai meglio».
Kein fissò il bicchiere, poi guardò Zuril con aria interrogativa; ancora una volta, il veghiano parve aver indovinato il suo pensiero.
«Ti ho dato un sedativo», spiegò. «Un bel sonno non può farti che bene».
Il ragazzo sbarrò gli occhi: sonno significava sogni, e per nulla all’universo lui avrebbe voluto piombare ancora in quel terrificante incubo, che…
«Non voglio dormire!», esclamò, d’impulso.
«Non dire sciocchezze, tu devi dormire», tagliò corto Zuril. «Con il calmante che ti ho dato, vedrai che non avrai più incubi. …Cos’avevi sognato? La prigione, i soldati…?»
Kein si sentì avvampare: « …Sì…»
Il viso severo di Zuril parve raddolcirsi: «Mi dispiace, Kein. Ci vorrà del tempo, naturalmente, perché tu possa…»
«Non dimenticherò mai!»
Ci credo! «Potrai però imparare a superare la cosa».
Kein sbadigliò, sentendosi intorpidire. Evidentemente, il sedativo stava funzionando. Senza quasi accorgersene si lasciò scivolare nel sonno, rannicchiandosi su un fianco. In un ultimo barlume di coscienza si tirò addosso un lembo della coperta.


Il giorno successivo, Kein si risvegliò a fatica: si sentiva intontito, gli occhi granulosi. Gettò le gambe giù dal divano, e il suo corpo cominciò ad inviargli molteplici segnali di dolore. Quando provò a rialzarsi, una fitta spaventosa gli ricordò ancora una volta cosa gli era stato fatto giorni prima dai soldati… come se avesse potuto dimenticarselo.
«Oggi va male», quella di Zuril non era una domanda. Lo scienziato era in piedi da chissà quando, ed era già al lavoro al suo computer.
Kein chinò la testa, le guance in fiamme, e non rispose. Una volta chiuso in bagno si lavò con delicatezza e applicò la crema, che come il giorno prima gli diede un immediato sollievo. Provò a ruotare il collo, flettere i muscoli: non c’era parte del suo corpo che non gli dolesse. Il soldato l’aveva picchiato per bene, niente da dire.
Si esaminò allo specchio: gran parte del torace era ricoperto di lividi. Aveva una guancia gonfia e violacea, altri segni sul mento e sul collo, dove le dita brutali del soldato l’avevano stretto fin quasi a soffocarlo. Spalle e schiena erano maculate di chiazze scure.
Kein uscì dal bagno e zoppicando si trascinò fino al tavolo, dove l’attendeva un vassoio termico. Zuril lasciò a sua volta il lavoro per fare colazione.
«Qualcosa non va?», chiese Zuril, sentendosi addosso lo sguardo stupefatto del ragazzo.
Kein si schiarì la voce: «Non credevo che i veghiani avessero l’abitudine di mangiare in compagnia». Aveva sempre considerato il popolo di Vega troppo chiuso ed egoista per poter provare la gioia di condividere un pasto.
«Io sono di Zuul», gli fece notare Zuril.
«Oh… ?», un nome che non conosceva affatto.
«Zuul è una colonia», spiegò Zuril. «Discendiamo da un gruppo di coloni di Vega; apparteniamo allo stesso popolo, ma abbiamo da troppi secoli abitudini e mentalità diversi per considerarci uguali».
«Capisco…»
«E comunque, nonostante quel che puoi pensare, i veghiani non sono così… diciamo, strani. Qualcosa mi dice che col tempo rivedrai qualcuna delle idee che ti sei fatto su di noi».
Kein aveva i suoi robusti dubbi, circa questo; ma preferì tacere.
Sollevò il coperchio del vassoio: un paio di piatti con cibi che ancora non conosceva, e una tazza colma d’un liquido fumante d’un color ambra scuro. Un profumo forte e aromatico gli solleticò le narici. Lo assaggiò cautamente: gli parve molto buono.
«Si chiama ween», spiegò Zuril, mentre il ragazzo sorseggiava con gusto la sua bevanda. «È un infuso molto comune, da noi».
«Non l’avevo mai provato», e in un paio di sorsi Kein vuotò la sua tazza.
«A quanto pare, qualcosa di buono in noi l’hai trovato», commentò leggermente Zuril, mentre osservava Kein divorare ogni cosa. Quando ebbe finito di mangiare, il ragazzo si sentì nuovamente stanco, assonnato. Sembrava impossibile, ma nelle sue condizioni anche mangiare costava fatica.
Zuril, che si era alzato per tornare al suo computer, cambiò idea, prese il suo scanner ed esaminò nuovamente Kein.
«Abbiamo davanti a noi un viaggio di parecchi giorni», disse, spegnendo l’apparecchio. «Ti conviene approfittarne per dormire quanto più ti è possibile, in modo da recuperare le forze».
Kein impallidì e scosse la testa.
Zuril comprese: «Gli incubi?»
«Sì…»
Senza una parola, lo scienziato gli porse un bicchiere d’acqua: aveva lo stesso sapore amarotico di quella che gli aveva dato la notte precedente. Kein bevve; poi si trascinò sul divano, gli occhi che già gli si chiudevano.


5. Guarigione

Era la prassi, per i medici di Vega, far dormire il più possibile i loro pazienti: in quel modo il corpo poteva impiegare tutte le proprie energie per la guarigione, e in più il malato non era costretto a sopportare dolori e fastidi. Lo stesso veniva fatto per chi aveva subito un trauma psicologico, un lutto, un dolore insopportabile: era teoria accettata da tutti i medici che nel sonno il cervello si disponesse ad affrontare meglio lo shock.
Kein si svegliò non seppe quanto dopo: chiusi in un’astronave, non era facile percepire lo scorrere del tempo. Aprì gli occhi, si guardò in giro: passò con lo sguardo sulle pareti metalliche, udì il lieve ronzio del computer di Zuril...
...improvvisamente rivide suo padre cadere a terra, stroncato da un raggio energetico, rivide la sua casa invasa e devastata, sentì la vergogna crescere in lui mentre il suo dolore segreto lo faceva spasimare... e poi rivide gli occhi di sua madre mentre si spegnevano poco a poco...
Non poté trattenersi: pianse, pianse, pianse senza più nessun ritegno. Pianse la sua famiglia sterminata, la sua casa distrutta, il suo mondo devastato. Pianse la sua vita annientata, pianse la sua vergogna, pianse la sua rabbia impotente... non poté fermarsi. Non provò nemmeno a farlo.
Quando si riprese, alzò timidamente la testa e occhieggiò Zuril: concentrato sul suo lavoro, non s’era nemmeno voltato. Probabilmente non s’era accorto di nulla.
Si rimise in piedi, e le ginocchia gli vacillarono, mentre un nuovo spasmo alle viscere gli faceva mordere le labbra per non emettere alcun suono. Mosse un passo barcollante verso il bagno, cercando di non far rumore: avrebbe dovuto passare proprio dietro a Zuril, ma forse...
Lo scienziato ruotò la poltroncina verso di lui, e gli fece cenno d’arrestarsi. Kein obbedì, rimanendo a capo chino in modo che i capelli gli ricadessero sul viso. Zuril tese una mano e lo costrinse ad alzare il mento: vide gli occhi rossi e gonfi ed assentì, soddisfatto.
Il ragazzo lo guardò con aria di sfida: aveva pianto, certo. Adesso, se solo quel veghiano sempre così freddo e controllato gli avesse detto qualcosa... se solo ci avesse provato...
Zuril gli batté leggermente su una spalla: «Va meglio, adesso?»
Incredulo, Kein si limitò ad annuire.
Poco dopo, mentre si risciacquava il viso cercando nell’acqua fresca un po’ di sollievo per gli occhi che gli bruciavano, Kein rifletté sull’accaduto. Il suo padrone appariva come un uomo controllatissimo, e lui era stato sicuro che avrebbe considerato il piangere come una debolezza: s’era aspettato un rimprovero, o almeno del sarcasmo, e invece niente. Zuril era sembrato addirittura contento che lui avesse pianto... mah!
Kein scosse il capo: dubitava che sarebbe mai riuscito a capire quel veghiano.


Nei giorni successivi, Zuril continuò a tenere Kein sotto controllo con lo scanner; il ragazzo si muoveva un poco per la cabina, consumava un pasto e poi prendeva un sedativo, sprofondando in un sonno ristoratore. Allora, lo scienziato tornava al suo lavoro.
Come promesso da Zuril, il sedativo impediva l’insorgere di incubi; disgraziatamente, in sogno spesso si presentavano alla mente di Kein le persone che aveva amato e i luoghi in cui aveva vissuto. Rivedeva i suoi genitori, i suoi amici, la sua casa; poi, il risveglio cancellava tutto in un istante. I ricordi gli piombavano addosso come macigni, e il ragazzo doveva stringere i denti per non urlare la sua disperazione. Sognare la sua felicità perduta gli rendeva ancora più penoso il presente: certo, Zuril era gentile con lui, ma… ma…
Il viso affondato nel cuscino, Kein restava immobile a lungo, fingendo di dormire e piangendo invece tutta la sua disperazione. Continuavano allora a tornargli in mente le cose più diverse: il tono di voce di suo padre, il tocco leggero di sua madre che aveva un modo tutto speciale di carezzargli la testa. Poi la sua casa, la sua cameretta, i suoi giochi; i suoi amici, i parenti, i suoi insegnanti, tutto ciò che aveva perduto gli si ripresentava con il nitore delle cose indimenticabili. Alle volte, era un piccolo particolare a tornargli in mente, facendolo spasimare: la sua tazza azzurra con una minuscola crepa, che la rendeva unica. Oppure un angolino speciale del giardino di casa sua, dove spuntava sempre un ciuffo di fiorellini bianchi a forma di stella.
Era un Kein sempre molto pallido e dagli occhi rossi e gonfi quello che infine si alzava dal divano; il suo corpo stava finalmente guarendo, i lividi si riassorbivano, ma non c’era nulla che potesse dare pace al suo spirito. In silenzio, andava a sedersi accanto a Zuril, che immancabilmente era al lavoro al suo computer.
In quei momenti, Kein avrebbe dato qualsiasi cosa per un contatto fisico, per sentirsi abbracciare, udire qualche parola dolce; purtroppo, Zuril non sembrava in grado di aiutarlo in questo. Era gentile con lui, si preoccupava del suo benessere, ma rimaneva sempre remoto. Confusamente, Kein si chiese se fosse mai stato capace di manifestare affetto per qualcuno… per suo figlio, forse.
Da parte sua, lo scienziato intuiva la tempesta che devastava il suo piccolo schiavo: sapeva che molti prigionieri impazzivano, dopo aver perso completamente ogni cosa, e sapeva anche di poter far ben poco per aiutare Kein a superare il trauma. Contava più che altro sulla sua forza d’animo e sulla giovane età: il ragazzo doveva farcela, e doveva riuscire da solo.
In quel modo, passarono vari giorni: Kein cominciava a sentirsi il corpo meno dolorante, e chiese a Zuril di permettergli di dormire un po’ meno. Voleva sospendere il sedativo, trascorrere da sveglio qualche ora.
Si sentiva però svogliato, totalmente inerte: provava a distrarsi con un videolibro, ma la lettura aveva perso per lui ogni fascino. La musica non era che rumore, e qualunque spettacolo olografico gli sembrava scipito. Trascorreva allora il tempo sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, totalmente incapace di trovare interesse in qualcosa.
Il suo corpo nel frattempo era quasi completamente guarito, anche se molto debole; dopo averlo esaminato con lo scanner, Zuril, che dopo ore al computer aveva bisogno di muoversi un poco, gli propose di visitare l’astronave.
Senza una parola, il ragazzo lo seguì lungo camere e corridoi, mentre Zuril gli dava informazioni un po’ su tutto. All’inizio, il ragazzo lo ascoltava più che altro per educazione; poi cominciò a fare una domanda, e dopo un’altra. Zuril amava dare spiegazioni, e le domande di Kein erano poste con intelligenza; poco a poco il ragazzo prese a scuotersi dalla sua abulia, interessandosi veramente a quanto gli veniva illustrato.
Zuril avrebbe voluto condurre Kein anche nell’osservatorio dell’astronave per vedere le stelle, ma il ragazzo cominciò a dare evidenti segni di stanchezza: ci sarebbe stato un tempo anche per questo.
Quando infine fecero ritorno al loro alloggio, Kein non era certo di umore allegro, ma si era almeno scosso dall’apatia, e questo era precisamente quel che aveva voluto Zuril.
Dopo aver consumato un buon pasto, il ragazzo andò a sdraiarsi disponendosi a dormire.
Si sentiva ancora triste e depresso, ma senza che se ne fosse reso conto qualcosa in lui stava lentamente germogliando: il suo desiderio di vivere, che in realtà era stato solo sopito da Vega, e non ucciso.






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view post Posted on 20/1/2011, 19:07     +1   -1
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Nuova puntata, dove incontriamo un po' di vecchie conoscenze.


6. Vega

Avvolto nella sua coperta, Kein dormiva profondamente.
Zuril si chinò su di lui, gli batté su una spalla: «Avanti, svegliati».
Il ragazzo non si mosse. Zuril dovette scuoterlo con una certa energia, per vederlo finalmente reagire.
«Che succede…?» Assonnato, Kein faticava a tenere gli occhi aperti.
«Siamo entrati nell’orbita di Vega. Il nostro viaggio è finito. Alzati, dobbiamo andare».
Improvvisamente sveglio, Kein gettò le gambe giù dal divano. Si precipitò in bagno, uscendone poi rivestito, il viso ancora umido e i capelli ravviati. L’idea di sbarcare su Vega lo angosciava non poco, e non voleva rischiare di tardare e venire magari separato da Zuril, la cui presenza gli dava un minimo di sicurezza. Ripiegò in fretta i suoi vestiti, infilandoli in una sacca, e controllò rapidamente di non aver dimenticato nulla.
Zuril, che aveva osservato con un certo divertimento l’agitazione del ragazzo, scosse la testa: «Va bene spicciarsi, ma non esagerare. Hai fame?»
Improvvisamente, il ragazzo realizzò d’aver lo stomaco completamente vuoto: «Molta, signore».
Un ordine di Zuril, e un robodomestico portò due vassoi termici. Mentre consumava il proprio pasto leggero, e mentre Kein divorava le abbondanti porzioni che gli erano state portate, Zuril spiegò rapidamente quello che avrebbero fatto nei giorni futuri.
«Non staremo a lungo su Vega» disse, versandosi una tazza di ween. «Rimarremo solo per qualche tempo, devo ultimare le mie relazioni su…» una lievissima esitazione «quello che è successo su Fleed. Poi ci trasferiremo su Zuul».
«Bene, signore». Kein odiava il pensiero di restare su Vega, non aveva idea di come fosse Zuul, aveva un concetto decisamente fosco del suo futuro e preferì non sbilanciarsi troppo.
«Potremmo stare su Vega fino a quando mio figlio non abbia terminato l’anno scolastico: in realtà, manca molto poco. Io però preferisco vivere su Zuul quanto più mi è possibile» nonostante Kein si sorvegliasse, Zuril aveva compreso il suo stato d’animo, per cui aggiunse: «Sono sicuro che quando saremo là capirai anche tu il motivo di questa mia preferenza».
Kein inghiottì un po’ di ween. «Certo, signore». In realtà, aveva i suoi forti dubbi: non vedeva come fosse possibile preferire uno dei pianeti di Vega rispetto ad un altro. Notoriamente, si trattava di mondi inquinati, al limite dell’invivibile. Era certo che avrebbe odiato anche Zuul.
«A dire il vero», continuò Zuril, fingendo di non aver rilevato lo scetticismo del ragazzo «le mie ferie cominciano più tardi. Mi prendo sempre il mio periodo di riposo in concomitanza con le vacanze di Fritz; comunque, per quel che attualmente devo fare posso lavorare anche da casa mia». Da quella persona ordinata che era, impilò i piatti e raccolse le posate, mentre Kein finiva di ingollare gli ultimi bocconi. Poi Zuril si mise a tracolla la valigetta con il suo computer personale e lo scanner; la sua robovaligia, ripiena dei suoi effetti personali, si staccò da una parete, pronta a tenergli dietro. Kein afferrò la sua sacca e se la gettò in spalla, seguendolo poi nel corridoio dell’astronave.
Zuril percorse corridoi e prese ascensori, muovendosi con estrema disinvoltura in quell’enorme astronave; Kein continuava a seguirlo senza capire bene dove fossero diretti. Aveva completamente perso l’orientamento; mentre scendevano nel ventre della nave stava quasi per azzardarsi a fare una domanda, quando davanti a lui si aprirono i portelli automatici dell’ascensore, rivelando un enorme hangar. Navette di varia taglia erano ordinatamente allineate, in attesa. Zuril si diresse senza esitazione verso un mezzo allungato dall’aria veloce: era la sua navetta personale, come Kein avrebbe capito in seguito. Salirono, deposero i bagagli; Zuril si mise ai comandi e Kein prese posto accanto a lui.
Guardandolo attraverso il vetro dell’astronave, il grande pianeta Vega appariva avvolto da una malsana atmosfera rossastra: abituato ai cieli azzurri e alla luce di Fleed, a Kein quel mondo dall’aria perennemente caliginosa diede subito un’impressione sgradevole.
Mentre scendevano lentamente verso la superficie violacea del pianeta, Kein esaminò l’immagine ingrandita sullo schermo.
Vide città e città, ampie aree ricoperte da costruzioni; oltre, zone livide che dall’alto non riusciva ad identificare... mari, forse...?
«Deserti» lo informò Zuril, che pilotava la nave con estrema disinvoltura. «I mari sono ormai in gran parte asciugati. Quelli rimasti sono ridotti a paludi di scorie».
Un mondo senza mari... Kein sentì stringerglisi il cuore: «Che... che ne è stato dell’acqua...?»
«Il clima è cambiato spaventosamente, da allora», rispose Zuril, la voce cupa. «Se osservi bene i poli, noterai che sono completamente ghiacciati, e che solo la fascia attorno all’equatore è abitata. Questa è Vega: ghiaccio e deserto. Non c’è altro».
Kein osservò meglio i poli: non si vedeva il candore del ghiaccio, apparivano invece più scuri dei deserti violacei, quasi plumbei, e si protendevano per un buon terzo della superficie del pianeta.
«Il ghiaccio è proprio quella zona scura», spiegò Zuril.
«Perché non è bianco?», bisbigliò Kein, che ormai aveva paura della risposta che avrebbe ottenuto.
«Inquinamento», rispose Zuril, cupo.
Con la morte nel cuore, Kein guardò ancora quel pianeta dall’inquietante superficie violacea. Andare a vivere in un posto talmente squallido lo deprimeva oltre ogni dire... il pensiero di Fleed, della sua aria tersa, della luce, della vegetazione rigogliosa gli fece salire le lacrime agli occhi. «Ma come è potuto accadere?»
«Pensi che Vega sia un mondo malato?» chiese Zuril.
Kein cercò una risposta diplomatica; non trovandola, preferì tacere.
«Avresti torto a crederlo», aggiunse Zuril. «Vega è un mondo morto. È solo questione di tempo, noi di Zuul lo sappiamo. Da sempre tentiamo di lanciare l’allarme: nessuno ci ha mai ascoltati. Prima o poi, il popolo di Vega pagherà per la dissennatezza di anni e anni di sfruttamento selvaggio».
Kein ascoltava, incredulo: aveva pensato che fosse stato un disastro immane a ridurre così Vega, e lo disse.
Zuril scosse il capo: «Nessun disastro immane. Fosse stato così, la gente se ne sarebbe accorta, avrebbe reagito. Invece è successo tutto in modo insidioso, molto lentamente, a piccoli passi. È così che avvengono i grandi cambiamenti: poco per volta, giorno dopo giorno, senza accorgersene... quando ci si rende conto della cosa, ormai il mutamento è avvenuto, irreversibile, inarrestabile. Ricordatene, Kein: i cambiamenti duraturi avvengono sempre poco per volta. Per Vega è stato così».


Sotto di loro ormai si distinguevano gli altissimi edifici delle città, tutti coperti da cupole trasparenti; miriadi di navette sfrecciavano diversi livelli più in basso.
Un bip bip proveniente dal pannello comandi annunciò l’arrivo di una comunicazione, che subito il computer oculare di Zuril intercettò passandola direttamente alla mente dello scienziato. L’astronave compì una brusca virata.
«Cambiamento di programma», annunciò Zuril. «Pensavo di portarti subito a casa, ma a quanto pare Sua Maestà è troppo ansioso di vedermi. Dovrai venire con me».
«Dove?», s’allarmò il ragazzo. «Da… da Re Vega?»
«Ci sono inviti che non possono essere rifiutati», sogghignò Zuril.
Re Vega… il tiranno, il mostro sanguinario distruttore di pianeti…
Agghiacciato, il ragazzo non disse nulla, mentre tentava disperatamente di dominare l’agitazione che sentiva crescere dentro di sé.
Zuril puntò decisamente verso una costruzione imponente, ancora più alta dei pur altissimi palazzi che l’attorniavano. Kein stava giusto chiedendosi come avrebbero superato la cupola trasparente che l’avvolgeva, quando la navetta parve affondare dentro la lucida superficie. Un attimo dopo, la navetta volava all’interno della cupola, che appariva perfettamente liscia e lucida come prima: Kein ebbe l’impressione di essere entrato in una bolla di sapone, tenacissima ma elastica.
«Contro l’inquinamento», spiegò Zuril in risposta alla domanda inespressa dell’esterrefatto Kein. «Non è sufficiente, ma almeno fornisce una copertura parziale. Al di fuori di queste cupole, l’atmosfera è letale».
Ricevuta l’autorizzazione a planare, lo scienziato fece scendere la navetta su un’ampia terrazza nel fianco del palazzo reale; prese la valigetta del computer, disse a Kein di lasciar pure lì il suo bagaglio e aprì il portello che s’inclinò fino a terra, formando una passerella e permettendo loro di scendere.
Soldati li accolsero, rigidi sull’attenti. Vederli e accostarsi istintivamente a Zuril per Kein fu un tutt’uno.
«Picchetto d’onore», spiegò lo scienziato. «Siamo ospiti importanti».
Scese tra quegli uomini con la disinvoltura di chi è abituato a venir accolto con tutti i riguardi. Kein lo seguì, occhieggiando timorosamente i soldati. Non poterli vedere in viso era per lui a dir poco inquietante: ognuno di loro avrebbe potuto essere uno di quegli animali che… che gli… non voleva pensarci.
Un milite salì sulla navetta; subito il portello venne richiuso, e il piccolo mezzo si alzò in verticale, prima di sparire oltre il bordo della terrazza.
Kein lo guardò allontanarsi, sgomento.
«Quando dovremo andarcene ce lo riporteranno», disse alle sue spalle la voce di Zuril.
Il ragazzo fece per seguirlo verso l’interno del palazzo, ma all’improvviso gli occhi gli bruciarono spaventosamente, cominciando a lacrimare; Kein sentì quell’aria pesante intasargli i polmoni, e cominciò a tossire e tossire, restando senza fiato.
Quando finalmente riuscì a rialzare gli occhi lacrimosi su Zuril, questi gli batté una mano sulla spalla: «Bene, ragazzo. Benvenuto su Vega».


7. Sua Maestà

Kein continuò a tossire e lacrimare anche quando furono all’interno del palazzo; a poco a poco, però, pur sentendosi naso e gola irritati il ragazzo sentì che là dentro poteva respirare molto meglio.
Come avrebbe imparato nei tempi successivi, non c’era edificio, su Vega, che non fosse fornito di depuratori d’aria.
Seguendo Zuril, Kein attraversò saloni e percorse corridoi. La reggia di Vega gli appariva così diversa dal palazzo reale di Fleed, a lui tanto familiare: là, ampie finestre aperte da cui proveniva il profumo dei giardini sottostanti, leggere tende chiare per velare la luce troppo forte del sole, colonnine bianche e sottili, stanze ampie e luminose... e qui, finestroni in plastivetro ermeticamente chiusi, interminabili corridoi, asettica aria depurata e odorosa di detergenti chimici. Nessun’opera d’arte ornava le sale, nessuna decorazione rendeva meno squallide quelle pareti disadorne. Le linee leggere ed armoniose qui diventavano forti e pesanti: la reggia di Vega, ben lontana dal ricordare un palazzo di fiaba, sembrava in tutto e per tutto una fortezza, severa e inattaccabile.
La zona in cui ora si trovavano aveva un’aria incredibilmente lussuosa, almeno per il sobrio metro veghiano: era una galleria molto ampia, illuminata sulla destra da finestroni a tutta parete attraverso i quali si poteva scorgere lo sconcertante cielo rossiccio. Il corridoio presentava una decorazione geometrica sul pavimento, e terminava con una doppia porta ornata dalla stella a quattro punte simbolo della casa imperiale di Vega. Due guardie immobili ai lati della porta confermarono a Kein che là dietro doveva trovarsi il tiranno in persona.
Poco prima della doppia porta, sulla sinistra s’apriva una saletta d’aspetto; fu qui che Zuril condusse Kein.
«Non posso venire anch’io?», chiese supplichevole il ragazzo, occhieggiando le due impassibili guardie. «Non darò fastidio, te lo prometto».
«È meglio che tu rimanga qui», tagliò corto Zuril; comprese il terrore del suo schiavo ed aggiunse: «Non ti faranno niente».
«Sì, signore», balbettò Kein, gli occhi sbarrati fissi sui soldati.
«Non dovrei far tardi», e Zuril andò a farsi annunciare dalle guardie, prima di scomparire oltre le due porte.
Dominando a fatica il terrore che l’invadeva, Kein sedette su una poltroncina e s’aggrappò con entrambe le mani al sedile, quasi avesse temuto di venir strappato via a viva forza.
Per un tempo che gli parve interminabile, Kein restò immobile senza quasi respirare, occhieggiando nervosamente gli altrettanto immobili soldati.
Senza alcun preavviso le porte si spalancarono, mentre le guardie ai lati scattavano sull’attenti; una figura immensa avvolta in un ampio manto purpureo apparve sulla soglia.
Sua Maestà Re Vega, l’Imperatore della Nebulosa… l’uomo che aveva ordinato la distruzione di Fleed.
Sentendosi una fitta alla bocca dello stomaco, Kein balzò in piedi; vide che tutti i presenti si erano profondamente inchinati davanti al sovrano, e prima ancora d’aver compreso cosa stesse facendo si chinò a sua volta. Sentiva il suo cuore terrorizzato pulsargli in gola, rimbombargli nelle orecchie; un misto di odio e panico gli spezzò il respiro. Era un ragazzino solo, solo in mezzo ad infiniti nemici e al cospetto del più feroce, sanguinario tiranno di cui avesse mai sentito parlare… in quel momento desiderò solo scomparire, essere dimenticato, svanire nel nulla.
Il sovrano avanzò, seguito da un gruppo dei suoi più uomini più fidati i cui visi erano tristemente noti a Kein: il Comandante Supremo Gandal con il suo braccio destro Hydargos, il Ministro della Difesa Dantus, il feroce Comandante Barendos, l’uomo responsabile della distruzione di Fleed, e naturalmente Zuril.
Kein rimase immobile dov’era, a testa china: lui non era nessuno, non sarebbe nemmeno stato notato; così almeno sperava.
Improvvisamente, la gigantesca ombra di Sua Maestà gli cadde addosso.
«Questo, chi è?» La voce profonda del sovrano lo fece sobbalzare.
«Uno schiavo di Fleed che ho acquistato, Maestà», rispose Zuril.
«E perché hai ritenuto di doverlo comperare?»
Barendos si permise un ghigno e ammiccò verso Dantus: «Oh, forse perché è molto carino».
«Vedo che te ne intendi, sei un vero esperto», rispose dolcemente Zuril, prontissimo. Stavolta a ghignare furono Gandal e Hydargos, mentre gli altri due si rabbuiavano e Sua Maestà aggrottava le sopracciglia.
«Basta così!», sbottò il sire, voltandosi poi verso Zuril in attesa della sua risposta.
«Maestà, ho visto questo ragazzo battersi con uno dei nostri soldati. Ha dimostrato d’aver abilità e coraggio, oltre che intelligenza. Mi è parso uno spreco lasciare che venisse mandato a lavorare in una miniera».
Il sovrano assentì: «Sono d’accordo con te. In passato, ho preso anch’io la stessa decisione: alle volte, è meglio sfruttare i propri nemici, piuttosto che ucciderli. Coraggio ed intelligenza sono qualità rare e preziose. Che progetti hai per lui?»
«Penso di iscriverlo alla scuola per allievi ufficiali», disse Zuril.
«Molto bene». Dopo aver discusso della distruzione di Fleed, Sua Maestà era di ottimo umore: guardò benevolmente il ragazzino tremante che aveva davanti e si degnò di rivolgergli la parola: «Allora, qui abbiamo un futuro ufficiale di Vega!»
Kein gettò uno sguardo disperato a Zuril, che gli fece cenno di rispondere; con la gola secca, chinò la testa ed emise una specie di sibilo che il sire prese per un assenso.
«Bravo, bravo», in un incredibile slancio di bonomia, il sovrano batté sulla spalla del ragazzo, prima di avviarsi giù per il lungo corridoio, scortato dalle sue guardie, e sparire oltre un’alta porta che dava direttamente negli appartamenti reali, seguito da Gandal, Dantus e Barendos.
Kein riprese a respirare.
Zuril cominciò a parlare fitto fitto con Hydargos: Kein non poteva sentire quel che stavano dicendosi, ma era evidente che stavano prendendo accordi. Ebbe come l’impressione che Hydargos stesse per partire per un luogo lontano… stavano progettando una nuova conquista? Qualche altro sventurato pianeta che… Kein provò una fitta dolorosa alla bocca dello stomaco, mentre reprimeva quel pensiero.
Sempre parlando tra di loro, Zuril e Hydargos imboccarono un altro corridoio che li avrebbe condotti all’esterno del palazzo, e Kein s’affrettò a correr loro dietro. Per nulla al mondo in quel covo di nemici avrebbe voluto perdere di vista il suo padrone!
Zuril ed Hydargos ritornarono alla piattaforma esterna, dove si arrestarono. Uno dei due soldati di guardia aprì un comunicatore ed inviò rapidamente un messaggio, mentre i due comandanti continuavano a parlare animatamente.
Kein si guardò in giro: si trovavano ad un’altezza vertiginosa dal suolo, per cui invece che in basso preferì andare con lo sguardo verso il cielo rossastro dalle pesanti nubi caliginose. Anche a quella quota, e riparati dalla cupola, ci si sentiva soffocare; il livello d’inquinamento atmosferico doveva essere mostruoso.
Sull’ampia piattaforma planò una navicella simile a quella con cui Kein era giunto assieme a Zuril: un soldato ne scese e salutò, prima d’allontanarsi.
Zuril e Hydargos scambiarono qualche altra parola, poi il comandante salì sulla navetta. Solo allora Kein notò che al posto del passeggero era seduta una donna pallida dai lunghi capelli d’un chiaro verde dorato. Non era possibile… sembrava…?
«Naida…?» esclamò Kein, incredulo; ma ormai era troppo tardi, la navicella si era allontanata, rapida e silenziosa.
«La conosci?» chiese Zuril, mentre salivano sulla loro navetta, appositamente condotta lì da un altro soldato.
«Sì», mormorò Kein. L’aveva creduta morta, come tutti coloro che aveva conosciuto… sentì un nodo serrargli la gola, e non poté più parlare.
«Non credo che Hydargos la tratti male, stai tranquillo» Zuril si mise ai comandi e fece partire la nave.
Non lo credeva proprio, infatti: da quel poco che aveva visto, lei gli era apparsa bellissima. Hydargos sarebbe stato imperdonabilmente idiota se avesse maltrattato una donna simile.
Kein rimase pensieroso, mentre Zuril guidava in silenzio. Anche Naida era prigioniera, come lui; i loro proprietari si conoscevano. Forse ci sarebbe stata l’occasione di vedersi, di parlare…
«Mi dispiace», disse Zuril, quando il ragazzo accennò timidamente a quella possibilità. «Hydargos è in partenza per una nuova base che stiamo costruendo su un satellite», preferì non dirgli che stavano progettando di conquistare anche il meraviglioso pianeta attorno cui ruotava quel satellite; quanto a Kein, ebbe il buon senso di non fare domande di cui non gli sarebbero piaciute le risposte.


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Fratello di Trinità e Bambino

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L’abitazione di Zuril era posta in un complesso altissimo, ben riparato dalla sua cupola trasparente. Ognuna delle unità era corredata di un’ampia terrazza su cui far planare la propria navetta.
Era un appartamento lussuoso, per il metro piuttosto spartano dei veghiani; appariva invece piccolo e con stanze poco spaziose a Kein, abituato ad ambienti vasti ed ariosi. Si era aspettato che il potente ministro Zuril abitasse in una dimora ben più sontuosa; invece…!
Impiegò ben poco per esplorare tutta la casa: un soggiorno, due camere, due bagni. Niente cucina: i cibi venivano ordinati sull’apposito display, preparati dai robodomestici e inviati nelle varie abitazioni. Una nicchia in un muro, chiusa da uno sportello trasparente, era in comunicazione con la cucina nel sotterraneo: bastava chiedere una vivanda, ed entro breve tempo questa veniva spedita, pronta per essere consumata.
Ampi finestroni a tutta parete permettevano una visuale sconvolgente del panorama di Vega: a quell’altezza, sembrava di trovarsi all’interno delle nuvole violacee. Attraverso l’atmosfera densa e rossastra, la stella appariva come un’enorme palla scarlatta.
Kein si guardò in giro: superfici piane e lisce, mobili essenziali, tutti in metallo, plastica e vetro. Non c’era nulla in materiale naturale: niente legno, tessuto, cuoio… Nessun ninnolo, nessun soprammobile. Unica concessione, su una parete una fine decorazione geometrica in plastivetro, nei toni del verde, del bianco e del blu. Una casa elegante, ma fredda ed anonima.
Ovunque, regnava una pulizia scrupolosa. Nell’appartamento aleggiava un odore di plastica e disinfettante, misto a quell’indefinibile sentore artificiale dell’aria depurata: l’odore tipico di Vega, così Kein stava imparando a riconoscerlo.
Una delle camere era evidentemente di Zuril; l’altra doveva essere senz’altro proprietà di Fritz. Kein cominciò ad occhieggiare il divano: quello sarebbe stato il suo letto, ne era sicuro.
«Tu puoi dormire qui», Zuril accennò verso la camera che doveva appartenere a Fritz.
Kein guardò all’interno: un letto, un tavolo, un armadio, un paio di poltroncine.
«Signore», disse timidamente, «questa è la camera di tuo figlio. Io sono uno sconosciuto, per lui».
«E allora?»
«Non so se tuo figlio sia felice che io adoperi le sue cose». Chissà come avrebbe reagito quel ragazzo se avesse saputo che un estraneo aveva usato il suo letto… “Ciao, sono Kein lo schiavo, e ho invaso la tua stanza”. No, quello non gli sembrava il modo migliore di far conoscenza.
Ancora una volta, Zuril dimostrò un’apertura d’idee eccezionale per un veghiano: invece di intimargli seccamente di non dire idiozie, valutò l’obiezione del suo schiavo e la trovò accettabile.
«Forse non hai torto». Andò verso una parete, toccò un pannello: ne uscì un secondo letto. «Qui dormono gli amici di Fritz, quando li ospitiamo. Puoi usarlo tu. Lì c’è il bagno». Vide Kein esitare ed aggiunse: «Smettila con gli scrupoli. Fritz non avrà niente da ridire».
Speriamo, si disse Kein, appoggiando titubante il proprio bagaglio sul letto.
Non conosceva ancora il figlio del suo padrone, ma provava un’inquietudine sempre più viva man mano che il tempo passava: era sicuro che Fritz l’avrebbe trovato odioso e gli avrebbe reso la vita impossibile.


Il giorno dopo, Zuril annunciò di dover tornare a palazzo per conferire con Re Vega.
«Non ti conviene venire con me, ti annoieresti», concluse.
Kein sentì la paura spezzargli il respiro: l’idea di rimanere chissà per quanto tempo da solo nella capitale del nemico lo agghiacciava. Non pensò al fatto che sarebbe stato al sicuro, nell’appartamento di Zuril: si vide indifeso in mezzo a gente ostile.
«Ti prego, signore, lasciami venire con te!», esclamò d’impulso. «Non ti darò fastidio: resterò in un angolo ad aspettare».
Sorpreso, Zuril si voltò a guardarlo, mentre il minuscolo computer oculare gli inviava rapidamente le proprie conclusioni.
Ha paura di restare solo… assurdo. Nessuno oserebbe toccarlo.
«Kein, qui sei al sicuro».
Il ragazzo impallidì, serrando i denti per non batterli: era sicuro che sarebbe impazzito, tutto solo… intuì la contrarietà del suo padrone, e un timore peggiore lo costrinse a chinare la testa.
«Sì, signore. Come vuoi».
Forse fu il viso cereo, forse il filo di voce che gli era uscito dalle labbra… Zuril parve cambiare idea.
«Molto bene, vieni pure». D’accordo, ragazzo. Fatti le tue esperienze da solo.


Come il giorno precedente, Kein sedette ad un tavolo nella saletta vuota all’esterno dello studio di Sua Maestà; gettò un’occhiata alle guardie, sempre immobili, e tirati fuori dalla sua sacca un videolibro e un riproduttore portatile per ascoltare musica che gli aveva prestato Zuril, si dispose ad aspettare mentre il suo padrone conferiva con il sire.
Re Vega era più che soddisfatto della conquista di Fleed: gli odiosi reali che l’avevano contrastato erano morti, il popolo sterminato, lo stesso pianeta era reso irriconoscibile dalle radiazioni. Un pericolo per la sua corona era stato interamente sventato, distrutto. Mancava solo un elemento perché il suo trionfo fosse completo: si erano impossessati di Goldrake, ma non avevano ancora catturato il principe di Fleed, l’unico in grado di pilotarlo. Non appena il giovane fosse stato preso e condizionato, lui, Re Vega, avrebbe avuto in pugno l’arma con cui avrebbe potuto sottomettere l’universo.
In quel momento, il nuovo obiettivo del sire era un pianeta non particolarmente grande, ma importantissimo per ricchezze e materie prime. Disgraziatamente, era abitato da una razza inferiore che sarebbe stato necessario eliminare.
Zuril era però di ben altre idee. A suo parere, Terra (così gli abitanti chiamavano il loro pianeta) era un mondo straordinario per clima e habitat: devastarlo a suon di bombe vegatron sarebbe stato un irreparabile disastro, tantopiù che Vega era ormai inquinato, senza rimedio.
«Sire, verrà il giorno in cui avremo bisogno di un nuovo mondo in cui vivere», disse con forza.
«Ancora le tue solite storie!» esclamò Barendos, sprezzante.
Il sire non rispose. Aveva avuto fretta di distruggere Fleed perché ne aveva temuto le difese; i terrestri però sembravano un popolo molto più arretrato, spazzarli via non sarebbe stato così difficile. Nonostante tutto, lui stesso capiva che Vega era inquinato oltre ogni livello di guardia… tacque, incerto.
«Maestà, lasciate che vi conquisti questo mondo», continuò Barendos.
«Sire, vi prego! Questo pianeta è unico!», esclamò Zuril. «Distruggerlo sarebbe un delitto imperdonabile! Lasciatemi il tempo di studiare una strategia che ci permetta di conquistarlo senza danneggiarlo!»
«Sempre le tue perdite di tempo!», sbottò Barendos; e a Re Vega, che li ascoltava in silenzio: «Vostra Maestà, vi ho mai deluso, io?»
Un bip bip segnalò una comunicazione urgente. Con un gesto secco della mano, Re Vega troncò le discussioni e lesse il comunicato apparso sul suo monitor: pallido d’ira, guardò Barendos con occhi di fuoco: «Ci hanno rubato Goldrake!»
Il comandante si fece cinereo: «Non è possibile…»
«Quel maledetto Duke Fleed è riuscito a portarlo via sotto al naso dei nostri soldati!» urlò Re Vega battendo rabbiosamente il pugno sul tavolo. «Senza quel robot, la nostra vittoria non conta niente!»
«Sire, lo recupereremo…»
«Hanno già inviato navi all’inseguimento, ma Goldrake è troppo veloce» ringhiò il sovrano. «Non riusciranno a raggiungerlo! Lo perderemo nello spazio!»
«Maestà, il principe di Fleed è solo un ragazzino inesperto», pigolò Barendos «Riusciremo a…»
«Mi chiedevi se mi hai mai deluso» continuò Re Vega. «L’hai fatto adesso!»
Barendos si lasciò cadere in ginocchio davanti a Re Vega, che lo guardò con disgusto prima di voltarsi verso Zuril: «Volevi del tempo per studiare quel pianeta».
Lo scienziato sostenne il suo sguardo: «Sì, Maestà».
«Ho fatto male a badare a chi pensa solo a distruggere e conquistare» Re Vega girò ostentatamente le spalle a Barendos e tornò a rivolgersi a Zuril: «Prenditi pure tutto il tempo che ti è necessario».
«Grazie, Maestà».
Re Vega si rivolse poi a Gandal, rimasto in silenzio fino a quel momento: «Hydargos è già partito per la base in costruzione su quel satellite di Terra…»
«Luna», completò istintivamente Gandal.
«Per Luna. Mettiti in contatto con lui, digli che per il momento qualsiasi operazione bellica deve essere sospesa. Il ministro Zuril provvederà a mandargli istruzioni per le ricerche che intende eseguire».
«Manderò subito una comunicazione ad Hydargos, Maestà».
«Bene», lo sguardo di Re Vega parve trafiggere Barendos, «La seduta è tolta».


Le porte dello studio si aprirono; Zuril fu il primo ad uscire, seguito da Gandal e Dantus, che quel giorno era rimasto prudentemente in silenzio. Per ultimo giunse Barendos, che nascondeva la sua collera dietro un’espressione baldanzosa molto fasulla.
«Stavolta hai vinto tu, Zuril», esclamò, e il suo sorriso era un semplice stiramento della bocca.
Kein raccolse in fretta il videolibro, spense il riproduttore di musica e uscì dalla sala d’aspetto per andare incontro a Zuril.
Barendos sorrise, lascivo, ed accennò a Kein: «Non vuoi proprio separartene, eh?»
Zuril scosse la testa con finta riprovazione: «Mi meraviglia che tu ti scandalizzi per questo, dopo quello che hai combinato su Fleed».
Barendos si rabbuiò subito: «Che cosa vuoi dire?»
«Andiamo», Zuril sorrise con leggerezza, «ci siamo capiti perfettamente».
Era stato un colpo vibrato alla cieca, ma aveva toccato il segno. Barendos s’era fatto grigiastro e continuava a fissarlo, chiedendosi evidentemente cosa quel maledetto sapesse sul suo conto.
Zuril assunse un’aria molto innocente, ma dentro di sé esultava.
A quanto pare, abbiamo la cosa di paglia… interessante.
Barendos si guardò rapidamente oltre la spalla, in direzione di Sua Maestà, e si fece minaccioso: «Senti, Zuril, se solo vai a dire in giro…»
«Vuoi scherzare?», esclamò il ministro, che stava divertendosi come non mai. «Non dirò una sola parola». Non disse “siamo uomini di mondo”, ma il tono era quello. Masticando amaro, Barendos si allontanò frettolosamente, mentre Zuril lo seguiva con lo sguardo.
Data la fama di Barendos, se aveva combinato qualcosa di cui lui stesso non voleva si parlasse, doveva trattarsi di marciume allo stato puro.
Zuril s’allontanò dirigendosi verso la terrazza esterna, e subito Kein gli corse dietro.
«Signore», il ragazzo aveva il viso in fiamme. «Quel… quel…»
«Il comandante Barendos».
«Lui… non ho sentito bene quel che ti ha detto, ma… lui…», l’indignazione gli spezzò le parole.
Zuril si permise un sogghigno: «Lui pensa quello che gli è più facile pensare, Kein».
«Ma non è giusto! Tu non… cioè…»
«Capisco quello che intendi; però tutti abbiamo diritto alle nostre piccole opinioni, non trovi? Persino», la sua bocca si piegò in una smorfia tra il sarcastico e lo sprezzante, «il comandante Barendos».
Mortificato, Kein non rispose: provava una gran vergogna, si sentiva sporco, insudiciato.
Bene, adesso ha capito perché volevo che restasse a casa, si disse Zuril.
Kein tacque. In silenzio, sedette di fianco a Zuril nella navetta che li avrebbe ricondotti a casa.
«Se me lo permetti, domani non verrò con te», disse infine, gli occhi fissi davanti a sé.
«T’avevo detto che ti saresti annoiato, ad accompagnarmi».
«Non è questo», Kein prese fiato. «Non voglio che quel… quel…»
«Quel comandante Barendos…»
«Beh, non voglio che per colpa mia dica male di te» esclamò impulsivamente Kein. «Non te lo meriti!»
Sorpreso, Zuril gli gettò uno sguardo: a quanto pareva, aveva trovato nel ragazzo un difensore della propria rispettabilità.
«Ti ringrazio, Kein», disse infine, e non c’era alcuna traccia d’ironia nella sua voce.


Nei giorni successivi, Kein rimase chiuso nell’appartamento. Zuril gli aveva dato accesso alla sua collezione di videolibri; pur non amando eccessivamente la lettura, il ragazzo ne scelse un paio e trascorse così una buona mezza mattina.
Sentendosi aggranchito, provò qualche esercizio di ginnastica dolce: i muscoli gli dolevano ancora in alcuni punti. Ci sarebbe voluto del tempo per riprendersi completamente dai maltrattamenti che aveva subito.
Giocherellò con l’impianto olografico, e si distrasse assistendo ad un documentario sul passato di Vega: scoprì che un tempo era stato un pianeta verdeggiante, ricco di fauna e di vegetazione. Gettò uno sguardo all’esterno: nuvole violacee, aria densa di polveri, e al di fuori delle zone abitate, il deserto. Sentì un brivido percorrergli la schiena.
Zuril non rientrò che molto tardi, e lo stesso avvenne nei giorni successivi. Kein continuava a trascorrere la giornata come meglio poteva, annoiandosi mortalmente; ogni sera, Zuril tornava cupo in viso, e profondamente stanco. Il ragazzo non osava fargli domande, ma gli pareva evidente che il suo padrone era preoccupato, e parecchio.
Una sera, Zuril rientrò talmente provato da sedersi subito su una poltrona.
Senza dire una parola, Kein andò al pannello nella parete, ordinò una tazza di ween e gliela porse.
Stupefatto, Zuril guardò prima la tazza e poi il ragazzo. In quel momento non aveva certo voglia di ween, ma non volle deludere Kein: sentendosi poi meglio, dovette riconoscere a sé stesso che il suo schiavo aveva avuto più buon senso di lui.
«Grazie, Kein» osservò il viso serio del ragazzo e decise di trattarlo come un adulto, esattamente come da tempo faceva con suo figlio Fritz. «Siediti pure. Devo parlarti».
Sorpreso, il ragazzo s’accomodò sul bordo del divano: «Sì, signore».
«Avrai capito che c’è nell’aria qualcosa d’importante».
Kein annuì: «Mi sembra che tu lavori anche troppo, signore».
«È a causa della Terra, un nuovo pianeta che Sua Maestà Re Vega ha deciso di conquistare».
Il ragazzo sentì stringerglisi il cuore: «Ci sarà una guerra, signore?»
Zuril scosse la testa: «Un’invasione, se mai. I terrestri non sono assolutamente in grado di opporsi alle forze di Vega. Verranno spazzati via come niente».
Un altro popolo innocente che sarebbe stato sterminato… infinite persone deportate, uccise, bambini come lui privati di una casa, una famiglia… tutto.
Kein respinse quasi con rabbia quel pensiero: «Sì, signore».
«Terra è un pianeta meraviglioso», Zuril guardò istintivamente fuori del finestrone, vide le nuvole di polvere violacea e fece una smorfia. «Un mondo popolato da piante e animali, un luogo d’incredibile bellezza… ma è inutile che te lo descriva, Kein. Dovresti vederlo».
Anche Fleed era meraviglioso… «Certo, signore».
«Nonostante quel che continuo a ripetergli, so che Re Vega vorrebbe conquistare questo mondo come ha fatto con tutti gli altri: bombardandolo, distruggendo irreparabilmente ogni essere vivente… trasformandolo in un pianeta sterile, morto». Zuril si guardò pensosamente le mani: «Io sto cercando d’impedirglielo».
«Signore, vuoi dire che stai cercando di salvare i terrestri?»
A dispetto della sua abituale compostezza, Zuril si permise un verso disgustato: «Quella gentaglia inutile, che non sa fare altro che danneggiare il mondo meraviglioso su cui vive? Vuoi scherzare? Se spazzassimo via quei parassiti, la Terra non ne avrebbe che vantaggi! …No, io voglio salvare il pianeta. Sto studiando un modo per eliminare i terrestri senza arrecare danno all’ecosistema. Per questo ho bisogno di tempo; e per avere il tempo, sto tenendo testa a Barendos, che vorrebbe partire subito all’attacco, da quel bestione idiota che è…»
Kein smise d’ascoltarlo e lo guardò come se lo vedesse per la prima volta: quell’uomo era stato così gentile con lui, l’aveva salvato, nutrito, curato, si era sempre preoccupato che lui avesse tutto il necessario, l’aveva sempre trattato con rispetto… e ora parlava senza batter ciglio di un genocidio! Non poteva crederci…
«Qualcosa non va?» Zuril si era accorto del suo smarrimento, evidentemente.
«Signore», Kein deglutì, «stai parlando di… di uno sterminio di massa…!»
«È molto spiacevole, ne convengo», rispose Zuril. «Non credere che mi piaccia l’idea di eliminare quella gente, per quanto inutile e dannosa possa essere. Se potessi, preferirei evitarlo. Disgraziatamente, non abbiamo altre soluzioni: quel mondo ci serve».
«Ma…»
«Kein, Vega ha il tempo contato. Presto, molto prima di quanto Sua Maestà stesso voglia sentirsi dire, questo mondo devastato collasserà: dove potremo portare il nostro popolo, allora, per salvarlo dal disastro? Che noi sappiamo, non esiste un pianeta come la Terra e che sia disabitato».
Kein scosse la testa: «No…»
«Noi veghiani siamo predatori», spiegò in tono ragionevole Zuril «Quello che vogliamo, ce lo prendiamo. È la nostra natura. Adesso ci serve quel pianeta, e come sono finalmente riuscito a far comprendere al nostro beneamato sire, ci serve integro. Con buona pace di Barendos, oggi ho vinto io: Sua Maestà ha confermato definitivamente l’ordine di studiare il pianeta e aspettare a dare l’attacco. Barendos vuole rifarsi, visto che con la fuga di Goldrake ha perso parecchio agli occhi del nostro sovrano; ovviamente sperava di riuscire a convincere Re Vega a dare l’ordine d’invasione, ma sono riuscito ad impedirlo». Si rilassò appoggiandosi con le spalle allo schienale della poltrona: «Adesso, ho finito il mio lavoro, qui. Domani potremo partire per Zuul. Non dovremo più restare su questo dannato pianeta».
Kein sbarrò gli occhi: «Pensavo che tu fossi contento di essere a casa tua»
«Casa?», Zuril si guardò in giro con aria piena di repulsione. «Questo è solo il posto in cui vengo a dormire dopo il lavoro».
Kein tacque, mentre qualcosa che aveva sentito parve tornargli alla mente: «Signore, hai detto… la fuga di Goldrake?»
«Sì», ammise di malavoglia Zuril. «Duke Fleed è riuscito a prenderlo ed è scappato. Colpa di Barendos, che non l’ha sorvegliato a dovere».
«Scappato…?», Kein conosceva bene Duke, e faticava parecchio ad immaginarselo fuggire davanti ai nemici.
«Ovviamente, ha dovuto farlo», spiegò Zuril. «Portarci via Goldrake è stata da parte sua la mossa più logica. È scomparso nello spazio, e penso che non lo rivedremo mai più. Un peccato aver perso quel robot. …Adesso mangiamo e andiamo a riposare: domani abbiamo un lungo viaggio che ci aspetta».
 
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