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VALINOR: i racconti per la Cronologia

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isotta72
view post Posted on 9/5/2010, 21:55     +1   -1




Riporto il racconto di Valinor "Una nuova vita", poi provvederò a fare il riassunto.

Per eventuali commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=14257899


UNA NUOVA VITA- scritto da VALINOR

Si svegliò di soprassalto, cadendo dal letto e ritrovandosi improvvisamente per terra. Il buio era completo, l’unica lampada era caduta dal comodino e si era spenta. Cercò di rialzarsi, appoggiandosi al bordo del letto, ma cadde di nuovo, inciampando nelle coperte. Al buio era difficile orizzontarsi, e sebbene conoscesse la sua stanza, ebbe difficoltà a capire in che posizione fosse, anche perché il terreno stava tremando.
“Oddio, il terremoto! Devo uscire di qui!”
A fatica riuscì a rimettersi in piedi, imprecando mentalmente contro quel risveglio da cardiopalma, e si diresse a tentoni verso l’uscita della camera. Attraversò di corsa il salotto, almeno quello illuminato dalla luce della luna, prese al volo il giaccone imbottito che teneva sempre pronto dietro la porta d’ingresso, lo indossò e uscì di corsa all’aperto, in pigiama, sotto un fitto nevischio che lo svegliò del tutto.
“Che freddo assurdo! Per la miseria, ma proprio oggi il terremoto? Non che ci sia poi granchè da far crollare in questa baracca, però l’idea di rimanere sepolto sotto la neve non mi solletica!”
Parlava a se stesso, un po’ per calmarsi, un po’ per cercare di riflettere.
Il terreno vibrava, ma non era un normale sisma, per niente, sembrava piuttosto il tremore causato dal rombo di un jet in avvicinamento. Solo che non c’erano rotte che attraversassero quella vallata tra i monti. Era un posto ben poco frequentato, non si trovava nemmeno sulle carte, l’aveva scelto apposta per starsene tranquillo.
Attraverso la nevicata crescente, riusciva a vedere solo il tratto di terreno ghiacciato e innevato davanti alla baita, l’inizio del bosco poco più avanti, poi tutto diventava nero, fondendosi col buio della notte.
Improvvisamente una luce attraversò il cielo, illuminando a giorno la vallata deserta, la sua capanna, il bosco e le montagne tutt’intorno. Per un istante sembrò di essere a mezzogiorno, mentre la terra tremava sempre più forte, rendendogli difficile persino stare in piedi.
Fu allora che lo vide.
Un oggetto scuro e indefinito, che precipitava proprio nella sua direzione.
Rimase lì fermo come un idiota, incapace di credere a ciò che gli occhi vedevano, dimentico del terremoto, della neve, e del fatto che rischiava di congelare.
I suoi occhi seguirono quel mostro metallico, dalla forma vagamente circolare, che correva veloce proprio verso di lui, lasciandosi alle spalle una scia infuocata.
Era velocissimo, e il rombo adesso era talmente forte da far male alle orecchie, ma quando ormai sembrava che fosse arrivata la fine, con uno scatto il disco virò leggermente, mancando il tetto della capanna per meno di tre metri, finendo poi la sua corsa, con un boato tremendo, contro la bassa collina che stava dietro la casa.
L’uomo fu scagliato a terra dall’enorme spostamento d’aria, mentre la notte riprendeva possesso della vallata, e si richiudeva come un sudario su quella scena assurda.
Il terreno smise di tremare, per un attimo il silenzio fu totale. Nessun incendio si propagò, ma pareva che un enorme aratro fosse passato su una parte del bosco, lasciando dietro di sè una scia di alberi schiacciati, sotto la tempesta indifferente.
Tenendosi una spalla, l’uomo si rialzò faticosamente, appoggiandosi al muro di tronchi per sostenersi, tossendo e cercando di ritrovare l’equilibrio, le orecchie gli ronzavano ancora.
“Maledetti militari, che stanno facendo adesso?”
Imprecò tra sé mentre rientrava in casa. Sapeva che in estate la vallata era usata dall’esercito, ma adesso era Gennaio, e lì da giorni c’era solo lui.
Pensò che i militari erano tutti paranoici, la zona diventava off limits quando c’erano loro, non usciva né entrava nulla. Ma con quel tempo e in pieno inverno, chi poteva essere tanto pazzo da fare esercitazioni? E poi che diamine era quell’affare? Era così strano… Si lasciò cadere sul divano, tremando per il freddo.
“Ma che bella nottata…”
Il cuore picchiava ancora contro le costole, come un branco di fabbri scatenati, anche se la paralizzante paura dei minuti precedenti iniziava a sciogliersi, nel caldo e nella luce che lo circondavano. Sospirando, rientrò in camera da letto, accese la luce e si vestì, iniziando finalmente a scaldarsi. Pensò per un attimo di rimettersi a dormire, la tentazione era forte, ma poi lo sguardo gli cadde sull’orologio a muro, erano quasi le sei, che senso aveva ormai? Tra poco avrebbe fatto giorno.
Fuori la tempesta continuava senza posa, stava per diventare una vera tormenta e lui sapeva che poteva durare per giorni.
Non era preoccupato, aveva tutto il necessario, scorte in abbondanza e tanta pace. Niente cellulari, televisori o radio, niente dipendenti che lo scocciassero ad ogni ora, solo lui con se stesso, una vacanza tanto attesa, capace di far sparire lo stress accumulato negli ultimi mesi di lavoro all’Istituto. E poi c’era sempre la fidata jeep nel garage, per tornare nella bolgia della civiltà quando fosse arrivato il momento. Solo pace e serenità in quei giorni, fino a quella notte.
Si diresse verso la finestra che dava sul retro della baita e guardò fuori. Nel buio si sentiva solo il vento che ululava… No, non era del tutto scuro. C’era un lugubre baluginio che si intravedeva fioco, contro il versante della collina dove quella cosa s’era schiantata.
“Mio Dio! Il pilota! Potrebbe essere ancora vivo, non posso lasciarlo lì!”
Quel pensiero angosciante arrivò all’improvviso, scacciando via tutti gli altri. Gli sembrava impossibile che qualcuno potesse salvarsi dopo un simile incidente, ma come avrebbe potuto ignorare la possibilità che, per un qualche miracolo, il pilota fosse ancora vivo? Doveva sapere, e muoversi, prima che la tormenta si intensificasse troppo. Sapeva, per esperienza, che ad un certo punto la neve e il vento diventavano così forti da far perdere completamente l’orientamento. C’era poco tempo se voleva sperare di salvare qualcuno.
Corse in cucina, prese da un cassetto una potente torcia, infilò di nuovo il giaccone e, pregando il Cielo di aiutarlo, uscì all’aperto. Camminò rasente il muro della baita fino ad arrivare sul retro, poi si mise a correre, quella strana luminosità lo guidava.
Era arrivato alla parte del bosco devastata, e sembrava un paesaggio lunare. Gli alberi erano inclinati tutti nella la stessa direzione, verso la collina.
Non rotti, piegati.
Si fermò, sconcertato. Quale forza aveva potuto incurvare quei grossi tronchi senza spezzarli?
Non aveva senso, eppure lo vedeva.
Una folata di vento più forte delle altre lo fece muovere, restava poco tempo, così riprese a correre.
Il pendio della collina era in parte coperto da qualcosa, il misterioso velivolo nero, che pareva intatto.
L’uomo rimase immobile, con la torcia accesa a mezz’aria.
Non era possibile. No. Doveva avere le traveggole.
“Oh Signore… Ma che cos’è? “
Sussurrava ora, come inebetito, guardando quell’oggetto assurdo, ma che stava lì, quasi a sfidarlo.
Dalla poca luce che rifletteva, sembrava un enorme disco da cui spuntava una testa di forma umanoide, con delle sporgenze laterali. Non si capiva bene, stava incastrato a mezzo in una delle grotte che si aprivano su quel versante, le rocce della collina sbriciolate, spaccate, massi rotolati a coprire in parte quel mostro, che però non pareva danneggiato.
Inconcepibile. Non esisteva un materiale così duro da incunearsi nella roccia a quel modo senza subirne le conseguenze. Lui era uno scienziato, lo sapeva.
Certo non poteva dire di conoscere tutte le diavolerie create dai militari, però quella macchina andava contro ogni logica, anche nella forma.
Ma cos’era? Da dove veniva? Aveva davvero un pilota? E come avrebbe fatto a raggiungerlo? Non poteva certo arrampicarsi, non c’erano appigli, pareva di liscio metallo, gigantesco. Era davvero enorme, forse trenta metri calcolò, forse di più, un diametro impossibile, eppure stava lì.
Lo scienziato in lui gli riempiva la testa di domande, ma l’uomo ebbe paura, una paura primitiva e irrazionale. Doveva scappare, andarsene, e subito.
Si girò di scatto e prese a correre di nuovo verso casa, contro il vento che lo schiaffeggiava violento.
Poi inciampò in qualcosa e finì lungo disteso. La torcia gli cadde di mano e si spense. Si rialzò ansimando, cercò la torcia e la riaccese, puntandola contro l’ostacolo.
C’era qualcuno per terra, privo di sensi. Un uomo.
Indossava una tuta scura, e un casco dalla foggia mai vista stava accanto a lui, doveva averlo perso nell’urto col terreno.
Aveva capelli neri, non troppo lunghi, appena mossi, ed era pallidissimo. Non si muoveva, però ombre sinistre si allargavano sotto di lui.
Pieno di preoccupazione, l’uomo si curvò verso la persona riversa sul terreno, illuminandola. C’era sangue sulla neve, che pareva disegnare strani fiori rossi, come il colore della tuta che indossava lo sconosciuto.
Pregando che fosse ancora vivo, allungò una mano a sfiorarlo, cercando nel polso un battito.
C’era. Debolissimo ma c’era.
Doveva portarlo via di lì o sarebbe morto. Doveva fare presto.
Una tenerezza mai provata prima si insinuò nel suo cuore di scapolo. Una tenerezza paterna, lo sconosciuto pareva così giovane, così indifeso.
Alzò lo sguardo verso il mostro meccanico, poi lo volse di nuovo al pilota esanime.
Lo avrebbe salvato, non lo avrebbe lasciato lì a morire, la baita era vicina.
Sapeva di aver preso la decisione giusta, ma in quel momento sentì come se qualcosa di irrevocabile iniziasse il suo corso. Però non ne ebbe paura.
Il dottor Procton si rialzò, e si accinse a portare in salvo lo sconosciuto.

SECONDA PUNTATA

Per un istante rimase a fissare quel mezzo senza nome, come ipnotizzato dalla sua mole, imponente anche così, semisepolto dalle rocce, poi si riscosse, non c’era tempo da perdere, e le mille domande che lo assillavano avrebbero dovuto attendere un momento migliore.
Si chinò di nuovo verso il ferito e, cercando di essere il più delicato possibile, lo sollevò dal terreno, sperando che almeno non avesse lesioni interne. Sapeva che muovere una persona nelle sue condizioni era rischioso, ma non poteva fare altrimenti, lasciarlo lì per andare a prendere la jeep e tornare avrebbe significato morte certa per lui.
L’ululato del vento divenne improvvisamente un ringhio, mentre la sferza della neve si infittì, pungendogli il volto scoperto.
La tormenta era iniziata, senza preavviso.
Procton sapeva che la baita era poco oltre il limitare del bosco, vicinissima, ma non riusciva più a vederla. La visibilità era passata da alcune decina di metri a pochi centimetri nel giro di qualche istante. Sempre peggio.
“Coraggio amico mio, non ti lascerò solo, vedrai che ce la faremo…”
Lo strinse più forte, e si trascinò col giovane fino ad un gruppo di massi, caduti dal pendìo della collina dopo l’urto, incuneandosi tra di loro come meglio poteva, e facendo scudo col proprio corpo a quello del ferito, ancora privo di sensi.
Non era certo una gran protezione, ma meglio di niente, in attesa di un momento di tregua in quell’inferno bianco.
“Resisti, ti prego, non arrenderti, tra poco starai al caldo…”
Parlare era difficile, il gelo gli seccava le labbra e gli toglieva velocemente il calore corporeo, troppo velocemente.
Il giovane sconosciuto si lamentò debolmente, mormorando qualcosa nel delirio, poche parole incomprensibili, sussurrate e portate via dal vento.
Procton si rese conto che doveva avere anche la febbre, oltre a ferite ed escoriazioni. Aveva bisogno di cure e calore o sarebbe morto.
Pregò silenziosamente in un miracolo, non poteva fare altro, lui stesso sentiva il freddo arrivargli fin nelle ossa, nonostante la tenuta invernale. Immaginò come stesse il ferito, con quella tuta leggera, e rabbrividì, forse era meglio che fosse incosciente.
Il vento cadde improvvisamente, così come si era alzato, lasciando il bosco in un sinistro silenzio, più inquietante del rumore assordante di poco prima.
Procton rialzò la testa, pieno di speranza. Ecco, era il momento. La tregua sarebbe durata solo pochi minuti.
Si rimise in piedi in fretta, fece passare un braccio del giovane attorno al suo collo, trattenendolo con una mano, e lo sostenne alla vita con l’altra, poi si avviò, un po’ camminando, un po’ incespicando, verso la forma nera che ora intravedeva poco distante, la sagoma della capanna.
Ansimava per la fatica, e gli dolevano le gambe, se le sentiva intorpidite a causa del freddo intenso. Il ferito era invece leggero, tanto era magro, poteva sentirne le costole sotto la tuta. Doveva averne passate di tutti i generi per ridursi così.
Il vento riprese all’improvviso, spintonandolo da dietro. Aveva cambiato direzione e ora lo aiutava ad andare avanti, ma per poco. Procton sapeva che la tormenta doveva ancora dare il peggio di sé.
Finalmente, dopo un tempo che gli parve infinito, inquadrò lo specchio della porta e ci si buttò contro, spalancandola con una spallata ed entrando in salotto. Depose il ferito sul divano, e corse a chiudere l’uscio contro la morte bianca che aveva cercato di ghermirli. Diede quattro mandate al catenaccio, poi si appoggiò contro la porta chiusa, cercando di riprendere fiato.
Fuori il vento ululava rabbioso, la neve cadeva fittissima, ma ormai non potevano più raggiungerli.
Procton si sentiva stremato, ma era vivo. Dio che bello il calore, pensò.
Si tolse il giaccone, gettandolo da una parte, e si precipitò verso lo sconosciuto. Lo sollevò delicatamente e lo portò fino in camera da letto, facendolo distendere e coprendolo col piumone.
Subito dopo di diresse all’armadio, lo aprì e ne tirò fuori altre coperte, il ferito aveva innanzitutto bisogno di calore. Solo dopo avrebbe potuto curarlo.
Poi si concesse un attimo di tregua, lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona accanto al letto, chiudendo gli occhi per un momento.
Il suo cuore batteva ancora all’impazzata. Mai aveva visto la morte così da vicino, era stata un’esperienza sconvolgente.
Però la signora con la falce avrebbe dovuto attendere ancora molto, e non gli avrebbe lasciato neanche il misterioso sconosciuto. Non l’avrebbe avuta vinta.
Il giovane si mosse leggermente, lamentandosi piano senza svegliarsi. Procton gli passò una mano sulla fronte, e scottava. Brutto segno.
Maledizione, pensò, doveva subito disinfettare le ferite e mettergli qualcosa di caldo, magari un suo pigiama. Certo gli sarebbe andato grande, era smagrito e sofferente, ma non poteva lasciargli addosso quella tuta gelida.
Scostò le coperte e rimase a fissare lo strano indumento. Non aveva mai visto una tuta così, prima. Era di uno strano materiale, non riusciva a capire quale, rossa e nera, attillata, con grandi ali disegnate sul davanti e stivali incorporati, ma era lacera e sporca adesso, doveva toglierla. Sì, ma come? Non c’era nessuna lampo, zip o bottone, sembrava un pezzo unico, senza neanche cuciture. Questo lo sconcertò, allora come faceva ad indossarla? Avrebbe dovuto tagliarla.
Si alzò in fretta, dirigendosi verso l’armadietto dei medicinali, e tornò con disinfettante, garze, bende, e antibiotici, poi poggiò tutto sul comodino.
Fu allora che, lo sguardo attonito, Procton vide la tuta sparire dal corpo del giovane, come non fosse mai esistita, lasciandolo con un abito ancora più strano, sembrava quasi Greco, gli ricordava Omero, letto in gioventù, e gli antichi poemi epici.
Con un balzo si scostò dal letto, e rimase a guardare sconvolto il ferito, sempre immobile, che respirava appena.
“No, non può essere!” mormorava tra sé, spaventato e insieme attirato da ciò che era successo “Questo non può accadere, non è possibile, non è umano!”
Umano… Quella parola gli ronzava nella testa, umano…
Chi era? Cos’era? Dio mio, che stava succedendo?
Ciò che aveva visto era assurdo, ma era accaduto sotto i suoi occhi. Contraddiceva tutto ciò che sapeva, che per anni aveva studiato, eppure lo aveva visto, era reale, come quel misterioso ferito disteso sul letto, come quel disco gigantesco finito contro il fianco di una collina senza un graffio.
Procton chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete, gli tremavano le gambe. Solo una parola poteva spiegare tutto, una parola che significava un cambiamento radicale per l’umanità e mille incognite. Ma non poteva più tacerla a se stesso. Non dopo ciò che era successo.
Alieno.
E adesso? Cosa avrebbe dovuto fare? Chiamare aiuto? I militari, la polizia? Anche se avesse avuto un cellulare o una radio disponibile, cosa che non era, o se non ci fosse stata la tormenta, che continuava indifferente, avrebbe davvero denunciato quel poveraccio? Che ne sarebbe stato di lui, se fosse finito nelle grinfie dei media o dei medici? Sarebbe diventato una sorta di fenomeno da baraccone, studiato come una cavia, il marziano, l’extraterrestre, l’alieno… Poteva decidere il suo futuro, era nelle sue mani.
Ma voleva farlo? No.
Sembrava davvero solo un ragazzo, quanti anni poteva avere? Venticinque, ventisei? Chissà come misuravano gli anni sul suo pianeta. Con sconcerto Procton si rese conto che si stava già abituando all’idea, la mente umana era adattabile…
Una lacrima rigò improvvisa una guancia del giovane, incontrollata, figlia di chissà quale ricordo doloroso. A Procton fece male vederla e, messe da parte paure e incertezze, si risedette accanto a lui, prendendo il disinfettante.
Non sapeva nulla del ferito, forse usare i medicinali terrestri lo avrebbe ucciso, ma che scelta aveva? Non potevano uscire di lì per adesso, né poteva chiamare aiuto. Se non avesse fatto nulla sarebbe morto di certo, cosa aveva da perdere? Non voleva che morisse.
Gli scostò una ciocca di capelli dal volto, poi gli fece una carezza gentile, delicata. Gli sorrise.
“Forza ragazzo mio, ora dammi una mano anche tu, non ti arrendere… Il peggio è passato, sei al sicuro adesso…”
Fece una preghiera silenziosa, poi iniziò a curarlo.

TERZA PUNTATA

Il sole era ormai alto nel cielo, ma sembrava ancora notte, la tormenta continuava, e probabilmente sarebbe andata avanti per giorni, o forse sarebbe finita in poche ore, impossibile dirlo.
Procton coprì delicatamente il misterioso paziente, aveva finalmente terminato di disinfettare e fasciare le sue ferite, incomprensibili come lui. Non aveva mai visto ferite come quelle, erano molto strane. Alcune sembravano riconducibili ad escoriazioni da urto o da contatto, ma altre non sapeva proprio come spiegarle, soprattutto l’arrossamento al braccio destro, che però dava l’impressione di essere in via di guarigione. Più preoccupante era il taglio profondo all’altezza del torace, ma almeno adesso non sanguinava più.
Sedendosi, avvicinò la poltrona al letto, per poter seguire meglio il giovane straniero. Temeva reazioni negative a farmaci che potevano anche essere mortali per quella fisiologia. Non voleva che accadesse, non voleva perderlo.
Il respiro del ferito s’era fatto più regolare, la febbre era scesa, e sembrava aver ripreso un po’ di colore, ma era ancora molto pallido, e così magro che nel suo pigiama ci stava due volte.
Procton sospirò, cercando di immaginare cosa potesse essergli accaduto, ma non riusciva a formulare pensieri coerenti, era tutto talmente pazzesco.
In poche ore il suo mondo, ordinato e privo di sorprese, si era capovolto, lasciandolo stordito.
Un alieno, stava guardando un alieno, lì, nella sua baita.
Una cosa che l’umanità aveva sempre desiderato, accadeva proprio a lui che non ci aveva mai davvero creduto. Era uno scienziato, razionale, attento alle cose tangibili e al calcolo delle probabilità… Come diceva sempre?
“Pianeti abitati esisteranno di certo, ma sono così lontani che probabilmente sarà impossibile un incontro, e anche se ciò accadesse, le differenze tra le razze sarebbero così enormi che non ci si capirebbe neanche.”
E invece eccolo lì l’alieno, ed era come guardarsi in uno specchio. Alla faccia della diversità, se non l’avesse visto ai piedi di quel disco gigantesco, e poi con una tuta che assurdamente appariva e spariva, non ci avrebbe creduto, l’avrebbe preso per uno scherzo.
L’evoluzione di quel pianeta doveva aver seguito un percorso parallelo a quello della Terra. Sicuramente differenze ce n’erano, ma non dovevano essere poi tanto grandi. Incredibile.
“Oh bè, se non altro non somigli a ET! Ti è andata bene, sai? Noi Terrestri siamo talmente egocentrici che abbiamo sempre immaginato voi alieni brutti e cattivi, o magari buoni, ma sempre brutti! I belli dovevamo essere solo noi, ma che scemenza… E invece eccoti quà, affascinante come un divo del Cinema!”
Rise piano, stava parlando a se stesso, non allo sconosciuto, che non poteva sentirlo.
Gli sembrava di essere finito in film di fantascienza, a ripensarci gli veniva mal di capo. Le domande si accavallavano nella sua mente, tutte destinate a restare senza risposta, almeno finchè non avesse trovato il modo di comunicare con quell’essere.
Già, la lingua, altro scoglio da superare...
Procton si alzò e si diresse in cucina, aveva bisogno di mangiare qualcosa. Aprì il frigorifero e si preparò un panino, sbocconcellandolo distrattamente, sempre attento a percepire eventuali rumori provenienti dalla sua camera, poi si sedette un attimo sul divano. Dio, che giornata, e non era ancora finita, chissà cos’altro sarebbe successo. Si addormentò senza neanche accorgersene, vinto dalla stanchezza e dalla tensione accumulata.
Lo svegliò un rumore strano, che per un istante non riuscì a identificare. Poi comprese e si alzò di scatto, maledicendo il sonno che lo aveva preso a tradimento, precipitandosi in camera.
Lo straniero, ancora incosciente, mormorava parole sconnesse, incomprensibili, e si agitava nel letto, preda evidente di un tormentoso incubo. Tra grida soffocate e lacrime, sembrava ritrarsi da qualcosa, artigliando le coperte in preda al delirio e alla disperazione più profonda.
Procton si sentì stringere il cuore di fronte a quella scena, e corse accanto al ferito, sedendosi sul letto e stringendo il giovane a sè, cercando di fargli sentire che non era solo. Doveva essere un ricordo tremendo per ridurlo in quelle condizioni.
Lo sconosciuto gli si aggrappò come ad un ancora di salvezza, scosso da singhiozzi convulsi, mentre Procton cercava di tranquillizzarlo accarezzandogli i capelli e abbracciandolo con delicatezza, per evitare che gli si riaprissero le ferite.
“Coraggio, è stato solo un brutto incubo, è passato, stai tranquillo…” non poteva capirlo, lo sapeva, però magari il tono di voce dolce avrebbe raggiunto la sua coscienza sconvolta. O almeno lo sperava, continuando a parlargli “Va tutto bene figliolo, sei al sicuro adesso, va tutto bene…Te lo giuro, non ti lascerò solo...”
Era vero. Procton si rese conto che un forte legame si era creato con quella creatura, di cui nulla sapeva, ma che sentiva vicina e affine. Non lo avrebbe abbandonato.
Figliolo. Mai aveva chiamato qualcuno così prima, mai. Eppure adesso gli era venuto spontaneo. Figliolo…
Il giovane continuò a piangere, ma poco a poco i singhiozzi si calmarono, e il suo corpo esausto si rilassò, ripiombando in un sonno profondo, grazie a Dio senza più incubi.
Il letto era appoggiato contro il muro di fronte alla porta, da cui filtrava un po’ di luce del salotto. Procton pensò di sedersi in poltrona e lasciarlo riposare, ma quando tentò di spostarsi, perché stesse più comodo, il giovane tornò ad agitarsi, aggrappandosi a lui con disperazione.
Subito Procton si fermò, si sistemò meglio contro la testiera del letto, poi allungò una mano a prendere un plaid rimasto sulla poltrona. Si coprì con quello, continuando ad accarezzare i capelli dello sconosciuto, che si rilassò, pareva finalmente tranquillo.
Calore umano, di questo aveva bisogno adesso. Un vago sorriso incurvò le labbra del ragazzo, evidentemente lo aveva scambiato per qualcun altro, qualcuno che conosceva e di cui si fidava. Forse un parente, chissà. Meglio così, gli fece piacere notare quel sorriso appena accennato.
Era questo che voleva dire occuparsi di un figlio? Questa la responsabilità che, da scapolo convinto, non aveva mai voluto addossarsi? Procton rimase ad osservare il giovane, che ora riposava con la testa poggiata sulla sua spalla, e si sentì in pace col mondo.
Forse essere padre non era poi tanto male. Chiuse gli occhi e in pochi minuti si addormentò.

QUARTA PUNTATA

Duke si diresse velocemente, con la sua navetta e il piccolo convoglio di soccorso, allo spazioporto del pianeta Altair Due, ma si rese subito conto che non potevano atterrare. Le piste erano ormai inservibili, fumanti per le esplosioni, mentre i mezzi bruciavano a terra come torce, senza nemmeno aver fatto un tentativo di alzarsi in volo.
Ai suoi occhi si presentava una scena di completa devastazione, e gli apparve chiaro che l’attacco era stato fulmineo e massiccio. Le navi spaziali nemiche, che ora intravedeva in lontananza, avevano colpito per prime le vie di fuga, proprio per impedire alla popolazione di scappare.
Dovevano trovare un modo per scendere senza essere visti, non potevano restare li a fare da bersaglio.
Gli venne in mente un vecchio campo, dietro le colline al limitare della capitale, in cui si allenava con Marcus, il suo migliore amico, e decise di dirigersi lì, forse il nemico non ci era ancora arrivato. Era solo una piana desertica che usavano, anni addietro, per atterrare e decollare coi loro piccoli mezzi volanti.
Ripensò alla chiamata di soccorso, ricevuta poche ore prima sul suo pianeta Fleed, inaspettata e frammentaria, disperata, fatta proprio da Marcus. Gli chiedeva aiuto, Altair Due era stato attaccato, all’improvviso e in forze, dalle truppe del pianeta Vega, senza alcun preavviso che potesse metterli sul chi vive.
Era assurdo, perché accadeva? Non c’era nulla che potesse far gola al sovrano di Vega, Altair Due era piccolo e tranquillo. Non aveva senso che il re sprecasse mezzi e uomini per conquistarlo, non riusciva a capire la ragione di tanta barbarie.
A Duke re Vega non piaceva e, anche quando si mostrava bonario e gentile, sentiva che nascondeva un secondo fine. Un vicino scomodo per i due pianeti gemelli, Altair Due e Fleed.
I suoi timori si erano dimostrati fondati.
Eccola, era lì la vecchia pista, sgombra se si eccettuavano alcuni massi accumulatisi nel tempo da una parte. Atterrarono silenziosamente, nascondendo i loro veicoli proprio dietro quelle pietre erose dal vento, e si diressero subito verso la città.
Duke era molto inquieto, doveva trovare Marcus. Fece il punto col capitano che lo accompagnava, e decisero di dividere le forze, un gruppo si sarebbe diretto verso il centro, l’altro avrebbe controllato i dintorni, cercando di portare in salvo quante più persone possibili. Non erano molto armati, potevano solo fare opera di soccorso, nè Fleed né Altair Due erano dotati di vere forze militari, non erano mai servite prima.
Il giovane si mosse verso il palazzo reale, poco distante dalla città. Camminò rasente i muri con la massima prudenza, tra le macerie sparse ovunque.
La strada era piena di morti, lasciati insepolti come cose vecchie gettate via. Rabbrividì a quella vista, ma si fece forza e proseguì, cercando al suo passaggio un qualche segno di vita in quegli sventurati, ma nessuno respirava.
Vide il palazzo a poca distanza, e Marcus, sugli spalti più alti, che usava la sua pistola laser contro un minidisco, incurante del fatto che così diventava un facile bersaglio.
“Marcus! Marcus! No! Non così! Riparati!”
Duke ora gridava, tra le esplosioni e il fumo degli incendi. Ma Marcus non poteva sentirlo.
Passò attraverso le terrazze, arrampicandosi sulle macerie quando la strada era sbarrata, conosceva quel palazzo bene quanto il suo.
Lui e Marcus erano cresciuti insieme, rampolli delle due famiglie reali, alla lontana anche imparentati. Tante volte si erano persino nascosti in quelle enormi stanze, per evitare qualche ramanzina dopo aver fatto un guaio. E adesso era tutto in rovina, perché?
Arrivò sulle merlature del palazzo, che ben poca protezione potevano offrire, e vide il suo amico che sparava rabbiosamente contro un minidisco, il quale pareva divertirsi un mondo di quell’inutile tentativo. In un attimo Duke fu alle spalle di Marcus e lo gettò a terra, proprio quando un raggio mortale partiva improvviso dalla parte anteriore del mezzo volante, diretto contro di loro.
Rotolarono entrambi per un lungo tratto, poi Duke riuscì a trascinare l’amico fino ad un gruppo di macerie, usandole come scudo. Non sarebbero servite a molto, ma gli avrebbero dato un attimo di tregua, per riprendere fiato.
“Sei impazzito Marcus? Cosa volevi fare? Morire? Sparare così ad un minidisco! Cosa speravi di fargli? Il solletico?”
“Duke?” Marcus lo stava guardando con l’aria stravolta “Sei proprio tu? Che ci fai in questo inferno? Come ti è venuto in mente di venire qui?”
“Cos…? Ma che dici, mi hai chiamato tu, non te lo ricordi?”
“Io? No, è impossibile! Non ti avrei mai chiesto di venire a morire qui! Non c’è speranza di sfuggire a Vega! Ha truppe e mezzi in abbondanza, a differenza di noi!”
“Ma… Non… Non può essere, ho sentito la chiamata, era la tua voce, ci chiedevi aiuto… Sono venuto subito, lo sai che…”
Si interruppe. Adesso capiva tutto. Era una trappola.
Vega li aveva ingannati con una falsa chiamata di soccorso, proprio per sguarnire Fleed dalle sue poche truppe, e poter quindi attaccare anche quel pianeta con facilità, allo stesso modo di Altair Due. Era stata solo un’esca… Come avevano fatto ad essere così stupidi? A non capirlo subito?
Duke tremò, mentre un cupo terrore lo attanagliava. Si alzò di scatto e chiamò col comunicatore il comandante che era con lui, doveva avvisarlo di andare via, di allontanarsi immediatamente, ma gli risposero solo scariche di elettricità statica. Poi il silenzio.
“Duke, corri, torna su Fleed! Pensa alla tua gente, qui non c’è più speranza!”
Marcus aveva le lacrime agli occhi, le stesse che brillavano nello sguardo dell’amico.
All’improvviso il minidisco tornò all’attacco, approfittando del fatto che i due ragazzi erano di nuovo visibili, ma il colpo fu deviato dalle pietre del parapetto, sbriciolandone una sezione.
Marcus perse l’equilibrio, e scivolò verso il basso, iniziando a precipitare. Erano a molti metri dal terreno.
Duke si gettò istintivamente contro la parte di parapetto rimasta in piedi, usando la sciarpa del suo abito per fermare la caduta dell’altro. Marcus rimase a penzolare nel vuoto, legato alla vita solo da quella stoffa.
Con fatica, ferendosi le mani, Duke iniziò a tirare verso l’alto, cercando di farlo risalire, ma il minidisco sferrò un nuovo attacco.
Un micidiale raggio vegatron colpì il giovane al braccio destro, procurandogli un’ustione profonda, però Duke non mollò la presa. Il dolore era intensissimo, gli pareva di avere il braccio in fiamme, ma non poteva lasciar morire il suo migliore amico. Alla fine riuscì a farlo risalire oltre il parapetto, e subito corsero a nascondersi dietro le macerie.
“Sei stato ferito per colpa mia! Mi hai salvato la vita, non lo dimenticherò mai! Fammi vedere…”
“No, sto bene, è solo un graffio, non c’è tempo! Scappa Marcus, amico mio…”
“Terrò questa sciarpa finchè non ci rivedremo. Ora và, corri a casa!”
Si strinsero la mano, senza parlare.
Sapevano entrambi che quello era un addio.
Duke fasciò la ferita alla meno peggio, si rialzò, e facendo perdere le sue tracce al minidisco, si diresse verso il vecchio campo dove aveva lasciato il suo mezzo, sperando di trovarlo ancora.
Era così preoccupato che non sentiva più neanche il dolore. Doveva arrivare a casa, subito. Lì c’era tutto ciò che amava, la sua gente, sua madre, suo padre, la piccola Maria, l’adorata sorellina… L’idea di perderli gli era intollerabile.
Ma c’era anche Goldrake, l’unica vera arma offensiva che Fleed avesse mai avuto. Suo padre aveva insistito per costruirlo, proprio poco tempo prima, nonostante il parere contrario del Consiglio. Nemmeno a lui piaceva re Vega. Non credeva affatto alle sue proposte di fratellanza. Se il robot fosse caduto nelle mani del tiranno, sarebbe stata la fine per l’intera galassia, visto che ormai il sovrano aveva mostrato il suo vero volto, e non si nascondeva più dietro finti proclami pacifisti.
Perché mai il Consiglio, con assurda miopia, aveva sempre bocciato la creazione di forze di sicurezza, come invece il re chiedeva da tempo, non fidandosi di quel vicino armato fino ai denti? Erano stati imbecilli, pensò Duke, solo un branco di idioti.
A fatica riuscì a ritrovare la strada per la pista, ma quando arrivò, vide con disperazione che tutti i mezzi erano stati distrutti. Si avvicinò silenziosamente, ma avrebbe anche potuto farlo su un cingolato d’assalto, non c’era più nessuno che potesse sentirlo.
Erano tutti morti, le truppe di soccorso erano state sterminate, non prima però di essersi battute allo stremo, riuscendo ad abbattere un minidisco.
Come in trance, Duke passò attraverso quella mattanza, aggirandosi senza meta tra i rottami, doveva cercare un mezzo che funzionasse.
Poi vide il minidisco, con le luci di via ancora in funzione. Non avrebbe potuto chiamare Fleed con quello, i canali di comunicazione erano di certo controllati da Vega, ma forse era ancora in grado di volare.
Si arrampicò nella cabina deserta, provò i comandi, e con sollievo notò che rispondevano.
Lo fece partire e si allontanò da quel deserto di morte, verso casa.
Arrivò poco dopo, col cuore in gola. Aveva mandato al massimo i motori, pregando di trovare la calma che aveva lasciato, sperando di essersi sbagliato. Ma ciò che vide lo fece tremare.
Il pianeta sembrava una fornace.
Enormi mostri guerrieri, dalle forme spaventose, lanciavano i loro raggi mortali contro la capitale, ma si vedevano anche in lontananza. Erano decine, Vega attaccava in forze.
Incredulo, Duke atterrò nel primo spazio libero che glielo permise, ai margini della città, nessuno fece caso ad un minidisco tra tanti, venuti a dar man forte a quei demoni distruttivi. Scese e si mise a correre verso il palazzo reale, attraverso un paesaggio di morte e devastazione.
Quasi non riusciva a respirare, a causa delle esalazioni venefiche dei raggi vegatron e delle bombe protoniche, che continuavano a cadere sulla città, sulle campagne, sul vicino lago dove tante volte era andato a nuotare, seminando altro dolore, altra morte.
Una bomba esplose vicinissima a lui, scagliandolo con violenza contro le rovine di una casa. Duke sentì un dolore acuto al braccio destro, la fasciatura cadde, la ferita adesso era esposta ai raggi micidiali, ma subito il giovane si rialzò e riprese la sua corsa, incurante del dolore, preda della disperazione più profonda.
Inciampò, cadde di nuovo, ma si rialzò ancora una volta, finchè, in fondo alla via principale, vide la sua casa, o almeno quel che ne restava.
Il grosso dei mostri si era ormai spostato oltre la città, lì non c’era più nulla da distruggere.
Arrivò all’altezza del salone, arrampicandosi a fatica sulle macerie, ferendosi le mani e le ginocchia senza nemmeno accorgersene.
“Madre! Padre! Maria! Dove siete?... Vi prego rispondetemi, sono Duke!”
Continuava a gridarlo, spostando pietre e calcinacci, cercandoli in ogni anfratto, sotto ogni masso.
Poi lo vide. Suo padre era riverso a terra, e non si muoveva. In un attimo Duke gli fu accanto, prendendolo con delicatezza tra le braccia.
“Padre… Sono io, sono qui…”
Quasi non riusciva a parlare, il dolore era intollerabile.
L’uomo aprì a fatica gli occhi, e riconobbe il figlio. Fece un lieve sorriso, e cercò di allungare una mano per accarezzarlo. Duke la prese e se la strinse al cuore.
“Sei salvo… Figlio mio… Goldrake… Portalo… Via da loro… Non… Devono averlo… Scappa, qui non c’è più niente per te, adesso…”
Quelle poche parole gli avevano tolto le residue forze.
“Non me ne andrò da solo padre, vi porterò via di qui! “
Duke cercò di spostarlo, ma suo padre lo fermò.
“E’ tardi per noi… Ti prego, và… Prendilo…” con fatica, estrasse dalla lunga veste di corte un medaglione tondeggiante “Goldrake è per te ora… Ti guiderà da lui…”
Il giovane prese il ciondolo e se lo mise al collo, poi cercò di nuovo di spostare suo padre.
“Coraggio padre, ce la faremo… Dove sono la mamma e Maria?” Aveva paura di chiederlo, ma doveva sapere.
Il re morente indicò un gran cumulo di macerie. A Duke si gelò il sangue.
Poi il braccio di suo padre ricadde inerte, e non si mosse più.
Come inebetito, Duke lo fece ridistendere con dolcezza, poi si gettò contro le macerie che ostruivano gran parte del salone, iniziando a scavare come un pazzo, con le mani, senza fermarsi, semiaccecato dalle lacrime, in un silenzio assoluto.
Trovò quasi subito sua madre, e come se fosse un fragile tesoro di porcellana, la prese tra le braccia e la portò accanto al padre.
“Mamma…”
La guardava con infinito amore, sperando sopra ogni cosa che lei aprisse gli occhi. Ma non un fremito, non un movimento la scosse. Nulla.
Rimase per un lungo istante a guardarli, adesso erano di nuovo vicini, pareva che dormissero.
Invece di Maria nessuna traccia, sembrava svanita. Non era rimasto nulla della sua sorellina.
Duke sentì che qualcosa si spezzava in lui. Definitivamente.
Ma non li avrebbe lasciati a quelle belve, insepolti.
Poco dopo, come un automa, si allontanò da ciò che restava della sua casa, incapace di provare un qualsivoglia sentimento, cominciando ad attraversare le rovine del centro cittadino, guidato dai bagliori del ciondolo datogli dal padre.
Iniziava a piovere, una micidiale pioggia radioattiva, che ben presto avrebbe completato l’opera di devastazione del nemico.
Duke incontrò piccoli gruppi di disperati, che si aggiravano come fantasmi per la città distrutta, laceri e feriti come lui. Si guardarono in silenzio, ogni parola era ormai inutile, poi ognuno riprese la sua strada, a lottare contro i propri incubi e i propri demoni.
L’hangar era sorvegliato dai soldati di Vega. Duke si nascose poi, approfittando di un loro momento di distrazione, ne prese uno di sorpresa, lo tramortì e ne indossò gli abiti.
Goldrake era lì, possente e maestoso, ma c’era anche qualcun altro. Re Vega, con Hydargos e Gandal, suoi fidi luogotenenti, guardava soddisfatto il robot, inserito nel disco.
Duke provò una rabbia bruciante, totalizzante, contro quell’assassino, quel despota sanguinario, che aveva distrutto il suo mondo senza pietà. Giurò a se stesso che un giorno avrebbe fatto giustizia. Non vendetta, giustizia. La vendetta non gli avrebbe ridato la sua famiglia, ma la giustizia forse lo avrebbe aiutato a ritrovare la pace. Lo giurò a sua madre, a suo padre, a Maria.
Ora doveva fuggire, ma sapeva che, prima o poi, la sua strada si sarebbe di nuovo incrociata con quella del tiranno. Se lo sguardo avesse potuto uccidere, Vega sarebbe morto in quell’istante.
Ma avrebbe comunque pagato. Tutto. E lui sarebbe sopravvissuto, per essere lì in quel momento.

QUINTA PUNTATA

Procton si svegliò qualche ora dopo, riposato come non mai, nonostante la posizione non certo comoda in cui era rimasto.
Il giovane sconosciuto dormiva ancora tranquillo, sempre appoggiato alla sua spalla, non si era mosso. L’incubo non era tornato, per fortuna, e ne fu felice. Poi sospirò, gli aveva fatto male vedere tanta disperazione in una persona così giovane.
Diamine, in fondo non conosceva nulla di lui, nemmeno la sua vera età. Per ciò che ne sapeva, poteva anche essere un assassino psicopatico, eppure si fidava, e se ne sentiva responsabile, con le tipiche preoccupazioni di un genitore apprensivo.
Pazzesco. Tutto ciò che era accaduto da quella notte era assurdo, fuori da ogni logica, eppure si sentiva bene. Starò diventando vecchio, pensò, sorridendo tra sé.
Si mosse leggermente per vedere se la tormenta fosse finita, e notò con sollievo che era un bel pomeriggio, il cielo si era alzato, restava solo un leggero nevischio. Non era durata molto, stavolta. Meglio.
E adesso, cosa doveva fare? Avrebbe potuto prendere la jeep e avvertire le autorità, perché ci pensassero loro. Sarebbe stato suo dovere, quell’essere rappresentava il più straordinario contatto che l’umanità avesse mai avuto, eppure… Sapeva di non poterlo fare, di non volerlo fare, non lo avrebbe lasciato in pasto ai lupi. Il mondo aveva atteso molti secoli per questo, poteva aspettare ancora un pò. Avrebbe deciso lui che fare, Procton non voleva arrogarsi questo diritto, la vita del ragazzo non gli apparteneva.
Si spostò, per farlo riposare meglio, poi si alzò, ma prima dette un’occhiata alle fasciature. Parevano a posto, niente macchie sospette. Sorrise.
I medicinali avevano fatto effetto anche sul suo misterioso paziente, la febbre non era più tornata, e non era più tanto pallido. La magrezza restava, ma per quella occorreva più tempo. E buon cibo, ci avrebbe pensato lui a rimpinzarlo per bene. Sempre sperando che potesse mangiare il cibo terrestre, però perché no? Se le medicine non gli avevano creato problemi, non vedeva perché mai il cibo avrebbe dovuto farlo.
E in effetti anche lui doveva mangiare qualcosa, dalla sera prima aveva solo un panino nello stomaco. Nell’attesa che il giovane si svegliasse, avrebbe potuto preparare qualcosa di leggero per entrambi, e pensare a cosa dirgli, un discorso adatto all’occasione, anche se lui non avrebbe capito una parola. Si spostò in cucina, sempre attento a ciò che accadeva in camera.
Duke ritornò lentamente alla coscienza.
Com’era stato bello dormire accanto a suo padre, come quando era bambino, si era sentito protetto. Adesso gli avrebbe anche raccontato il terribile incubo che aveva avuto, per poi cancellarlo definitivamente.
Muovendosi piano aprì gli occhi. E si bloccò. Suo padre non c’era. E non era nel grande letto dei genitori.
Mise a fuoco, un po’ alla volta, un soffitto basso, di tronchi, e poi spoglie pareti di legno levigato. Una finestra inondata di luce, su uno sfondo bianco, incomprensibile.
Balzò a sedere, sconcertato, e si guardò intorno. Era in una camera, però la più strana che avesse mai visto. C’erano cose che riusciva a identificare, seppur diverse da quelle che conosceva, ma altre erano mute, mai viste prima.
Dov’era? Cos’era quel luogo? Che stava succedendo?
Allora non aveva sognato.
Sentì un groppo in gola, i ricordi erano confusi, frammentari, ma stavano tornando tutti, anche quelli che avrebbe voluto dimenticare.
L’attacco, la sua famiglia, Marcus… Un lancinante dolore lo attraversò, un dolore dell’anima, un senso acuto di perdita irreparabile, di estrema solitudine.
Era tutto vero.
Guardò la coperta, di chissà quale materiale, stesa sul letto a coprirlo, l’indumento che indossava, troppo grande per lui, poi quel paesaggio completamente bianco. Cos’era quella strana lanugine che cadeva dal cielo e copriva tutto? Era affascinante, e per un istante Duke rimase a fissarla, come rapito.
Una fitta al torace lo fece trasalire. Era ferito. Ma qualcuno aveva fasciato accuratamente tagli ed escoriazioni, persino l’ustione al braccio. Strano.
Sentì un rumore e si voltò di scatto verso l’ingresso della stanza.
Procton percepì dei fruscii provenire dalla sua camera, e si diresse subito lì. Era sulla soglia, quando vide che il paziente misterioso si era ripreso, e ora lo fissava. Rimasero a scrutarsi per un lungo istante, più curiosi che spaventati. Così uguali, eppure tanto diversi, due sguardi che avevano attraversato l’universo prima di incontrarsi.
Gli occhi del ragazzo erano i più strani che avesse mai visto, umani eppure unici, allungati ma non a mandorla, di una tonalità di blu che non riusciva a definire. Gli ricordavano qualcosa, che non seppe subito identificare. Poi gli vennero in mente le antichissime statue, e gli affreschi, che aveva visto al Museo del Cairo, dopo un convegno astronomico, anni prima. Erano molto simili. Gli occhi dello sconosciuto parevano tolti di peso da un qualche ritratto di sovrano Egizio, eppure provenivano da profondità ben diverse, non di tempo, ma di spazio.
“Ciao…”
No, non così, accidenti, Procton si mandò mentalmente a quel paese. Al primo incontro con un alieno non poteva uscirsene con un prosaico saluto qualsiasi, ma il bel discorso che si era preparato, era svanito dalla sua mente con la velocità del lampo. Rimase lì a fissarlo, senza riuscire ad articolare una frase coerente.
Quegli occhi avevano un che di ipnotico, profondi eppure insicuri, maturi ma con un fondo di fragilità.
Procton fece un passo verso il letto, ma subito lo sconosciuto si ritrasse, fino a fermarsi contro il muro, lo sguardo circospetto. Lui capì che era spaventato, ed era logico. Non voleva aggiungere altri timori a quelli che già aveva, così, lentamente, si avvicinò alla poltrona e si sedette. Poi allungò una mano, verso il ragazzo.
“Non avere paura, non ti farò del male” il tono di voce era pacato “ Sei al sicuro quì. So che non puoi capirmi, ma volevo dirtelo. Nessuno ti farà del male. Sono tuo amico.”
Gli sorrise, e rimase con il braccio teso verso di lui, la mano aperta. Si augurò che quel gesto fosse interpretato per ciò che era, un ponte tra civiltà tanto distanti.
Il giovane fissò quella mano tesa, poi l’uomo che lo guardava calmo.
Passò un lungo istante, era tutto immobile come in una fotografia.
Poi Procton vide la mano dello sconosciuto allungarsi lentamente verso la sua, toccarla, e infine stringerla. Ricambiò la stretta, e gli sorrise di nuovo.
“Ciao. Benvenuto sulla Terra, mio giovane amico.”
Allungò l’altro braccio, poi scompigliò con dolcezza i capelli del ragazzo, facendogli una carezza. Il giovane si irrigidì quando vide avvicinarsi quella mano, ma poi si rilassò, quando ne capì il movimento.
“Vorrei chiederti tante cose, ma non so come fare. Aspetterò di riuscire a capirti, avrò pazienza, anche se mille domande mi assillano.”
Lo sconosciuto continuava a fissarlo, con la testa leggermente inclinata di lato, come a cercare di concentrarsi per comprenderlo, quello sguardo incredibile fisso su di lui. Poi indicò le fasciature.
“Sì, ti ho trovato ieri sera, eri precipitato col tuo mezzo. Vivo solo in questa baita al momento, sono in vacanza, e ti ho visto cadere. A dire il vero hai quasi preso in pieno la mia capanna. “ sorrise” Ma per fortuna non è accaduto. Poi ti ho curato, c’era una tormenta. Il tuo veicolo è ancora là fuori, intatto, per quel poco che ho potuto vedere.”
Il ragazzo continuava ad osservarlo.
“Lo so che non puoi capirmi, e per un pezzo mi sa che dovrò fare monologhi… A proposito, io mi chiamo Procton.” indicava se stesso ora “Procton. E tu?”
Indicò il ragazzo, che lo guardò e non disse nulla.
“Oh bè, un passo alla volta, ci vuole pazienza in queste cose.” si rialzò, e il giovane si irrigidì di nuovo, ritraendosi verso il muro “Non ti farò del male, stà tranquillo.”
Procton si rendeva conto che lo straniero doveva essere spaventato, qualunque movimento lo metteva sul chi vive.
“Vado a prenderti qualcosa da mangiare.”
Ritornò dopo pochi istanti, con un fumante piatto di minestra e un cucchiaio. Li poggiò sul comodino, poi si sedette sulla poltrona. Prese il cucchiaio e fece l’atto di immergerlo nel brodo, per poi far finta di portarlo alla bocca, cercava di fargli capire come si usava.
“E’ buono, sai? Non sono un gran cuoco, però non ti avvelenerò, puoi fidarti!”
Gli sorrise, poggiò con delicatezza il piatto sulle sue ginocchia, e attese.
Il ragazzo prese il cucchiaio, poi lo lasciò ricadere. Girò la testa di lato, lo sguardo improvvisamente triste.
“Ti prego, fai uno sforzo. Sei troppo debilitato, devi mangiare. E’ qui, quando lo vorrai.”
Prese il piatto, e lo poggiò di nuovo sul comodino.
Il giovane rimaneva ostinatamente voltato verso la finestra, lo sguardo come perso in quell’immensità bianca.
Procton si alzò e si accinse ad andare in cucina, frustrato. Non riusciva a farsi capire, ed era terribilmente preoccupato per lui.
“… Grazie…”
Fu poco più di un sussurro, ma bastò a far voltare Procton di scatto.
Non era possibile. Non poteva aver sentito quella parola.
Lo sconosciuto ora lo fissava, con uno sguardo indecifrabile.

SESTA PUNTATA

Per un attimo lui pensò di averlo solo immaginato, in fondo era stato poco più di un mormorìo, doveva essersi sbagliato. Non poteva essere, non era proprio umanamente possibile. C’era forse una possibilità su un miliardo, ad essere generosi, che una lingua aliena contenesse quello stesso termine, e con lo stesso significato. Eppure Procton sapeva di non aver capito male. Il ‘grazie’ era proprio un ringraziamento.
“Come hai detto?”
La domanda aleggiò tra di loro per qualche istante.
Il giovane sconosciuto continuava ad osservarlo intento, la testa un po’ inclinata di lato, come per capire meglio.
“Grazie…”
Lo ripetè, più chiaramente.
“Oh mio Dio… Tu capisci ciò che dico? Mi comprendi?”
Procton era sconcertato.
“Si, capisco, ma… Non… Parlo bene, scusa...”
Lo disse lentamente, un po’ incerto, sembrava scegliere le parole, come se gli fosse complicato articolare le frasi in una lingua che, evidentemente, non era la sua.
Procton si sentì avvolgere da una grande gioia, mista a sollievo. Era tutto assurdo, un’altra delle tante follie di quella giornata, eppure era felice. Si capivano.
Era come attraversare un fiume, convinti di doverlo fare a nuoto senza conoscere la direzione, e trovare improvvisamente un solido ponte.
Si avvicinò al letto, si sedette sulla sponda, poi abbracciò di slancio il giovane. Non sapeva ancora come e quando lui avesse imparato la sua lingua, ma era una realtà meravigliosa. Il resto, chiarimenti e spiegazioni, avrebbero atteso. Potersi comprendere apriva nuove strade per entrambi.
Il ragazzo si irrigidì, sorpreso, ma poi si rilassò, ricambiando quell’abbraccio sincero, sentendosi al sicuro.
“Scusa, ma… Mi hai davvero spiazzato. Tutto avrei potuto immaginare, ma non questo. Ne sono davvero felice.” Procton gli sorrise, ma poi si scostò un po’, non voleva spaventarlo, e si sedette sulla poltrona, continuando ad osservarlo “Quindi, mentre prima ti parlavo, tu mi capivi, vero?”
Il giovane fece cenno di sì. Ma ora teneva gli occhi bassi, incerto su come l’altro avrebbe potuto prenderla.
“Però non hai detto nulla, perchè avevi paura… Sì, è logico. Se io arrivassi su un pianeta alieno, solo, ferito e sconvolto, scoprendo di capire la lingua di quel luogo, non credo che lo andrei a dire subito in giro. Bisogna essere prudenti…”
Aveva parlato in tono scherzoso, e il ragazzo, rialzato lo sguardo, lo notò. A Procton si allargò il cuore quando vide il suo sorriso, ancora un po’ tremolante e timido, ma senza dubbio un sorriso.
“Non sono arrabbiato, anzi, tutt’altro. E’ solo stupore il mio… “ rise “In effetti non è normale niente da stanotte, ma mi ci sto abituando, sai? Avrei tante cose da chiederti, ma non lo farò. Un po’ alla volta ci spiegheremo, anch’io ti dirò tutto di me, ora so che potremo intenderci, posso aspettare. Solo… Qual’è il tuo nome? Non vorrei chiamarti ‘hei tu’…”
Il tono era allegro, e lo sconosciuto sospirò sollevato.
“Duke. Duke Fleed”.
“E’ un nome molto bello. Benvenuto sulla Terra, Duke.”
“Mi hai… “ sembrava mancargli il termine “Salv...”
“Salvato?”
“Sì... Grazie…”
Sorrise di nuovo, un sorriso sincero.
“Di nulla. Sono davvero contento di averlo fatto. Proprio felice.”
Gli scompigliò leggermente i capelli, in un gesto delicato. Il giovane non si ritrasse, stavolta, poi tornò a fissare il mondo bianco fuori dalla finestra, ne era come stregato, Procton l’aveva già notato.
“Ti piace la neve, Duke?”
Lui si girò a guardarlo, sconcertato.
“Neve?”
“Sì la neve. E’ quella che sta cadendo dal cielo. Ma suppongo si chiami in modo diverso sul tuo pianeta.”
Un cenno negativo, poi il giovane riprese a fissare quella cortina bianca.
“No, aspetta… Stai cercando di dirmi che non conosci la neve?”
“Si… Non neve, noi… Com’è?”
Lo fissava, curioso.
“Vuoi vederla da vicino?”
Il cenno positivo era chiaro. Gli brillavano gli occhi.
“Aspetta un attimo, torno subito.”
Procton si alzò e si diresse verso l’ingresso, aprì un attimo la porta e raccolse un po’ di neve dalla soglia, poi la richiuse subito. Il gelo era ancora intenso, nonostante il tempo sereno.
Andò in cucina, prese una piccola bacinella, mettendoci dentro quel mucchietto bianco, poi rientrò in camera, porgendola a Duke.
Il ragazzo avvicinò una mano a quella strana cosa e la toccò, ritraendo subito il braccio. Poi osservò le sue dita, su cui erano rimasti granelli bianchi. Li guardò sciogliersi in silenzio. Ne era come ipnotizzato
“Fredda…”
“Sì, è gelida. Bellissima, ma può essere letale, se si rimane fuori troppo a lungo. Però il caldo la fa sparire. Come la tua misteriosa tuta… Spero che un giorno mi spiegherai com’è stato possibile. Da noi una cosa del genere non è mai successa, prima.”
“Sì...” una pausa “Ma se io… Rimasto fuori… Morto?”
“Quasi certamente. Eri ferito, incosciente, e la notte il freddo aumenta… Non volevo che accadesse.”
Per la prima volta, fu Duke a tendere una mano verso Procton, e lui la strinse.
Rimasero ad osservarsi per un istante. Un altro passo era stato fatto, un’altra barriera infranta.
“E… Goldrake?”
Duke indicava fuori, il paesaggio candido.
Procton lo guardò senza capire.
“Chi?” poi comprese il gesto ”Vuoi dire il tuo disco?”
Un cenno affermativo, un po’ preoccupato.
“E’ ancora lì, integro per quel che si vedeva ieri notte. Andremo a controllare appena starai meglio. Per adesso è al sicuro, coperto com’è di neve e massi che lo fanno sembrare solo una collina. Ehm… Potrò dargli un’occhiata anche io, vero?”
A Procton ronzavano le orecchie, la sua mente di studioso vibrava.
“Certo, si…”
Una fitta al braccio destro fece trasalire il giovane.
Procton scostò la ciotola con la neve, poggiandola da una parte, e aiutò Duke a ridistendersi. Poi controllò le fasciature, erano a posto per fortuna.
“Ora devi riposare, ragazzo mio, non voglio che ti stanchi. E mi prometti che poi mangerai qualcosa?”
Il tono era dolce, paterno. Duke si sentiva al sicuro. Fece cenno di sì, poi chiuse gli occhi, e in pochi istanti si era già addormentato.
Procton sospirò sollevato. Le domande potevano attendere.
Col passare dei giorni, assieme al prodigioso recupero di Duke, le cui ferite parevano avere la singolare capacità di cicatrizzare in metà tempo del normale, a fare enormi progressi fu anche il dialogo tra loro.
Non parlavano di cose importanti, Procton voleva evitare che il giovane si incupisse, aveva notato che la tristezza lo riprendeva, quando c’era qualcosa che gli ricordava il suo misterioso passato. Si concentravano sui vocaboli, e sulle piccole cose.
Di notte, a volte, il ragazzo aveva ancora degli incubi, e lui correva subito, restandogli accanto finchè quei ricordi si stemperavano. Ma per fortuna divennero sempre più rari e meno spietati.
Duke era curioso di tutto, in particolare della natura terrestre. Sfogliava avidamente i libri, perdendosi per ore nella contemplazione di quelle immagini. Animali, piante e paesaggi lo attiravano irresistibilmente, e lui non si stancava mai di fare domande, all’inizio in modo sconnesso, ma sempre più con chiarezza.
Invece i libri di astronomia vennero, per il momento, volutamente lasciati sullo scaffale da Procton, mentre il legame col ragazzo si rafforzava.
Sembrava anche gradire la sua cucina, pensò, mangiava tutto senza fare storie, cosa che lo aiutava a riprendere le forze. Se non altro non gli tirava appresso il piatto, rifletteva con un sogghigno.
Dopo una settimana, Duke potè alzarsi per la prima volta, con cautela, e fu un gran passo avanti.
Seduto sul letto, il giovane fissò Procton, di nuovo con quegli occhi incredibili, sembravano provenire dalle profondità dell’universo, aver visto tutto, e in qualche modo era proprio così.
Poi iniziò a parlare, era arrivato il momento, anche se lui non gli aveva chiesto nulla.
“Il mio pianeta è molto distante da qui, si chiama Fleed, non so quale nome abbia da voi. Però conoscevo la Terra, anche non c’ero mai stato. Mio padre sì, molto tempo fa, e anche altri. Passavamo inosservati, siamo quasi uguali a voi. Ma non venivamo per spiarvi, era solo per capire, e imparare. “ una pausa, poi riprese “Aspettavamo che foste pronti, che poteste comprendere ciò che vi avremmo detto, quello che avreste visto. La nostra civiltà. Volevamo farci conoscere. Perciò alcuni di noi hanno imparato le vostre lingue, non tutte, solo le principali. Per poter parlare. E’ stato mio padre ad insegnarmi la tua. Non ero un buon allievo, però, preferivo correre e scherzare con gli amici…” fece una smorfia buffa ” Ero un disastro, mi impegnavo poco…”
“Bè, non mi pare davvero, parli come un madrelingua, senza inflessioni! Sarà anche vero che non ti impegnavi molto, ma i risultati sono strepitosi, puoi credermi!”
Procton era sinceramente ammirato, e Duke fu lieto di quel complimento
“Avrei dovuto studiare anche un po’ della vostra storia, ma… Non mi andava…”
“Oh bè, tutto l’universo è uguale allora! Gli studenti recalcitrano e tentano di svicolare… Anche qui, sai?”
Si sorrisero.
“Il momento del contatto era quasi arrivato. Solo che…” a Duke si incrinò la voce, e lo sguardo divenne distante. Si girò a guardare il mondo bianco che lo circondava, fuori dalla finestra.
Il dolore era tornato, il solo pensare alla sua terra lo lacerava, e parlarne era difficile.
Ma capiva che quell’uomo tanto buono, che gli aveva salvato la vita, senza chiedere nulla in cambio, meritava una spiegazione. Era così generoso, e non lo stava nemmeno tempestando di domande.
Il giovane gli voleva bene, come mai avrebbe creduto possibile.
“Possiamo parlarne un'altra volta, se vuoi…”
Di nuovo quel tono dolce, paterno, che gli scaldava l’anima.
“No, è giusto che tu sappia ciò che non mi hai chiesto, ma che vorresti sapere” sospirò “C’è stata una… Una guerra. Siamo stati invasi, all’improvviso, in forze. E io sono dovuto scappare. Volevo restare a difendere la mia gente ma…” la sua voce era solo un sussurro roco” Non c’era più nulla da difendere… Sono fuggito qui, non avevo un altro posto dove andare… Perché ci hanno fatto questo, perché?”
Lo fissava con disperazione, come se lui avesse la risposta.
Procton comprese. D’un tratto ricordò gli incubi, le paure, la sofferenza. Era per quello, allora. Per la cosa peggiore che un essere vivente possa sperimentare, l’odio di un altro essere vivente. A qualunque latitudine, in qualunque mondo, il dolore feriva.
Ma non c’era risposta a quel perché, la guerra non aveva giustificazioni, cosa avrebbe potuto dirgli?
Ripensò ai massacri, agli eccidi della sua storia, senza senso, senza ragione. La guerra non aveva mai motivazioni valide. Era pura follia distruttiva.
“Non so perché. Non posso rispondere alla tua domanda, purtroppo. Se avessi quella risposta, saprei come impedire le guerre. Ma non lo so. Nessuno lo sa. Anche il nostro passato è pieno di quel dolore…”
Parlava piano, poi si rese conto che il giovane tremava.
Duke si era voltato di nuovo verso la finestra, cercando di non cedere alla disperazione. Ma era una lotta impari. Troppo recenti gli avvenimenti, troppo brucianti i ricordi, ancora senza la misericordia del tempo a lenire le ferite.
“Puoi sfogarti se vuoi. Non ti lascerò solo.”
Il giovane si girò di scatto verso di lui, poi lo abbracciò, senza parlare. Procton si sedette sul bordo del letto e lo strinse con affetto.
C’erano ancora tante cose da sapere l’uno dell’altro, ma ci sarebbe stato tempo per quello. Ciò che adesso contava era la vicinanza di due anime, incredibilmente simili pur arrivando dai confini estremi dello spazio, e con storie diverse alle spalle.
“Eri tu quel primo giorno, vero? Che mi abbracciavi come ora, facendomi sentire al sicuro…” Duke parlava sommessamente “Ho creduto che fossi mio padre, ero felice… Grazie, di tutto… “ una pausa e poi, fissandolo ” Che ne sarà di me?”
“Sarai tu a deciderlo, solo tu. Qui nessuno ti farà del male. Non sei più solo.”
Gli sorrise.
“E quando starò meglio, te ne andrai?”
Quella domanda venne posta quasi sottovoce, con un tono carico di preoccupazione.
Procton sentiva in Duke grande forza e determinazione, lo aveva dimostrato bene in quei giorni. Ce n’era voluto davvero tanto di coraggio per sopravvivere, arrivare fin lì e non arrendersi,.
Ma vedeva anche i traumi e le ferite che si portava dietro, non solo quelli fisici. Il tempo era il suo migliore alleato, e avrebbe mostrato al mondo chi era Duke Fleed, quanto fosse speciale. Ne era certo.
“Vuoi che rimanga?”
Trattenne il fiato.
“Sì… Padre…”
Duke lasciò che tutte le barriere, costruite attorno alla sua anima per difenderla, cadessero. Era certo che suo padre avrebbe capito.
Si sentì bene, davvero bene per la prima volta dopo tanto tempo.
“Figlio mio, ci sarò sempre…”
Procton sapeva che era il termine giusto.
La vita era strana a volte, e sembrava giocare con le persone, ma era un gioco che gli piaceva.
Rimasero abbracciati ancora per qualche istante.
“Sappi che sono insopportabile…”
“Anche io, non ne hai idea…”
Notò che Duke ora rideva, un riso sommesso ma sincero.
Gli diede immensa gioia sentirlo.



SETTIMA PUNTATA

Quel giorno Procton, rientrando in soggiorno dopo aver preparato il pranzo, vide Duke armeggiare con un libro voluminoso, posto sul ripiano più alto della libreria. Dopo averlo preso, forse a causa di un movimento brusco, lo sentì ansimare per un improvviso dolore al torace, e si precipitò da lui.
“Stai attento! Non devi sforzarti, non vorrei che ti si riaprissero le ferite. Non sono ancora del tutto cicatrizzate, sebbene tu abbia eccezionali tempi di recupero. Te lo avrei preso io!”
Il tono era fintamente burbero.
Il giovane si sedette sul divano, poi assunse un’espressione un po’ contrita, ma gli ridevano gli occhi.
”Scusa, hai ragione, ma volevo sapere cosa ci fosse in questo testo e non ti volevo disturbare, stavi cucinando. Ero curioso.”
“Certo, è logico, qui è tutto nuovo per te... Ti fa ancora male? Fammi vedere la fasciatura.”
“Non ti preoccupare, è già passato… Astronomia!”
S’illuminò, nel vedere il grande atlante del cielo che aveva in mano.
Iniziò a sfogliarlo con reverenza, girando le pagine lentamente, dopo averle osservate a lungo, ammirato dalla precisione di quelle illustrazioni.
Procton non disse nulla, e attese. Duke aveva trovato da solo quel libro, e ora non sapeva che tipo di reazione potesse avere. In quei nove giorni dal suo arrivo, aveva accuratamente evitato di parlare del passato del ragazzo, visto che farlo gli causava ancora grande dolore, ma forse adesso era arrivato il momento.
Vide Duke fermarsi all’improvviso, lo sguardo fisso su un’immagine a doppia pagina. Si avvicinò e la osservò anche lui, sedendosi accanto al giovane.
La didascalia diceva ‘Nebulosa Nc300, braccio destro della Via Lattea’.
“Conosci questa parte della galassia?”
Glielo chiese, ma sapeva già la risposta. Duke era impallidito.
“E’… Era la mia casa… Fleed…” parlava sottovoce, a fatica, senza staccare gli occhi dal libro “I pianeti del sistema non si vedono, non è un’immagine abbastanza ravvicinata da mostrarli, ma… La riconosco… Fleed è qui… Quella che voi definite Nc300 noi la chiamiamo Nebulosa di Vega, dal nome del pianeta maggiore…”
Chiuse gli occhi per un istante. Quel nome sembrava ferirlo particolarmente.
Procton capì
“E’ Vega che vi ha attaccati.”
Non era una domanda, ma una constatazione.
Duke fece un cenno affermativo. Poi sospirò.
“Padre, voglio dirti cosa è successo, anche se per me sarà come riviverlo. E giusto che tu lo sappia.”
“Se non te la senti possiamo aspettare, non sei costretto a farlo.”
Duke lo fissò con uno sguardo carico di affetto
“So che hai volutamente evitato di toccare certi argomenti. Te ne sono grato, sei sempre così paziente e disponibile. Ma forse parlarne farà bene anche a me.”
Appoggiò la testa sulla spalla di Procton, poi cominciò a raccontare.
Tutto, dall’inizio. Fu un tormento per lui parlare, come lo fu ascoltare quella storia di dolore e morte, di arroganza e disperazione.
E ad ogni parola che si aggiungeva, Procton sentì aumentare l’ammirazione per Duke, per il suo coraggio e la sua forza, per non aver ceduto mai, nemmeno di fronte alle prove più dure, andando avanti nonostante tutto.
Alla fine rimasero in silenzio. Non c’era bisogno di parlare, tutto era già stato detto, chiarito. Ma questo completava un ideale cerchio, riportandoli al punto di partenza e aprendo, per entrambi, le porte di una nuova esistenza.
In quel momento Procton pensò alla storia della Terra, ai suoi criminali che, come Vega, avevano cercato di sottomettere il prossimo, di schiavizzarlo, dominarlo, annientarlo. Anche restando al solo Ventesimo Secolo, c’era da rabbrividire. E si chiese, con sgomento, cosa sarebbe successo se quei macellai avessero avuto anche le stesse armi tecnologiche del tiranno, oltre al suo delirio di onnipotenza. Sarebbe stata, probabilmente, la fine dell’umanità.
Duke ora teneva gli occhi chiusi, mentre il suo corpo finalmente si rilassava, dopo la tensione accumulata. Sì sentì meglio, più leggero. Aver potuto dividere quel peso immane, con qualcuno in grado di comprenderlo, lo aveva aiutato.
“Sono orgoglioso di te, figlio mio. Voglio che tu lo sappia. Ho sempre pensato che tu fossi speciale, e oggi ne ho avuta un’altra conferma.”
Il tono era di grande rispetto.
“Ma sono fuggito, io…”
Duke sospirò..
“No. Non avresti potuto fare nulla se fossi rimasto, e ora Goldrake sarebbe nelle mani del nemico. Non sentirti in colpa, non ne hai motivo.” Procton gli sorrise “Invece ora sei qui, il tuo disco è al sicuro, e Vega ti crede morto. Perciò puoi fare la cosa migliore, quella che anche la tua famiglia vorrebbe per te... Vivere.”
“Padre… Incontrarti è stata la mia salvezza, in tutti i sensi… Grazie…”
“Sono io ad essere stato fortunato…”
Un sinistro fischio, proveniente dal bollitore lasciato sul fornello, e lì dimenticato, li riportò alla prosaica realtà. L’acqua, ormai ridotta a vapore, stava traboccando, con lo stesso suono stridulo di un treno che entri in stazione.
“Per la miseria!”
Procton si alzò di scatto e si tuffò verso la cucina.
Duke lo sentì borbottare contro l’idiozia umana, sul fatto che stesse invecchiando visto che si scordava le cose, e si mise a ridere. Un riso capace di spazzare via le nubi della tristezza che avevano di nuovo cercato di travolgerlo. Era bello preoccuparsi di cose semplici come queste. Com’era meravigliosa la normalità, pensò.
“E’ pronto in tavola, ma niente tè…”
Procton rientrò dalla cucina con in mano il corpo del reato, un normalissimo bollitore, se non si guardava più giù del manico, dove regnava una grossa macchia nera di bruciato.
Si sedettero a tavola e iniziarono a pranzare, ancora divertiti dal surreale inconveniente.
“Padre, volevo chiederti… Come faremo per l’adozione? Non ti creerà problemi? In fondo di me nessuno sa nulla, non esisto per la Terra. Sei proprio certo di volermi dare il tuo cognome?”
Lo guardava con gli occhi brillanti.
Non aveva dimenticato che, il giorno prima, Procton gli aveva detto di volerlo come figlio anche legalmente. Non lo avrebbe mai scordato, si era sentito davvero bene, parte di qualcosa di grande, una nuova famiglia.
“Certo che sì. Non potrei desiderare un figlio migliore di te, dico sul serio.” ed era sincero “Lo faremo appena tornati a Tokyo, ho degli amici fidati che ci aiuteranno.”
Duke pensò che non avrebbe mai permesso a nessuno di fare del male a Procton. Mai. Lo avrebbe difeso contro qualunque pericolo. Perché era speciale. E sarebbe stato degno di portare il suo nome.
“Tra l’altro manca poco, domani ripartiremo. Ci sono tante cose da fare prima di tornare all’Istituto. Devi impratichirti un po’ delle cose terrestri, così passerai inosservato. Staremo per qualche giorno nel mio piccolo appartamento in centro, lo uso raramente, solo quando devo andare in città e per i convegni, ma se la polvere non lo ha sommerso in questi mesi di lontananza, ci staremo bene.” gli sorrise “ E bisognerà trovare il modo di nascondere il tuo disco, nel pomeriggio andremo a vedere cosa si può fare. Non vedo l’ora di poterlo osservare meglio.”
“Grazie… Sono legato a Goldrake, è l’ultimo dono di mio padre, e desidero che vegli sulla Terra. Ma sarà meglio nasconderlo per il momento. Hai già in mente un posto?”
“Sotto l’Istituto ci sono delle grotte, molto ampie. Ho intenzione di metterlo nella più grande, dopo averla trasformata in hangar. L’entrata dà su uno strapiombo, ma se ci costruiremo davanti qualcosa, magari una finta diga, potremo occultarne l’ingresso, ho già delle idee in proposito.”
“Non vedo l’ora di incontrare i tuoi amici, anche quelli della fattoria di cui mi parlavi… Makiba, vero?”
“Sì. Rigel è un fenomeno vivente, devi conoscerlo! Un po’ strambo, ma ha un gran cuore, si può sempre contare su di lui. E la sua tenuta è un gioiello. Come i suoi figli, Venusia e Mizar. Ti piaceranno, ne sono certo!”
Duke assentì convinto, era sicuro che li avrebbe adorati.
“Ah, senti… Che nome vuoi mettere sul certificato di nascita? Duke? E’ bello, potresti tenerlo.”
Lo chiese con noncuranza, ma sapeva che lui non avrebbe voluto, si capivano al volo.
“No, padre, io… Ecco… Non è facile per me… Non potremmo usarne un altro?” parlava piano, lo sguardo sofferente “So che è il mio nome, eppure mi sento così cambiato. Non so più chi sono, cosa sono… E’ come se fossi stato fatto a pezzi, e rimesso assieme come capitava, è tutto diverso... Mi sembra così lontano il Duke di Fleed, mi resta solo il suo dolore indelebile… Non si può tornare indietro, devo guardare avanti. So che anche la mia famiglia lo vorrebbe, e voglio provarci. Voglio vivere da terrestre, essere normale. Solo questo…”
“Lo so, e ti capisco” Procton si alzò, prese l’atlante e lo poggiò sul tavolo. Chiuso. Poi lo osservò “Facciamo un gioco… Ora apri il libro a caso, e indica una parola senza guardare. In questo testo ci sono tanti nomi che ricordano lo spazio, cercheremo finchè qualcuno non ci piacerà, che ne dici?”
Duke accettò subito. Non ebbe bisogno di ringraziare Procton che, con perfetta scelta di tempo, aveva stemperato l’atmosfera cupa che lo avvolgeva. Bastò un sorriso, non erano necessarie parole.
Aprì il libro ed indicò un termine.
Aldebaran… No, troppo pomposo.
Plutone... Per carità, sembrava il nome di un cane.
Arctarus… Questo era bello, ma c’era qualcosa che non quadrava.
“Diamine figliolo, mi si annoderà la lingua a pronunciarlo! Vediamo come si può modificare… Ehi, guarda, se togliamo una ‘r’ è molto meglio!”
“Actarus…Sì, mi piace….” Lo sentiva adatto a lui, suonava bene.
“Benvenuto sulla Terra Actarus.”


OTTAVA PUNTATA

Finalmente il sole fece di nuovo capolino quel pomeriggio, dopo la tormenta e tanti giorni rigidi. Certo non aveva molta forza per scaldare, ma era un piacere vedere il suo riflesso su tutto quel candore, e sentire lo stillicidio delle gocce d’acqua che cadevano incessanti, dovute alla neve che si scioglieva dal tetto della baita, dagli alberi del bosco.
Actarus guardava fuori dalla finestra, singolarmente teso, non vedeva l’ora di poter uscire ad esplorare la sua nuova casa.
Casa… Una fitta di dolore lo attraversò, gli mancò il respiro. Non era un dolore fisico, e per il momento non c’erano lenitivi per quella sofferenza. Ma sapeva che il tempo e l’affetto lo avrebbero aiutato, lo stavano già facendo, come anche quel bellissimo pianeta, di cui poco aveva visto fin’ora, ma che già sentiva come proprio, da difendere e proteggere. Gli dava tanta pace stare lì, vedere che la vita continuava, e trovava sempre nuove e meravigliose forme d’espressione.
“Sarà il caso che tu non metta questi per uscire…” Procton era arrivato da poco in salotto, ed era rimasto ad osservare il ragazzo, che guardava estasiato quel paesaggio bianco ”Non mi paiono molto indicati con questo freddo… “ lo disse con tono allegro.
Actarus si girò e lo vide con in mano i suoi abiti di Fleed, piegati per bene. Certo erano strani per la Terra, pensò, così diversi... Sorrise.
“A proposito, è questo il medaglione di cui mi hai parlato?”
Procton lo prese con delicatezza, da sopra la pila dei vestiti, e lo osservò. Non riuscì a capire di che tipo di materiale fosse fatto, pareva una lega plastico-metallica. Affascinante.
“Sì, è quello che mi diede mio padre, lo sblocco per i sistemi di sicurezza di Goldrake… Se tu, quel giorno, avessi cercato di toccare il disco, una forte scarica elettrica ti avrebbe folgorato…”
Lo disse piano, con una nota d’ansia nella voce. Non riusciva a pensarci, sarebbe stato tremendo.
Procton sgranò gli occhi.
“Accidenti! Dici davvero? Questa poi… “ fece un gran respiro “Per fortuna che non l’ho fatto allora, non è il caso di avere simili esperienze!” si sentì enormemente sollevato.
E comprese che lo aveva salvato Actarus. Se non ci fosse stato lui, ferito, di certo si sarebbe avvicinato di più, la sua curiosità di scienziato avrebbe avuto la meglio… Non volle neanche riflettere sul seguito.
Porse il ciondolo al ragazzo, che lo indossò, poi si prepararono ad uscire. Procton poggiò sul tavolo quegli strani abiti, prese una busta capiente e ce li infilò. Il resto era già stato caricato quasi tutto sulla jeep, restavano solo poche cose da portare a mano. Di ritorno dalla ricognizione al disco sarebbero ripartiti, per poi tornare con più calma e con mezzi adeguati, per spostare e nascondere quell’incredibile macchina. Tanto, almeno fino alla prossima Primavera, non un’anima sarebbe arrivata fin lassù, in quel deserto bianco, gelido e inospitale.
Solo io sono così matto da volerci stare, ridacchiò Procton tra sé.
Poi guardò Actarus. Era infagottato in un suo completo invernale, troppo grande per lui ancora molto magro, e decisamente poco a suo agio con tutti quei vestiti addosso. Veniva da un pianeta sempre piuttosto caldo, doveva sembrargli strano indossare tanti indumenti pesanti.
“Tutto ok?”
“Sì… Credo…”
Lo disse mentre cercava goffamente di sistemare la sua tenuta. Senza molto successo, era di due taglie maggiore del necessario, e tendeva comunque a cadere a sacco.
“La prima cosa da fare, appena arrivati in città, sarà di comprarti un guardaroba decente!” Procton lo disse ridendo, mentre Actarus litigava con una cinghia del giaccone che non voleva chiudersi “Aspetta, faccio io”
Procton armeggiò con i ganci, e in pochi istanti era tutto a posto.
“Vedrai che il calore di questi abiti ti farà piacere, una volta fuori.”
Poi aprì la porta, e uscirono all’aperto.
La prima cosa che Actarus notò fu il gelo, intensissimo per lui non abituato, e si strinse nel giaccone, lieto di averlo indosso. Ma subito dopo il suo sguardo fu catturato da quell’incredibile paesaggio bianco e nero, tutto neve candida e tronchi scuri, che creavano uno straordinario contrasto. Dimentico di ferite, freddo e timori, corse fuori e si immerse in quel mondo silenzioso e affascinante.
Procton rimase ad osservarlo dalla soglia per qualche momento.
Ora sembrava un ragazzino, si stupiva di tutto, osservava rapito ciò che lo circondava, toccava gli alberi, le foglie, la neve, rimanendo poi a fissare le sue profonde orme. C’erano almeno quaranta centimetri di neve, e camminare era faticoso, ma nulla sembrava preoccuparlo.
Poi un raggio di sole gli accarezzò il viso, delicatamente, scaldandolo.
Com’era bello, pensò il giovane, davvero meraviglioso. Chiuse gli occhi per un pò, godendosi quel tepore. Non si sarebbe mai stancato della Terra, era stato amore a prima vista.
Un leprotto fece capolino da dietro un tronco, fissando curioso quell’intruso nel suo regno.
Actarus si fermò e, come ipnotizzato, lo osservò per un lungo istante. Era così carino, così piccolo… Si chinò sulle ginocchia e allungò una mano verso la creatura, sorridendo.
“Ciao, piacere di conoscerti… Sei bello, sai?”
Il tono era dolce, pacato, gli occhi dell’alieno fissi in quelli del leprotto.
Procton rimase di sasso, quando vide quell’animaletto selvatico, notoriamente molto prudente, avvicinarsi senza timore. Si fece accarezzare, a lungo. Poi lo fissò un’ultima volta, e scomparve in pochi balzi, lasciando sulla neve impronte minuscole e scure.
“Era una lepre… Gli piaci sai?” Procton si era avvicinato, deliziato da quella scena “Ho l’impressione che tu abbia un sesto senso con gli animali. Ho visto quel leprotto il giorno prima che arrivassi, però non si è avvicinato. Gli ho lasciato del cibo, ma credo che a te avrebbe mangiato in mano…”
Actarus si rialzò e staccò a fatica gli occhi dal punto in cui l’animaletto era sparito
“E’ bellissimo, padre. Senti… Nella fattoria dove andremo, ci sono animali come quello?”
“Oh sì, e anche tanti altri. Ti piaceranno, non ho alcun dubbio. E tu piacerai a loro.”
Era ammirato da quella nuova caratteristica del giovane.
Actarus lo osservo, con quegli occhi incredibili, finalmente sereni. Poi si mosse verso la collina dove si trovava Goldrake. Procton lo seguì.
Arrivarono fino alla parte di bosco che aveva sopportato l’arrivo del disco e dove, grazie alla neve che aveva cancellato molte tracce, il danno pareva adesso meno evidente.
Actarus provò dolore nel vedere gli alberi piegati innaturalmente a quel modo, ma poi, avvicinatosi, sorrise.
“Non sono morti, padre! Cresceranno un po’ storti per qualche anno, ma poi torneranno verticali, o quasi. Non volevo causare questo sfacelo, mi sarebbe dispiaciuto se li avessi distrutti!”
Il tono era sollevato.
“Davvero non sono morti?”
Gli sembrava incredibile, vedendo i tronchi così piegati verso terra, ma in effetti non erano spezzati. Un’altra cosa pazzesca, ma ormai non se ne stupiva più.
Goldrake era lì, maestoso e bellissimo, affascinante e chiaramente alieno. Mai Procton aveva visto qualcosa del genere, e anche se la Terra aveva creato robot grandi e possenti, quel disco andava oltre ogni fantasia. Era pura grazia, nonostante l’immensa mole. Non riusciva a staccare gli occhi da quel lucido metallo sconosciuto, neanche scalfito dai massi e dalle pietre cadute su di lui. Aveva spaccato mezza collina, incuneandosi in parte in essa, ed era intatto. Lo vedeva, eppure quasi non riusciva a crederci.
Actarus si avvicinò e accarezzò il disco come se fosse un essere vivente, con dolcezza.
“Sono qui Goldrake. Sono tornato. Siamo al sicuro ora.” Sussurrava, guardando l’enorme testa che spuntava tra le rocce, e pareva un samurai dei tempi andati.
Vide subito il vetro rotto della sua postazione di guida. Era in alto, ma il sole faceva brillare riflessi su di esso. Doveva essere caduto da lì, sbalzato fuori dall’abitacolo a causa dell’urto fortissimo con la collina. E pensò che una mano superiore avesse guidato la rotta. Se fosse precipitato poco prima o poco dopo, nessuno sarebbe venuto a salvarlo.
“E’ la macchina più bella che abbia mai visto…” Procton era quasi stordito da una simile vista, felice come un bambino il giorno di Natale, pronto a scartare i regali “E adesso non è neanche del tutto visibile. Così meraviglioso…”
“Sì, mio padre ci mise il cuore nel costruirlo. Lui e i migliori scienziati di Fleed ci hanno lavorato a lungo. Doveva essere il primo di una serie… Ma è rimasto il solo…” una nube attraversò il suo sguardo, ma passò, e il giovane tornò ad osservare il robot, con affetto sincero “Aspetta qui, padre, dietro gli alberi, vedrò di spostarlo, perché possa entrare completamente nella grotta. Così rimarrà al sicuro finchè non torneremo.”
Poi Actarus si allontanò un pò per prendere la rincorsa, saltando silenzioso verso l’alto, verso il disco. Procton, come imbambolato, rimase a guardare quell’incredibile tuta rossa e nera avvolgere istantaneamente e incomprensibilmente il giovane, il casco intorno al capo, mentre il salto impossibile, di diversi metri, fatto apparentemente senza alcuno sforzo, lo portò ad atterrare leggero sopra l’enorme testa del robot. Da lì, in pochi istanti, fu nella cabina di guida.
E il disco si mosse, scrollando via le rocce come fossero di sughero e non di dura pietra. Caddero a terra con fragore.
Gli occhi gialli del Titano fiammeggiarono per un istante, mentre riprendeva vita, poi entrò completamente nell’enorme grotta naturale, che già in parte l’aveva accolto.
In pochi minuti tutto finì. L’unico rumore erano state le rocce a farlo.
Goldrake si era mosso in silenzio.
“Dio mio, quale forma di energia può essere così potente?” Procton era ammirato come mai prima “E così silenziosa… Ho tanto da imparare…”
Entrò nella grotta, ora illuminata a giorno dal disco, e fu allora che lo vide nella sua interezza. Rosso, bianco e giallo, enorme e bellissimo.
Un’opera d’arte. Aliena, ma indubitabilmente un’opera d’arte.
Poi Actarus saltò giù dall’abitacolo, atterrando poco distante da lui. E la tuta disparve dal corpo del ragazzo, così com’era apparsa. Ora indossava di nuovo la tenuta invernale.
Insieme si diressero verso l’uscita, era rimasto sì e no lo spazio per il passaggio di una persona, dopo il crollo provocato dallo spostamento del disco. Il giovane si girò un’ultima volta verso l’interno, toccò il medaglione, e la grotta divenne di nuovo buia. “Tornerò presto, amico mio”.
Goldrake rimase lì, dormiente.
Una volta all’aperto, non fu difficile spostare le ultime pietre ad occultare del tutto l’ingresso. Adesso il versante della collina sembrava aver subito solo una frana.
“La prossima volta salirai a bordo con me, padre.”
A Procton brillarono gli occhi.
“Sei pronto ad affrontare la bolgia di una città?”
“Sì, non vedo l’ora! E’ come questa montagna?”
“Ehm, no, veramente no, è puro caos… Vedrai!”
Si diressero verso la baita, e poco dopo la jeep partì. Verso Tokyo.


NONA PUNTATA

Quel mese era volato. Frenetico e pieno di avvenimenti.
Procton, seduto alla consolle principale dell’Istituto rifletteva, felice sull’ottimo andamento delle cose. Ringraziò il Cielo per un simile dono.
Arrivati a Tokyo, era stato davvero bello vedere che Actarus, l’extraterrestre, l’alieno, si era inserito a meraviglia in quel mondo così nuovo per lui, quasi che fosse solo tornato a casa, e non invece arrivato su un pianeta diverso. Era stato subito accettato, e subito aveva conquistato affetto e rispetto. Non con gesti eccessivi o plateali, ma con gentilezza e sensibilità. Sempre disponibile, non chiedeva nulla per sé, ma agli altri dava tutto, non vergognandosi di domandare chiarimenti, se non capiva qualcosa.
Non uno degli amici di Procton aveva avuto da ridire sul fatto che Actarus fosse ora suo figlio; anzi, tutti avevano notato grandi somiglianze di carattere tra di loro, entrambi generosi e riservati, di poche parole ma estremamente altruisti. Ed era proprio così, pensava Procton, si somigliavano davvero tanto.
In effetti Actarus sembrava attirare la gente come una calamita, e tutti finivano col volergli bene, non perché lui facesse qualcosa per rendersi a forza simpatico, ma proprio perché non lo faceva, perchè non cercava di piacere ad ogni costo, ed era semplicemente se stesso.
Avevano pensato a lungo su cosa raccontare al mondo, poi la soluzione migliore era parsa quella di inventarsi alcuni amici Europei di Procton, morti da poco, che come ultima volontà avevano chiesto a lui di occuparsi del loro unico figlio. In questo modo si chiariva anche perché lui non avesse gli occhi a mandorla, e come mai nessuno l’avesse mai visto. Sul momento a Procton era parsa una soluzione da telenovela, ma col passare dei giorni, limando i particolari del racconto, con i documenti in mano creati ad arte, tutto era sembrato molto più realistico, e anzi l’unica soluzione logica per spiegare la totale assenza del giovane dalla vita dello scienziato, fino ad allora.
Solo pochissime e fidate persone, tra cui i suoi tre assistenti, conoscevano tutta la verità. Perfetto. Qualche piccola bugia a fin di bene, perché altrimenti la vita di Actarus sarebbe diventata un inferno. No, ne aveva avuto fin troppo di dolore.
Ogni tanto aveva ancora degli incubi, e spesso lui notava che lo sguardo del ragazzo diventava distante, quando qualcosa gli ricordava il passato, ma non si lagnava, sopportava quei momenti e guardava oltre. Perché aveva un nuovo mondo da scoprire, un futuro sereno davanti, e questo gli dava la forza di resistere ai colpi spietati inferti dai ricordi.
Procton rise tra sé, ricordando lo stupore di Actarus di fronte alle mille luci di Tokyo, al suo continuo andirivieni di gente, e soprattutto al rumore. All’inizio ne era rimasto un po’ stordito. Gli aveva raccontato che su Fleed era molto diverso, i veicoli procedevano silenziosi, e la gente non affollava le vie in ogni momento. Eppure ne era stato conquistato, quella confusione lo attraeva.
Si era dimostrato molto complicato trasportare Goldrake, c’erano volute una grande attenzione e la velocità incredibile del disco, per evitare che qualcuno vedesse o sospettasse, ma ce l’avevano fatta. Ovviamente avevano agito di notte, aiutati dal fatto che l’Istituto fosse situato fuori città, però fino alla fine erano rimasti in tensione.
Il possente robot adesso riposava tranquillo nella grotta, invisibile agli occhi del mondo. Appena possibile avrebbero completato la finta diga, i lavori erano iniziati da qualche giorno ma, nel frattempo, nessun estraneo aveva motivi per scendere in un posto umido e abbandonato come quella enorme caverna, perciò erano tranquilli.
Com’era stato bello volare con Actarus. Procton non l’avrebbe mai scordato, una sensazione di libertà meravigliosa… Ma si era anche reso conto che, oltre la bellezza ipnotica, Goldrake era anche un’arma letale. Angelo o Demone a seconda di chi lo avrebbe guidato. Ebbe un brivido nel pensare a cosa sarebbe accaduto se fosse finito, con le sue armi potentissime, nelle mani di Vega… Ma quello era il passato.
Procton ora poteva davvero dire di essere felice. Il suo passato era stato pieno di soddisfazioni, ma solitario; ora invece… Sorrise, soddisfatto.
Mancava solo un tassello, tra poco si sarebbero trasferiti nella splendida fattoria di Rigel, Actarus sarebbe arrivato a momenti. Era stato lo stesso Rigel ad insistere perché andassero a vivere lì, e oggi si sarebbero incontrati.
Il giovane arrivò silenziosamente, poi gli poggiò le mani sulle spalle, con affetto
“Sei pronto, padre?”
Procton si girò e gli sorrise, facendo un cenno positivo
“Certo, andiamo pure, la jeep è di sotto. Rigel ci starà aspettando.”
Lo osservò con discrezione mentre si dirigevano all’uscita. Le ferite erano guarite, restavano solo alcune cicatrici, soprattutto nell’anima, ma Actarus era come rinato, sereno. Sempre molto riservato, aveva ripreso qualche chilo, anche se era ancora parecchio magro, e aveva un guardaroba più che dignitoso adesso, tutto per sé. Si erano divertiti un mondo a provare e riprovare abiti e stivali, anche se il giovane non aveva voluto esagerare con gli acquisti. Comprendeva il valore del denaro e non gli piaceva sprecarlo. Guidava anche bene, aveva imparato subito, sebbene non amasse molto le caotiche strade cittadine; continuava a preferire la natura, gli animali, i luoghi tranquilli, dove potersi magari isolare, quando ne sentiva il bisogno. La fattoria di Rigel gli sarebbe di certo piaciuta.
All’arrivo, loro erano lì, ad attenderli, curiosi di conoscere quel misterioso ragazzo a cui Procton si era tanto affezionato.
Rigel era piccolo, un po’ tarchiato, iperattivo. Girava da una parte all’altra dell’ingresso alla fattoria, bofonchiando che erano in ritardo e che non bisognava fare aspettare i vecchi, sorvolando sul fatto che lui vecchio non era, non raggiungendo neanche i sessanta. Con pochi capelli, e bocca larga e mobile, vestito da cowboy, sembrava un fumetto uscito da qualche albo, o forse un caratterista preso da un film sul Vecchio West.
Sua figlia Venusia, alta, sottile e slanciata, rideva di quelle paturnie, ben sapendo che suo padre era un pezzo di pane, sotto l’aria burbera e brontolona. Aveva quindici anni, e da due era la donna di casa, dopo la morte prematura della madre. Bruna, coi capelli un po’ a caschetto, riservata e gentile, era il nerbo di quella fattoria. Una roccia, nascosta sotto un aspetto fragile.
E poi Mizar, il piccolo di casa, di dieci anni, un bambino minuto e bruno, molto maturo e intelligente per la sua età, curioso e sempre allegro.
Actarus rimase a fissarli per un istante, con quel suo sguardo indecifrabile, scendendo poi dall’auto.
Mizar gli era subito corso incontro, abbracciandolo e facendogli grandi feste, felice di avere un compagno di giochi, una nuova presenza in quella casa troppo grande per sole tre persone.
“Ciao, ciao! Benvenuto Actarus! Vieni, ti faccio vedere i cavalli…”
“Mizar, ma aspetta! Calmati, fammi almeno vedere il mio nuovo schiavo!” gli occhi di Rigel sfavillavano. Gli girò attorno, guardandolo attentamente da sotto in su, gli arrivava sì e no alla vita “Bene, mi pare ben piantato. Ma troppo magro! Procton, devo pensarci io a lui, tu cucini da far pena! Dopo che l’avrò rimesso in sesto… Ah, che bello, sisi! Benvenuto ragazzo mio, benvenuto!”
Mizar lo tirava da una parte, Rigel dall’altra, entrambi decisi a mostrargli subito tutto, ma senza decidersi su chi dovesse farlo per primo.
Actarus era deliziato da quell’accoglienza calorosa, mentre a Procton ridevano gli occhi, a godersi la scena impagabile.
Il ragazzo era stato un po’ in tensione nelle ultime ore, gli accadeva sempre quando doveva conoscere qualche persona nuova, in fondo un po’ temeva un rifiuto, da persona estremamente sensibile qual’era. Ma non c’era pericolo, pensava Procton, non si rendeva conto del suo carisma. Sembrava essere del tutto inconsapevole dell’effetto che aveva sugli altri, anche sulle donne. Lui aveva ben visto come piaceva alle ragazze, l’unico a non rendersene conto pareva essere proprio il giovane, del tutto privo di malizia.
“Papà, Mizar, piantatela, su… Fatelo almeno respirare, o scapperà a gambe levate!”
Venusia gli sorrise, restando a guardarlo.
Alto, bruno, con degli incredibili occhi che non sapeva descrivere, trovava Actarus decisamente affascinante, ma anche misterioso. C’era qualcosa di triste in lui, intuiva che doveva aver molto sofferto, certamente a causa della perdita della sua famiglia. Lo capiva, era successo anche a lei…
Allungarono entrambi una mano, poi se la strinsero. Lui sembrava leggermente imbarazzato, e lei se ne accorse. La trovò una cosa deliziosa, un uomo riservato e con tratti di timidezza era così raro! Non ne poteva più dei suoi compagni di scuola, sempre sfacciati e prepotenti! Bene, con lui sarebbe andata d’accordo, ne era sicura!
Non più bambina, ma non ancora donna, si sentì subito bene, felice che fosse arrivato, e non perse tempo a chiedersi il perché.
Actarus le sorrise. Era così giovane e carina, pensò, non doveva essere facile per lei occuparsi di padre e fratello, che intanto continuavano a tirarlo da una parte e dall’altra. Ne fu ammirato, sentiva che era una persona forte, sulla quale poter contare.
Poi, finalmente, si decisero sulla strada da seguire, e si avviarono.
Actarus rimase senza fiato di fronte a tanto verde, a tanto animali, a tanta pace. Non sembrava di essere a poca distanza dalla capitale, ma in un altro mondo, tranquillo e sereno. Si sentì a casa.
Rigel restò interdetto quando vide il giovane avvicinarsi a tutti, ma proprio tutti, gli animali della fattoria, trovando per ognuno una parola e una carezza, mentre quelli, anche i cavalli più ombrosi che non amavano lasciarsi avvicinare, gli facevano le fusa come gatti. “Incredibile Procton! Ma dove lo hai pescato?” chiese strizzandogli un occhio, mentre Actarus, Venusia e Mizar, seduti sull’erba, coccolavano una gatta in attesa dei micetti “Mai visto uno così prima… Ah bene, bravo, ottima scelta sai?”
“Grazie Rigel, sapevo che ti sarebbe piaciuto. Per me è davvero un figlio, come avrai visto è quasi impossibile non volergli bene… E vedrai in seguito, è pieno di sorprese!”
Sorrise, facendogli l’occhiolino.
“Sì, ora che l’ho visto ne sono certo, ma la tua cucina non gli fa bene!” fece una smorfia fintamente brontolona “Ci penserò io a lui! Tu guarda com’è magro… E pure tu, sei troppo striminzito!”
Procton scoppio a ridere, sapeva benissimo che quello era il modo preferito di Rigel per dire che il ragazzo gli piaceva, era davvero un brav’uomo, e la sua cucina era favolosa.
“Si ma non esagerare, amico mio, o non passeremo più per le porte!”
“Zitto tu, che di profilo non fai ombra, lascia fare a me! Ragazzi, è pronto, andiamo prima che si freddi tutto!”
Si mossero assieme, diretti in casa, mentre alcuni inservienti portavano le valige di Procton e Actarus nelle loro nuove camere.
I due erano rimasti un po’ indietro.
“Va tutto bene figliolo? “
“Sì” Actarus aveva un tono sognante “Sono così buoni, ed è tutto talmente bello qui… Credi che me lo meriti, padre?” una leggera ansia, come se temesse di perdere tutto.
“Certo che si. Se c’è qualcuno che merita serenità e gioia sei tu, dico sul serio. E durerà finchè tu vorrai che duri, quindi continua a volerlo.” il tono era dolce.
Actarus lo guardò con affetto, poi osservò il panorama agreste che li circondava, il cielo azzurro sopra di loro, senza una nuvola. E infine Venusia che gli faceva cenno di raggiungerli. Gli brillavano gli occhi.
“Ci credo. Ci credo davvero. Ti giuro che non permetterò mai a nessuno di farvi del male. Mai.”
Il tono era deciso, tagliente. Poi ricambiò il cenno a Venusta e si avviò verso la cucina. Sorrideva.
Procton lo seguì, sentendosi davvero bene. Quello era il dono più grande.
Una nuova vita.


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Edited by isotta72 - 10/6/2010, 10:35
 
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