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shooting_star's fiction gallery - solo autore

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view post Posted on 17/3/2016, 21:45     +1   -1
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Inserisco anche nella mia gallery il link alla "fans fiction" ispirata all'episodio 7: qui la mia versione, con il punto di vista di Gorman.
 
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view post Posted on 18/4/2016, 08:30     +2   +1   -1
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Leggere l'ultima ff di Aster e chiedermi cosa fosse realmente successo tra i signori Gandal è stato tutt'uno... questa è la mia versione dei fatti :D.
Dedicato ad Aster e a tutti quelli che ogni tanto avrebbero voglia di stare per un po' lontani dal proprio SO (che non è il sistema operativo ;) ma il Significant One, il partner... insomma, il nostro Gandal ).


PUNTI DI VISTA

“No!”
Niente dell’abituale cipiglio fiero, della fredda perfidia che ben le conosceva, in quella voce.
“No! Ti ho detto di non entrare! Ti ho sentito sai, che parlavi… che parlavate con lui.” Se non l’avesse conosciuta bene, avrebbe giurato di averla udita inspirare forte, come sull’orlo del pianto.
“Non venire qui a far finta di essere mio amico. Lo so come fate voi, tra uomini, vi osservo sempre sai? Sempre solidali, quando si parla di donne. Ed io sono qui, sola…”

Possibile? Quello era inequivocabilmente un singhiozzo. Doveva fare qualcosa, del resto era da tempo che stato eletto a suo unico confidente. Vero che la scelta non era molto ampia: con Hydargos gli argomenti di conversazione, se si escludevano l’evoluzione delle armi di distruzione di massa, i genocidi planetari e le tecniche di distillazione clandestina, erano piuttosto limitati. Barendos, dal canto suo, aveva un autentico talento per la tortura: peccato che i suggerimenti che avrebbe potuto dare su come risolvere i problemi di coppia, nel suo caso, avrebbero finito per ritorcersi contro di lei. Dantus e Gorman, poi… loro sarebbero andati subito a spiattellare ogni piccolo dissapore tra i coniugi a papà Vega: gli sembrava di vederli, darsi di gomito (“Parla tu!” “No, raccontala tu questa!”) ridacchiando come ragazzini – o come comari pettegole. E lei, Lady Gandal, di certo non era una comare. Sarebbe stata un comandante con i controfiocchi: e invece si trovava legata a doppio filo a un uomo che, era chiaro, la considerava poco più di una propria appendice. Quante volte gli aveva detto di essersi pentita di quel matrimonio, e addirittura pensare al divorzio... operazione non semplice, nel suo caso: a volte, l’espressione “finché morte non ci separi” non era un modo di dire. Beh, forse era meglio non disturbarla e tornare al lavoro su quel nuovo sistema automatico di pulizia della gabbia del King Gori che aveva promesso a Hydargos, sempre ingrugnato per la scarsità di uomini in buona efficienza da mandare a schiantarsi contro Goldrake.

“Non insistere Zuril, ti ho detto di non entrare!”
Da sotto la porta filtrava solo un debole spiraglio di luce.
“Non ci sarà anche quell’insensibile di Hydargos con te per caso?”
“No,” il Ministro della Scienza avvicinò l’occhio allo spioncino, e la luce all’interno si spense immediatamente. “Sono solo.”
“Allora, visto che continui a insistere, entra! Ma” un picco stridulo lo fece irrigidire mentre con gesto automatico cercava l’interruttore “non azzardarti ad accendere la luce. Intesi?”
“Intesi.”
“E se per caso osi attivare i sensori infrarossi del computer oculare, sappi che ho modo di verificarlo e dirlo a quel bruto di Gandal.”
Il bruto aveva litigato con la moglie, vero, ma non tanto da permettere ad altri di mancarle di rispetto: Zuril calcolò rapidamente le sue probabilità di successo in uno scontro di tipo esclusivamente fisico con il Comandante Supremo, e dovette riconoscere che per una volta non sarebbe stato in grado di far sfoggio della propria abituale superiorità. Con un rapido comando mentale disattivò la visione notturna, ed entrò nella stanza illuminata solo dal led dello schermo olografico. Ricacciò in gola la tentazione di ricordare all’amica che avrebbe fatto bene a spegnerlo, se voleva risparmiare energia: quella debole lucetta verde era l’unico modo per evitare di inciampare brancolando nel buio. Intravide Lady Gandal seduta nella sua metà della stanza matrimoniale, avvolta nel damasco rosso della sua poltrona Luigi XV, il viso rivolto ostentatamente verso il buio.

“Ho sentito tutto, sai? Ed ho visto come tu e Hydargos gli tenevate bordone. Immagino le battutine, dopo… già, perché voi non sapete cosa ho dovuto passare io.”
Zuril resistette alla tentazione di sedersi non invitato sulla metà del letto matrimoniale riservato a Lady Gandal – quella col baldacchino e le nappine. L'altra metà, con un'ispida coperta grigia e niente cuscino, era ancora sfatta.
“È da stamattina presto che cerco di parlargli e lui niente, mi ignora. Tutto perché ieri sera ha tirato tardi con Hydargos e si è svegliato con il mal di testa… mi ha fatto dormire con gli stivali addosso, quello zotico!”

Parlava tenendo la testa appoggiata sulle mani, forse per questo la voce suonava così distorta. E forse si era sbagliato a pensare che stesse piangendo: Lady Gandal era solo molto, molto arrabbiata.
“Stamattina non si è nemmeno lavato i denti, e sì che per fare il fondo alla grappa di vegatron depotenziato si era strafogato di faranfoli. E sai cosa ha detto quando gli ho fatto il piacere di ricordarglielo? Eh? ‘Così non potrai lamentarti di come strizzo il tubetto.’ Quel verme.”
Erano quelli i momenti in cui si sentiva felice di non essersi risposato. Sono le piccole cose che guastano le unioni più riuscite… figuriamoci quella dei Gandal.

“Poi va di sotto a verificare i lavori sul nuovo mostro. L’ingegnere capo ogni volta gli illustra i mirabolanti avanzamenti e le incredibili migliorie apportate… peccato che siano le stesse che gli aveva presentato una settimana fa. O il mese prima se è per questo, non so più da quanto il progetto è fermo senza che lui se ne sia accorto. Gli basta vedere tante belle raffiche di raggi colorati che fanno pum pum, ed è di buon umore per tutta la settimana. Non devo dirlo a te che Gandal non ammetterebbe mai di non aver capito qualcosa, vero?”
Zuril pensò alle difficoltà più volte incontrate nello spiegare al generale le modalità di compilazione dei piani di battaglia online. Roba da bassa manovalanza, protestava lui, indegna di un comandante: che infatti delegava ai sottoposti, per poi lamentarne l’imprecisione.

“Eppure non gliel’ho detto, che cuocesse nel suo brodo. C’era altro, ed era urgente, dannazione! Ma niente, quello stringeva forte e non c’era verso di uscire. Inchini e sorrisoni da parte dell’ingegnere capo e di quei nullafacenti dei suoi tecnici. Ed è andato a fare il suo discorsetto ai soldati.”
Su quello non si poteva dir niente, Gandal era un ottimo motivatore…
“Quei ragazzi lo conoscono bene e sanno che se vogliono avere le licenze devono dargli corda, urlare ‘Per la gloria di Vega!’ ogni tre per due e applaudire anche quando sbaglia i congiuntivi. Oggi ha iniziato tre volte una frase con ‘Se mi seguireste…’.”
Zuril levò l’occhio al cielo. Non si stupiva nemmeno di quello, e del resto Gandal non aveva mai nascosto – ne andava orgoglioso, anzi – di essersi guadagnato i gradi sul campo di battaglia e non scaldando i banchi dell’accademia.
“E gli sta bene che i suoi soldati lo prendano per quel buzzurro che è, io avevo altro da dirgli. Quelli ridevano, e ne avevano ragione: ma lui niente. Nessun rispetto per sua moglie.”
Lady Gandal sospirò, e tornò ad affondare il volto tra le mani. Zuril si accorse che la faccia non era completamente aperta: tra le due valve blu – una decisamente più voluminosa dell’altra – si intravedeva appena il profilo un po’ schiacciato della moglie del comandante.

“E poi, certo, se ne va a parlare con il Sire in persona. I nuovi piani per l’invasione della Terra… ha! Non ricorda nemmeno i nomi dei dischi mostro che sono partiti negli ultimi due mesi, ha fatto una figura ridicola confondendo il mostro Bon Bon con il mostro Can Can. Ma come cavolo si può dimenticare un mostro che fa la spaccata? Eh?”
Zuril ricordava bene: un mostro che lei aveva contribuito a disegnare, con un gioco di gambe notevole. Gandal non l’aveva, a suo dire, valorizzato a sufficienza, preferendogli Est Est Est, un obbrobrio a forma di fiasco che risentiva pesantemente delle incertezze progettuali di Hydargos. Inutile dire che erano entrambi andati distrutti, insieme al suo Bon Bon che – e qui il Ministro delle Scienze tirò un sospiro – pur essendo un autentico gioiellino, Goldrake si era mangiato in un sol boccone.
“Il Sire sorrideva apertamente, e Gandal era tutto gongolante: non fa altro che magnificare la sua benevolenza, la sua generosità. Lui crede che quella del Sire sia affabilità, ma io lo immagino, cosa Yabarn racconti a Dantus durante le riunioni di Stato Maggiore…”

Lady Gandal rialzò la testa, e Zuril si sentì autorizzato ad intervenire. “Come sai bene, io non sono sempre invitato a partecipare. Ma se mi permetti, non mi stai raccontando niente di nuovo…”
“Non era mai successo che non mi ascoltasse per così tanto tempo. Ed io avevo bisogno di parlargli, subito!”

Saggiò con un dito l’occhio pesto del consorte, che non diede segni di reazione. “Si è imbottito di No-Mal, lo smidollato, dormirà ancora per un po’. Lui può, invece io… io ora sono… sono un mostro!”
Zuril ripensò alle ragazze e alle donne incontrate nel corso dei suoi viaggi, a quelle di Zuul e di Fleed; ripensò con un vago rimpianto a Maluma, e perfino a Gudrun. Non era carino pensare così di una persona che lo considerava un amico, ma in effetti le caratteristiche fisiche di Lady Gandal la facevano rientrare appieno nella categoria in cui la sua mente razionale l’aveva incasellata al loro primo incontro: “mostro”, appunto. Tuttavia, valutò, era poco prudente informarla di questo. Stava per attaccare una consolazione di circostanza (“Ma cosa dici, tu hai - che le dico? Ah ecco! - hai personalità! Sei unica!”) quando la donna volse la testa verso di lui, ed il biancore lattiginoso della sua pelle emerse tra il blu scuro della faccia del marito. La fioca luce verde non gli impedì di notare che per la prima volta la vedeva col trucco non perfettamente in ordine: gli occhi erano circondati da striature vermiglie, ed il rossetto aveva dilagato su tutta la faccia… evidentemente aveva pianto dunque, e parecchio. Si trattenne dall’allungare una pacca su quelle che erano pur sempre le spalle nerborute del Comandante: certe confidenze che era solito prendersi con suo marito non erano adatte ad una signora. La sua voce lo colpì, fredda e controllata come non era un attimo prima.
“Non è contagioso, tranquillo. Dermatite pustoloso-purulenta da contatto. Stamattina ho approfittato del fatto che non si decideva ad alzarsi per applicarmi la maschera di bellezza al fango urticante di Akerebe… pizzica maledettamente, ma sai come si dice, Se bella vuoi apparire…”
Zuril soffocò “un miracolo deve avvenire” e si coprì la bocca con la mano tentando di mostrarsi pensoso.
“Me l’ha regalata Rubina e costa un botto, ma dicono faccia miracoli…”
“Hai fatto bene,” commentò serissimo Zuril.
“… il tempo massimo di applicazione è due minuti. Ma all’improvviso il bestione si sveglia, chiude di botto la faccia e mi lascia con la maschera sulla pelle. Ho cercato di dirglielo, ma lui non ascoltava! Tutto il giorno con quell’impiastro sul viso! Non hai idea di come mi ha ridotto!”
Ce l'aveva, l'idea: ora che non si nascondeva più, riusciva a vedere che la pelle diafana di cui Lady Gandal era tanto fiera assomigliava in modo inquietante a quel budino panna e lampone che gli aveva preparato per il suo compleanno e che aveva incollato le mascelle al King Gori.
“E non è tutto… quando siamo arrivati in camera si è messo davanti allo specchio, come al solito, per discutere. Ed allora ho potuto fargli notare quello che avevo tanto insistito a dirgli…”
Lady Gandal indicò il naso spaccato a metà del marito con un dito artigliato, vicinissimo al profondo graffio di cui lui si era lamentato con i colleghi.
“Ha girato per tutto il giorno con una striscia di fango rosa fluorescente sbavata lungo la faccia. Specie di pachiderma, non mi stupisco che non se ne sia accorto. E poi…”
Zuril socchiuse l'occhio: gli sembrava di vedere la scena. Gandal che si rende conto della figuraccia che ha fatto con i tecnici, che intuisce le battutine dei soldati non appena si è allontanato; che sente le risate che il Sire si sta facendo alle sue spalle con quegli odiosi Dantus e Gorman. Gandal che diventa di un blu sempre più elettrico…
“E poi, quando se ne è accorto, mi ha gridato ‘Donna! Perché non mi hai avvertito? ’ ed ha cercato di picchiarmi. Peccato che come sempre avesse sottovalutato i miei riflessi.”
Zuril avrebbe giurato che, ormai tranquillizzata dallo sfogo, Lady Gandal adesso stesse sogghignando. Poi la voce tornò ad incupirsi.
“E come se non bastasse,” agitò una manona sotto i suoi occhi perché la osservasse “mi ha anche rotto un’unghia!”

FINE

Per dirmi il vostro, di punto di vista, qui.

Edited by shooting_star - 18/4/2016, 09:49
 
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view post Posted on 14/2/2017, 19:09     +2   +1   -1
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Accidenti (cof cof) in questa gallery ci sono le ragnatele... ma finalmente la primavera non è più così lontana ed è ora di fare un po' di pulizia. Le giornate si allungano, le prime gemme cominciano ad apparire sui rami e la festa di San Valentino ci ricorda il prossimo inizio della stagione degli amori. Come? è una ricorrenza consumistica amata soprattutto da gioiellieri e produttori di dolciumi? Andate a dirlo a chi ha un cuore sensibile in un mondo di rudi guerrieri - a vostro rischio e pericolo...
Con tanti auguri di una vita sentimentale felice! :wub:

BLUE MOON

Da che mondo è mondo, la guerra è cosa da uomini, anzi, da maschi. Una base militare non è, non dovrebbe essere il posto per una signora… Lady Gandal sistemò un foulard sulle spalle per proteggere il mantello blu notte dal maquillage, poi intinse nella cipria il piumino di struzzo. Era l’apprezzata consigliera di Re Vega, il suo aspetto doveva essere sempre inappuntabile; anche se... rigirò il pennellino nella boccetta, poi socchiuse l’occhio destro e avvicinò il viso allo specchio. Ecco, per esempio l’eyeliner era quasi esaurito, e lei conosceva bene la reazione del ministro Dantus quando gli sottoponevano la lista dei rifornimenti da approvare. Nessuna storia per il gas nervino che pure continuava a rincarare, mai un appunto per il vegatron che era sempre più raro o per i costosissimi disintegratori ultimo modello di cui suo marito faceva collezione; nessuna rimostranza neanche per le tonnellate di lucido nero necessario a far brillare gli stivali militari. Ma quando in coda all’elenco appariva il rimmel, apriti cielo! Quello era un lusso che non ci si poteva permettere. Un ultimo tocco di Blanc de Chanel… certo che, se la guardia che aveva mandato a requisirlo in profumeria avesse avuto un briciolo di bon ton e si fosse tolta il cappuccio e avesse dato del lei, la commessa terrestre forse non si sarebbe fatta prendere dalle convulsioni, e lui avrebbe potuto portare a termine la seconda parte della sua missione: farsi consigliare l’eau de parfum più adatta per un generale di Vega – non che lui avesse mai usato quella, francese ça va sans dire, che gli aveva regalato nemmeno due mesi prima…

Sospirò: a Natale, con la scusa dell’austerità e del buon esempio di sobrietà da dare ai soldati, suo marito le aveva consegnato un set da rammendo, e le aveva anche indicato alcuni punti del suo mantello su cui far sfoggio delle sue abilità donnesche. Ma è proprio quando è confinata ai limiti dell’universo e circondata da zotici insensibili che una vera signora dimostra cosa vuol dire aver classe: e lei non si era persa d’animo. Aveva tratto ispirazione dagli ultimi trend della haute couture sulla sua collezione di Vegue e si era messa al lavoro. Sospirò di nuovo, scuotendo la testa sconsolata: Gandal non aveva apprezzato i suoi cuoricini di paillettes, e le aveva anche intimato di scucire immediatamente le nappine dorate con cui aveva cercato di dare un tocco chic a quel capo ormai demodé. Ed era ormai quasi metà febbraio… inutile illudersi, il generale non sarebbe mai cambiato.

Un’ultima sistemata ai riccioli rossi prima che lui chiudesse la faccia rovinandole come al solito la coiffure, e un altro sospiro: il vapore annebbiò per un attimo lo specchio. Lady Gandal inarcò un sopracciglio: c’era una ditata sulla superficie riflettente. Certo, inutile dirlo a Gandal, che considerava fisime le sue proteste sull'incapacità della servitù… osservò meglio: non una, tante ditate. Anzi… sembrava che qualcuno si fosse divertito a scriverci sopra. Inaccettabile! Una nuova alitata: non era una scritta, era un disegno. Lady Gandal si coprì la bocca con una mano. Non più un sospiro, ma un oooh di meraviglia: quello che era apparso sullo specchio, evocato dal suo respiro e come quello evanescente, era un cuore. Un cuore tracciato sul suo specchio con il polpastrello… un cuore, da parte di qualcuno che ricordava che l’indomani era San Valentino!

Uno spasimante… uno spasimante segreto per lei! L’incauto non sapeva che pericolo correva… o forse sì, certo, e non se ne curava! Un vero uomo, finalmente… doveva proteggerlo: Gandal non doveva scoprirlo, oppure… no, non voleva nemmeno pensarci! Un soffio leggero per far comparire per un’ultima volta quel messaggio romantico e poi, con un lembo del foulard, non senza un lieve fremito di rimpianto, Lady Gandal cancellò ogni traccia compromettente. Appena in tempo: stringeva ancora tra le dita il leggero tessuto quando il suo viso si chiuse bruscamente. Gandal avvicinò il viso allo specchio, sollevò il labbro superiore e con l’unghia acuminata del mignolo saggiò l’interstizio tra i suoi incisivi; poi con lo straccetto che si era trovato in mano diede un’ultima lucidatina agli stivali, si drappeggiò il mantello attorno al corpo e si diresse alla quotidiana riunione dello Stato Maggiore di Vega.

Doveva scoprire chi era! Ma come? Di sicuro sarebbe stato intimidito da quel marito che non le lasciava mai un attimo di intimità… e magari in quel momento era seduto proprio accanto a lei, alla riunione! Usando gli occhi di Gandal come oblò, cercava di vedere sotto una luce nuova gli uomini con cui lavorava ogni giorno: rudi militari, esperti galattici di genocidi e torture, creativi inventori di armi di distruzione di massa – pieni di qualità, ma incapaci di abbinare i colori con un briciolo di gusto. Tuniche pratiche e informi, marziali copricapi cornuti e artigli che non avevano mai visto una manicure… Mai, mai avrebbe immaginato che nel petto di uno di loro uno spirito gentile palpitasse per lei!
“... per cui propongo di portare l’attacco direttamente nel cuore di Tokyo! Cosa ne pensate, Lady Gandal?”
Il viso del marito si spalancò all’improvviso per permetterle di rispondere alla domanda di Gorman.
Cuore, aveva detto? “Ecco…” Con la sua pelle oltremare e il fisico possente, il comandante della Guardia Imperiale di Vega le aveva sempre ricordato suo marito da giovane… era forse lui il suo principe azzurro? Lady Gandal sbatté languida le ciglia, mentre cercava di ricordarsi che cosa quel gagliardo soldato le avesse chiesto.
“Eravate distratta, mia signora? Non sarete mica innamorata!” Alla risata di Gorman seguirono quelle di tutti i presenti. Giovanotto screanzato! Gandal richiuse la faccia con violenza, senza neanche darle tempo di rispondere… l’avrebbe messo a posto lui, quel disgraziato!
“Mia moglie innamorata? Impossibile!” Un’altra ondata di risate. Avrebbe voluto scomparire… umiliata così, magari sotto gli occhi di chi non osava alzarsi a difenderla e poteva solo amarla a distanza… “Oh, perché sei tu Romeo?” non poté trattenersi dal sussurrare tra sé e sé.

Accanto a Gorman, sorrideva più composto un ufficiale appena arrivato, tale comandante Zigra… in fondo, per i suoi colleghi lei era ormai solo la moglie del generale Gandal, ma su chi la incontrava per la prima volta la sua personalità non poteva mancare di far colpo. Se era lui, doveva confermargli questa buona impressione… cosa diceva? “…colpire il Centro Ricerche durante la pausa dedicata alla pennica pomeridiana, dalle 14.30 alle 14.45 UTC+09:00.”
Magnifico, un ragazzo sveglio e preparato! Si agitò per riuscire a intervenire e far capire allo zuccone di aprire la testa. Lo guardò negli occhi. “Un’ottima idea, quella di sfruttare i tempi morti per attaccare…” alitò con il timbro più sensualmente roco di cui fosse capace.
“Un brutto mal di gola, mia signora,” s’informò premuroso Yabarn mentre Zigra, disdetta, non ricambiava il contatto oculare. “Fareste bene a riguardarvi,” soggiunse il Sire sorridendo bonario. Ora che le barbe arricciate erano tornate à la page, sarebbe bastato un buon taglio di capelli per farne un uomo affascinante… Lady Gandal abbassò pudicamente gli occhi in segno di ringraziamento, riflettendo sulla possibilità che fosse quella per il cuore del sovrano la chiave che aveva inavvertitamente girato, e quello continuò “alla vostra età i malanni si trascinano a lungo.”
No. Fuori tre.
Eppure no, non aveva sognato, quel cuore era svanito dallo specchio ma si era impresso indelebilmente nella sua anima! Perché solo a lei era stato negato quello che a tutte – anche a quella smorfiosa di Rub… ehm, no. A quella sciacquetta di Ven… no, ecco. Mineo? Naida? Oh insomma. Che alla maggior parte delle donne era concesso – un amore felice? C’era solo uno cui poteva chiedere. Un uomo, un maschio certo, ma un uomo speciale, il suo unico amico.
Ma come parlare con Zuril senza che Gandal se ne accorgesse?
Ecco che suo marito si avvicinava al Ministro delle Scienze. Si guardò intorno, aspettando che tutti i partecipanti alla riunione abbandonassero la sala del consiglio. “Qualche sospetto?” disse sottovoce.
“No… direi di no. Ma consiglio prudenza. Non è ancora il momento,” rispose Zuril mentre il suo occhio elettronico scrutava vigile in giro.
“Non avrei mai immaginato di doverti ringraziare.” Gandal strizzò un occhio, impedendo alla moglie di capire cosa il ministro stesse passandogli. Ma non c’era bisogno di vedere niente: Gandal sapeva, e aveva teso una trappola al suo… oh, non era possibile! Non lo conosceva e già si struggeva d’amore per lui… e al tempo stesso la complicità tra i due uomini significava che lei era sola, sola in una situazione degna di uno di quei romanzi che tanto amava leggere, quando il marito tornava a casa con la necessità di smaltire una serata un po’ troppo allegra al circolo ufficiali e crollava addormentato senza nemmeno augurarle la buonanotte. Ma per lei, ahimè, non era previsto alcun lieto fine…
Un attimo… idea! Poteva farlo bere, e poi, forse, mentre lui era KO per i postumi dell’alcool…

Detestava il fumo, il respiro che bruciava e l’odore che impregnava gli abiti, per non parlare delle rughette che si formavano attorno alle labbra e delle dita gialle di nicotina – per fortuna, si disse rimirandosi le mani fresche di smalto, sul blu si notava poco. Ma per quella sera non avrebbe fatto storie e avrebbe lasciato che Gandal accettasse l’invito di Barendos a provare certi sigari appena arrivati dal pianeta Cof. La scusa era quella di studiarne il potenziale inquinante... ma Lady Gandal non doveva preoccuparsi, i danni sarebbero stati limitati grazie al potere disinfettante della grappa che Hydargos aveva personalmente distillato dagli scarti degli ultimi esperimenti nucleari su Akerebe.
“Ah. Quand’è così, siamo in una botte di ferro…” “Di piombo,” si era sentito in dovere di precisare il comandante.

“Andate, andate,” aveva incoraggiato lei cercando di non pensare al mal di testa del mattino dopo, mentre il marito, convinto che avrebbe dovuto guadagnarsi la sua uscita serale tra uomini lottando con le unghie e con i denti, apriva incredulo il portellone del disco. Le era sembrato di sentirlo borbottare qualcosa come “Grazie, tesoro”… impossibile, certe smancerie non erano da lui. Era sicuramente un “Buon lavoro”: gli aveva detto che aveva intenzione di studiare nuovi piani d’attacco, e in realtà non aveva mentito.

Non era stata esattamente una serata da scapolo: quando Dantus aveva proposto un brindisi “Alle signore!” Gandal le aveva offerto un bicchierino, e lei aveva dovuto riconoscere che se Hydargos era un mediocre condottiero era però un distillatore di tutto rispetto. Aveva voluto assaggiare tutti i vari gradi di invecchiamento della bevanda… assaggiare però forse non era il termine adatto.

Quando le fitte alle tempie e i crampi alla bocca dello stomaco la svegliarono, la mattina del 14 di febbraio, Lady Gandal ebbe subito la consapevolezza che le immagini che le fluttuavano nella mente non erano un incubo evocato dalla sua scarsa abitudine all’alcool: aveva davvero flirtato con Dantus tutto il tempo – ripensò con orrore a quando aveva tentato di far dire “loreto” a quel grazioso pappagallino che il Ministro della Difesa teneva appollaiato sulla spalla – mentre Gandal manteneva un contegnoso distacco e Barendos e Hydargos si dedicavano allo svuotamento sistematico delle coppe senza degnarla di uno sguardo. Quanto alla devastazione ambientale, i sigari di Cof avevano mantenuto quel che il loro nome prometteva: dal mantello blu, gettato a terra davanti alla porta, esalava ancora una mefitica nebbiolina fosforescente.
“Come al solito… tanto c’è qui la schiava che riordina!” Trattenendo un conato, si chinò per sollevare il capo contaminato e gettarlo nel cesto dei panni sporchi.
Oooh!
Non credeva ai propri occhi: sul pavimento spiccava un biglietto azzurro lavanda – il suo colore preferito! Un biglietto a forma di cuore.
Lo raccolse con mani tremanti, il cuore che batteva come quello di una ragazzina che per la prima volta incontrava l’amore.

Dunque non era Dantus – ma la sua freddezza quando aveva lasciato che Loreto le azzannasse un dito glielo aveva già fatto sospettare – e non si trattava nemmeno di Hydargos e Barendos, che a fine serata era stato necessario trascinare, semicoscienti, verso i loro alloggi, e non avrebbero certo potuto infilare il biglietto sotto la porta. Meglio così, quei due tipacci non erano certo i compagni romantici cui il suo trepidante cuore anelava. Gandal, che pure reggeva l’alcool molto meglio di lei, dormiva ancora della grossa… perfetto: avrebbe sbirciato la firma del biglietto e avrebbe finalmente scoperto a chi donare il suo amore. Poi avrebbe distrutto – ahimè! – quel sacro pegno, perché la gelosia del marito non facesse sfiorire anzitempo quel tenero sentimento in boccio.
Portò il biglietto alle narici: un lieve sentore di un profumo virile, di ottima qualità. Un uomo di classe… un sospetto si fece strada nel suo cuore, ma lo ricacciò: era impossibile.
Aprì lentamente i sue lembi della missiva d’amore… solo una scritta in inglese, “Together forever”, ma nessuna firma. Oh, crudele tormentatore! Ma era finalmente San Valentino, e sicuramente il suo spasimante sarebbe venuto allo scoperto: bastava aspettare. Anche se, certo, dopo il suo attento esame i nomi dei possibili corteggiatori si erano ridotti a pochi… a uno solo, a dire il vero. E la perfetta padronanza della lingua straniera ne era la conferma.
Baciò con passione il foglietto profumato lasciandovi l’impronta di due labbra rosso fuoco; poi, asciugandosi una lacrimuccia, gettò il cuore di carta nel disgregatore molecolare. Adieu! No, Gandal non l’avrebbe mai trovato… più serena e con lo stomaco finalmente a posto, tornò a letto. Sarebbe stata una giornata radiosa.

Sognò che era in ginocchio sul pavimento, in preda a una forte irritazione, o forse al panico; poi che una nube di fumo di sigaro le avvolgeva la testa come una coltre, impedendole di respirare. Quando si risvegliò, Gandal stava armeggiando con il cesto dei panni sporchi; ma l’orologio segnava ancora due ore prima del suono della sveglia. La sera prima aveva fatto le ore piccole, e questo era deleterio per la pelle. Scelse di tornare a dormire il suo sonno di bellezza, e di lasciare in pace il marito nelle sue incombenze militari della mattinata. Più tardi, alla riunione del consiglio di guerra, doveva essere assolutamente charmante.

Faites l’amour, pas la guerre… era pomeriggio inoltrato quando, dopo un maquillage ancora più accurato del solito e dopo essersi applicata due gocce di n.5 dietro le orecchie, Lady Gandal uscì dal suo boudoir per dirigersi verso la sala comando: non vedeva l’ora di incontrarsi con chi era riuscito a farle battere nuovamente il cuore come a un’adolescente. Dall’amicizia – ora lo sapeva – poteva nascere l’amore. Avrebbe sorriso a Zuril e lui avrebbe capito: non c’era bisogno di parole tra loro, e quel testone di Gandal non se ne sarebbe mai accorto. Sarebbe stato un amore tenero e rovente, fatto di sguardi languidi e furtivi… eccolo, là sulla porta, slanciato nella sua tunica gialla, l’incarnato di uno splendente color petrolio, il sorriso smagliante, l’occhio brillante di intelligenza. Dovette trattenersi per non corrergli incontro: del resto si muoveva con le gambe di suo marito, non doveva farsi notare.
Potenza dell’amore, sembrava che per una volta fosse lei a guidarlo… Gandal si diresse verso il Ministro della Scienza e gli diede un’amichevole pacca sulla spalla: a quel contatto lei si sentì sciogliere tutta. “Grazie amico. Non so come avrei fatto senza di te!”
“A buon rendere,” rispose Zuril col sorriso di chi sa e non dice, allontanandosi di poco. Lady Gandal avrebbe voluto metter fuori il viso, ma il marito si oppose: ‘non ancora’, sentì rimbombare lei nella sua testa. Che avesse intuito qualcosa? Oh no, lei avrebbe negato, negato tutto, anche l’evidenza…
La parete di fronte al tavolo delle riunioni era di lucido acciaio: Gandal si specchiò nella superficie e sorrise, poi lasciò che la parte sinistra del viso si aprisse, come sempre quando voleva un dialogo a due occhi. Scostò il mantello, e con la mano destra ne estrasse una scatola avvolta in carta dorata e legata con un nastro color lavanda, in cui era infilato… beh, il biglietto aveva una forma un po’ più approssimativa di quello che aveva trovato la mattina sul pavimento, ma era indubbiamente un cuore. Color lavanda, anche quello. Un sospetto terribile si fece strada nella mente di Lady Gandal.

La metà viso del comandante si produsse nel migliore dei suoi sorrisi. “Buon San Valentino, amore.”
La mano sinistra di Lady Gandal aprì il biglietto. “Togheter forhever”, diceva: non c’era la firma, non era necessaria. Lo lasciò cadere e tentò di scartare il pacchetto con le mani che tremavano per l’agitazione.
Se Gandal avesse potuto sarebbe arrossito: una lieve sfumatura violetta gli colorò la guancia. “Sai cara, ci ho pensato tanto…” sussurrò. “Mi sono accorto di averti deluso con il mio regalo di Natale, e ho cercato di farmi perdonare. Cioccolatini terrestri, sai… li ha comprati Zuril in un suo viaggio, ehm, di ricerca in Germania…”
Viaggio? Di ricerca? In Germania? Lo sapeva, lei, cosa andava a ricercare Zuril in Germania, gliel’aveva confidato chiedendole di mantenere il segreto… una donna in ogni porto, come tutti gli uomini… stupida sentimentale, come aveva fatto a fidarsi? A pensare di voler donare tutta se stessa a uno così? Oh, se ci fossero state tende nella sala comando ci si sarebbe aggrappata nella sua disperazione; se una guardia incappucciata le avesse porto, su un piatto d’argento, un pugnale avvelenato, se lo sarebbe immerso nel petto; se non fosse stata Lady Gandal, la stimata consigliera di Re Vega, si sarebbe messa a piangere… ma lei lo era: per cui strillò, con tutto il fiato che aveva in gola.
“Cioccolatini? Ma come osi? Mesi e mesi di dieta e tu cerchi di mandare a monte tutto con dei cioccolatini? Sei il solito insensibile senza cuore!”


Sulla Terra, Maria stava montando in sella alla moto di Alcor per andare al cinema: alzò gli occhi alla luna che splendeva nel cielo ormai buio di febbraio e vide che non era del solito color rosso battaglia, ma di una strana sfumatura color lavanda. Nell’alone che la circondava sembrava di scorgere il baluginio di luci scintillanti.
“Oh, non è romantico?”
Alcor portò la mano dietro la testa. “Eh? Romantico? Non crederai che ti porti fuori solo perché è San Valentino!”

Davanti alla finestra della camera di Actarus, Venusia sistemò il nodo alla cravatta del suo cavaliere e subito colse uno sguardo inquieto nei suoi occhi: fissavano una luna blu come non si era mai vista. Lui non glielo disse, ma la sua visione aliena riusciva a distinguervi una serie di violente esplosioni non attribuibili a cause naturali. Non rosse, comunque: quindi, per una volta, qualsiasi cosa stesse accadendo lassù non era affar suo. Potevano andare a cena tranquilli… le sorrise. “Non è romantico?”
Venusia sorrise di rimando. Sì, era romantico… e a San Valentino a volte i miracoli accadono. Chiuse gli occhi felice, e lasciò parlare il suo cuore.“Oh, Actarus!”


FINE


NB: ho detto “a volte”, e ho detto “i miracoli”. Non “tutti i miracoli”. Per le battute di Venusia, c’è ancora un po’ da lavorare.



Per dichiarare solidarietà all'uno o all'altro degli innamorati infelici - o per darmi della cinica: qui.

Edited by shooting_star - 15/2/2017, 15:03
 
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view post Posted on 4/9/2017, 10:02     +1   +1   -1
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Oggi è il primo lunedì di settembre e i telegiornali non aiutano a stemperare l'atmosfera di una ripresa non troppo allegra. Quindi, beccatevi questo.

SETTEMBRE

Al di là della grande vetrata il sole sorto da poco cercava incerto di farsi strada tra nuvole scure. Ed erano già le otto... presto al mattino ci sarebbe stato buio. Actarus posò le mani sullo schienale della poltroncina da cui il padre seguiva l'ultimo telegiornale, poi si girò verso Hayashi, sul cui schermo continuava a non apparire alcun segnale. “Ancora niente...?”.
L'assistente stirò le labbra in una smorfia e scosse la testa. “Non possiamo che aspettare.”
“Il terremoto non ha fatto danni, ma la situazione è preoccupante," Procton si rigirò la pipa tra le mani ripetendosi che era presto per accenderla "e non solo qui. Guarda cosa è successo ad Alcor.”
“Da quelle parti sono abituati agli uragani, ma... mai vista tanta acqua in un colpo solo. Avrei voluto restare a dare una mano ma alla NASA mi hanno detto che lì non c'era nulla che io potessi fare.”
“E ancora non ci sono segnali”, ripeté Actarus. “Padre, ma davvero noi non possiamo fare niente?”
Procton strinse tra i denti la pipa spenta. “No.”

L'astronave di Gandal comparve sullo schermo di Skarmoon e il ministro delle Scienze si affrettò a prendere contatto. “Allora? Non lo sai che è tardi?”
“Cerca di capire, Zuril... su Ruby si stava proprio bene. Gente rispettosa e sottomessa, clima costante e niente complicazioni. Peccato per la cucina di mia suocera.”
“Qualcosa contro i piattini di maman?” Il volto che era apparso da sotto il guscio di quello del marito era forse un tantino appesantito, ma di sicuro aveva un colorito più sano.
“Complimenti per la bonne mine, mia signora.”
Merci beaucoup! Ecco, vedi Gandal? Prendi esempio! E scommetto che Zuril non si è portato il lavoro in vac...”
Il marito chiuse il volto e la questione. “Peccato per la cucina, che l'ultimo giorno è esplosa mentre finivo di mettere a punto il mio nuovo mostro. A proposito, il Grande Vega è già arrivato?”
“No, ma dovrebbe essere qui da un momento all'altro. Muoviti!”
Lo schermo si spense con un lampo e Zuril si stirò sulla poltroncina. “Guardia! Portami una bottiglia della riserva speciale di Hydargos!”
Di solito non beveva, ma il primo lunedì di settembre si poteva fare un'eccezione.

Le porte scorrevoli si aprirono, il soldati incappucciati batterono i tacchi facendo ala, e Yabarn fece il suo ingresso nella sala.
“Riposo, Zuril”, sbadigliò. Si diresse verso l'armadietto spogliatoio, si sfilò la giacca a frange e appese lo Stetson a un gancio. “Non puoi immaginare quanto mi sono divertito. Un vero cataclisma, e senza nessuna fatica. Ancora un po' e i terrestri faranno tutto da soli.” Si drappeggiò il pesante mantello sulle spalle con un sospiro.
“Qui finisce che rimaniamo disoccupati... Allora? Dov'è il generale Gandal?”
“Eccomi, Sire!”

Sullo schermo di Hayashi un puntino verde cominciò a lampeggiare. Maria e Venusia si guardarono negli occhi. “Ci siamo quasi. Ancora pochi minuti...”

“Mio signore, ho approfittato del relax estivo per realizzare un mostro di potenza mai vista.” Ancora inginocchiato, Gandal squadernò un progetto dinanzi agli occhi del sovrano.
“Propongo di mandarlo all'attacco immediatamente, è una vera bomba. L'ho chiamato Kim Kim.”
“Hm. Dovrà vedersela con il mio. Lo sai che non so stare con le mani in mano.” L'occhio computerizzato di Zuril proiettò le immagini di un grosso mostro vagamente antropomorfo. “Don Don non ha paura di niente!”
“Ma Kim Kim è potentissimo!” Lady Gandal spintonò Zuril, che rispose con una gomitata. “Don Don renderà Vega di nuovo grande!”
“Basta!” Yabarn tagliò corta la discussione con un gesto secco della mano. “Vega è già grande. E queste sono questioni serie... questioni di cui voi ed io non possiamo occuparci. La nostra missione è un'altra.”
I due comandanti, anzi tre, per una volta risposero all'unisono. “Ma... Sire...”
“Il mostro Pum Pum è già sulla rampa di lancio. Si batterà con valore e come al solito esploderà in una nube di denso fumo radioattivo.”
“Ma così saremo sconfitti!” guairono i due/tre.
Yabarn annuì sarcastico. “Fossero questi i problemi... mostro Pum Pum, in partenza!”
Il sovrano premette un tasto e il grosso disco, al cui interno un robot a forma di salvagente con testa d'anatra era pronto a dar filo da torcere ai piloti del Centro Ricerche Spaziali, sfrecciò rombando verso il suo destino.

“Dottor Procton, mostro di Vega in avvicinamento!”
Procton posò la pipa sulla consolle, sollevato. Era arrivato il momento: toccava a loro, finalmente.
“Ragazzi... sapete cosa fare. La Terra ha bisogno di voi.”
Senza un attimo di esitazione, i quattro giovani corsero verso le postazioni di partenza e pochi istanti dopo la formazione di combattimento volava alta tra nubi che sembravano aprirsi al suo passaggio.
“Non possiamo fare molto di più”, disse tra sé e sé Procton accendendo la pipa. “Ci sono ben altri mostri al mondo, ma purtroppo questi sono gli unici contro cui ci è concesso batterci.”
Assaporò l'aroma rassicurante del tabacco e si preparò a dirigere la battaglia.

FINE

E ora corro a scuola per il primo collegio docenti... per farmi notare che sto davvero diventando acida: qui

Edited by shooting_star - 4/9/2017, 22:39
 
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view post Posted on 2/11/2017, 15:36     +1   +1   -1
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Dopo tante ff sceme, vediamo se sono ancora capace di imbastire un racconto "serio"... quello che mi accingo a postare è un prequel che mi girava in testa da moltissimo tempo: l'idea originale di una shottina però è lievitata fino a quattro corpose puntate. Al pubblico stabilire se sia stato un bene.

Poiché l'idea finale - quella che costringe a scrivere se no si sta male - è nata durante le vacanze al mare, il titolo non poteva non risentirne...

BLU

1.



Blu. Riempie gli occhi e avvolge il cuore, blu fin dove la vista riesce a spingersi, fino al profondo dell’oscurità.


“Lo stesso colore dei tuoi occhi”, ripeté la principessa accarezzandogli la testa. Il suono della sua voce assomigliava a quello dell’acqua che, gorgogliando pigra dietro di loro, rifletteva bagliori azzurri sui soffitti e le colonne ritorte. Dalle alte finestre del tempio degli antenati, sottili lastre di pietra blu dalle venature dorate filtravano la luce in cui erano immerse le statue di coloro che dai tempi più remoti si erano seduti sul trono di Fleed – anche per pochi anni, come sua madre... non riusciva a ricordarsela, nemmeno qui, davanti al suo ritratto: ma era sicuramente più bella di quella donna, non portava quell'assurda parrucca viola e di certo non si divertiva a pizzicargli il mento. Duke abbassò silenzioso la testa, seguendo sulla roccia levigata del pavimento le ombre colorate che si muovevano da quelle pareti trasparenti, mentre gli adulti continuavano a parlare, la voce rispettosamente bassa.
Si era sentito orgoglioso quando suo padre gli aveva chiesto di accompagnarlo nella sala più sacra della reggia, dove solo di rado i bambini erano ammessi; felice quando l'aveva preso per mano lungo il corridoio colonnato, chinandosi verso di lui per ravviargli i capelli e spiegargli che aveva bisogno del suo parere, che doveva incontrare una persona molto importante. Una “principessa”. Quella? Con quei capelli?
Si inoltrò lungo il rivoletto d’acqua che delimitava la navata, sfiorando con i polpastrelli le lapidi, cercando di decifrare nella penombra le scritte in caratteri sempre più lontani da quelli che stava imparando a leggere, sempre più sbiaditi dal tempo e dall'umidità; quelle sculture erano i suoi nonni, i loro padri e madri, i padri dei loro padri – coperti da corazze, le armi in pugno, vissuti nei tempi lontani in cui i popoli si combattevano.
“A… Aro… Aruthar”, sillabò. Il re guerriero, seduto accanto alla sua regina: la destra dell’uno e la sinistra dell’altra reggevano alta una lunga spada, scintillante nella penombra e ancora affilata, quella che aveva difeso Fleed nella sua ultima guerra. Duke sapeva a memoria la loro storia, e se non ne avesse visto la statua l’avrebbe creduta uno di quei racconti con cui si spaventano i bambini. Quella lama aveva trapassato cuori, mozzato mani e teste, fermato vite! Immaginò l'acciaio sgocciolare sangue rosso e caldo, e si sfidò ad alzare la testa verso i severi occhi di onice che avevano visto l’orrore, i denti di avorio che avevano brillato nel ruggito della battaglia; a riconoscere sé stesso in quei volti duri più della pietra in cui erano scolpiti... vide la bocca della regina allargarsi in un sorriso feroce, il vecchio re alzarsi dal trono pronto a colpire quel pronipote codardo. Si tappò la bocca con una mano.
Non gridare. Non qui.
Un passo indietro, un altro e il terreno gli mancò sotto i piedi: si girò di scatto, bilanciandosi incerto sul bordo scivoloso del ruscelletto in cui la lama si rifletteva, rossa e minacciosa, impaziente di abbattersi sulla sua schiena.
Non devi gridare!
Si precipitò indietro verso la luce all’ingresso del tempio, inseguito dal rimbombare dei suoi passi che le volte riverberavano moltiplicati in un galoppo convulso, senza osare voltarsi per non scoprire alle sue spalle l’ira dei cavalieri antichi di cui non sarebbe mai stato degno. Suo padre era un’ombra in controluce all’inizio della navata: si voltò lentamente e con un cenno della mano gli intimò di smetterla di correre e far rumore.
Ormai al sicuro Duke rallentò, senza fiato. Inspirò profondamente e gli sembrò di respirare acqua. Non ce l’aveva fatta, nemmeno stavolta… meno male che non era inciampato, e che non c’era Markus, a prenderlo in giro davanti a tutta la corte. E meno male che in quella luce scura nessuno avrebbe notato gli occhi rossi. Si avvicinò, rinfrancato: la donna non si era girata, non si era accorta di nulla.

Alcaesar scosse la testa divertito: da sempre quelle statue terrorizzavano il figlio, e al tempo stesso sembravano attrarlo in modo irresistibile. Trattenne l'istinto di prenderlo in braccio davanti alla sua ospite; spingendolo dolcemente avanti a sé lo riportò, suo malgrado, di fronte all’antica scultura. Accanto a Duke, avvolta nel mantello che sfiorava terra, la donna scivolava silenziosa sul pavimento. Ma dove aveva i piedi?
Suo padre lo richiamò. “Aruthar è stato un grande re, per questo noi ci tramandiamo ancora la sua storia”, disse il re, evitando di ricordare contro chi aveva dovuto battersi. La principessa dai capelli viola inclinò lievemente la testa, i canini appuntiti spiccarono candidi sulle labbra vermiglie.
“Ora noi sappiamo che è una cosa sbagliata, Duke, ma a quei tempi era considerato giusto e nobile uccidere in battaglia.”
“Per noi lo è”, aveva sorriso lei accarezzando i capelli del bambino. “Ogni giovane desidera versare sangue per la gloria di Vega.”
La mano calda di suo padre gli si era posata sulla spalla, frenando il suo brivido. “Duke non avrà bisogno di uccidere. Ma so che seguirà l’esempio dei suoi antenati. So che saprà mettere prima di ogni altra cosa il bene del suo pianeta, sempre.”
“Sì, padre.” Duke aveva tirato su col naso e sgranato gli occhi, ma non aveva esitato. Eretti sul loro trono di pietra, Aruthar e Gaenor sembravano sorridere soddisfatti.


“È molto timido, ma ha solo cinque anni... si affezionerà presto.” Yoseth parlava sempre di lui come se non ci fosse o non potesse capirlo, e pretendeva sempre di dire a suo padre cosa era meglio fare. Ma Yoseth era solo un consigliere, suo padre era il re: e lui era il principe! Si alzò dagli scalini che portavano al trono e si piazzò davanti ad Alcaesar con le mani sui fianchi.
“No! Non mi piace!”
“Duke, non è questo il modo di esprimerti. Siediti.”
Il bambino obbedì, continuando a fissare l’uomo dalla tunica verde con aria di sfida. Suo padre guardò il suo primo ministro, sapendo perfettamente cosa stava per dirgli – quello che gli ripeteva da giorni.
“Sire, devo ricordarle che l'alleanza con Vega sarebbe preziosa per il nostro pianeta?”
“Yoseth, vi devo ricordare io che tale alleanza sconfesserebbe tutte le nostre critiche alle politiche militari del nuovo imperatore?”
“Yabarn non ha figli. Sposare sua sorella potrebbe dare al vostro erede il potere sulla parte di nebulosa che ha già conquistato. Potrebbe aiutare a riportare la giustizia...”
“O dare Fleed in pasto a un fanatico della guerra. No, Yoseth. Ho seguito il vostro consiglio e acconsentito a incontrare Erynna, ma non sarà lei la nuova regina di Fleed. Se mai ce ne sarà una.”
“Maestà, a un sovrano non è consentito sottrarsi ai suoi doveri dinastici. Il principe Duke gode ottima salute – Yoseth si era portato una mano dalle unghie troppo lunghe sul petto, inchinandosi – ma pensate a cos'è successo al primogenito del re di Morus... se non ci fosse anche il giovane principe...”
“L'avete detto voi: Duke gode di ottima salute. Ha già sofferto abbastanza crescendo senza madre, non voglio che soffra ancora per una nuova madre che non ama.”
Duke non era sicuro di aver capito tutto, ma sentiva che la sua era stata una vittoria.


L'ombra scivola nera sotto di lui, lontana come gli occhi non sanno calcolare, più lontana degli astri di un cielo d'inverno.


È un grande uccello piumato, o l'elmo di un guerriero che cade sotto i colpi della regina Gaenor? Le lunghe dita di Leukya disegnano sull'oscurità delle pareti immagini cui le fiamme del camino infondono vita e movimento, mentre la sua voce modula l'antico canto di come l'ultima battaglia pose fine all'invasione degli alieni dai confini della nebulosa. Con un gesto solenne, la donna – anziana nei ricordi, ma non doveva avere più di cinquant'anni – stende un braccio: e i bambini trattengono il fiato alla vista della lama che brilla terribile e affonda spietata, indietreggiano per sfuggire al sangue che fiotta fumando dalla bocca e dal cuore del re nemico; accoccolati sui cuscini sparsi sul pavimento, si tengono per mano e fingono di non aver paura mentre intorno a loro le spade falciano i soldati in fuga – ma sanno che i loro fantasmi li accompagneranno tra poco nei sogni, e insisteranno per poter dormire, almeno quella notte, con la luce accesa. Nelle vene di alcuni scorre il più nobile sangue di Fleed, altri hanno per genitori i ministri che continuano le riunioni anche nel periodo di vacanza; ma tra loro ci sono anche i figli dei guardiani del palazzo d'inverno, e non ci sono differenze fra i bambini seduti davanti al calore rassicurante del fuoco – tutti sanno che le uniche guerre che incontreranno nella loro vita sono quelle dei libri di scuola, e dei magici racconti di Leukya nella sala grande.

La storia volge alla fine e gli eroi vittoriosi banchettano alla luce delle torce: Leukya non è più una regina dagli occhi fiammeggianti, ma torna a essere la moglie di Fird, il maestro di palazzo, e una cuoca infinitamente migliore di quelle della reggia della capitale, che fa portare al suo giovane pubblico una bevanda calda e dolce al posto del liquore aspro che eccita l'animo dei guerrieri, e giura che è proprio lì, sotto quelle volte basse, tra quei pilastri massicci, che Aruthar e i suoi cavalieri hanno festeggiato la fine dell'ultima guerra.

Mentre la luce e le chiacchiere tornano a riempire la sala, Duke è sicuro che qualcosa si sta muovendo dietro i pesanti tendaggi che tengono lontano il gelo della notte sui monti: forse è re Aruthar, che si ricorda di lui, che vuole assicurarsi che il futuro re sia pronto a mantenere la sua promessa.
Non devo avere paura... se faccio il mio dovere non posso aver paura. Non ho paura.
Non lo ammetterà mai, ma allora perché le gambe gli tremano? Si avvicina alla finestra e prova a scostare il drappo polveroso che la ricopre, ma non c'è nulla, solo, al di là del vetro, la distesa innevata che il vento fa scricchiolare e gemere, e riflette la luce delle lune stemperando con una punta di bianco il viola scuro del cielo notturno. Le stelle brillano infinite, fredde e lontane – ma tra loro c'è quella da cui arrivarono gli invasori...

“Cosa fai Duke, giochi a nascondino?”
È Markus che lo tira per un braccio. “Vieni, andiamo a chiedere il permesso di dormire insieme stanotte! Così non te la farai sotto...”
“Ma io non ho paura!”
“Allora dormi da solo!” Il figlio del re di Morus, da poco l'erede del suo regno, strizza un occhio con l'espressione di chi la sa lunga e corre verso Fird che è appena arrivato per spegnere le luci.

Un ultimo sguardo al cielo lattiginoso: chissà da quale di quei mondi veniva la donna che Yoseth voleva diventasse sua madre. “Aspettami, Markus!”
Passeranno la notte a raccontarsi storie di guerra, e al mattino ci vorrà tutta la pazienza di Aleki, il figlio maggiore di Fird, per tirare i due principini giù dal letto.


Turchese, colore del cielo, trasparente sul fondo bianco. L’acqua è di vetro.


Il fondo della vasca rifletteva un cielo finto. Le piastrelle quadrate erano molto più in basso di dove le punte dei suoi piedi potevano arrivare a toccare. L'acqua odorava come i quartieri della servitù. E lui doveva tuffarsi lì dentro?
“Non voglio!”
“Altezza, Fleed è composto all’80% di acqua. Se vorrà regnare sul nostro pianeta dovrà conoscerlo in tutti i suoi aspetti, e il mare è uno di questi.”
“Ma questo non è il mare!”
L’acqua azzurra del lago dove lo portavano a giocare, la sabbia morbida su cui camminare, la sicurezza di potersi sempre rimettere in piedi. Non aveva mai avuto paura dell’acqua, ma qui… qui…
“Certo non è il mare, non è altrettanto pericoloso, mio Principe. Ma quando Sua Altezza saprà nuotare con sicurezza potrà tuffarsi senza temere nelle acque più profonde.”

Le acque profonde... l’estate prima era andato sulla barchetta di Fird a pescare – al vecchio montanaro piaceva il mare e aveva proposto al principe di accompagnarlo – e appena al largo si era sporto giù, a toccare la spuma con le dita, a cercare i pesci: ma non si vedeva niente in quell’acqua nera, da lontano sembrava verde e trasparente ma vista da vicino era opaca e densa come la bevanda scura che Fird beveva da un boccale e che per i bambini era veleno. Deluso, aveva cercato di tornare da Fird ma il pavimento si muoveva su e giù e la testa gli girava; così si era di nuovo aggrappato al parapetto, e l’acqua si era sollevata verso di lui spruzzandogli gocce amare sulla faccia. Con gli occhi che bruciavano, aveva cercato di allontanarsi a tentoni ma era scivolato, e un’altra onda aveva cercato di prenderselo… Aleki lo aveva sollevato tra le sue braccia forti.
“Comincia ad essere un po’ mosso, padre. Forse è meglio se torniamo a riva.”
“Sua Altezza soffre il mal di mare…”
Il vecchio aveva osservato il viso sudato e livido del principino, aveva annuito e aveva diretto la barca verso il piccolo molo.
Per distrarlo, Aleki gli aveva mostrato orgoglioso la cesta dove i grossi pesci appena liberati dalle reti si dibattevano su un letto di alghe macchiate di sangue. I corpi metallici scattavano convulsi come giocattoli quasi scarichi, gli occhi disperatamente aperti fissavano il cielo che non era fatto per loro, che appartenevano alle acque profonde...
“Pronti per il cuoco! Non sono belli, Altezza… Altezza?” L'odore salmastro gli aveva travolto lo stomaco e Aleki, posata la cesta, lo aveva sorretto fino al bordo della barca per lasciarlo vomitare in mare. No, quella sera non avrebbe cenato.

E non si sarebbe mai tuffato nelle acque profonde, dove nuotavano creature di metallo con occhi che nemmeno la morte riusciva a chiudere.

---


Per farmi notare che non lascio in pace Duke nemmeno da piccino: qui
 
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view post Posted on 4/11/2017, 06:42     +1   +1   -1
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2.


Non poteva tuffarsi là dentro.
“No! Non voglio imparare!” Si voltò per uscire da quel locale umido e sgradevole.
“Un giorno mi ringrazierà, Altezza.”
Senza preavviso, il maestro di nuoto lo sollevò di peso e lo gettò in acqua.

Un istante di smarrimento, il silenzio e il freddo improvviso alla schiena e la pancia, i piedi a scalciare nel nulla; poi l'acqua a invadere bruciante la bocca, le narici, le orecchie, gli occhi – accecandolo, togliendogli il respiro; le mani che automaticamente annaspavano verso la superficie, le sue urla soffocate dal liquido che gli chiudeva la gola. Sputò l'acqua, ma subito la bocca e il naso tornarono a riempirsi.
Un tonfo alle sue spalle. Certo, per il maestro era facile: toccava, lui. Oh, gliel’avrebbe fatta vedere…
“Sono qui, Altezza, ricorda cosa ho detto? Respiri con la bocca, apra gli occhi e cerchi di battere con i piedi, con un po' di esperienza non si annega...”
“No!” gorgogliò. “Non imparerò mai a nuotare!” Inspirò di proposito l'acqua che sapeva di disinfettante e bruciava alla stessa maniera; ma al momento di tornare a mettere il naso fuori cominciò a tossire, e più tossiva più sentiva l'acqua scorrergli dentro i polmoni e il respiro mancargli. Non era forse questo che voleva quell'uomo, che lui affogasse? Lui, il principe di Fleed? Ti insegnerà mio padre a buttarmi in acqua!
Un altro respiro a fior d'acqua, e un dolore acuto lo colpì alla fronte, la tosse divenne sempre più convulsa. Sentì le mani dell’istruttore posate sulla sua vita, la sua voce angosciata.
“I piedi, batta i piedi! Respiri con la bocca!” Poi non ricordava più niente, solo di essersi trovato sdraiato sul bordo della piscina con la convinzione di averla avuta di nuovo vinta.

“Il principe sta benissimo, Maestà. Ha solo bevuto un po’, ma senza conseguenze.”
Avrebbe preferito che il medico la facesse un po’ più drammatica, ma andava bene anche così: cominciava ad aver freddo, e non vedeva l’ora che il padre rimettesse il maestro al suo posto. Poi gli avrebbero fatto la doccia, lo avrebbero asciugato e finalmente sarebbe potuto tornare a giocare nel suo appartamento…
L’uomo si era inginocchiato davanti al re, gli occhi bassi, le mani tremanti: non era più così sicuro di sé.
“Il principe si è rifiutato di tuffarsi, ed io ammetto di aver usato le maniere forti,” disse senza osare alzare la testa. “Sono consapevole che non avrei dovuto. Imploro il perdono di Sua Maestà.”
Il re fece un cenno per fermare la governante che era arrivata con un accappatoio caldo.
“Alzatevi. Siete consapevole che quando vi affido mio figlio voi diventate per lui il mio sostituto? Che avete la piena responsabilità su di lui?”
Si era rimesso in piedi, le spalle ancora curve, pronto a gettarsi nuovamente sulle ginocchia.
“Me ne rendo conto, Maestà… non era mia intenzione nuocere a Sua Altezza.”
“Certamente. E tu, Duke,” il re si era rivolto a lui con lo stesso tono tranquillo che aveva usato con il maestro “tu lo sai che l’acqua può essere pericolosa? Che quando sei in piscina devi obbedire a chi è lì per insegnarti?”
“Ma io…”
“Alzati in piedi quando ti parlo. Hai detto che non volevi imparare. È stato necessario gettarti in acqua. Ti sembra il comportamento di un principe di Fleed?”
“L’acqua…” Rabbrividendo, Duke scivolò giù dal suo sgabello e si girò a osservare la grande piscina rivestita di marmo, i bassorilievi di animali marini che la decoravano, gli smalti blu e azzurri dei soffitti. Sapeva che era antica, e che il nuoto era l’unica attività sportiva che il re si concedesse, quando ne aveva il tempo. La voce gli morì in gola: non poteva dirgli che l’acqua puzzava. Ma non poteva nemmeno dirgli che aveva paura…
“Non mi serve imparare a nuotare!”
“Non sei tu a decidere che cosa devi imparare. In acqua.”
“Ma io… lui mi ha quasi affogato…” Duke, abbracciandosi il petto per il freddo, mosse un passo verso il calore invitante dell’accappatoio: ma a un nuovo cenno del sovrano la governante lo ripiegò su un avambraccio.
“Il maestro ha cercato di insegnarti a non affogare, e la lezione non è terminata. Tuffati. Da solo, stavolta.”
Non aveva bisogno di voltarsi per sentire la minaccia dell’acqua fredda e profonda che l’attendeva in quella vasca enorme.
“No!” gridò, e il suo strillo rimbalzò sulle pareti, così acuto da suonare pericolosamente vicino al pianto che cercava di camuffare. “Sono il principe, decido io! E non imparerò mai a nuotare!”
“Duke, per l’ultima volta…”
Ma il piccolo principe era sgusciato tra gli adulti e, nudo e bagnato, aveva preso la porta della piscina per correre verso le sua stanze.

I grandi potevano azionare le passerelle automatiche che portavano in un attimo in qualsiasi punto del palazzo volessero raggiungere… ma lui ancora non riusciva ad usarle. Poco male, una corsa su per le scale lo avrebbe riscaldato. Passò tra i servitori come se fosse stato invisibile.

Ecco, era di fronte alla sua porta. Ansimando, posò il palmo della mano sulla serratura, ma non sentì nessuno scatto. Asciugò la mano sul tappeto, tornò a cercare di attivare l’apertura: niente. Dall’interno si sentivano delle voci… la governante, di sicuro. Come, l’avevano chiuso fuori? Gocce d’acqua gli colavano gelide dai capelli lungo la schiena. Batté con impazienza sul sensore: la porta si aprì di scatto e la governante, seguita da tre cameriere, quasi lo fece inciampare impedendogli l’entrata.
“Altezza”, abbozzò un inchino automatico “immagino capisca che schiaffeggiare il sensore non ne migliorerà il funzionamento.” Poi, rivolta alle ragazze: “Portate il materiale nel magazzino fino a quando non avremo istruzioni.”
Materiale? Quelli erano i suoi vestiti… le sue coperte… i suoi giochi… Gli occhi di Duke percorsero inorriditi le pareti nude. “Il mio letto!”
“Ho dovuto insistere con Sua Maestà perché lasciasse a Sua Altezza il sacco da montagna”, disse la donna indicando un rotolo sul pavimento. “La stagione non è ancora calda, e il sovrano non vuole che il principe ereditario si prenda un malanno.” Scosse la testa. “Ma finché il principe ereditario non si comporterà come si conviene al suo rango, dovrà vivere come i poveri del regno.” Sollevò l’indice vicino al volto. “Molto meglio dei poveri del regno, a mio parere, visto che potrà dormire sotto un tetto sicuro e con una coperta per scaldarsi. E anche se non sarà ammessa alla cena, mi è stato concesso di portarle un po’ di cibo, quando tutti avranno finito.”
“Non voglio mangiare!”
“Sono convinta che più tardi cambierà idea. Ora, sotto la doccia.”
Duke si irrigidì sotto il nebulizzatore in attesa di un getto gelido; ma fu avvolto da un piacevole calore. Certo, suo padre non voleva che si ammalasse, l’aveva detto anche a Yoseth.

Avvolto nell’asciugamano, si sedette sul pavimento a mosaico della stanza che, così spogliata, sembrava stranamente più piccola. Al di là della finestra che occupava l’intera parete il sole di mezza primavera illuminava il parco. Poteva scendere a giocare… la governante se n’era andata, ma non era un problema, sapeva vestirsi da solo. Con indosso l’unico chitone sopravvissuto alla razzia posò il palmo sul sensore interno: ma la porta rimase chiusa. Capì: non valeva la pena di fare altri tentativi.
Prigioniero in un appartamento vuoto, senza giochi né vestiti, e senza niente da mangiare. E suo padre pensava che avrebbe ceduto così facilmente? Seduto per terra, osservò il prato oscurarsi pian piano e le luci accendersi nel giardino deserto.


Aveva rimandato indietro il cibo per tre giorni. Il chitone non era più tanto bianco, aveva fame ma soprattutto si annoiava. “Voglio parlare con mio padre!”
“Arriveranno ospiti importanti domani, e Sua Maestà è molto impegnato. Il Re ha altro da fare che occuparsi di un bambino viziato.” La governante aveva preso la porta riportandosi indietro il vassoio colmo. “E un bambino viziato non potrà diventare un buon sovrano per il pianeta. Forse un giorno Sua Altezza comprenderà che essere re non significa poter fare ciò che si desidera ma dover fare ciò che è necessario.”

Un bambino viziato? Certo, poteva immaginare chi fossero gli ospiti importanti… Suo padre era arrabbiato con lui, e Yoseth avrebbe avuto buon gioco a trovargli una nuova madre. Sarebbero arrivati dei fratelli, e allora lui non sarebbe più contato niente…
Imbacuccato nella coperta, abbracciandosi le gambe per calmare i crampi allo stomaco, aveva cercato di prendere sonno davanti alla grande parete trasparente.

È notte fonda quando la vibrazione del pavimento lo sveglia. Il prato è illuminato a giorno e vi si sono posati una quantità di dischi viola, su ognuno dei quali brilla verde una stella a quattro punte. Gli ospiti? Ma non è quello lo spazioporto reale... Sono i dischi a emanare quella luce accecante, i loro motori a vibrare così forte da far ondeggiare il pavimento, da dargli il mal di testa. Da ogni disco scendono file di uomini dai capelli viola con i piedi nascosti da lunghi mantelli, sotto cui, ne è certo, si celano lunghe spade affilate. Perché non c’è nessuno a fermarli? E come li possono fermare, se su Fleed non ci sono armi? Deve avvisare suo padre… deve dirgli di correre nel tempio antico, di prendere la spada di Aruthar prima che sia troppo tardi! Il rumore diventa più forte, diventa il rumore di cavalli al galoppo che percorrono il prato e le pareti della sua stanza, le sue braccia sono legate e le sue gambe non si muovono, i guerrieri invasori si sono accorti di lui e uno è entrato nella sua stanza e l’ha immobilizzato… suo padre non saprà mai che lui non è un bambino viziato, che avrebbe voluto avvertirlo ma quegli uomini che sapevano che lui non li avrebbe lasciati passare l’hanno legato, ora l’uccideranno e poi suo padre avrà un altro figlio che prenderà il suo posto e presto tutti si dimenticheranno di lui, e per lui non ci sarà mai una statua nel tempio di Fleed...

Un lampo di luce, poi il buio. Ancora luce…
“Altezza? Altezza, apra gli occhi, la prego!”
Non era più nella sua stanza, e accanto al letto su cui l’avevano posato, dietro al medico e alla governante che non gli era mai sembrata così magra e pallida c’era suo padre, con ancora addosso il mantello di rappresentanza. Sulla porta gli sembrò di riconoscere la tunica verde di Yoseth, e accanto a lui costumi di foggia straniera.
“Dottore, quel grido?”
“Ha la febbre alta, deve aver avuto delle allucinazioni.”
“Lo sapevo, non avrei dovuto essere così duro... Duke, come stai?”
Gli occhi di suo padre, spalancati, vicinissimi ai suoi; la barba un po’ più spettinata del solito, il respiro che sapeva di fumo.
“Aruthar… la spada… i guerrieri…”
“Va tutto bene, Duke. Adesso ti diamo una medicina che ti farà dormire e domattina starai bene. Non è il caso di fargli mangiare qualcosa, dottore?”
“No, ora rigetterebbe… può tornare alla sua riunione Maestà, il principe è in buone mani.” Il medico sollevò la coperta per scoprirgli il braccio.
Suo padre gli si avvicinò e gli posò le labbra sulla fronte. La sua guancia ispida gli solleticò il naso.
“Hai vinto tu. Niente piscina. Ma da domani torna a mangiare, va bene?”
“I dischi…”
“Maestà, la prego! La delegazione rubiana non può restare ancora a lungo!”
“Arrivo, Yoseth! Ah, Duke, quanto vorrei che i miei problemi fossero gravi come i tuoi…”
Si girò per capire che cosa gli avesse pizzicato il braccio, ma il sonno glielo impedì.

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Per dire la vostra sui metodi educativi fleediani: qui.
 
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3.


Giù, verso il fondo, finché le tempie dolgono e le vene sembrano scoppiare. Giù, senza sapere se si tornerà indietro.


Era certo che l’idea non fosse di suo padre: niente piscina, quindi niente mare e soprattutto niente lago. Era la festa di inizio estate, il sole scaldava un cielo limpido e lui, il padrone di casa, poteva solo guardare, vestito di tutto punto e con i calzari pieni di sabbia, i suoi amici che sguazzavano nelle acque basse e sicure a lui vietate – aveva raccontato che l’aveva prescritto il medico, ma aveva l’impressione che non tutti l’avessero bevuta. Markus aveva giocato con lui per un po’, poi quando l’animatore era venuto a proporre una gara di nuoto aveva allargato le braccia – “lo sai Duke, il mio allenatore dice che ho la stoffa del campione...” ed era corso a sfoggiare la sua superiorità. Il principe di Fleed, elegantissimo nel suo chitone rosso, era stato chiamato a fare da arbitro; ed era stato costretto ad proclamare la vittoria del seminudo principe di Morus, ad applaudirlo mentre quello saltava eccitato spruzzando acqua da tutte le parti, subito abbracciato da una bimba appena un po’ più piccola, dai lunghi capelli biondoverdi...


Ancora più a fondo, anche se sembra di soffocare.


Markus, il suo migliore amico. L’avrebbe preso a pugni, lui e la sua zazzera fradicia, le sue braccia levate al cielo, il campione di nuoto. E lei, era la prima volta che la vedeva, non sapeva ancora il suo nome ma l’aveva riconosciuta subito: lei era quella con cui sarebbe voluto stare tutta la giornata, e anche i giorni dopo… ma non poteva far altro che guardarla da lontano, mentre faceva a schizzi con il suo migliore amico. E i calzari nuovi gli davano fastidio.

La festa non finiva mai, e il sole cominciava a sbriciolare il castello di sabbia con cui aveva tentato di tenersi occupato. Le cameriere erano intente ad allestire la merenda per gli ospiti, i sorveglianti gli davano la schiena, interessati solo a impedire che lui facesse il bagno: e lui era stufo di starsene seduto sulla spiaggia assolata. Aveva cominciato a camminare lungo la sponda del lago, fino a inoltrarsi nel boschetto che lo costeggiava.
C’era stato diverse volte: il sentiero risaliva tra gli alberi che intrecciavano i rami quasi a formare una volta, tanto fitti da schermare quel sole inutile e far credere che fosse ormai il tramonto. Più avanti c’era il ponte di pietra: l’odore di foglie bagnate e lo scroscio del ruscello che si gettava nel lago era sempre più forte. Doveva essere dopo quella svolta, o forse poco più avanti… si fermò per slacciarsi i calzari: nessuno, neanche la governante, poteva vederlo e rimproverarlo di esserseli tolti, e le foglie morbide erano piacevoli sotto i piedi.
Seduto su una roccia osservò il cielo: i rami erano molto più radi ora, non c’era una nuvola, ma la luce non era più così forte. Doveva cominciare a tornare indietro… ma sicuramente il ponte era vicino, e dal ponte alla spiaggia erano solo pochi minuti, l’aveva fatto tante volte quel sentiero, anche se mai da solo. A piedi nudi stava molto più comodo: ci avrebbe messo un attimo. Ecco, aveva riconosciuto la curva che portava al ponte… i calzari in mano, si diresse a passo sicuro verso la sua meta.
Forse era l’oscurità che avanzava velocemente, o forse si era spinto troppo oltre? Quel posto non l’aveva mai visto, ne era quasi certo. Sicuramente era andato troppo avanti - doveva tornare indietro e avrebbe trovato il ponte, l’odore dell’acqua era fortissimo ora, e anche il rombo del ruscello era così forte da coprire il rumore dei suoi passi.

Un fischio lacerante attraversò l’aria umida, e un altro rispose prontamente: gli animali del bosco si stavano risvegliando. Sentì le bisce scivolare silenziose sotto il manto di foglie, intravide ragni zampettare veloci sulle cortecce grigiastre; qualcosa gli solleticò rapido le dita dei piedi con le sue molte, troppe zampe. Con un grido - il primo da quando si era perso - si mise a correre, le mani protese avanti, inciampando nelle radici, schiaffeggiato dai rami che non riusciva a schivare, alla ricerca di un sentiero che non riusciva a vedere. Di colpo il terreno davanti a lui franò, le foglie fradice sgusciarono sotto i suoi piedi in uno schianto di fronde spezzate. Fece appena in tempo ad aggrapparsi a un ramo: sotto di lui scorreva il torrente, la schiuma bianca brillava pallida nella luce sempre più fioca.
Si tirò su con fatica: non riusciva a distinguere bene, ma doveva avere le palme delle mani sbucciate, e gli faceva male mettersi seduto. E non aveva più i calzari.
Zoppicò fin sotto un albero: anche le ginocchia erano rosse e nere di terra e sangue. Non sarebbe mai riuscito a tornare da solo. Forse non l’avrebbero mai trovato… ma era questo che volevano, no?
Lui non era adatto a diventare re, gliel’aveva detto la governante e lo pensava anche suo padre. Senza più un principe ereditario, suo padre si sarebbe risposato, e sarebbe nato un altro principe più adatto di lui... era meglio così, meglio per tutti.
Forse avrebbe fatto bene a lasciarsi cadere nel torrente… tornò cautamente indietro e rimase affascinato a guardare il turbinio di quelle acque in cui aveva rischiato di finire davvero. Era buio ormai, avevano sicuramente già iniziato a cercarlo. Dalla terra saliva una nebbiolina bianca e fredda che gli gelava la schiena: si strinse nel chitone e vi scoprì un largo strappo.
La governante sarà furiosa.
Markus mi prenderà in giro.
Papà sarà deluso.
E la bambina con i capelli verdi non vorrà mai vedermi… scivolò per terra e scoppiò a piangere
.

Ci sono grida poco più in là lungo il torrente, sono venuti a prenderlo? Corre verso le luci che si intravedono più sotto al di là degli alberi, poi rallenta.
Forse se vedono che mi sono fatto male non mi sgrideranno. Si prepara un’entrata trionfale - sono tutti lì per cercare lui! Allora non speravano che fosse scomparso...

Nel giorno artificiale dei fari, un gruppo di persone si affanna muto attorno al corpo nudo di un ragazzo sdraiato a pancia in su: la luce livida, la stessa che precede i temporali, fa giallo il viso, nero il rosso del sangue che chiazza le gambe e bagna l’erba. Un uomo, forse è Aleki, spinge forte sul torace; il ferito tossisce acqua – allora è vivo! – e solleva le palpebre. Per un attimo i suoi occhi incontrano quelli di Duke.
“Il principe!” esclama, e un sorriso gli balena sulle labbra grigie, prima che le pupille gli si rovescino indietro.
“Delira...”
Una donna arriva di corsa, reggendo con le mani i lembi di un lungo vestito di certo non creato per essere indossato nei boschi. “Orion, incosciente! Lo sapevi che c’erano le rapide… Altezza,” si blocca. Tutti si girano verso Duke che avanza lentamente.

“Lo sanno tutti che il principe non sa nuotare. Quando ho visto i calzari rossi galleggiare ho pensato che fosse caduto nel fiume. Era mio dovere tentare di salvarlo.”
Orion, dei duchi Barsagik: era quello il nome del ragazzino che era quasi affogato per colpa della sua sventatezza. In pochi istanti il raggio traente di un disco-lettiga aveva sollevato lui e sua madre al suo interno; Duke era tornato alla reggia a piedi, al seguito del gruppo di soccorritori che, arrivati lì per salvare lui, avevano dovuto occuparsi di ben altro. Nessuno si era preoccupato delle sue ferite, e del resto erano poca cosa rispetto a quelle di Orion che, sbattuto sulle rocce, aveva schiena e gambe spezzate, e che sarebbe rimasto zoppo a vita per causa sua. Il re aveva insistito per ospitare lui e i suoi familiari in uno degli appartamenti del palazzo finché non si fosse ripreso.

La governante gli aveva pulito e disinfettato le ginocchia senza dirgli una parola; anche il re si era limitato a scuotere la testa in silenzio, per poi voltargli le spalle e tornare a chiudersi in camera di consiglio. Avrebbe preferito una sgridata, un altro giorno senza mangiare, perfino le bacchettate che, suo padre gli aveva raccontato, erano la punizione abituale, ai suoi tempi, anche per i figli di re. Ma la punizione peggiore era ascoltare Orion che farneticava di come fosse stato un onore per lui essere chiamato a rischiare la vita per il suo principe… ciononostante, o forse proprio per questo, Duke andava a trovarlo tutti i giorni, più a suo agio con la freddezza della duchessa Barsagik che con il calore di suo figlio. Forse, se avesse potuto rendersi utile… ma cosa poteva fare un bambino della sua età, per cui un ragazzo di dieci anni apparteneva ormai quasi al mondo degli adulti? Una volta, entrando nella camera di Orion, seduta accanto al letto non aveva trovato sua madre, ma la bambina dai capelli biondoverdi.


Naida… da quanto tempo non pensa a lei? No, non è ancora il momento di risalire. Il buio è tanto più fondo quanto più brilla il ricordo della luce.


“La mamma dice che dovrei odiarti, ma Orion dice che non devo.”
“Shh, Naida. Duke, non ascoltarla… la mamma a volte dice cose che non pensa.”
Naida, si chiamava Naida… e non gli aveva detto niente di nuovo, lo sguardo della duchessa Barsagik ogni volta che lo incontrava non lasciava dubbi.
“Non dirlo al re, ti prego, Duke.”
“Tua mamma ha ragione.” Era uscito dalla stanza di corsa, il cuore che gli balzava nel petto per quella bambina che era l’unico ricordo felice della festa, disperato perché lei non l’avrebbe mai voluto vicino a sé, lui che le aveva quasi ucciso il fratello… ma la gioia era stranamente più forte della disperazione. Naida era là, era sotto il suo stesso tetto, e Orion le aveva chiesto di non odiarlo.
Se avesse obbedito a sua madre, forse ora… no: nessun fleediano era sopravvissuto, non la duchessa, non i suoi genitori. Ma certo, se avesse seguito il consiglio di sua madre avrebbe sofferto molto, molto meno. Invece lei aveva ascoltato Orion.

Orion, tranquillo e coraggioso, così tranquillo da far dimenticare quanto coraggio ci volesse per fare ciò che per lui era naturale. Essere zoppo non gli aveva impedito di diventare, giovanissimo, uno dei pionieri nell’esplorazione dello spazio profondo. Anche quando era stato chiaro che non avrebbe più camminato come prima, non aveva mai fatto a Duke una colpa della sua situazione: forse, diceva, se avesse avuto le gambe buone non sarebbe stato disposto a passare tanto tempo seduto nell’abitacolo di un disco. Il suo cuore era forte come le sue gambe non potevano più essere: nessuno, di fronte alle sue spalle larghe e al ciuffo color smeraldo che gli ricadeva sugli occhi sorridenti, poteva pensare a lui come a un invalido. Negli ultimi anni di pace era diventato famoso per le sue ricerche negli angoli più remoti della galassia, ma allo scoppio della guerra era stato il primo a tornare per mettersi agli ordini del suo principe – e il primo a morire…

Appena i medici gli avevano dato il permesso di lasciare la stanza, Duke si era incaricato di far visitare a Orion e alla sorellina il palazzo reale; e quando il ferito si era stancato di azionare le ruote della sua sedia, si era offerto di spingerla lui, felice di poter finalmente fare qualcosa per il suo nuovo amico. Avevano corso a perdifiato per i corridoi, attraversato le sale dipinte, fermandosi per assistere all’arrivo di dischi diplomatici nello spazioporto – Orion, entusiasta, aveva insistito per tornarci ogni giorno, e alla fine era anche riuscito a salirci sopra – passando davanti ai cancelli chiusi del tempio degli antenati – e qui Duke aveva trattenuto il fiato; ma per una volta era certo che Aruthar non avrebbe avuto niente da rimproverargli – fino ad arrivare al portale che dava sul giardino: e improvvisamente Duke si era accorto che era estate.


I ricordi felici appannano la vista di lacrime. Il fondo è vicino nel buio: solo toccandolo si può risalire.



La mattina era impegnata nelle lezioni, ma Duke non vedeva l’ora che arrivasse il pomeriggio, per trascorrerlo con Orion che, terminate le terapie, aveva bisogno di svago. Le prime volte era la duchessa ad accompagnarli nel parco, poi la governante: quando lei l’aveva lodato per il suo impegno nell’assistere un ragazzino invalido Duke si era stupito. Invalido? Orion era un suo amico, e un amico diverso da Markus: era più grande di lui ma non lo prendeva in giro, non lo avrebbe mai trattato da piccolo, ed era quasi sicuro che non lo faceva perché lui era il principe… e poi c’era Naida. I due fratelli erano molto legati; e forse Orion si era accorto che quando c’era lei Duke sorrideva sempre. La madre, che non negava mai niente al figlio maggiore, aveva acconsentito a trasferire anche la bambina nel palazzo reale per l’estate.

“Duke, perché non andiamo al lago?”
Aveva temuto quella domanda: i pomeriggi potevano diventare insopportabilmente caldi anche all’ombra dei pergolati, e i giochi d’acqua delle fontane mitigavano appena l’afa. “Lo sai che Orion non può fare il bagno…”
“Non è vero, mi esercito in piscina tutte le mattine… Sai Naida, che qui c’è una piscina bellissima?”
Duke avrebbe voluto sprofondare.
“Ma a me non piace la piscina...io voglio andare al lago!”
Non c’era scelta… doveva chiedere il permesso alla governante, lei gliel’avrebbe negato e allora… cos’avrebbe pensato Naida di lui?


---

Per dare una mano al piccolo principe: qui

Edited by shooting_star - 8/11/2017, 14:38
 
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4.


Spinge la sedia fino al padiglione delle rose: in piedi accanto alla duchessa e alla governante, un’altra donna, più giovane e con i capelli color dell’erba sciolti sulla schiena, beve vino di spezie ghiacciato mentre cerca di rinfrescarsi con un ventaglio.
“Naida, guarda chi c’è! Corri!” Orion si solleva sulle braccia, sfila le stampelle dal loro alloggiamento, e le va incontro, con fatica e decisione. “Zia Lenia!”
Le altre due donne si alzano in piedi, stupite di vederlo camminare; non muovono un passo verso di lui. Lenia si gira –


Nel buio è inutile chiudere gli occhi… a volte teme di aver dimenticato, ma ogni notte la rivede: a volte il suo sorriso, a volte la sua gola tagliata.
Mamma.
Le dita affondano nella sabbia, ma non possono afferrarla. I pugni stringono il vuoto.



– si gira e allarga le braccia per chiamarlo a sé. “Allora è vero che stai bene… meglio così,” sorride. “Dovrò tenerti compagnia per un po’.”
“Mamma?”
La madre di Orion si è nuovamente seduta, una mano sul ventre, il bicchiere di vino di spezie intatto. “Devo tornare a casa per un po’... ma tu resterai qui per proseguire le cure.”
Naida corre da lei, preoccupata. “E forse è meglio che resti qui anche tu… con tuo fratello e la zia. E il principe,” aggiunge: il viso della piccola si distende in un sorriso. “Ho visto che siete diventati amici.”
“Sì! Quindi,” Naida si volta verso Lenia “ci accompagni tu al lago?”

“Come, non vuoi nuotare? Nuotare è bellissimo.” Per Orion quasi tutto era bello. “Sembra di volare. Come quando sei su un disco, ma senza niente intorno… come un uccello. O come un pesce.”
Duke cercò di cancellare dalla sua mente l’immagine delle bestie morenti. Li aveva visti, no? Sfrecciare tra le sue gambe argentei e leggeri, vicinissimi ma impossibili da afferrare. Doveva essere bello essere così sicuri, così veloci. E se Orion avesse avuto ragione? Di certo sapeva leggere nel pensiero.
“Non avrai mica paura dell’acqua? Tranquillo,” aveva strizzato un occhio. “Non lo dirò a Naida.”

Naida era stata accontentata: il giorno dopo Lenia avrebbe accompagnato i ragazzi al lago. “La vostra governante mi ha consigliato un giro in barca verso l’isolotto. Ci faremo una bella nuotata nell’acqua alta.”
Naida avrebbe scoperto tutto… doveva imparare a nuotare. Doveva… ma come, in una sola notte?


Attese che dai corridoi non venisse più nessun suono e sgusciò fuori dal suo appartamento. La piscina era tre rampe sotto: a piedi nudi non avrebbe fatto rumore. Scivolò veloce, ignorando le ombre che la luce lunare gli proiettava incontro per spaventarlo, fino alle alte porte vetrate, al di là delle quali l’acqua sciabordava piano. Bastava spingere… ci sarebbe riuscito: e tra poche ore sarebbe stato al lago con Naida, avrebbero giocato insieme nell’acqua alta. Doveva farcela; e doveva decidersi a entrare. Trattenendo il fiato, posò la mano sulla serratura, ma la porta non si aprì.
Come, la piscina era chiusa per la notte? Si sentì crollare il mondo addosso. Doveva trovare una soluzione, ma quale? Poteva tornare nella sua stanza, fingere di essere malato: l’indomani sarebbero andati al lago senza di lui… no, nemmeno a pensarci.
Stupido che era! Il lago, quello di sicuro non era chiuso. E il sentiero per arrivarci lo conosceva a memoria, non si sarebbe perso stavolta…

Le lune illuminavano di una luce incolore il prato, disegnandone ogni particolare in una scala di grigi nitida e irreale. Duke lo attraversò veloce in diagonale, risentendo nello stomaco e sotto i piedi il suono profondo della vibrazione di mille motori, ripetendosi che l’infinita distesa di dischi alieni non era stata che la visione di un incubo. Sopra di lui il cielo era vuoto, così chiaro che le stelle erano quasi invisibili. Tutto era tranquillo, non c’era niente da temere: e se anche ci fosse stato, come avrebbe potuto difendere il suo pianeta se non riusciva a superare una paura da bambino, se era più fifone non solo di Markus, ma anche di Naida? Orion non aveva avuto paura delle rapide... Si mise a correre: l’alba veniva presto d’estate.

Si sfilò il chitone e lo stese su una roccia: davanti a lui l’acqua mormorava monotona, tremolante di luce. Si accorse quasi con stupore che era calda. Pochi passi, e gli arrivava alle ginocchia… ma lo sapeva benissimo, da quella parte avrebbe dovuto camminare a lungo prima di poter nuotare. Poco più avanti c’era un piccolo promontorio da cui alla festa avevano organizzato la gara di tuffi: quello era il punto giusto. Si arrampicò, facendo molta attenzione a non scivolare sulle rocce umide.
Cosa aveva cercato di insegnargli il maestro? “Occhi aperti, respirare con la bocca, battere i piedi”. Immaginò che Naida fosse lì, davanti a lui, a chiamarlo, e mosse un passo nel vuoto.

Buio, era tutto buio… riemerse agitando scompostamente le braccia, ma la testa tornò subito sotto. Era stato un incosciente! Orion gli aveva detto che se fosse stato fermo avrebbe galleggiato. Impossibile, stava affogando… si impose di restare immobile, e rimase allibito nel sentire il suo corpo disporsi supino sull’acqua. Poteva prendere fiato, aspettare che il naso smettesse di bruciare; costringersi a respirare con la bocca. Poi doveva provare a spostarsi, muovendo braccia e gambe, su e giù, come aveva visto fare tante volte; e se non fosse riuscito, poteva sempre tornare a distendersi sul dorso, immobile.
Una delle lune era quasi a pelo d’acqua, enorme, il suo riflesso una strada da percorrere per raggiungere il suo splendore lattiginoso. Il respiro era tornato normale, il leggero oscillare delle onde lo cullava con dolcezza: come poteva aver temuto tanto qualcosa di così semplice? Provò a rovesciarsi e muovere le braccia in avanti… e improvvisamente divenne pesantissimo, l’acqua che l’aveva sostenuto gli afferrò le caviglie e lo trascinò verso il basso in un gorgo senza fondo. Battere con i piedi. Non respirare con il naso. Battere, non agitarsi… la testa finalmente fuori dall’acqua, inspirò dalla bocca fino a riempirsi i polmoni.
Bene, non era affogato; ora doveva raggiungere la spiaggia, arrampicarsi sulle rocce viscide e taglienti del promontorio era fuori discussione. E doveva farlo prima che il cielo schiarisse…

Non sapeva per quanto fosse andato avanti: tentativi di bracciate che gli impedivano di respirare, e lunghe pause sul dorso per riprendersi. Ma alla fine gli sembrava di aver raggiunto, se non uno stile impeccabile, almeno la capacità di spostarsi senza ingoiare troppa acqua. Lentamente, molto lentamente… la spiaggia e la roccia su cui aveva posato il chitone erano a una distanza infinita: ma non si era concesso scelte. Lentamente, avanzò nell’acqua tiepida in cui all’allontanarsi delle lune le stelle sembravano sbocciare ad una ad una; sotto di lui altre luci si muovevano – pesci, animali notturni che rischiaravano l’acqua di colori inaspettati. Avrebbe voluto saper immergersi per seguire quelle scie lucenti, ma non poteva: presto il cielo si sarebbe fatto chiaro, e la spiaggia era ancora lontana.


Non è notte, non qui. Il nero riacquista colore, la pressione si attenua. Il corpo stremato si abbandona all’abbraccio dell’acqua.


È l’alba, e allacciarsi la fibula è difficilissimo: le braccia gli fanno male, le dita non vogliono saperne di seguire i suoi ordini. Ma se guarda a che distanza è il promontorio dei tuffi, non può che sentirsi compiaciuto. C’è riuscito; e il lago che riflette l’ocra del cielo non gli fa più paura. Orion aveva ragione: ora sa come si sentono gli uccelli che planano sospesi, avvolti nella corrente che li sorregge. Non vede l’ora di raccontargli tutto. Domani sarà una giornata meravigliosa.


Umon si sfrega le mani per riscaldarle ed estrae il binocolo dal borsello, preoccupato. Da quanto tempo non vede la tuta rossa? Daisuke non ha esitato a tuffarsi appena ha visto il mare, ma lui non ha idea di quanto un fleediano possa resistere senza respirare, e la giornata è fredda.


Lenia rema con forza fino all’isolotto: Orion tiene il timone e Naida chiacchiera senza interruzione delle conchiglie che vuole raccogliere per farsi un braccialetto, e forse anche una collana, lui l’aiuterà, vero? Duke ha gli occhi che gli si chiudono, non vede l’ora di raggiungere la meta per sdraiarsi sui sassi tiepidi e dormire. “Buona nuotata”, gli ha detto Aleki spingendo la barchetta in acqua; e la governante l’ha salutato sorridendo, sembra essersi dimenticata che gli è vietato fare il bagno… con un po’ di fortuna non si accorgerà del cuscino umido, il caldo l’asciugherà rapidamente.


È luce, sfolgorante nel cielo sopra di lui; galleggia supino, immobile. L’aria fredda riempie i polmoni, rischiara la mente. Non è un sogno, e non è un incubo. È la vita.


Nel ricordo quell’estate è avvolta di pulviscolo d’oro. I giochi con Orion e Naida, l’invidia di Markus che li trova inseparabili, le gite al mare e le sfide a chi nuota più al largo; il re finalmente sorridente, che sempre più spesso si ferma nel giardino a passeggiare tra le rose con la donna che diventerà sua madre; perfino l'irritazione di Yoseth sembra buffa, quando suo padre lo chiama nuovamente nel tempio degli antenati e gli chiede l’approvazione per la sua scelta. Nelle ombre dell’autunno che inizia, i riflessi blu e oro dipingono le volte e i mosaici, e la spada di Aruthar brilla, intatta da secoli, in fondo alla navata.


Il blu lo avvolge, fonde i confini del cielo e del mare, dello spazio e del tempo. Solleva la visiera e respira la purezza tagliente del vento. È vero, l’acqua è fredda, l’aria soffia gelida: ma è la stessa acqua, la stessa aria di Fleed. Non gli serve la divisa.



S’immerge un’ultima volta nel mare che i raggi del sole attraversano in ventagli radenti, ne riceve sul corpo il bacio salato; gli occhi bruciano di lacrime invisibili. I bagliori metallici sotto di lui non sono lame che brillano: i pesci gli guizzano accanto argentei e veloci, vicinissimi e impossibili da afferrare. Non è un tempio dedicato ai morti: questo è un tempio di vita, e questo è il suo nuovo pianeta, la sua nuova casa, e lui lo ama dal profondo della sua anima. Non ha tradito il giuramento fatto davanti a suo padre. Metterà il bene del suo pianeta davanti a ogni altra cosa, sempre.


Gli occhi di Daisuke brillano mentre esce dall’acqua, uno splendore che quasi gli mette i brividi. Forse un giorno, quando le ferite saranno meno dolorose; forse allora gli chiederà dei mari di Fleed.


FINE


...per tirare insieme una boccata d'aria: qui

Edited by shooting_star - 10/11/2017, 16:19
 
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Lo ammetto: questo racconto doveva essere pubblicato il 6 di gennaio. Ma - chi lo ha detto che durante le vacanze c'è più tempo libero? - sono riuscita a scriverlo solo ora... spero che non ve ne abbiate troppo a male.
Un ringraziamento all'asteroide 'Oumuamua, che ha fornito l'aggancio giusto a una storia che in realtà avevo in mente da tempo.


EPIFANIA


Ancora una mezz’ora.
Avrebbe potuto dettare le sue osservazioni a un registratore, ma il suono della sua voce avrebbe disturbato il silenzio della grande sala vuota. Un’altra pagina del taccuino si riempì dei suoi caratteri nitidi e ordinati.
Dall’ampia vetrata, la distesa di neve ormai ghiacciata brillava sotto la luna piena, rischiarando la precoce notte invernale. Dopo giorni di maltempo, il cielo finalmente sgombro di nubi permetteva nuovamente l’osservazione al telescopio del cielo stellato. Avrebbe passato volentieri la notte così, come faceva spesso anni prima… ma no, non poteva, aveva promesso.

Il professor Umon si alzò e camminò verso la grande finestra. I suoi occhi istintivamente guardarono verso il bosco alla ricerca di tracce che sapeva benissimo non avrebbe mai trovato, mai più. Chissà cosa sarebbe successo se al suo posto, nella bufera, ci fosse stato qualcun altro, cinque anni prima. Forse la storia del pianeta sarebbe stata del tutto diversa; forse sarebbe ormai finita…
No, quello era il suo destino: qualcosa che aveva imparato a non confondere con il caso. Duke non era arrivato sulla Terra per caso, e non per caso lui aveva scelto quel giorno che prometteva tempesta per un’escursione fuori programma. Era tutto scritto, anche la sconfitta di Vega; anche quella partenza inaspettata.

A volte sembrava un’eternità, altre solo pochi giorni. Ora che tutto era tornato come prima, la ricerca era di nuovo la sua attività a tempo pieno; il Centro non era più un luogo di attività top secret ed erano riprese le visite delle scolaresche. A volte i ragazzini facevano domande sulla guerra da poco conclusa; ma succedeva sempre meno spesso. I mostri che avevano distrutto quartieri e spezzato vite sembravano cancellati dalla memoria, rimossi dal desiderio di ricostruire: era così che il suo popolo faceva da sempre, dopo le guerre come dopo i terremoti. Quando mostrava ai visitatori gli Spacer in assetto di partenza non poteva dimenticare che a pilotarli era restata solo Hikaru, e che anche lei presto sarebbe partita per frequentare l’università. Il Cosmo Special era pronto nel suo hangar, ma i tempi non erano maturi per le ricerche aerospaziali che avrebbe potuto supportare; anche se – faticava ad ammetterlo anche con sé stesso – continuava a sperare che prima o poi sarebbe arrivata la conferma che Duke era arrivato, e che un viaggio verso Fleed sarebbe un giorno stato possibile.

Ora che tutto era tornato come prima… no, niente era tornato come prima. Lui non sarebbe mai più stato come prima; per fortuna.

Guardò l’orologio: le sette, presto sarebbero arrivati. Avrebbe continuato l’indomani: se i suoi collaboratori erano in ferie, per lui da mesi i giorni di festa non esistevano, e non ne sentiva la mancanza. La solitudine gli pesava molto meno della compagnia, da quando nella compagnia non c’erano più i suoi due ragazzi; ma per Koji avrebbe fatto un’eccezione.
Riguardò gli appunti: strane anomalie si ripetevano nelle osservazioni. Hayashi aveva ipotizzato la necessità di registrare correttamente le apparecchiature. Però, forse… i dati erano troppo coerenti per essere errati. Eliminato l'impossibile, quello che rimane, per improbabile che sia, deve essere la verità. Quante volte si era ripetuto quella frase? La soluzione gli balenò, evidente, davanti agli occhi: e se non fosse stato così distratto ci sarebbe potuto arrivare molto prima… doveva solo puntare il telescopio e verificare.

Il cicalino della porta: premette un tasto e dalla telecamera si proiettò l’immagine di Hikaru infagottata in un piumino e con in testa un berretto sormontato da un grosso pompon. Alle sue spalle, con solo una sciarpa a proteggergli il collo, Koji salutava sorridente. Più indietro, seminascosta dalla fumana – argentea sul monitor in bianco e nero – che fuoriusciva dai tubi di scarico, la vecchia jeep il cui frastuono impediva di capire cosa stessero dicendo i due ragazzi. Umon si schiarì la voce. “Entrate, per piacere.”
Fece scattare la serratura di sicurezza. “E Koji, per favore, spegni il motore. Ci sono novità.”


“Ha una forma anomala. E una traiettoria anche più anomala.”
“Sì. Eravamo convinti che qualcosa non andasse nelle macchine. Ma – Umon digitò sulla tastiera, e ondate di cifre si inseguirono rapide sullo schermo – basta ricalcolare la traiettoria considerando questo…”
Il risultato lampeggiava sul display. “Un’orbita iperbolica? Questo vuol dire…”
“Sì, Hikaru. Proviene dall’esterno del sistema solare. Si ipotizza da tempo che simili corpi esistano, ma è la prima volta che ne identifichiamo uno. Si tratta di una scoperta straordinaria.”.
“Se è un… come definirlo, un asteroide interstellare? Allora sì, certo. Ma, professore…”
La ricostruzione al telescopio mostrava che l’oggetto era lungo, stretto, e affusolato, come i sigari volanti dei vecchi film di fantascienza; e come la nave ammiraglia di Vega, quella da cui Yabarn aveva mosso l’ultimo attacco. Koji indicò la traiettoria sul monitor e disse quello che tutti e tre non potevano evitare di pensare: “…e se fosse una nave spaziale? Sembra provenire da Vega.”
“Vega non esiste più.” Umon corrugò le labbra e cercò lo sguardo di Hikaru.
“E se venisse da… da…”
“Professore, dobbiamo capire se emette segnali radio, se è in grado di comunicare…”
“Al momento, pare di no. Ma lo terremo sotto osservazione.”
Umon si sfilò il camice e indossò la giacca. “Credo sia meglio andare, Danbei starà cominciando a preoccuparsi.” Tenne aperta la porta per lasciar passare Hikaru, poi inserì l’allarme.
“Acqua in bocca con mio padre, Koji... la torretta è completamente ricoperta di ghiaccio, ma questo non gli impedirà di correre ad arrampicarsi e di scivolare di sotto. E non ci sono balle di fieno su cui atterrare in gennaio.”
“Tranquilla, credo che gli basterà farmi il terzo grado sulla NASA.”
“Quello pensavo di fartelo io”, rise Umon salendo nel posto accanto al guidatore. Si sentiva improvvisamente rilassato… forse si sbagliava, forse aveva bisogno di compagnia: della compagnia di quei due ragazzi che come lui avevano trovato la propria esistenza dimezzata nel momento in cui pensavano di poter cominciare a viverla in pace, con al loro fianco le persone che amavano… una parte di Daisuke e di Maria era ancora in loro, così come sarebbe stata per sempre dentro di lui: forse per questo ora li sentiva così vicini. Sì, aveva fatto bene ad accettare l’invito.
Si allacciò la cintura di sicurezza sorridendo.



Aveva scelto di non ricostruire l’antica reggia, quella in cui erano cresciuti: le macerie sarebbero rimaste a monito degli orrori della guerra e della necessità di difendersi dalla violenza.
Il nuovo palazzo reale sorgeva su una scogliera a precipizio sul mare, in un’area in cui la devastazione era stata tale che non era stato possibile salvare niente delle antiche costruzioni. L’edificio che sorgeva alla sommità della grande spianata era semplice, come lo erano quelli dei sudditi che stavano tornando a ripopolare il pianeta: solo, l’area che vi era stata riservata era più vasta, in vista del futuro ampliamento. Duke aveva deciso di farvi trasportare, in via temporanea, qualcosa che era miracolosamente sopravvissuto ai bombardamenti che avevano raso al suolo il Centro Astrospaziale: il grande sistema di osservazione stellare, che era stato uno dei vanti di Fleed.
La densità ancora anomala dello strato gassoso che circondava il pianeta rendeva quasi impossibile osservare i corpi celesti a occhio nudo, ma l’elaborazione delle radiofrequenze permetteva di visualizzare sugli schermi immagini dettagliate di quello spazio che quasi tutti gli abitanti avevano dovuto attraversare per tornare a casa; uno spazio e un cielo che a Duke, che pure lo aveva studiato appassionatamente da ragazzo, continuava ora a sembrare in qualche modo straniero. La luce del sole che dava la vita alla Terra non era che una radiazione di entità quasi insignificante; i pianeti che insieme ad essa vi orbitavano attorno erano appena identificabili. Eppure non riusciva a saziarsi di quella luce evanescente, cercava di riconoscere intorno a quel pulviscolo di roccia l’azzurro intenso dell’atmosfera; immaginava, al di sotto di quel cielo e di quelle nubi, la vita degli amici che aveva lasciato.
Era inverno sulla Terra, era appena iniziato un nuovo anno. Un anno di vita serena, grazie anche a lui… serena? Sicura, quello sì. Ma serena… desiderava più di ogni altra cosa che per Genzo, per Koji, per Hikaru la vita fosse felice e senza dolore: a volte riusciva anche a convincersi che lo fosse, come cercava di convincersi di non aver alcun dubbio sulla scelta che aveva fatto.
Non finirà mai. Sulla Terra la nostalgia di Fleed e su Fleed la nostalgia della Terra: io non ho due patrie. Ho due esili.

“Ancora davanti a quello schermo.”
Il rumore del casco-respiratore che Maria aveva posato sul banco centrale dell’Osservatorio lo fece sobbalzare. “Devi riposarti, Duke. La delegazione di Zari arriva domani, dobbiamo giocare bene le nostre carte per arrivare a un accordo vantaggioso.”
“Sì.” Duke si alzò per indossare la tuta isolante: le tecnologie protettive, indispensabili all’aperto per non subire gli effetti delle radiazioni, erano state ricreate dagli ingegneri fleediani che erano stati schiavi su Vega, sul modello di quelle in uso per decenni sul pianeta ormai morente per l’inquinamento. Le analisi delle acque, dell’aria e del terreno dicevano che i tassi di contaminazione erano stabilmente in calo e che forse tra un anno sarebbe stato possibile, almeno per brevi permanenze all’esterno, cominciare a fare a meno degli scomodi indumenti schermanti.
Si affacciò alla larga finestra che aveva voluto a picco sullo strapiombo: il mare era ancora fortemente radioattivo, ma lo spettacolo delle acque violacee che – come non avevano mai smesso di fare per i lunghi anni in cui Fleed era stato un pianeta morto – si infrangevano regolari contro le rocce dava a Duke la misura dell’eternità, e dell’incrollabile forza della natura, contro la quale né l’ingegno né la malvagità umana nulla potevano. Fleed sarebbe rinato anche senza di lui. Senza di lui…
“Mancano anche a me, Duke. Ma non dormire e non mangiare non ce li ridarà.” Lo aiutò ad allacciare sulla schiena il sensore di radiazioni. “Il pianeta ha bisogno di un re sveglio, in forma e che all’occorrenza sappia picchiare il pugno sul tavolo…” si interruppe di colpo. “Lo vedi anche tu?”
“Sì.” Una cometa, o un asteroide? Di certo doveva essere luminosissimo, se erano riusciti a distinguerlo nella caligine che avviluppava il cielo. Duke si sfilò guanti e casco.
“Se fosse troppo vicino i sensori avrebbero dato l’allarme… lasciami analizzare la traiettoria, poi andiamo.”
Maria non staccava gli occhi dalla luce che spiccava nitida sul color ocra del cielo. “Ricordi la storia della stella cometa? Ce l’aveva raccontata Goro…”
Certo che la ricordava: una stella che aveva fatto da messaggera e guida per re e pastori, per portarli verso il Re del mondo. Ogni anno, nel cuore dell’inverno, in molte parti della Terra si festeggiava il suo arrivo…
“Ha un’orbita iperbolica. Viene dalla direzione di Vega…” Duke si voltò verso la sorella “…e va verso il sistema solare. Va verso la Terra.”
Maria gli prese una mano. “Allora è davvero un messaggero.”
Rimasero così, mano nella mano, finché gli occhi furono troppo stanchi per continuare a cercare quel puntino lucente nell’ocra che sfumava al bruno.



La cena fu semplice e tranquilla: la guerra aveva reso Genzo e Koji, Danbei e i suoi figli membri della stessa famiglia. Fu il vecchio ad alzare per primo il bicchiere per salutare i due assenti, che di quella famiglia non avrebbero mai smesso di far parte: e non fu che il primo di molti brindisi. Alla fine della serata, Koji diede a Goro il regalo che gli aveva portato da Houston.
“Non fa mai freddo, ma a Natale tutti decorano un abete e fingono che ci sia la neve. E sulla punta mettono questa.” Era una stella di vetro, brillante e luminosa: collegata all’elettricità riempì la stanza di luci multicolori. Hikaru batté le mani.
“È bellissima, Koji!”
Goro avrebbe preferito un modellino del Viking che in quel momento stava esplorando Marte, ma ringraziò con entusiasmo.

Intorno al ranch solo le tracce parallele della jeep segnavano la distesa intatta della neve: l’aria fredda della notte pizzicava piacevolmente il viso e svegliava la mente intorpidita dal calore del camino e del sakè. Koji avrebbe dormito a casa di Umon prima di ripartire per il Texas: Goro era ormai a letto e Danbei era insonnolito dall’alcol, Hikaru accompagnò gli ospiti fino all’auto. Senza bisogno di dirselo, alzarono insieme gli occhi verso le volta stellata.
Sopra di loro le stelle brillavano infinite. Alla loro latitudine, la parte di cielo da cui l’asteroide misterioso proveniva non era visibile d’inverno…
“Lo… lo vedete anche voi?”
“Sì… e sono certa che lo vedono anche loro.”
Hikaru prese la mano di Koji, Genzo tese la sua verso quella della ragazza. Era impossibile distinguere quella luce con gli occhi: ma non erano gli occhi che la vedevano.

Padre, se tu fossi qui saresti orgoglioso di me.

Un giorno tornerò e ti farò vedere il mio pianeta, Koji!

Hikaru… Hikaru, c’è solo un posto dove posso essere felice, ed è accanto a te.


Il calore di un abbraccio e la sicurezza di una rivelazione: Duke e Maria erano vivi e stavano bene, e stavano pensando a loro in quel momento. In quel momento erano con loro, e lo sarebbero stati sempre.


La mattina dopo Umon avrebbe comunicato alle riviste scientifiche la sua scoperta. La stampa avrebbe dato risalto alla notizia, il Centro Ricerche Spaziali sarebbe stato ancora una volta sulle pagine dei giornali e nei notiziari televisivi: ma la notizia più importante, quella che nessuna parola poteva dire, sarebbe stata chiusa per sempre nei loro tre cuori. Non ne avrebbero parlato più nemmeno tra di loro, non ce n’era bisogno: sapevano, e sarebbe bastato per rendere sopportabile un’attesa forse infinita. Quell’ultimo abbraccio, dato prima della partenza, non si era mai sciolto.


FINE - per sospirare assieme, qui

Edited by shooting_star - 11/4/2018, 12:36
 
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Inserisco anche nella mia gallery il link alla ff scritta per il contest "40 anni Goldrake": Anni.
 
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Secoli che non scrivo qui... ma l'occasione di oggi è irripetibile.
Questo racconto era nato come storia seria e cupa, ma presto è virata verso qualcosa di molto stupido.
Oggi la prima parte, domani, se riesco, la seconda :)

SCOPERTE

Hydargos premette il tasto rosso e con un rombo violento il missile si staccò dalla sua nave per andare a colpire il suo bersaglio. “E questa è fatta. E ora… Goldrake, sarai mio!”
Abbassò gli occhi sulla lista delle cose da fare.
“Oops.”
Il dispaccio firmato da Re Vega in persona era composto di due sole righe:
.....1. Conquistare Fleed!
.....2. Distruggere Goldrake!
“No, no, no…”
Tirò a sé la prima leva che si trovava davanti, con l'unico effetto di far impennare l'astronave. Per non scivolare si tenne al timone e il disco sbandò violentemente di lato, facendo rovinare a terra l’ufficiale pilota, che si lasciò sfuggire un'interiezione normalmente associata con ambienti ben meno rispettabili di una nave da guerra in missione genocida: ma il comandante sembrò non farci caso, lo sguardo fisso sullo schermo.
“No, accidenti! Non un’altra volta!”

Era impossibile modificare la traiettoria che puntava diritta sul pianeta verde di fronte a loro. Il razzo - nome in codice “quello grosso”, per distinguerlo dalle più modeste testate che avevano decretato la fine della gran parte dei pianeti vicini - era costato un botto: e il Sire aveva dichiarato, tra gli applausi dei ministri, che solo uno sciocco - o un irresoluto fleediano, ah ah - avrebbe speso di più per un inutile sistema di teleguida destinato a saltare in aria in pochi secondi.

Un lampo silenzioso, poi Fleed esplose in una nuvola di fumo vermiglio, proprio mentre una sagoma bianca e rossa – una sagoma inconfondibile – si staccava dalla sua superficie e si dirigeva verso lo spazio profondo.
Il moccioso.

Forse una via d’uscita c’era… Hydargos battè il pugno sulla plancia.
“Velocità massima!” gridò al pilota che intanto aveva ripreso possesso dei comandi. "Dobbiamo conquistare Goldrake!"
“Ma capo” obiettò il pilota da sotto il cappuccio” Gli ordini di sua Maestà dicevano…"
“Zitto e obbedisci! Alla conquista di Goldrake!”

Il pilota aveva sempre trovato fastidioso quello stupido copricapo che lo faceva assomigliare a un cetriolino sottaceto, ma il fatto che in quel frangente il suo superiore non potesse vedere la sua espressione glielo fece rivalutare senz'altro. Hydargos aveva raso al suolo Akerebe, ma si era giustificato con l'inesperienza. Aveva cancellato Morus – colpa del sensore che aveva reagito a un movimento involontario. Ma ormai i pianeti scarseggiavano, e Fleed… l'imperatore non l'avrebbe perdonato.
Sperò che il tessuto verde riuscisse anche a camuffare la risatina che non era riuscito a trattenere. “Agli ordini!”
L'astronave sfrecciò alle calcagna del disco bianco e rosso.

Forse se riesco a conquistare Goldrake… in fondo ho solo scambiato due righe, capita a tutti di leggere male… quel robot gli è sempre piaciuto, e avere fra le mani quel saputello di principe lo metterà di buonumore… Ah, maledetto mal di testa!

Hydargos si portò le mani prima alle tempie, poi allo stomaco. Eppure lo sapeva che i postumi della sbornia erano spaventosi, sua madre glielo aveva ripetuto fino alla nausea. Nausea… no… nemmeno nominarla… appoggiandosi alle pareti per non cadere, il giovane comandante si diresse verso la porta. “Vado a verificare la traiettoria sulle mappe astrali!” informò il pilota uscendo.

Vai, vai… sarà molto se riesci a mantenere una traiettoria diretta fino alla porta del bagno… “Ai comandi, signore!” Il pilota inserì la velocità massima e a Hydargos sembrò che le budella reclamassero di uscire dalle narici. Accidenti a Gandal e al suo addio al celibato.

La sera prima aveva insistito per portarli tutti fuori a festeggiare. Lui aveva cercato di chiamarsi fuori: lo sapevano tutti che non frequentava certi locali… che era astemio, lui… ma Gandal era il suo superiore, ed era molto difficile dirgli di no. Era stato molto difficile dire di no anche ai bicchierini che lui continuava a versargli… prima bicchierini, poi coppe, poi ricordava che si era trovato a gareggiare a chi faceva più in fretta a scolare una bottiglia intera, con tutta la compagnia – anche Gorman, anche quel carrierista di Dantus – che tifava per lui… e sua mamma aveva torto, l’alcool non faceva star male, faceva stare benissimo.
Anche la ragazza che gli si era seduta accanto gli aveva detto che era davvero molto impressionata, e che era convinta che sarebbe riuscito a bere un'altra bottiglia di grappa anubiana d'un fiato… Gandal faceva di no con la testa, ma lui le aveva guardato la scollatura carica di promesse e l'aveva subito accontentata. Maledizione, quanto picchia la grappa anubiana… e maledizione, quanto costa, si era detto al risveglio, scoprendo che nel portafoglio gli erano rimasti solo pochi spiccioli. In quanto alle promesse, se erano state mantenute non riusciva a ricordarselo.

Svuotò lo stomaco nello scarico della latrina, si sciacquò il viso – lo specchio gli mostrò un colore ancora più plumbeo del solito, i capelli radi incollati dal sudore ai lati del cranio, gli occhi iniettati di sangue – e tornò a trascinarsi verso la sala comandi.
Se conquisto Goldrake andrà tutto a posto… re Vega sarà contento… non farà troppo caso al pianeta distrutto… e poi magari non è così danneggiato…
Nel libretto di istruzioni del razzo la ditta BZOT, storica fornitrice della real casa, si congratulava con i clienti per l’acquisto di un prodotto di qualità certificata: “cento testate al triplo vegatron potenziato, effetto letale e devastante garantito da anni di esperienza nell'eliminazione del nemico”. Ma si sa quanto ci si può fidare dei commerciali...

“Comandante, l'abbiamo perso” lo informò il pilota al suo rientro. “Ha fatto il solito scherzetto, quello della nebbiolina.”
Accidenti al moccioso e ai suoi scherzetti. Possibile che un ragazzino fosse così difficile da incastrare?
“Tornerà, dove vuoi che vada… ormai Vega ha tutti i pianeti della nebulosa.”
Tutti quelli che sono rimasti. Sì, decisamente il cappello a forma di cetriolino non gli donava ma aveva i suoi vantaggi. “Rotta verso Fleed, signore?”
Hydargos portò una mano dietro la schiena e incrociò le dita. “Sì, andiamo a vedere se è molto rovinato.”
Il fumo rosso stava dissolvendosi lasciando intravedere una lucida sfera color carbone. Hydargos sentì un brivido scorrergli lungo la schiena: il sire si sarebbe molto, molto arrabbiato. Corse di nuovo verso la latrina.


"E dunque anche Fleed risulta inabitabile, signor ministro?"
“Oh sì, Sire” il ministro delle scienze si inchinò fino a sembrare ancora più basso e si affrettò a confermare, con la soddisfazione del tutto fuori luogo che non riusciva a trattenere ogni qualvolta incontrava il sovrano. “Del tutto inabitabile. Come Akerebe. Come Morus… Zuril, presto, apri quella mappa.”
“Sì, signor ministro Sarin.” Zuril srotolò una voluminosa mappa astrale e la tenne aperta con le braccia spalancate sollevate sopra la testa.
Il ministro allungò una mano dalle dita tondeggianti. “La mia penna, Zuril. Veloce.”
Zuril posò la mappa e andò a frugare nella valigetta del ministro. “Sì, signor ministro Sarin.”
Porse la penna al suo superiore e tornò ad aprire la mappa. “E anche la mia bacchetta, su.”
Zuril alzò gli occhi al cielo. “Sì, signor ministro Sarin.” Eseguì e si rimise nella sua scomoda posizione, la mappa spiegata davanti a sé.
La bacchetta dalla punta luminosa colpiva i pianeti, uno dopo l'altro, e un tratto di penna nera li cancellava dalla cartina. “Ecco… Akerebe, Morus, Fleed. E Dera, Wolf, Zari. Ecco qui. Tutti inabitabili o del tutto inadatti alla colonizzazione. Rimane Rubi…”
“Il clima di Rubi non mi è mai piaciuto.”
Il ministro delle scienze sorrise ossequioso: un tratto di penna cancellò anche Rubi. “Ecco fatto. Non rimane che uscire dalla nebulosa… Zuril, metti via questa mappa e prendi l'atlante generale.”
“Sì, signor ministro Sarin.” Zuril cominciò ad arrotolare l’enorme foglio.
“Muoviti!”
“Sì, signor ministro Sarin.” La mappa sembrava viva e pervicacemente restia all'arrotolamento. Devo trovare un sistema per evitare tutto questo.
Zuril trascinò il mastodontico atlante e con un colpo di reni lo sollevò sul tavolo di studio. Il volume ricadde con un tonfo sul tavolo, e Zuril avvertì uno scricchiolio inquietante a livello delle vertebre lombari.
“Fa’ più attenzione! Abbi rispetto per Sua Maestà!”
Zuril si massaggiò la schiena. “Sì, signor ministro Sarin. Perdonatemi, Sire.” Non può andare avanti così. Devo trovare un sistema per velocizzare le ricerche.
Sarin si leccò l’indice, aprì l’atlante e lo sfogliò a lungo, avanti e indietro, senza smettere di parlare. “Tempo fa abbiamo fatto ricerche... Zuril, come pensi che io possa trovare la carta se non tieni sollevato il volume? Dicevo, abbiamo fatto ricerche in questa zona… Ecco!” Con un trionfale colpo di mano appiattì il pesante volume sul tavolo - e sul polso di Zuril, che scrocchiò dolorosamente.
“Ecco! Pianeta rosso, pianeta blu. Entrambi potenzialmente abitabili. Sul pianeta rosso ci sono degli omini verdi, su quello blu ci sono degli omini neri e bianchi. Alcuni un po' giallini, in realtà.”
“Non ci interessano. Provvederemo a mandare una missione.”
“Ottima idea, come sempre, Maestà. Zuril, metti via tutto. E fa’ in fretta!”
“Sì, signor ministro Sarin.”
Troverò il modo per velocizzare le ricerche. Dovesse costarmi un occhio della testa.


Hydargos sudava freddo. I postumi della sbornia erano passati, ma lui non si sentiva affatto meglio. Il fatto che inginocchiato accanto a lui di fronte al sovrano ci fosse anche il suo diretto superiore Gandal non lo tranquillizzava affatto. Però gli sta bene… non doveva essere in viaggio di nozze?

Re Vega picchiò lo scettro sul pavimento. “Alzatevi. Cosa avete da dire riguardo la campagna di Fleed?”
“Maestà, ancora una volta Vega ha sconfitto un pianeta ribelle!” rispose Gandal scattando in piedi.
“E Goldrake è stato distrutto come sua Maestà aveva ordinato!” completò Hydargos drizzandosi al suo fianco. Non stava mentendo, si disse: il robot cornuto non si era visto da nessuna parte nella nebulosa, e ormai era sicuramente disperso nello spazio profondo. Sparito nel nulla, praticamente disintegrato.
Vega tamburellò con le dita sul bracciolo del trono. “Sì sì, certo, ottimo risultato. Anche se per eliminare Goldrake quello grosso mi è sembrato un po’ sprecato.”
Hydargos tentò di suonare sicuro di sé. “Il disco era fatto di gren, Maestà… un materiale estremamente resistente. Purtroppo l’esplosione ha danneggiato il pianeta.”
“Danneggiato… distrutto, Hydargos. Hai distrutto l’ultimo pianeta abitabile della galassia.”
Hydargos abbassò gli occhi. “Non ho fatto apposta, Maestà.”
“Rubi, Maestà?” suggerì Gandal.
Il grande Vega sollevò le sopracciglia. Su Rubi c’era la sontuosa, costosissima corte della sua ex-moglie… stava dissanguandolo con gli alimenti, quella strega. “Quello grosso” l’aveva fatto costruire apposta per lei. Beh, almeno l’aveva collaudato. Il giorno del loro anniversario avrebbe avuto una bella sorpresa… doveva richiamare quelli della BZOT per una commessa urgente.
“Il clima di Rubi fa schifo” tagliò corto.
“Certo, Maestà” risposero i due militari all’unisono.

“Gandal, vi ritengo responsabile per le azioni del vostro sottoposto. Ma non ho intenzione di infierire su un novello sposo…” il sire sorrise, e Hydargos si chiese se considerarlo un buon segno o un presagio di sventura. In ogni caso non avrebbe potuto farci niente. Trattenne il fiato.
“...il ministro della scienza Sarin mi ha fornito le coordinate di una galassia dove si trovano due pianeti che potrebbero fare al caso nostro. Vi nomino comandante della missione esplorativa, con Hydargos come secondo ufficiale. Partirete domani.”
Hydargos piombò in ginocchio.
“Grazie, mio magnanimo sire.”
“Alzati, ragazzo. E… Gandal? Ovviamente vostra moglie verrà con voi. Considerate questa missione come la vostra luna di miele.”
Hydargos inorridì. Una donna a bordo? Porta sfortuna…

Con uno scatto, il volto di Gandal si spaccò in due, e all’interno del suo cranio cavo apparve una donna minuta dai lunghi capelli rossi e dalla voce forte di contralto. “Vi ringrazio, Maestà!” disse inchinandosi rispettosamente.

Hydargos svenne.

Continua...per dirmi che in effetti è una storia stupida davvero: qui
 
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...continua... tra le altre scoperte, chiariamo perché questo racconto doveva assolutamente essere postato oggi, 20/07/2019.

SCOPERTE

2.

Piccola, era piccola, anzi, minuscola. Rossa, era rossa. Ma quando il colonnello, nei mesi passati, gli aveva raccontato con occhi sognanti della “sua piccolina dai capelli rossi”, ecco, non era così che se l’era immaginata.
“Bevine un altro, che ti tira su!”
Gandal gli stava riempiendo la coppa. “Forse avrei dovuto presentartela prima… vedrai, andrete d’accordo.”

“Sei sempre il solito possessivo, Gandal...”, intervenne la signora, e a Hydargos quasi venne un coccolone. Gli ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi a vedere la faccia del comandante che si apriva. Però dovevo arrivarci da solo a capire che Gandal ha la testa vuota.
“...come se si potesse essere gelosi di uno così” concluse Lady Gandal.

Hydargos dubitò subito che i suoi rapporti con la moglie del suo capo sarebbero stati idilliaci. Del resto, piccola e rossa, ma per quanto innamorato, Gandal non l’aveva mai definita “dolce”.

“La mia Lady” un ditone blu si infilò tra le valve del volto aperte a metà per sfiorare teneramente i lunghi capelli della donnina “è anche lei un ufficiale dell’esercito, mio pari grado,” spiegò Gandal.

“Non mi sarei mai messa con qualcuno che non fosse alla mia altezza,” continuò lei. “Però basta ora, Gandal, mi scompigli la coiffure!”

Hydargos vuotò il bicchiere in un fiato. Non solo la moglie del capo: si sarebbe trovato in missione con due superiori invece di uno. Forse il sire non era poi stato così magnanimo… Un altro goccio non gli avrebbe fatto altro che bene. Tese la coppa.

“Un brindisi per la missione!” esclamò il colonnello.

“Tu no, Gandal, che poi quando bevi russi.”

Toccò a Hydargos finire la bottiglia.



“Come Sua Maestà aveva richiesto. In questo supporto elettronico portatile sono racchiuse tutte le informazioni in nostro possesso riguardo il sistema solare in cui è prevista l'espansione.”

Il grande Vega si rigirò incuriosito tra le mani il pesante parallelepipedo di plastica bianca che il giovane aiutante del ministro della Scienza Sarin gli stava porgendo.

“Si tratta di un dispositivo a prova di idio… di uso estremamente intuitivo, Maestà. Premendo questo tasto lo schermo visualizza le informazioni richieste.”

Il Sire premette il tasto e dopo qualche istante la figura in bianco e nero di un pianeta screziato si formò sul video.
Gli occhi e la bocca del sire disegnarono tre "O" di meraviglia. Con un dito incredulo toccò l'immagine e una didascalia lampeggiò bianca sullo schermo nero: “Terra”.
“E… questo è il pianeta rosso?”

“No, Maestà, quello blu con gli omini bianchi e neri, più qualcuno giallino. Ammetto che il modello è ancora rudimentale” continuò Zuril ostentando modestia. “Nella prossima configurazione ho intenzione di integrare il colore. E più avanti anche audio, video e magari proiezione.”

“Molto ingegnoso. Ringraziate il ministro Sarin per l'ottimo lavoro.”

L'assistente aprì le braccia con fare sconsolato. “Purtroppo il signor ministro si è dovuto recare improvvisamente sul pianeta Timbuc Due per questioni di improcrastinabile urgenza” si giustificò. “E vista la posizione ai margini della galassia, temo non potrà essere di ritorno fino alla prossima glaciazione.”
Venti o trenta moti di rivoluzione. Che da quelle parti sono molto lunghi… sempre che il missile su cui l'ho messo non termini il carburante prima di giungere a destinazione.
Da una tasca della tunica gialla estrasse un foglio con l'intestazione del Ministero.
“Il signor ministro Sarin è stato così gentile da firmarmi spontaneamente questa delega totale per l'ordinaria amministrazione… e in ogni caso” indicò l’oggetto ancora in mano al sovrano “il dispositivo elettronico è una mia creazione.”

“Quand'è così… i miei complimenti, signor…”

Il giovane scienziato si inchinò. “Zuril, agli ordini di Sua Maestà.”

Un giovane promettente. “Bene, Zuril. Vi terrò d'occhio.”



Sul disco esplorativo i comandanti fissavano lo schermo del parallelepipedo di plastica.
“Secondo le informazioni, i pianeti che dobbiamo esplorare ruotano intorno a una stella nana gialla.”

“Un colore decisamente out. Non ce ne sono fucsia fluo?” interloquì Lady Gandal.

“Solo nella nostra galassia, dopo un attacco al vegatron” rispose suo marito seccamente. Ma poi, continuando a leggere, si intenerì. “Guarda! Il primo è piuttosto fresco, ed è tutto rosso… ti piacerà, amore.”


Il disco si posò su una vasta pianura punteggiata da crateri, accanto a un fiume che scorreva tranquillo. Era notte piena, e due piccole lune illuminavano il paesaggio di una luce morbida.

“Com’è romantico, chéri...” tubò Lady Gandal appollaiata sul mento del marito.
“Eh, sì tesoro… Ehm, se non ti dispiace, Hydargos, noi vorremmo ritirarci nella nostra cabina” gli strizzò l’occhio Gandal.

“Prego, comandante” rispose lui marziale. “Io finisco la mia birra.”
Di birre gliene sarebbero servite ancora molte: erano cinque notti che i rumori che provenivano dalla cuccetta degli sposini gli impedivano di chiudere occhio. Per un attimo pensò di offrire un bicchiere anche al pilota. Non l’aveva mai visto bere.
Chissà come fa… forse quel coso in cima alla testa è anche una cannuccia?
Lo guardò di sottecchi, ridacchiando.
Ma no, lui deve guidare… peccato.
Sollevò la bottiglia di Stella Vega alla salute dell’uomo incappucciato, e se la scolò fino all’ultima goccia.

Il copricapo a cetriolino serviva anche a nascondere le occhiate che diversamente avrebbero incenerito il comandante in seconda.



Furono le grida a svegliarli. Gandal si stirò e sollevò la tendina a fiori dall’oblò della sua cabina; Hydargos si affacciò dall'oblò a fianco.
Il disco era circondato una marea di omini verdi e gelatinosi con due antenne, due grandi occhi neri e due orecchie a tromba, che agitavano strillando lance colorate; altrettanti - una miriade - si stavano riversando fuori dai crateri che avevano notato la notte precedente.
“Gli alieni!” esclamò preoccupato Hydargos. “Ricordate? La guida parlava di omini verdi e bellicosi…”

“Bellicosi, pfui! i più alti mi arrivano al ginocchio, cosa possono farci?”

Hydargos si portò una mano al petto. “Esco io in avanscoperta.”

“Gandal, fatti valere!” squillò una voce da dentro la testa blu. Gandal assentì. “Non se ne parla! Prima io, sono io il comandante!”
Gandal aprì il portellone del disco e si piegò con le mani sulle cosce, l'espressione amichevole. “Che carini!” esclamò. Gli rispose uno stridio gorgogliante.
Il coonnello sorrise: finalmente il noiosissimo corso di lingua franca spaziale gli tornava utile.
Ghiri ghiri anche a voi…” Accidenti, però. C’era un freddo cane. Meno centoventi. E al re non piaceva il clima di Ruby? Vabbè, gli ordini erano ordini.
“Hydargos, dammi la bandiera!”

“Eccola, comandante” rispose quello allungando lo stendardo con la stella a quattro punte. “Ma, attenzione…”

“Per chi mi hai preso, Hydargos? Credi che non sappia come trattare questi… questi cosini…”

I cosini infilarono il portellone e cominciarono a sciamare all’interno dell’astronave veghiana, continuando a emettere il loro gorgoglio stridulo e toccando ogni cosa - premendo bottoni, aprendo cassetti, spalancando ante, spostando sedili. Il viso di Gandal si spalancò.
“Maleducati!” strillò Lady Gandal. “Gandal, fai qualcosa! Hydargos!”

Hydargos prese il disintegratore e lo puntò sui marziani. Gli omini verdi si fermarono un attimo, mandarono qualche lampo d’intesa dalle antenne, poi ripresero ad avanzare in un’onda incessante.

“Hydargos! Ahia!” Una lancia dal pennacchio verde aveva colpito il polpaccio del colonnello, un’altra gialla era arrivata all’altezza della coscia. Il comandante fece dietrofront e di corsa cercò il riparo della sua astronave. La metà destra del suo viso si aprì. “Stai bene, amore?”

“Certo! Ma che screanzati! Non hanno nemmeno aspettato che attaccassimo… Hydargos, cosa aspetti? Spara!”

Hydargos sparò; sparò e sparò ancora, finchè il raggio iridescente non fece piazza pulita dei marziani all’interno dell’astronave. Poi guardò fuori dagli oblò e si rese conto che la marea di omini verdi aveva ormai ricoperto il disco. Posò un dito sul tasto rosso e si voltò verso i suoi comandanti. Stavolta non sarà un errore.
“Schiaccio?”

“Schiaccia!” gridò Gandal.

“Cosa aspetti?” gridò Lady Gandal.

Quanno ce vo’, ce vo’,” esclamò Hydargos, mettendo finalmente anche lui a frutto il noiosissimo corso di spaziale. “QB” , la testata di proporzioni medie da anni bestseller della premiata ditta BZOT, lasciò il suo alloggiamento per aver ragione del nemico.

Quando l’astronave veghiana si sollevò dal pianeta rosso, il vegatron aveva spazzato via ogni forma di vita; anche dei fiumi, evaporati per il calore, non era rimasta che qualche traccia nella polvere rossa.

“...e comunque questo pianeta era troppo freddo. Speriamo vada meglio con il prossimo.”

“Non è il prossimo, Hydargos… è l’ultimo!”

“Faremo attenzione.”




“Pianeta blu, omini bianchi e neri. Alcuni giallini.”

“Mi chiedo se chi ha deciso questi accostamenti cromatici sia daltonico. Fortuna che il monitor è in bianco e nero.” Lady Gandal si stirò languida. “A proposito, chéri, per la nostra camera da letto, pensavo a delle tende di raso verde Tiffany…”

“I nativi sono apparentemente amichevoli, ma subdoli.” Gandal riprese a leggere a voce alta il dettagliatissimo dossier del Ministero della Scienza. “Un nostro mostro è stato inviato sul territorio molto tempo fa, ma è stato costretto a rifugiarsi in fondo a un lago per sfuggire ai terrestri. Non è più riuscito a uscirne perché i terrestri hanno costruito tutto attorno strutture di avvistamento” continuò, il tono sempre più preoccupato. “Ormai sono molti anni che abbiamo perso i contatti.”

Chéri, ho un’idea. E se facessimo come su Fleed? Una base lunare?”

“Ottima trovata, tesoro!”



Il satellite appariva illuminato solo per metà dalla luce della nana gialla attorno a cui il pianeta da conquistare orbitava. Anche qui, crateri dappertutto… e una sfera blu screziata di bianco all'orizzonte. Hydargos guardò dall’oblò circospetto, pronto a estrarre il disintegratore.

“Tranquillo, Hydargos. Qui pare non ci sia nessuno, anche se alcuni sostengono che vi si trovi un tizio che pesca, e altri che vi siano ampolle contenenti il senno di chi l’ha perso. Ma si tratta di fake news” spiegò Lady Gandal rassicurante. “Ad ogni buon conto, credo che tu il tuo valore ti abbia meritato l’onore di andare in avanscoperta stavolta.”

“Atterriamo qui?” li interruppe il pilota. “Mi sembra un posto tranquillo…”

“Sì, sono d’accordo” rispose Gandal, cui il paesaggio brullo e senza vita stava facendo venire nostalgia di casa. “Sembra proprio un mare tranquillo.” Fece un cenno d’invito verso il portellone d’uscita.
“Vai pure, Hydargos. E prendi la bandiera.”

“Potrei avere un bicchierino, prima?”



Bel posto, la luna. Tranquilla e silenziosa. Hydargos si sentiva leggero, forse per il vino plutoniano... ma - era il vino plutoniano che gli stava dando le allucinazioni? Avvicinò la radio alla bocca.
“Hydargos a comandante Gandal: Siete sicuro che qui non ci sia nessuno? C’è un mezzo meccanico non identificato di fronte a me. Passo. ”

La voce del comandante gracchiò nella radio. “Ti avevo detto che non era il caso di bere, Hydargos. Stai sicuramente vedendo l’ombra di un cratere lunare. Passo.”

“Negativo, comandante. Si tratta di una specie di razzo con un treppiede. Molto primitivo. Si direbbe un residuato bellico della guerra deriana. Cosa faccio? Passo.”

Il vino plutoniano era famoso per l'elevato numero di ottani. “Hydargos, non farmi perdere la pazienza e vai avanti. Passo.”

“Comandante…. nooo!” Dalla radio la voce dell’esploratore suonava come un uggiolio.

“Ora non venirmi a dire che vedi gli omini verdi!” Gandal si compiacque della sua battuta di spirito. “Quelli li abbiamo eliminati tutti.”

“No… no signore… omini bianchi, forse anche neri, non si vede bene. O giallini. Stanno piantando una… una bandiera!”

Finalmente la voce di Gandal tradì apprensione. “Oh, maledizione, ora li vedo anch’io. Gli alieni!”

“Cosa… cosa facciamo ora, comandante?”

La radio sembrò saltare tra le mani tremanti di Hydargos. “Non devono vederci… Torna subito indietro! Accendiamo i motori!”

Una voce femminile si inserì nella comunicazione. “Fermo, Gandal! Questa è la nostra ultima possibilità, non possiamo andarcene! E nemmeno distruggere tutto… vuol dire che costruiremo la base sulla metà non illuminata della luna. Che ne dici, mon petit choux?

“Dico che sei un genio, tesoro.”

“Metti le mani a posto, , Gandal… o almeno tira le tende, prima.”

Il colonnello ridacchiò e nascose l'oblò dietro il tessuto a fiori.


Hydargos bussò furiosamente sul portellone. “Comandante? Comandanti? Mi avete chiuso fuori!”


---------------------


La bambina si portò ai piedi di quel trabiccolo che suo padre si ostinava a chiamare “torre di avvistamento”.
“Papà! La mamma dice che è pronto! Scendi e vieni a mangiare!”

“Un attimo Venusia… quello che sto facendo è della massima importanza! Sono sicuro di aver visto qualcosa di strano sulla Luna! Gli spaziali!”

La bimba fece uno sforzo per non pestare i piedi. “Per forza, papà, ci sono gli americani! Stanno per scendere dal modulo spaziale… in TV si vede meglio che sul tuo telescopio. E se fai in fretta riesco a vederli anch’io!”

Rigel regolò nuovamente il telescopio. “Arrivo!”

“Papà! Attento!”

“Ho quasi fatto… quasi...” Rigel si sporse appena un po’ troppo e piombò a terra a capofitto. Mizar scoppiò a piangere.

“Tranquillo, piccolo, papà ha la testa dura.” Sulla porta, Myra prese il bimbo in braccio e accompagnò quel suo strampalato marito al suo posto a capotavola.

Rigel si spolverò i pantaloni da cowboy. “Niente di rotto.”

“Dai Rigel, che sta per iniziare la passeggiata spaziale.”

Rigel scoccò un bacio alla moglie. “Ma io ti assicuro che ho visto qualcosa di strano, di molto strano. Devo avvisare Procton.”

“Certo, certo… dopo. Ora a pranzo, che si fredda.”


FINE

Per confermare le pessime impressioni suscitate dal primo episodio: qui.

Edited by shooting_star - 22/7/2019, 11:31
 
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view post Posted on 4/4/2022, 18:31     +1   -1
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È il Quattro di Aprile, data fondamentale da queste parti, e ho trovato un paio d'ore per mettere giù una shottina che mi frullava in testa da stamattina. Niente di speciale, avrebbe bisogno forse di un'ulteriore rilettura, ma il Giorno è oggi e quindi ve la beccate così... del resto qui la ruggine imperversa, ahimè.

ATTESA

“Daisuke, hai sentito? Arriva domani!”
Il fattore piantò il forcone nel mucchio di fieno e si asciugò la fronte con il fazzoletto prima di girarsi verso il bambino. Lo so, Goro. Lo so.
“Arriva cosa?”
Ansimante per la corsa, il bimbo si faceva vento con il cappello. “Chi, casomai. Me l’ha detto tuo padre! Kabuto Koji… lo sai chi è Kabuto Koji, vero?”
Daisuke si piegò verso Goro, le mani sulle ginocchia. “Fammi pensare… io ero arrivato qui da poco, ma credo di averne sentito parlare. Un pilota… il pilota di un robot gigante, giusto?”
Goro sgranò gli occhi. “Ma che cosa facevate là in America? Certo che pilotava un robot gigante, Mazinga Z! E combatteva…”
“Mi sembra che questa idea di combattere con un robot gigante ti piaccia molto.”
“Beh, a te non piacerebbe batterti contro i tuoi nemici e vincere perché hai il robot più forte di tutti?”
Il fattore si raddrizzò in piedi. “A me non piace che ci siano nemici da combattere.”
“Ma se ci sono…”
Daisuke riprese in mano il forcone cercando di nascondere una smorfia. “Se ci sono, Kabuto non potrà riprendere il suo robot, e nemmeno il Grande Mazinga di Tsurugi Tetsuya. Sono in un museo.”
Il bimbo battè le mani ridendo. “Ma allora sapevi tutto!”
Il giovane abbassò lo sguardo senza ricambiare il sorriso. “Certo. Anche se” sollevò una larga inforcata di fieno “a me interessano più i cavalli che i robot da combattimento.”
“Certo che sei strano, tu… non dire niente a Hikaru, intesi? Se le sue amiche lo scoprono corrono tutte qui a farsi fare l’autografo…”
“Intesi. E ora vai a fare i compiti.”
“Certo, Daisuke!”

“Ci ha chiesto di entrare a far parte del nostro staff. Ha terminato brillantemente un percorso di studi in ingegneria aerospaziale presso la NASA, ed è sicuramente un nome prestigioso.”
Umon posò la lettera sulla consolle di avvistamento. “Non ho potuto dirgli di no.”
“Ma perché chiede di lavorare qui? Ci sono centri più importanti in Giappone.”
Si aspettava la reazione di suo figlio, e sapeva che la sua risposta non avrebbe migliorato la situazione: per questo aveva preso la decisione senza dirgli nulla. “Perché ha saputo che ci sono stati avvistamenti di UFO.”
“Padre…”
“Lo sai che non potevo evitare di segnalarli.” Umon si girò verso la terrazza: oltre la grande vetrata del Centro Ricerche il cielo stava impallidendo nel crepuscolo, e la Luna prossima al plenilunio brillava di una luce rosata.
“Non ci metteranno molto ad attaccare, ormai. La Luna rossa…”
“Non è detto, Daisuke. Forse non sono gli stessi che hanno invaso il tuo pianeta. Kabuto è convinto che si tratti di esploratori interessati a contatti commerciali.”
“Kabuto non sa niente” sbuffò Daisuke.
“Neanche noi, ancora.”
“Ma guarda la luna, padre! Non è la normale rifrazione della luce terrestre, lo sai meglio di me. Stanno bruciando vegatron. Stanno preparando mostri…”
Umon gli posò una mano su una spalla. “Tu hai già combattuto, Daisuke. Mi auguro che non sia necessario – ma se lo fosse non ti chiederò di…”
“Non voglio farlo di nuovo, padre. Mai più.”
“Lo so. Non sei più su Fleed, non sei tenuto a batterti. Qui sei mio figlio, sei il garzone della fattoria. Vivi in pace."
“I tuoi assistenti sanno tutto. Sanno di… di quella cosa, qui sotto. Cosa penseranno se io non faccio niente mentre i mostri di Vega ci attaccano?”
“L’hai detto tu: sanno tutto. Capiranno.”
“E Kabuto? Non durerà una sola battaglia…”
“Non è detto che ci attacchino, Daisuke” ripetè abbracciando il ragazzo tremante. “Non è detto.”

L’ho visto. Ho letto le interviste sui giornali: quanta vanteria, quanta ostentazione. Un ragazzino che pilotava il robot costruito dal nonno, uno che ha imparato a combattere dall’oggi al domani e che ha vinto la sua guerra per fortuna più che per merito. Uno che firma autografi! Una testa calda, quando per battere un nemico come i veghiani ci vogliono preparazione e strategia – e mezzi.
Mio padre sa che non siamo al sicuro. Sta preparandosi per l’attacco di Vega, e quando Kabuto ha proposto di venire qui ha colto la palla al balzo… certo, perché a me non può chiederlo. Me l’ha promesso. E io ho giurato che non sarei più salito su… su quella cosa. Su quell’orrore.
Il progetto di quel disco di cui Kabuto va tanto orgoglioso… oh, sì, un gran lavoro, per un terrestre. Ma cosa può fare quel TFO contro quattro minidischi? Contro un mostro di Vega? Lo elimineranno, subito. Morirà, ed è solo un ragazzino, un ragazzino temerario che finora ha avuto una gran fortuna in guerra; e io l’avrò sulla coscienza.
Un altro, sulla mia coscienza, dopo tutti i morti di Fleed. Tutti quelli che ho abbandonato… e tutti quelli che verranno, se non torno a combattere. Se non torno su quella macchina di morte… su Grendizer.


“Daisuke! Metti via il forcone e vai a lavarti! È ora di cena!”
“Subito, Hikaru.”
Daisuke aprì la porta della stalla e il nuovo puledrino lo salutò sfiorandolo col muso. Si appoggiò per un attimo alla mangiatoia. Era sudato e stanco, stanco morto... meglio: forse finalmente sarebbe riuscito a dormire, anche se sapeva che, appena uscito da quella penombra umida e densa di odori e di vita, nel cielo della sera la Luna gli sarebbe apparsa di nuovo, alta, piena e color del sangue.
Non avrebbe permesso che quel ragazzino morisse al posto suo, in una guerra che non gli apparteneva. L’avrebbe allontanato, lo avrebbe rispedito con il suo dischetto a giocare alla NASA. E poi avrebbe portato a termine il suo compito.
“Daisuke! Si fredda!”
Kabuto sarebbe arrivato l’indomani… sapeva cosa fare.

per dirmi cosa ne pensate delle strategie di Umon: qui

Edited by shooting_star - 6/4/2022, 13:44
 
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