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Traduzioni, Follie varie...

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Grand Pez di Girella

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Piccolo traffico di confine o Georg e gli imprevisti (parte 8)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


Il cambio di situazione

Bad Reichenhall, 26° agosto, sera
Com’è risaputo, il gioco del tennis richiede la massima concentrazione. Basta un minimo di distrazione per giocare male. Di conseguenza giocai come un vecchio stagionato, mandai i servizi più semplici fuori campo o contro la rete, commisi tre falli doppi nella durata di un solo gioco e mi sentii addosso una gran voglia di scagliare la racchetta dietro alle palle.
Durante il terzo set, quando stavo finalmente per riprendere forma, un giovane con i baffetti biondi si sedette sulla panchina davanti al campo e rimase a guardarci. Ricominciai a sentirmi nervoso. Dopo una battuta che mi riuscì con la mano dietro alla schiena esclamò: “Bravo!” Lo guardai e non credo che il mio sguardo sia stato particolarmente amichevole.
Il giovane si alzò, fece un leggero inchino e disse: “Mi perdoni, signore. Giocherà ancora a lungo? Devo assolutamente parlarle, ma non ho molto tempo.”
“Siamo a quattro punti nell’ultimo set per entrambi,” risposi. “Fra poco sarò a sua disposizione.”
“Benissimo. Il fatto è che devo tornare il più presto possibile a Salisburgo.”
A Salisburgo! Cosa poteva volere da me? Naturalmente persi i prossimi due set, diedi la mano all’allenatore e mi avvicinai al giovane.
“Sono il fratello di Konstanze,” mi disse. “Mi chiamo Franz Xaver, conte H., e vengo chiamato Franzl.”
Insomma questo era Franzl, e Franzl era suo fratello? “Molto piacere.”
“Altrettanto. Come ho già detto ho poco tempo, devo tornare a casa ad apparecchiare la tavola per la cena.”
La tavola per la cena…? “Non voglio trattenerla.”
“Molto gentile. Sono venuto qua perché mia sorella me l’ha chiesto. Tra voi due si trovano dei malintesi che devono urgentemente essere chiariti.”
“Per quanto ne so, non c’era il minimo bisogno di farli nascere, questi malintesi.”
“Suvvia, non faccia il tedesco nordico con me! I malintesi erano inevitabili.”
“Non capisco perché.”
“Ed io sono venuto apposta, signor dottore, per spiegarle che ha torto.”
“Sono curioso di sentire, signor conte!”
Il giovane si arricciò un poco i baffetti. “Dobbiamo moderare il tono in cui ci parliamo, altrimenti temo che la nostra amichevole conversazione finirà con un incontro su un idilliaco prato di bosco e due fioretti.”
“Prima di ricorrere a questo espediente tecnico,” gli dissi, “le chiedo di spiegarmi senza tante cerimonie per quale urgente circostanza la sua cara sorella si è sentita obbligata a lasciarmi in presa a malintesi che, come volevasi dimostrare, sono finiti con sgradevoli conseguenze.”
Il giovane mi prese per il braccio e mi condusse nel parco. “Konstanze le ha raccontato che il conte H. è partito per la durata del Festival e ha affittato il suo castello insieme al personale a una famiglia di americani. Gli americani ci sono davvero; non è vero invece che siamo partiti. Il personale fu mandato in vacanza, e la nostra onorata famiglia ne assunse i compiti. Konstanze venne promossa a cameriera. Io diventai una specie di inserviente in camera e in sala da pranzo. La nostra signora zia è la cuoca. Mizzi, la nostra sorella minore, la sua aiutante. E il capofamiglia, il nostro signor padre, si prodiga come portiere, maggiordomo e direttore d’albergo.”
Per fortuna lì vicino si trovava una panchina. Mi sedetti in fretta. “Lei ha una sigaretta?”
Ottenni sigaretta e accendino e guardai fisso dinanzi a me.
“L’idea è di papà,” spiegò il giovane. “Scrive commedie teatrali sotto pseudonimo - non che ne abbia bisogno. Un bel giorno decise di scrivere una storia ambientata in un castello e che descrive l’incontro tra dei milionari venuti dal Nuovo Mondo e alcuni nobili austriaci in veste di servitù.”
Franz Xaver, il conte H., accese una sigaretta per conto proprio. “Ovviamente il nostro caro capofamiglia aveva intenzione di aiutare la sua fantasia con delle esperienze personali. Voleva raccogliere spunti per la sua commedia. Questa primavera ci informò delle sue intenzioni, e dovemmo promettergli di assisterlo e di non tradirlo. Fino a un certo punto, l’idea ci divertiva: non per niente siamo i figli di questo tizio strambo, e non per caso siamo nati proprio a Salisburgo.”
“Sicuramente no,” gli dissi.
Lui rise. “L’unica cosa con cui mio padre - naturalmente - non aveva fatto i conti era l’imprevisto. La cameriera si innamorò, e proprio di un signore tedesco che, molto romanticamente, era venuto a Salisburgo senza un soldo in tasca. Oggi pomeriggio mia sorella, invece di vestirsi da cameriera, tornò in città per incontrare il suo fidanzato; ma lui non c’era. Konstanze si inquietò e decise di tornare a casa. Mentre si accingeva ad andarsene, dal tavolo vicino si alzò un signore.”
“Karl,” indovinai.
“Appunto. Il suo amico pittore. Ci aveva visti ieri sera al Casinò. Siccome mia sorella era desolata, le parlò e le spiegò il motivo per l’assenza del suo fidanzato. Quindi lei mi telefonò - stavo pulendo l’argenteria, occupazione tra le più fetenti! I fratelli sono delle sagome. Mollai tutto e venni al caffè “Glockenspiel”. Ora mi trovo qui e francamente non so più cos’altro raccontarle.”
Gli strinsi la mano. “Mi scusi il mio comportamento, signor…”
“Franzl per gli amici.”
“Scusami se ti ho tenuto il muso, Franzl.”
“Oh, figurati, al tuo posto avrei fatto lo stesso.”
“Dove si trova Konstanze? Devo parlarle. Puoi portarmi da lei in macchina?”
“In macchina purtroppo non c’è più posto.” Ammiccò. “Sta davanti alla casa di cura.”
Mi alzai di scatto, attraversai il parco di corsa, passai per l’arcata, arrivai in strada e vidi sia la macchina che Konstanze, che allungava le braccia verso di me. Era pallida e aveva gli occhi arrossati. Ci baciammo senza dire parola. Gli ospiti della casa di cura, venuti per assistere al concerto allestito in giardino, si fermarono e non ci capirono nulla.
“Faustino mio,” mi sussurrò. “Non scapparmi via più!”
“Mai più!” le giurai.
“La mia benedizione ve la do,” disse qualcuno vicino a noi: era il fratello.
“Grazie, Franzl,” disse Konstanze.
Lui mi diede una gomitata alle costole. “Senta, signor cognato! Avremmo da farle una proposta. Il primo segretario dell’americano è partito ieri, quindi si è liberata una stanza. E siccome ieri al Casinò abbiamo vinto un bel po’ di quattrini, la invitiamo formalmente a essere nostro ospite per qualche giorno. Al nostro signor padre racconterò una balla, per adesso. Le spese le sostengo io a nome suo. Gli diremo la verità dopo la partenza degli americani; dopo dovrà restituirmi il denaro.” Rise, allegro come uno scolaretto. “Domani mattina lei arriverà da noi in guisa di ospite, reciterà la parte dell’ignaro e osserverà la nostra rappresentazione privata da vicino - come secoli fa, quando gli spettatori privilegiati si sedevano sul palcoscenico. Perché non dovrebbe averla anche lei una volta, questa fortuna?”
Konstanze mi strinse la mano. “Se non vieni, mi sposo con un altro.”
“Non osare!”
Franzl continuò: “Non deve preoccuparsi per il vecchio signore, non si accorgerà di niente. E quando alla fine saprà chi lei è veramente, le sarà grato per la collaborazione al suo pezzo teatrale e non tratterrà a lungo la sua benedizione.” Salì in macchina.
“Verrò,” promisi.
Konstanze mise il piede sull’acceleratore. “Ci divertiremo un mondo!” esclamò. Quindi partì.
Io li salutai agitando la mano. Quindi tornai all’hotel saltellando su una gamba sola, e il portiere mi chiese preoccupato se mi ero fatto male.



~ continua ~



Traduzione: luglio 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 28/7/2016, 16:52
 
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view post Posted on 27/7/2016, 18:23     +1   -1
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Piccolo traffico di confine o Georg e gli imprevisti (parte 9)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


La commedia al castello

Castello di H., 27° agosto, notte
Mi trovo nella mia stanza da letto e mi accingo ad andare a dormire. Ma prima voglio fumare un sigaro e bere un bicchierino di Burgunder - Franz, il cameriere, mi ha portato una vecchia bottiglia e l’ha appoggiata sul tavolino.
La giornata fu solare. Franzl venne a prendermi a Salisburgo la mattina; ebbi appena il tempo di salutare Karl e di ringraziarlo per aver aiutato Konstanze e me. Quindi ci separammo, la sua meta era la Scuderia, dove voleva fare un acquerello di questo barocco edificio decorato da affreschi. Io fui condotto al castello dal giovane conte.
Konstanze si trovava “per caso” sulla gradinata e fece una riverenza. Indossava davvero un abitino nero, un grembiulino bianco e una cuffietta con i volant!
Le feci cenno con il capo con aria di superiorità. “Qual è il suo nome, figlia bella?”
“Konstanze, rispettabile signore.”
“Perché ‘rispettabile signore’? Dica semplicemente ‘signor dottore’, è più che sufficiente.” Mi rivolsi a Franzl, intento a portare la mia valigia. “Ciò vale anche per lei, Franzl!”
La cameriera fece un’altra riverenza. “Come desidera, rispettabile signor dottore.” Quindi mi fece una linguaccia.
“Attenzione!” mormorò Franzl.
Nell’entrata del castello si presentò un signore alto e con i capelli ingrigiti e si inchinò. Il suo tight gli stava a pennello.
“Mi permetta di darle il benvenuto. Sono il servitore personale del signor conte e attualmente sono responsabile per il governo della casa. Ha già fatto colazione?”
“Sì, a Bad Reichenhall.”
“Molto bene. Il pranzo avrà luogo all’una nel Salone Giallo. Franz le mostrerà la sua camera e porterà su la sua valigia. Spero che si sentirà a suo agio da noi.”
Aveva l’aria perfettamente seria e compunta. Si inchinò e si ritrasse.
Franzl mi mostrò la mia camera e si dileguò, perché doveva apparecchiare la tavola. Appena era uscito bussarono alla porta.
“Avanti!”
Era la cameriera, venuta a domandarmi se poteva aiutarmi a disfare la valigia.
“Entri pure, fastidiosa!” Presi una giacca dalla valigia e gliela gettai. “Dove la ripone la prima giacca, una brava cameriera?”
“Sopra la toppa, signor dottore.”

In sala da pranzo conobbi gli americani, tutti vestiti di avvenenti abiti tirolesi: il grasso e taciturno proprietario di fabbrica, la sua scarna moglie, il secondo segretario che mi ricordò un angioletto barocco con grosse lenti da occhiali, il robusto figlio che ha l’abitudine di parlare esclusivamente mentre mastica, e la figlia Emily, una di quelle belle e alte biondine algide da far paura.
Franz ci servì le pietanze. Mi venne l’impressione che avesse davvero paura, e non senza motivo, della bionda Emily e dei suoi indifferenti occhi azzurri. Konstanze portò il vino. Mizzi, la sua sorella minore, spingeva un vassoio a rotelle su cui si trovavano le zuppiere: è una creatura snella con due allegre fossette. Il vecchio conte supervisionava l’andamento del pasto e dava di buon grado informazioni alla milionaria, che sembra essere una donna di rado interesse culturale.
Emily volle fare conversazione con me, e la cameriera continuava a gettarci occhiate piene di apprensione. Quindi finsi che il mio inglese fosse ancora peggiore di quanto sia veramente, e chiesi al cameriere di informare la signorina di non essere pratico della sua lingua.
Temo che non sia stata una buona idea: Emily Namarra sembrava dell’opinione che una conversazione tra due persone che non conoscono uno la lingua dell’altro sia particolarmente interessante. Per fortuna tutta la famiglia partì ben presto, a bordo di un’enorme limousine. E anche quella sera andavano di fretta, perché volevano assistere alle ‘Nozze di Figaro’.

Quel pomeriggio mi imbattei nel vecchio conte di fronte all’edificio di servizio. Il poveraccio ancora non ha idea che sono il suo futuro genero. Sul muro della casa c’è un bassorilievo intagliato e dipinto alla maniera popolana, che raffigura la Trinità. Sotto alla cuspide che ha il compito di proteggere dalla pioggia, direttamente sullo Spirito Santo raffigurato in forma di colomba bianca con le ali spiegate, c’è un nido di uccelli. Guardammo insieme la piacevole scenetta e quindi attraversammo il cortile.
“Lavora già a lungo al castello di H.?” gli chiesi affabilmente.
“Molto a lungo, signor dottore.”
“E’ vero che il conte di H. scrive opere teatrali?”
“Può ben darsi.”
“Dove ha imparato a parlare così bene l’inglese?”
“A Cambridge.”
Mi venne da ridere. “Così, lei ha studiato?”
“Il signor conte, non io. Ero stato inviato dai suoi genitori per assisterlo come cameriere personale.” Fece una mezza smorfia. “Per l’esattezza, anche il conte H. non ha studiato a Cambridge. Le lingue straniere di norma non si imparano nelle aule, ma in luoghi - ehm - meno scientifici.”
“Peccato che il conte di H. sia in viaggio. Avrei voluto conoscerlo, poiché mi interessa avere l’opinione degli scrittori in lingua tedesca riguardo al congiuntivo.”
“Riguardo a cosa…?”
“Il congiuntivo, che descrive la possibilità delle attività. E l’ottativo.”
“Ah,” disse lui. “Al signor conte sicuramente rincrescerà non poter discutere con lei le varie forme della possibilità delle attività. Stravede per le tematiche interessanti.” Si controllava perfettamente e utilizzava l’ironia come se neppure lo sapesse.
“Magari potrei trascrivere le domande sintattiche che mi stanno a cuore, e lei potrebbe dargliele da leggere quando ritornerà…”
“Ottima idea.”
“Non crede che si offenderà per questa mia richiesta?”
“Certamente no. Il signor conte è una persona molto educata.”
Gli autori che vogliono fare esperienze possibilmente originali per scrivere cose originali devono secondo me essere incoraggiati in ogni modo. Per cui feci una faccia rammaricata e chiesi: “Dove si trova il conte di H. attualmente?”
“A Ventimiglia, signor dottore.
“Capisco, capisco. A Ventimiglia.” Mi grattai dietro all’orecchio, soprappensiero. “Il fatto è che domani al più tardi devo spedire la correzione di un tema riguardo all’inversione, e il signor conte sicuramente potrebbe darmi qualche spunto riguardo a un settore che riguarda l’idiozia dell’idioma bavarese-austriaco. Mmmh.” Feci come se mi fosse arrivato un lampo di genio. “Ho un’ottima idea! Parlerò con il signor conte al telefono. Abbia la cortesia di annunciare una telefonata interurbana con Ventimiglia per questa sera.”
Ci fu un attimo di esitazione, quindi: “Come desidera, signor dottore.”
Gli offersi un sigaro.
“Grazie, ma devo tornare in ufficio per occuparmi della contabilità.” Si inchinò e rientrò al castello con passi misurati.

All’ora di cena il maggiordomo mi informò con aria di segretezza che il signor conte era partito da Ventimiglia quel pomeriggio. Gli espressi il mio rammarico e ringraziai per il tentativo.
Konstanze e Franzl ci guardavano sospettosi: non ci capivano niente perché non sapevano del nostro dialogo di quel pomeriggio.
Dopo la partenza degli americani feci una bella passeggiata intorno al castello. Vidi una luce fuoriuscire da una finestra al pianterreno: mi avvicinai circospetto e vidi una gran cucina. L’intera ‘servitù’ si trovava intorno al tavolo e cenava. La finestra era aperta, e il signor conte doveva aver raccontato qualcosa di allegro. Le due sorelle ridevano, e Franzl disse: “Papà, mi spiace ma penso che in questa situazione avresti dovuto dimostrare più fegato.”.
“In quale maniera?”
“Avresti potuto chiamare il signor dottore al telefono e parlare con lui da uno dei telefoni in camera, affermando di trovarti a Ventimiglia.”
“Ci mancherebbe! Ottativo, congiuntivo, inversione, idiozia bavarese-austriaca, non sono mica…”
“…uno stupido,” aggiunse Mizzi gentilmente.
“Un professore di lingue, volevo dire.”
Vicino al conte si trovava una signora della sua età, dall’aspetto attraente e molto austriaco: mi ricordava la defunta regina Maria Teresa.
“Almeno scrivi quello che ha proposto Franzl,” gli disse. “Forse puoi utilizzarlo per il tuo testo teatrale.”
L’anziano signore annuì, tirò fuori un blocchetto e cominciò ad annotare.
“Credi che il dottor Rentenmeister farebbe una buona figura nella tua storia?” chiese Konstanze.
“Non ti sarai innamorata di lui?” domandò Mizzi incuriosita.
“Innamorata? Ottima idea,” disse il conte e seguitò a scrivere imperterrito.
“Le storie d’amore con differenze tra classi sociali fanno sempre effetto,” osservò Franzl.
La signora contessa si alzò per chiudere la finestra: mi allontanai piano piano.

Dalla finestra della mia camera si vede il castello di Salisburgo; perfino adesso che è sera tardi, perché è illuminato dal riflettore che procede per la città in onore dei suoi ospiti e lo rischiara a giorno, mentre le stelle scintillano al di sopra del paesaggio.
Bussano. “Chi è?”
“La cameriera, signor dottore. Volevo domandare se il signor dottore desidera ancora qualcosa.”
“Certo, figlia mia bella. Che ne dici di un bacio della buonanotte?”
“Naturalmente, signor dottore! Vogliamo che nostri ospiti si sentano a loro agio da noi.”
Vado ad aprire.


La scena del banchetto

Bad Reichenhall, 28° agosto, notte
Scommetto che il signor conte non si sarebbe mai sognato che la commedia improvvisata da lui sarebbe andata avanti in maniera tanto movimentata! Onestamente, non so se la svolta drammatica ispirate da me riscontrerà la sua gratitudine. Ma sarei dovuto rimanere a fare lo statista? No, quando si improvvisa il teatro anche gli attori diventano autori!
La mattinata passò pacificamente, e quel pomeriggio splendeva ancora il sole. E’ proprio vero, adesso che il Festival sta per finire il tempo migliora. E così oggi, per la prima volta durante la stagione, lo ‘Jedermann’ venne messo in scena all’aperto.
Konstanze venne a fare compere; la aiutai e quindi passeggiammo insieme per le piazze confinanti con la piazza del Duomo, lo scenario del ‘Jedermann’. La voce di Attila Hörbiger, che interpretava lo Jedermann, echeggiava fino a noi. La vecchia e pia madre del protagonista (interpretata da Frieda Richard) era seduta sotto alle colonne della Residenza, con in testa la cuffia medievale da vedova, e aspettava il suo turno. Sulla Piazza del Capitello si trovavano il Buon Amico e l’Amante, insieme al Mendicante che tenta invano di muovere la coscienza di Jedermann, e i bambini che ornano la scena del banchetto con corone di fiori. Di quando in quando appariva l’assistente regista, vestito con il tradizionale pantalone di cuoio, a prelevare gli attori per l’entrata in scena.

Così la giornata fu serena; ma quella sera a cena avvenne il dramma, in forma della nostra ‘scena del banchetto’ personale.
La fatale parola chiave provenne da Emily Namarra, l’americana dai capelli color pagnotta. Fece un cenno al conte, che stava sorvegliando il servizio, e gli chiese, asciutta, se le effusioni con il personale erano forse incluse nel prezzo.
L’anziano signore alzò le sopracciglia, sorpreso, e le domandò quale fosse l’occasione per questa sua bizzarra domanda. Allorché ella mi indicò con una delle sua dita bianchissime e spiegò che avrei baciato la cameriera.
Il conte guardò Konstanze con sguardo inquisitore. Lei arrossì violentemente, e lui mi guardò con sorpresa. La situazione si faceva imbarazzante.
Quindi egli si rivolse alla giovane americana e le spiegò che si opponeva energicamente alla sua supposizione che il personale venisse obbligato a baciare gli ospiti. Al contrario, le intimità tra ospiti e personale di servizio erano molto indesiderate al castello di H.
“Non mi servono le cameriere che non sono ligie al proprio dovere,” disse a Konstanze. “La licenzio per il primo del mese.”
Mi sentii il diavolo in corpo. “Konstanze, non farti accusare di essere dimentica dei tuoi doveri da un semplice portiere!”
“Con lei parlerò più tardi,” mi rispose lui maestosamente.
“E’ meglio che lo faccia subito,” gli consigliai. “Più tardi non ci sarò più.”
Franzl sembrava indovinare le mie intenzioni: sussurrò qualcosa alla sorella.
Prendendo coraggio, essa mi chiese: “Cosa posso fare, Georg?”
“Andiamo bene! La cameriera dà del tu agli ospiti!” Il conte sembrava indignarsi sul serio. “Konstanze, credo che lei sia… una donnaccia!”
Mi alzai con foga, spingendo indietro la sedia. “Questo è troppo! Konstanze, tu non lasci questa casa il primo settembre ma subito! Fai la tua valigia, per adesso ti sistemerò a Salisburgo. Un posto come qui lo trovi ogni momento.”
Gli americani seguivano il nostro alterco interessati, solo il figlio continuava tranquillamente a mangiare. Oggi taceva perfino mentre masticava.
“Le proibisco di prendere decisioni riguardo alla mia cameriera,” disse il conte. “Lei rimane qui.”
“Non rimane qui per nulla al mondo. Non è più la sua cameriera, certe offese annullano qualsiasi contratto.”
Franzl sguazzava nel suo elemento. “Vi porto io in città.”
“Non osare…” Il vecchio conte per poco non si dimenticò del suo ruolo. “Non osi, Franzl! Altrimenti licenzio anche lei.”
“Ma no, Leopold,” disse Franzl, “ho troppa stima di lei per lasciarla in asso. Non si preoccupi, rimarrò con lei.”
Konstanze si levò il suo grembiulino bianco e lo diede in mano al padre, che era rimasto senza parole. Quindi lasciò in fretta la sala da pranzo.
Era andato tutto così rapidamente e gli americani si erano attaccati con tanta curiosità al vecchio conte per non lasciarsi sfuggire niente che non gli rimase nessuna occasione di parlarle da solo. La zia contessa abbandonò il suo regno in cucina, chiamata da Mizzi, e si torse le mani sconcertata. Mizzi si divertiva un mondo, anche se non ci capiva nulla.
Franzl fece del suo meglio per non far rallentare il tempo della scena: prima che gli altri se ne avvedessero ci trovavamo in macchina tutti e tre, stretti come le sardine e guarniti di valigie. Entrammo a Salisburgo, la attraversammo, passammo oltre il confine fino a Bad Reichenhall, dove la piccola macchina si fermò davanti all’albergo Axelmannstein.
Konstanze si fece assegnare una camera, e dopo brindammo al bar alla speranza che andasse tutto bene.
Franzl era di ottimo umore. A quanto pare non ha molta fiducia nelle doti di autore di suo padre.
“Che idea,” disse, “utilizzare delle persone vive come cavie invece del cervello! Non ne so molto di come si scrivono storie, ma sono sicuro che non è bello degradare la vera vita così. La vita non è fatta per usarla per ottenere uno scopo.”
Konstanze era un po’ meno caustica. “Quando intendi dire la verità a papà?”
“Per capire i propri errori ci vuole tempo. Teniamolo sulla corda per ventiquattr’ore almeno.”


~ continua ~



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Edited by Delari - 28/7/2016, 16:52
 
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Piccolo traffico di confine o Georg e gli imprevisti (parte 10)
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Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo



Il più grande degli imprevisti

Bad Reichenhall, 29° agosto, pomeriggio
Franzl telefonò di buon’ora: suo padre crede ancora alla frottola che gli abbiamo raccontato. Ieri sera è perfino andato a Salisburgo in cerca della figlia. La conosce abbastanza bene per sapere che non farà un dramma della sua commedia, ma resta che una delle sue figlie si è defilata insieme a uno straniero, uno che la crede una cameriera! Non ci capisce più nulla, il suo intreccio si è rivolto contro di lui.
Chissà cosa accadrà quando ci rivedremo! I miei amici dicono che so essere irresistibile quando voglio. Se necessario lo abbindolerò con il mio charme a più non posso. Konstanze ha detto che alla peggio mi sposa, anche se lui non si dichiara d’accordo.
Prima di pranzo giocammo a tennis: la moglie dell’allenatore imprestò la racchetta alla mia antagonista. Ne ebbi da fare con entrambe le mani, prima di vincere!
Quindi facemmo una nuotata nella piscina fresca, e siccome sul prato adiacente si vedeva una bambina fare le capriole contenta come una Pasqua, parlammo di bambini.
“Georg,” mi chiese Konstanze, “vuoi avere anche tu solo dei figli maschi, come la maggior parte degli uomini?”
“Non più, da quando so quanto possono diventare graziose le femmine.” Feci un giro su me stesso e continuai a nuotare, stavolta di dorso. “Peccato che ci voglia tanto tempo finché un bambino si trova bell’e finito nella culla! Sono curiosissimo di sapere come sarà.”
“Georg?”
“Hm?”
“Quanti?”
“Come quanti?”
“Bambini!”
“Dipende da come sarà il primo.”
“Favorirà sua madre.”
“Allora ne ordino subito mezza dozzina.”
“Aiut…!” Konstanze finse di svenire e finire sott’acqua, e dovetti portarla a riva.
Per fortuna il pronto soccorso con la respirazione a bocca a bocca la riportò in sé.

Bad Reichenhall, 29° agosto, pomeriggio
La mattina presto ci vide sul Predigtstuhl, dove ci aveva trasportato la funicolare. Appena arrivati Konstanze scoprì un corvo imperiale che faceva i suoi giri, imponente come una poiana. Vedere quest’uccello in via di estinzione la fece andare in brodo di giuggiole e non ci fu verso di muoverla dal suo post di osservazione per un pezzo: seguiva il suo volo silenziosa ed estatica come una bambina che ha appena ottenuto un magnifico dono.
Konstanze ama e conosce la natura, solo che la ama come me però la conosce meglio. Sa i nomi e cognomi di tutti i fiori e le erbe ed è cresciuta con gli animali di campo e di bosco. Ho preso una decisione: per il matrimonio non le regalerò un anello di brillanti ma un piccolo casale, da qualche parte nel Mark Brandenburg. Magari vicino a un lago che rispecchia pini e betulle.
Verso mezzogiorno ci chiamò Franzl e Konstanze corse nella cella telefonica dell’albergo. Quando tornò sulla terrazza dell’hotel, in mezzo al ronzio delle api, era un po’ più pallida del solito.
“Cattive notizie?”
“Gli americani partono già oggi. Franzl ha detto di presentarci alle cinque, e che tu ti porti lo smoking.”
Mi alzai in fretta. “Tuo padre ha detto di sì?”
“Non ne sa ancora niente.”
“Allora, a che pro devo portare lo smoking?”
“Franzl ha detto: in caso che accada l’imprevedibile.”
Un imprevisto? Scoppiai a ridere. “Capisco. Se tuo padre è d’accordo mi metto lo smoking, altrimenti rimane in valigia.”
“Ma no, Faustino! Se papà non vuole, io gli dico…” Tacque.
“Cosa?”
“Che deve dire di sì, volente o nolente!”
“Vuoi fargli intendere che siamo già sposati?”
“Ma no,” disse. “Che idea! Ci sono mezzi ben più efficaci.”
Tornò nella sua stanza ed io la seguii per mettere una camicia bianca, appena pulita e inamidata, sopra i suoi vestiti nella valigia.
In caso che accada l’imprevedibile!

Arrivati al castello di H. questa volta il portone ci fu aperto da un vero servitore, un signore di età avanzata. “Buongiorno, Ferdl!” esclamò Konstanze. “Come ha fatto ad arrivare così in fretta?”
Ferdl mi alleggerì della valigia. “Il giovane signore è venuto a prenderci con la macchina grande.”
“Vi siete ripresi bene?”
“Molto bene, signorina.”
In entrata mi venne incontro Franzl, che non riusciva a parlare dal gran ridere. Un’accoglienza così allegra ci colse impreparati.
“Scusate,” disse, “ma io non resisto!”
“Cos’è che ti fa ridere - il nostro fidanzamento?”
“Ma va’!”
Konstanze si innervosì. “Non hai ancora parlato con papà?”
“Sì.”
“E allora?”
“Era così sconvolto da un’altra cosa che quasi non mi ascoltava.” Rise ancora fragorosamente.
Onestamente, cominciai a sentirmi un idiota e dissi: “Credo di trovarmi al funerale sbagliato.”
Franzl spinse me e sua sorella in direzione di una porta. “Il papà ha bisogno di un diversivo. Parlategli un po’, poveretto.”
Konstanze aprì la porta, gettò uno sguardo dalla fessura e mi tirò nella stanza per il braccio, un po’ titubante.
Il conte H. era seduto in una poltrona vicino alla finestra e annuì nel vederci. “Eccoti qua finalmente,” disse, “figlia perduta!” Mi diede la mano. “Insieme al dottore che vuole offrire alla bella cameriera un’altra sistemazione.”
Konstanze gli accarezzò i capelli grigi. “Vogliamo sposarci, papà.”
Lui sorrise. “Franzl me l’ha già detto. Ma deve essere proprio questo signore di Berlino qua, dopo la burla che mi ha fatto con Ventimiglia e il congiuntivo?”
“Sì, papà, o questo signore di Berlino o nessuno.”
Lui mi guardò. “Preferisco risparmiarmi la minaccia di mia figlia di andare in un convento se non mi dichiaro d’accordo. Comunque non esageri con il suo charme!” (Avevo incominciato a fare l’irresistibile e a quanto pare non gli era piaciuto.) “Ma prima che mi decida a darvi il mio consenso, ho una domanda da farle.”
“Sono pronto a comunicarle qualsiasi informazione. Il mio reddito deriva da una piccola fabbrica di vasche di zinco e non è trascurabile. Il mio stato di salute è ottimo. I miei…”
Scosse la testa. “No, era qualcos’altro che volevo sapere.”
“Che cosa?”
“Cosa diamine è l’ottativo?”
“L’ottativo è una forma secondaria del congiuntivo; si utilizza per esprimere gli auguri.” Sorrisi. “Per esempio a una coppia di sposi, signor conte.”
Lui si alzò, tenendosi molto diritto. “Possiate essere felici, ragazzi!”
Konstanze gli buttò le braccia al collo. Dietro alla sua schiena noi uomini ci stringemmo la mano.
“E’ stato un ottativo?” mi chiese.
“Sì,” risposi, “e uno niente male, signor suocero. Se dovessi rendere infelice sua figlia, le concedo l’esplicito permesso di scrivere una commedia dove faccio una magra figura.”
“Per favore, non sfotta!” sospirò. “Io non mi chiamo Beaumarchais. E proprio adesso non mi piace affatto pensare a scrivere per il teatro.” Diede un colpetto sulla spalla alla figlia. “Vai, bambina mia! Lasciami un po’ solo con questo signore, ho qualcosa da raccontargli.”
“Magari quello che ha fatto tanto ridere Franzl?”
“Tuo fratello è uno zoticone.”
“Non posso sentirlo anch’io, papà?”
“Non dalla mia bocca! Il padre in me si ribella a raccontare le proprie figuracce mentre sua figlia è in ascolto.”
Konstanze mi abbracciò. Quindi abbracciò lui; dopo riabbracciò me. Che fortuna hanno le donne! Sanno bene come esprimere i propri sentimenti.

Dopo che Konstanze era uscita dalla stanza ci accomodammo vicino alla finestra. Il mio futuro suocero mi offrì un sigaro; fumammo in silenzio.
Da qui si vedeva bene l’edificio di servizio con il suo bassorilievo intagliato e la coppia di uccellini annidata sopra allo Spirito Santo. Sentivo il vecchio signore osservarmi da un lato. Alla fine disse: “Lei ha fatto del suo meglio per promuovere l’arte.”
Fumando il sigaro, gli risposi: “L’idea non ci pareva male. Il signor conte pensa che la gente scambi sua figlia per una cameriera. Uno degli ospiti intuisce la verità e scappa insieme con lei. Il conte deve lasciarla partire perché non ha tempo di discorrere con lei da solo e rimane indietro, molto emozionato, com’era da aspettarsi. La situazione mi sembra adatta al penultimo sipario: il pubblico, come si deve, sa di più del protagonista gabbato. Le sorprese che lo attendono ancora faranno il divertimento degli spettatori nell’ultimo atto. Basterà inserire un nuovo personaggio secondario - lei sa meglio di me come si fa - e ne fuoriesce una brillante commedia di successo.”
“Ha sentito le risate che si è fatto mio figlio?”
“Sissignore.”
“Per l’appunto,” mi disse melanconicamente. “Era lui il pubblico, ha assistito all’ultimo atto e lo ha trovato da morire anche senza nuovo personaggio.”
“Esistono anche delle commedie fatte così,” obbiettai. “In tal caso però la situazione deve capovolgersi totalmente prima che cada l’ultimo sipario.”
“Dio lo sa!” mi disse. “Senta, è vero che sa poco l’inglese? O è stato anche quello un contributo volontario alla mia commedia?”
“Il mio inglese lascia invero molto a desiderare,” gli spiegai.
Lui si raddrizzò. “Allora glielo spiego in semplice tedesco. Ultimo atto, ultima scena: Mr Namarra, il ‘cellofante’ come lo ha ribattezzato Mizzi, doveva partire già oggi, per via di una tappa divenuta necessaria a Parigi. Noi ‘dipendenti’ ci trovammo coscienziosamente sullo scalone prima che gli ospiti salissero in macchina, per i soliti salamelecchi e le debite mance. Mia sorella, la sedicente cuoca, si era opposta fino all’ultimo momento: dover accettare una mancia da un milionario americano non era più divertente, diceva. Feci una bella fatica per portarla al di fuori dal portone. Alla fine ci trovavamo insieme, ben allineati: mia sorella, Mizzi, mio figlio ed io. Gli americani scesero per la scala, e ci inchinammo. Mr Namarra si fermò presso di me. Alzai discretamente il palmo della mano. Allora lui disse… desidera un whisky?”
Trasalii. “Le ha offerto un whisky prima di partire?”
“Ma no, glielo sto chiedendo io, ora e qui, se desidera un bicchierino.”
“Grazie mille, adesso no. Forse ne avrò bisogno quando mi avrà raccontato la fine della sua commedia.”
“Lei soffre di presentimenti,” spiegò il conte di H. “Insomma, il milionario si fermò, mi diede una benigna pacca sulla spalla e disse: ‘E stato molto bello qui, e voi tutti ve la siete sbrigata benissimo. Immagino che si trattasse di una scommessa?’
Scommessa? Cosa intendeva? Lui mi mostrò tutti i denti e proseguì: ‘Sono stato in giro per il mondo, ma non ho mai incontrato un conte che fosse un così buon attore.’
Sua figlia, l’anaconda in guisa di biondina, sorrise mielosamente e disse: ‘Anche gli altri membri della famiglia si sono dimostrati ottimi servitori. Fuorché la contessina Konstanze, forse. Ma cosa vuole, succede nelle migliori famiglie.’ Namarra junior masticava una gomma e borbottò qualcosa come ‘Yeah, good sport.’ La magra milionaria annuì. ‘Speriamo di esserci attenuti alle regole del gioco.’ Noi quattro della famiglia di H. eravamo esterrefatti. Franzl fu il primo a ritrovare la parola. ‘Da quando lo sapete?’ chiese.
Allorché il secondo segretario, il grassone, estrasse una rivista dal cappotto e ci mostrò una fotografia. Su questa apparivo io con la mia famiglia, e il testo sottostante descriveva in dettaglio di chi si trattasse. La foto faceva parte di un servizio intitolato ‘Castelli austriaci e i loro proprietari.’
E la biondina disse, freddamente: ‘Lo sapevamo dal primo giorno.’ Quindi salirono tutti in macchina. L’autista sogghignava come uno schiaccianoci.
Riuscii a dominarmi e mi avvicinai alla macchina. ‘Mr Namarra, ma perché non lo ha detto subito?’
Lui si chinò dal finestrino. ‘Non volevamo fare i guastafeste!’ Quindi partirono per gli affari loro.”

Ammetto che mi venne voglia di ridere, anche se meno sfacciatamente di Franzl. Ma il vecchio signore faceva una faccia così turbata mentre guardava le punte dei suoi stivaletti, che mi vinse la compassione. Dissi soltanto: “Adesso un whisky non sarebbe male.”
Portò whisky, acqua e i bicchieri, e noi due mescolammo e bevemmo. “Rida pure se vuole,” disse dopo che avevamo appoggiato i bicchieri.
Ribattei: “Riderò alla prima della sua commedia. Forse lei si sente canzonato, ma adesso l’ultimo atto ha esattamente la scena finale che mancava.”
“Sono solo un dilettante, caro mio.”
“Un amatore.”
“Dilettante o amatore, non importa. Chi mette in scena la vita in costume perché gli mancano le idee proprie è meglio che non scriva. Mio figlio me lo ha predicato più di una volta.”
“Ma la sua commedia ha uno scrittore dilettante come eroe!” esclamai. “Lei è, mi scusi il paragone, una figura degna di un Molière! L’amatore che deve prima sperimentare ciò che vuole scrivere, e quindi fa un’esperienza che preferirebbe non descrivere! E’ un soggetto magnifico.”
“Il suo entusiasmo mi onora,” disse l’anziano signore, “ma penso che la tragicommedia del dilettante non dovrebbe essere proprio il dilettante a scriverla.”
“Mi dispiace. Ha ragione lei.”
Annuì. “Vede! Bisogna che mi cerchi un’altra professione.”
“Avrei un’idea.”
“E cosa dovrei fare, alla mia età?”
“Il nonno!”
Si mise a ridere.
“Farò del mio meglio per darle il suo impiego il più presto possibile,” dissi.
Lui si alzò. “Io ho fatto il mio dovere. Adesso lei compia il suo!”


~ continua ~



Traduzione: luglio 2016
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Piccolo traffico di confine o Georg e gli imprevisti (11esima e ultima parte)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo



L’arrivederci

Castello di H., 31° agosto, mezzogiorno
La festa di fidanzamento si tenne ieri sera e iniziò con la constatazione che lo smoking me lo ero dimenticato nonostante tutto! Konstanze mi portò a Salisburgo. Karl, neanche a dirlo, non si trovava al Höllbräu, ma il direttore mi riconobbe e mi permise di entrare nella stanza di Karl di straforo. Dopo essermi ripreso in modo illegittimo la mia legittima proprietà - lo smoking, i bottoni delle camicie e dei polsini, la cravatta e le scarpe laccate - andammo a passeggio per le strade.
Il Festival è finito e la maggior parte degli stranieri è tornata a casa. Salisburgo sta lentamente ritornando nel suo sonno da Bella Addormentata, che durerà undici mesi. Per questo periodo, Salisburgo appartiene ai salisburghesi; in seguito, la daranno nuovamente in affitto.
Per combinazione trovammo Karl nella farmacia del municipio che si affaccia sul mercato. Aveva nuovamente delle matite colorate tra i denti e disegnava vecchie bottiglie di medicinali, barattoli di unguento e mortai, insieme al paffuto Signor Provvisore. Assaltammo la farmacia e costringemmo il poveretto a staccare subito; dovette congratularci calorosamente, indossare lo smoking e venire con noi al castello.
Durante il viaggio in macchina gli raccontammo il finale della commedia improvvisata, e lui disse a Konstanze: “Suo padre quasi mi fa pena. Voleva scrivere una commedia ed è finito per fare il buffone.”
“Papà ha detto che Faustino lo ha consolato con argomenti tanto convincenti che adesso non se ne pente più.” Si rivolse a me. “Si può sapere con cosa lo hai consolato?”
“Gli ho soltanto proposto una nuova professione.”
“Che Dio ci assista!”
“Il pittore forse?” chiese Karl.
“Ma no.”
“Che tipo di professione?” domandò Konstanze.
“E’ il nostro segreto.”
“E se la nuova professione si rivela troppo difficile per lui?”
“E’ da escludere, cara.”
“Lo sai che non dispone di gran fantasia.”
“La nuova professione richiederà solo capacità mediocri in ogni campo.”
I due tirarono a indovinare: giocatore di golf, collezionista di francobolli, scrittore di memorie e via dicendo. Io tacevo testardamente.
Alla fine Konstanze scosse la testa e mormorò: “Che bambinata!”
Scoppiai a ridere, e lei non capiva cosa ci fosse di tanto buffo.

La festicciola per fortuna fu molto informale. Franzl non era riuscito a riportare a casa più di tre dei servitori villeggianti, quindi il tutto si svolse come un picnic senza prato; e la signora contessa, una deliziosa signora di avanzata età, trovò più di una occasione per abbandonarsi alla disperazione casalinga.
Quando entrammo nel salone Franzl e Karl portavano in mano delle piccole cesta e interpretavano alacremente il ruolo dei bambini che spargono fiori ai matrimoni.
Dopo la cena Mizzi declamò “La campana” di Schiller: questo lungo e tortuoso poema richiama in diversi punti le gioie del fidanzamento e del matrimonio, e la piccola cognata non dimenticò mai di sollevare l’indice mentre recitava le rispettive frasi. Non ci fu risparmiato nulla, da “Arrossendo egli seguì le sue tracce” da “Quando le donne si tramutano in iene”. Ferdl, il bravo cameriere, faceva il suggeritore tenendo in mano un vecchio tomo rilegato di cuoio, con decorazioni in oro; e Franzl a volte aggiungeva dei commenti sfrontati, il che infastidì molto sua zia. Konstanze aveva posto davanti a sé il mazzetto di violette che le avevo regalato quel pomeriggio e indossava un abito di velluto color rame.
Una volta stappato lo spumante, il capofamiglia intonò un discorso. Abbozzò a grandi tratti la nostra storia d’amore, non schivò l’obbligatoria autoironia, e annunciò ufficialmente di avere abbandonato ogni ambizione di dedicarsi all’arte teatrale. (Peccato che la sua conversazione sia tanto più dilettevole del suo talento di scrittore. Si vede proprio che si tratta di due capacità del tutto diverse!) Infine espresse la sua soddisfazione riguardo al fatto che lo avrei alleggerito della responsabilità per la figlia, e per contraccambiare mi donò una tenuta di caccia nei Tauern, con tanto di baita.
Dopo il brindisi lo ringraziai sia per sua figlia che per la tenuta di caccia, declinai comunque quest’ultima dato che dovuto all’attuale crisi di valute estere non sarei in grado di possedere immobili all’estero. Konstanze, così dissi, poteva essere esportata in Germania, ma sarebbe stato troppo difficile fare lo stesso con gli Alti Tauern.
Mio suocero fu molto comprensivo. Ma giacché era fermamente deciso a farmi un dono, Konstanze gli chiese di potermi accompagnare nel viaggio di ritorno fino a Monaco. “Per comprare le fedi,” spiegò, senza essere molto convincente.
Generoso come si sentiva, il conte di H. accordò il suo permesso: partiremo domani mattina.
Konstanze deve tornare il 2° settembre perché quel giorno tutta la famiglia partirà per Merano, come ogni anno; a fare la cura dell’uva.

Castello di H., 31° agosto, notte (rispettivamente 1° settembre, mattina)
Mamma mia, che sbornia mi sono preso! Ma è caratteristico della mia scrupolosità scientifica, che si espande anche a luoghi meno scientifici, anche se si potrebbe argomentare che Karl ed io siamo venuti in contatto con l’etanolo nelle sue numerose varianti con acribia nettamente scientifica, e…
Il diavolo la porti, ‘sta frase! E dire che non avevamo intenzione di ubriacarci! Karl ed io avevamo solo intenzione di prendere commiato dalla bella città di Salisburgo. Passeggiammo sentimentalmente attraverso le bellissime piazze e i vecchi e misteriosi vicoli. Era una notte d’estate fiabesca. A volte si vedeva la luna, a volte soltanto una lanterna; a noi andavano bene entrambi.
A dire il vero non camminavamo, ma ci lasciavamo trasportare dall’atmosfera. Due siluette amichevoli che giravano per il cerchio magico di nome Salisburgo. A volte ci fermavamo in silenzio davanti alle fontane scroscianti e scintillanti come argento - e proprio quella non fu una buona idea!
Perché siccome le fontane scrosciano, cioè perché noi eravamo testimoni di questo scrosciare, per l’esattezza dell’effetto acustico che nasce quando l’acqua scorre velocemente…
Un’altra di queste frasi che non sanno né vivere né morire! Insomma, ci venne sete, e tutto cominciò in una taverna italiana; con un Asti alla spina e un fiasco di Chianti, solo che i fiaschi non vengono mai soli.
Quindi andammo alla Cantina di San Pietro e bevemmo un vino del Prelato. Tutta roba leggera e giovabile, no? Forse non avremmo dovuto aggiungere il whisky al bar di fronte alla Corte Austriaca, oppure gli Ohio e Martini che ci invitò a bere con lui il turista americano seduto vicino a Karl. Come si fa a rifiutare una richiesta così a uno che ha attraversato l’oceano? Magari quello ritorna a casa amareggiato e dice a tutti che i tedeschi sono gente maleducata; e poiché l’essere umano ha la mania di generalizzare le sue impressioni, questo potrebbe portare a delle ripercussioni per l’intera Europa che oggi più che mai bisogna…
Ancora il corto circuito! Sono curioso di vedere la faccia che farò domani mattina quando leggerò quello che sto scrivendo adesso!
Insomma, per questo motivo ci toccò anche accompagnare l’americano al Casinò. Si trattava ormai di una missione quasi diplomatica, perché si sa, a casa sua ognuno diventa ambasciatore del suo paese. Quindi ci comportammo come due ambasciatori: Karl ordinò una bottiglia di spumante, anch’io ne ordinai una, ma cosa volete che siano due bottiglie di spumante divise per tre uomini adulti? Per cui ne ordinammo anche una terza.
Dopodiché l’americano annunciò il lodevole intento di far saltare la banca, e si allontanò perché questa si trova in un altro salone. Karl ed io tornammo fuori all’aria fresca. E nessuno ne ha colpa se finimmo sulla strada che conduce a Mülln e dove si trova la Cantina dei Frati Cappuccini. (Infatti non accusammo nessuno.)
Qualche bicchiere di birra non fa mai male, soprattutto nelle calde, belle notti d’estate, seduti sotto i lampioni del vecchio giardino di un’osteria. Veramente non si trattava di bicchieri, ma di boccali di terracotta da un litro ciascuno. Al nostro tavolo si trovavano solo veri intenditori di birra; sopra di noi un cielo blu e stellato, con in mezzo uno spicchio di luna come in un bicchiere di punch - che meraviglia!
Al ritorno abbiamo cantato, se la memoria non mi inganna. Karl si era messo a braccetto con me: “Altrimenti cadi.” Ma se era lui ad aggrapparsi a me per non cadere! Karl è un’ottima persona, ma fa parte di quelli che non sanno mai ammettere quando sono sbronzi.
Io naturalmente sono totalmente diverso. Se fossi stato alticcio lo avrei ammesso senza fare storie; solo che non lo ero, guarda caso, anche se ho un alto grado di tolleranza all’etanolo. Avrebbe anche potuto viceversa essere, no, avrebbe potuto essere viceversa!, ma non era viceversa in questo caso!
Che cos’è, ripensandoci, a non essere viceversa? Ohi, la mia testa! Quante volte in vita mia ho desiderato avere una cattiva memoria, perché ci sono state tante cose che sarebbe meglio poter dimenticare. E la dimenticanza mi coglie proprio adesso che voglio scrivere. Spero sia solo per oggi, perché ci sono molte cose di cui spero di ricordarmi ancora a lungo… (Credo di essermi appena contraddetto.)
Tutt’a un tratto Karl si fermò, allargò le braccia e declamò: “Hic habitat felicitas!”
Io chiesi: “Chi è che abita qui?”
“Felicitas,” disse lui.
“In quella casa lì?” domandai, tutto modesto.
Lui mi rispose soltanto con un “Ignorante!”
Impermalito, risposi: “Mica posso conoscere tutte le ragazze della città, che diamine!”
“Oh!” fece lui.
Volli dimostrarmi conciliante. “Se vuoi possiamo provare a suonare alla porta. Forse ci sente e viene alla finestra.”
Karl ebbe un fremito di raccapriccio.
“Magari è già sposata?” domandai con cautela.
Al che Karl decise di gettarmi nel Salzach. Non lo fece per il solo motivo che il Salzach non si trovava lì vicino.

Non ricordo bene cosa abbiamo fatto dopo; abbiamo proseguito a camminare, credo. Altrimenti saremmo ancora davanti alla casa, no? Ma siccome sono arrivato al castello, devo per forza… Spero che Karl non si trovi ancora lì!
No, non è possibile. Dopo che avevo suonato il campanello della casa e chiamato Felicitas a gran voce ce la svignammo a rotta di collo. Come due ragazzetti. E dopo? Ah, mi sta ritornando la memoria!
Arrivammo al giardino di Mirabell e Karl fece un discorso ai nanetti di pietra. Sissignore. Proprio così.
“Miei cari signori nani…” cominciò.
Mi sedetti sul prato e dissi, “C’è anche una signora nana. Non essere maleducato!”
“Miei cari signori nani,” ripeté Karl. “Essi conoscono Salisburgo più a lungo di questo signore ubriaco che si sta appena allungando sul loro prato. La conoscono ancora più a lungo di…”
“Del primo turista europeo,” suggerii.
“Baedeker! Giusto. Conoscevano la vecchia guardia quando era ancora giovane, e anche le belle cortigiane che passeggiavano in questo giardino con i rispettivi funzionari religiosi.”
“E facevano anche altre cose,” corressi coscienziosamente.
Karl si animò. “Conoscevano Mozart mentre prendeva ancora lezioni di pianoforte da suo padre! Si vede proprio che la statura non è tutto, per niente! Io vi ammiro, signori miei. Mi permettete di darvi del tu?”
“Prego, prego,” mugugnai io.
“Forse essi si domandano perché con la mia richiesta non mi rivolga alle ben fatte signore di pietra, che da secoli si trovano sui piedistalli all’entrata del giardino senza nulla indosso.”
“Figurati,” dissi, “i nani non si interessano a queste cose. Ma dimentichi che volevi dargli del tu.”
Karl annuì e diede una pacca collegiale alla gobba di un nano. “Signori e signore lillipuziani,” continuò. “Potreste fare un grande piacere alla vostra piccola città. Se dovesse mai venire qui un funzionario del Comitato del Festival per parlarvi…”
“Altro che,” dissi.
“…Fategli un bel saluto da parte mia.”
“Anche da parte mia - come sconosciuto!” aggiunsi.
“E ditegli…”
“Un altro bel saluto?”
“Ditegli che l’Austria ha fatto nascere tanti di quei geni…”
“Lo sa già, quell’uomo.”
“E solo l’allegria di questi personaggi armonizza con l’allegria di questa città, così come anche la loro melancolia si conviene solo a questo paesaggio quando è in lutto.”
“Spero che se lo ricordino tutto questo, i nanetti,” mi preoccupai.
“Perché non viene rappresentato Raimund? Perché non Nestroy? Perché non ancora più Mozart? Eh? Perché invece…”
“Come vuoi che lo sappiano i piccoletti!” dissi infastidito e mi alzai.
“Non ho forse ragione?” mi domandò.
“Certo che hai ragione,” dissi. “Inoltre si sa che è meglio non contraddire gli ubriachi.”
“Chi sarebbe ubriaco?”
“Come ‘sarebbe’? Lo sei!”
“Ma se sono sobrio come… come…”
Anche a me non venne in mente nessun paragone adeguato per il suo grado di sobrietà.
“Tu invece, sei sbronzo da far paura!”
“Ma se sono sobrio come… Mai stato sobrio come oggi!”
“Neppure io!”
“In tal caso non vorrei incontrare lor signori in stato di ubriachezza,” disse una voce dietro di noi.
Santo cielo, che spavento.
Ma non si trattava di un nanetto. Bensì di un vigile.


Ritorno a casa

In cuccetta tra Monaco e Berlino, 2° settembre, notte
Ho l’orario ferroviario vicino a me, quindi so che fra tre minuti l’accelerato tra Salisburgo e Merano fermerà a Innsbruck. Konstanze mi ha promesso che in quel preciso momento chiuderà gli occhi e mi penserà, ed io le ho promesso di fare lo stesso. (Cioè, naturalmente non penserò a me stesso ma a lei!) Ci siamo messi d’accordo su questo stamattina a Monaco. Non avrei mai creduto che un orario ferroviario potesse funzionare come lettura romantica. Non si finisce mai di imparare.
Mancano due minuti.
Domani mattina lei si troverà a Merano, ed io a Berlino. Il pomeriggio vuole visitare il monte San Vigilio per vedere se c’è già la neve. Intanto io mi mescolerò alla variopinta folla nel Kurfürstendamm, attraverserò il ponte a Halensee e poi passeggerò fino a Hundekehle.
Ancora un minuto!
A dire il vero ho sempre avuto una gran paura di innamorarmi. Forse si trattava di una specie di avarizia. O economia? Economia istintiva? E adesso la fotografia di Konstanze è nel mio taschino, già tutta sgualcita.
E’ ora! Adesso il suo treno entra a Innsbruck. Adesso si ferma. Adesso lei sorride e chiude gli occhi per pensarmi. E ora li chiudo anch’io.
(Spero che il mio orologio indichi l’ora esatta.)

Berlino, 3° settembre, mezzogiorno
Ho appena telefonato con Konstanze: suo padre è d’accordo con un matrimonio sotto le feste natalizie. Sposarsi a Natale a Salisburgo - è quasi sensazionalistico!
La mia segretaria mi ha appena portato la posta: c’è anche una lettera dell’ufficio valute estere. I funzionari pubblici mi informano gentilmente che la mia richiesta per un viaggio a Salisburgo quest’estate è stata approvata.


Epilogo

Caro Georg,

Siccome non sai che il tuo diario è stato stampato, adesso cascherai dalle nuvole. So che non mi hai esplicitamente elargito il permesso di dare il tuo manoscritto ad altri, per non parlare di uno stampatore. Ma cosa vuoi - perché dovresti essere più fortunato di noialtri autori?
Ho una grandissima fiducia nella tua capacità di comprensione. Anche se, a dire il vero, sono contento che mentre questo fascicolo farà la sua comparsa nelle librerie tu ti troverai al Ceylon e non a Berlino. Immaginarmi la tua faccia sorpresa basta e avanza alla mia tendenza al sensazionalismo, e dell’esperienza, in questo come in altri casi, posso privarmi senza rammaricarmene. Spero che la tua furia, quando tornerai a casa, sarà già sfumata e che in cambio avrai ottenuto la quieta soddisfazione di essere divenuto un utile membro della razza umana senza neppure volerlo.
Salutami la tua giovane moglie! Ancora non ho ben capito come mai questa magnifica donna abbia deciso di sposare proprio te. D’accordo, sei intelligente, sano, benestante, attraente, un po’ mattoide e di natura allegra - ma siamo sicuri che siano motivi sufficienti?
Credo però di sapere perché ti ha preso: le avrai chiesto se ti voleva! (Io tutte le volte mi dimentico di fare la domanda e quindi temo che finirò i miei giorni da scapolo incallito. Un semplice ragionamento di azione e reazione… saprai cosa intendo.)
Con estremo, nobilissimo contegno aspetta il vostro ritorno dalla luna di miele

Il vostro Erich



Traduzione: luglio 2016
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Non criticate le manovre, per favore
(Satira comparsa sul giornale tedesco „Spiegel”, luglio 2016)


I media tedeschi si sono fatti beffe del tentativo “dilettantistico” di un golpe da parte della milizia turca.
Ma bando alle malignità. Anche nella Repubblica Federale Tedesca vi sono stati ripetuti tentativi di sommosse da parte dell’esercito: solo che gli è sempre andata storta.

8 novembre 2011
Quei traditori del battaglione no. 728 hanno escogitato il piano di imbottigliare la Cancelleria con l’ultimo panzer funzionante, tipo „Leopard 2“. La truppa raggiunge il quartiere governativo verso le ore 4:15 di mattina e dà il via all’operazione. All’improvviso si stacca il cannone (quello di lunghezza 120 mm) mentre il panzer attraversa un tratto di pavimentazione per il traffico rallentato.
Una delle viti è andata.
Mannaggia.
Gli insorti stanno ancora aspettando il pezzo di ricambio.

29 gennaio 2013
Un nuovo tentativo. Poco prima dell’inizio della missione la compagnia paracadutisti Alpha viene sottoposta a un controllo doping.
La Cancelliera Merkel interviene drasticamente: chi si è reso colpevole di doping viene squalificato per qualsiasi tipo di sovvertimento fino al 2015.

13 marzo 2015
Un comando mandato in avamposto tenta di avvalersi del programma pomeridiano presso la prima rete televisiva tedesca come posizione chiave.
Neanche a pensarci: è in onda „Panda, Gorilla & Co.“.
I veterani dell’Afghanistan partecipi si allontanano dalla scena con ribrezzo e si fanno dichiarare non idonei al servizio causa disturbo post-traumatico da stress.

21 maggio 2016
Un generale di Grafenwöhr vuole fare marcia su Berlino con una truppa di 10.000 uomini. Ha progettato tutto nei minimi particolari e perfino fatto venire un po’ di munizioni.
Ma quando il caporione ordina di mettersi in marcia, non succede niente. Che sfiga: proprio adesso 95 per cento dei soldati tedeschi si trova al di fuori del paese. Il resto è partito per il weekend.

6 luglio 2016
Questa volta finalmente sembra che funzioni: un colonnello riesce a penetrare fino alla seduta del Consiglio dei Ministri. Ma non appena entra nella sala la Cancelliera, inalterata, lo riceve con queste parole:
„Giovanotto, cosa vuole? Adesso non può darmi la Sua valigetta, siamo in conferenza. Si lavora, qui! La metta su quel tavolino e se ne vada. Buona giornata.“



Traduzione: settembre 2016
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Edited by Delari - 10/9/2016, 13:45
 
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Aiuto, la mia famiglia vota Trump…
(Articolo comparso sulla “Süddeutsche Zeitung”, settembre 2016)


Il mese prossimo, mia suocera compie 80 anni e mia cognata 60. Il che significa due grandi festeggiamenti per la mia famiglia californiana, ed io non posso assentarmi. Di solito mi piace andare a trovarli, ma questa volta la prospettiva mi fa venire il mal di pancia.
Non che la famiglia di mio marito mi sia antipatica, al contrario: mi piacciono tutti. Sono gentili, disponibili, allegri, organizzano feste magnifiche, e se un giorno mi trovassi nei guai, sono certa che mi aiuterebbero. Il che naturalmente vale anche per me.
Il problema è che vogliono votare Trump. Tutti. (Fuorché mio marito, altrimenti non me lo sarei sposato.)
I miei amici tedeschi spesso mi chiedono, sconcertati: ma ci puoi spiegare perché quel tanghero presuntuoso con la parrucca color arancione è così benvoluto da avere la possibilità di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti?
Sì. Posso. Devo solo parlare con la mia famiglia.

Di norma evito discussioni di questo tipo. Ci siamo abituati a circumnavigare tutti i temi a sfondo politico, altrimenti i nostri simpatici incontri familiari in quattro e quattr’otto si trasformerebbero in una lotta senza esclusione di colpi.
Il problema comincia già con la convinzione della mia famiglia americana che io, come tedesca, verrei da un paese ‘socialista’, cioè dove la gente è pagata per non fare nulla. Non lo sapevate? Neppure io. Ma la famiglia di mio marito lo sa da fonti credibilissime, cioè da trasmissioni conservative alla radio e in televisione che seguono ogni giorno e dove l’intera Europa è diffamata come ‘socialista’.
‘Socialista’ significa per loro, ad esempio, che in Germania c’è l’assistenza sanitaria per tutti. Quando mi metto ad argomentare che è utile e necessario che ogni cittadino sia assicurato riguardo alla sua salute, che questo sistema è più economico dell’antiquato sistema americano di pronto soccorso per i poveri, e che secondo me è tragico che insieme al suo posto di lavoro un americano perda anche la sua assicurazione sanitaria e che di conseguenza chi è disoccupato e ammalato scivola direttamente nella povertà, arriva prontamente la risposta: “Lo Stato non ha da immischiarsene.”
La politica m’interessa molto e di norma non svio nessuna discussione intelligente. Ma dopo cinque minuti di discussioni politiche con la famiglia di mio marito mi viene da boccheggiare come a Trump durante i suoi discorsi.

I cani giocano intorno alla piscina, gli adulti bevono Craft Beer ubriacandosi lentamente, il tutto coronato dalla musica di Bruce Springsteen che si diffonde attraverso l’impianto stereo. Si potrebbe stare così bene.
E tutto a un tratto sento una frase come: “Se solo Obama permettesse i trafori nell’Artide, tutti i problemi energetici sarebbero risolti.”
E ora, da dove incomincio? Spiegando i principi fondamentali dei combustibili fossili? O con il cambiamento climatico? O con il fatto che benzina e corrente già costano molto meno negli Stati Unici che non in Germania, se permettete fin troppo poco? O accennando al fatto che in California c’è tanto di quel sole che basterebbe per illuminare metà del paese, se solo gli americani abbandonassero il loro irrazionale amore per impianti di aria condizionata che vibrano ogni giorno all’infinito, e furgoni di dimensioni mostruose?
Mentre discutiamo, ci troviamo nella loro enorme casa (sei stanze da letto per due adulti), dove naturalmente l’aria condizionata non è mai spenta e in garage si trova un furgone sproporzionato. Due adulti si dividono tre macchine, e per questo bisogna che Obama ordini il rifornimento di petrolio dall’Artide.

Quello che mi fa diventare matta è che i miei suoceri non sono per nulla stupidi. Ma a Trump credono qualunque cosa dica. Nell’anno 2008 eravamo già in una discreta crisi familiare perché la cialtrona dell’Alaska, Sarah Palin, si era candidata come vice, e accanto all’albero di Natale padre e figlio stavano litigando perché ognuno voleva leggere per primo la biografia di Palin che si trovava in mezzo agli altri regali. Allora ci trovavo ancora da ridere, perché sapevo che quella svitata non avrebbe mai governato gli Stati Uniti. Ma nel frattempo Donald Trump è riuscito ad arrivare a un passo dalla Casa Bianca a suon di beghe e affronti, e a me è passata la voglia di ridere.
Tramite facebook divido con i miei suoceri i video in cui Trump si fa beffe di handicappati e veterani di guerra, chiama troie le donne e dimostra ogni giorno di nuovo che non capisce nulla del mondo. Invio estratti dai processi contro di lui in cui le sue vittime raccontano ancora e ancora come li ha derubati, come ha fatto costruire edifici costosissimi e pacchiani e dopo si è rifiutato di pagare artigiani e architetti. Loro mi rispondono con frasi volgari a tema di Monica Lewinsky e con foto raffiguranti “Killary”, dove la candidata dei democrati rende l’impressione di avere urgente bisogno di assistenza medica. I metodi di Trump, appunto.

Insomma, perché simpatizzano con Trump?
Innanzi tutto perché lo conoscono. In televisione è stato lo star del reality show “The Apprentice”; inoltre circa dieci anni fa avevano partecipato a un seminario tenuto da lui riguardo agli immobili, dove li aveva molto impressionati con il suo modo di parlare. La foto che li raffigura insieme si trova in salotto davanti alla parete-armadio di mogano.
Secondariamente, l’uomo ha successo. Tutto ciò che tocca diventa oro, dicono. Ah, se solo si potessero governare gli Stati Uniti come un impero immobiliare! Quando mi oppongo dicendo che si lasciano abbagliare da uno che non ha veramente successo ma ha fatto bancarotta quattro volte e si è arricchito a spese degli altri, piantando in asso i suoi soci come nel caso degli Atlantic Casino, mi rispondono che queste sono menzogne diffuse dal giornalismo “lamestream”. Cioè io. Il giornalismo, per loro sono io.
In terzo luogo, lo capiscono. “E’ l’unico uomo politico di cui comprendo le parole,” dice mia suocera, che ha votato il partito democratico per 60 anni. “Dobbiamo fare qualcosa, non si può andare avanti così.”
Scusate, cos’è che non può continuare così? Stanno male, forse? No, affatto. Abitano in una casa sovradimensionata con tanto di piscina e sauna, e inoltre la suocera possiede una casa prefabbricata nell’abitato per gli anziani. Sono benestanti, ogni anno un po’ di più. Ma ad ascoltarli nasce l’impressione che i terroristi si trovino alle porte degli Stati Uniti e che solo il muro che esiste nella fantasia di Trump possa impedire a tutti i pazzi del pianeta da investire il paese. Hanno una paura irrazionale che quello che possiedono gli possa essere portato via.
Da chi, domando.
Da quelli.
Quelli chi?
Be’, i messicani, gli asiatici, gli infedeli.
Forse che ne conoscono qualcuno?
Personalmente, no. A parte Pablo, un messicano che a volte viene a falciare l’erba. E allora mi raccontano le storie sentite dalle loro trasmittenti che vivono di campagne denigratorie.
Del muro che Trump ha fermamente promesso di costruire tra il Messico e gli Stati Uniti riescono a parlare per ore. Anch’io, argomentando che è un’idea assurda perché 1. la maggior parte degli immigranti non arriva via terra, 2. un muro si può scavalcare o scavare una galleria sotto di esso, 3. sarebbe un’opera impossibile da finanziare, e 4. non è umanamente fattibile salvaguardare un pezzo di terreno tanto lungo.

Quando non sanno più cosa dire, arriva l’argomento chiave: Killary. “Lo sai,” dice per esempio mia cognata, trionfante, “che quella è in combutta con l’Arabia Saudita, dove i diritti delle donne sono trattati a calci? E proprio tu, che ti dai tanto da fare per i diritti delle donne, sei dalla parte di quella!”
Santo cielo, se devo sorbirmi ancora una volta che Obama e Clinton sono responsabili per tutte le cose brutte di questa Terra (a cominciare dalla guerra dell’Irak per arrivare all’ISIS, anche se entrambi notoriamente ebbero i loro inizi durante il governo di George W. Bush) e che Trump “dice semplicemente le cose come stanno”, mi butto in mare e tento di tornare a casa a nuoto.



Traduzione: settembre 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



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Edited by Delari - 15/9/2016, 18:48
 
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Dato che oggi è arrivata la pioggia, ho pensato che fosse il momento adatto per mettere online questa favola...

Mi spiace per il versetto, non sono capace di comporre rime.


La Geltrude della pioggia - parte 1
Favola nordica

Ambientazione: Germania del Nord (Schleswig-Holstein)
Anno: circa 1810


Un’estate così torrida non si ricordava a memoria d’uomo. Quasi non si vedeva più una chiazza di verde; animali sia domestici sia selvaggi si trovavano distesi nei campi, morti di sete.
La nostra storia ha inizio una mattina. Le strade del villaggio erano abbandonate; chiunque poteva si era rifugiato all’interno delle case; perfino i cani si erano rintanati. Solo il grasso contadino cui appartenevano i grandi campi di erba stava in piedi, con fare altero, all’ingresso della sua grande casa e fumava una grossa pipa in schiuma di mare mentre il sudore gli scendeva dalla fronte. Stava guardando, ridacchiando tra sé e sé, i suoi garzoni che facevano entrare in cortile un gran carro dove si accatastava il fieno.
Anni fa aveva acquisito una gran distesa di prato acquitrinoso a basso prezzo, e gli ultimi anni, che erano stati molto siccitosi, avevano fatto rinsecchire le messe dei suoi vicini ma riempito il suo fienile di profumato foraggio per il bestiame, e il suo cofano di scintillanti monete.
Anche ora stava facendo i suoi calcoli riguardo ai guadagni che i prezzi, che continuavano a salire, gli avrebbero portato una volta sottratti gli eccessi del suo raccolto.
“Gli altri non guadagneranno nulla,” mormorò facendosi ombra sugli occhi con una mano e osservando le masserie dei vicini fino all’orizzonte che sfavillava in lontananza; “non c’è più pioggia a questo mondo.”
Quindi si avvicinò al carro che stava per essere scaricato; ne tolse un po’ di fieno, la portò al suo grosso naso e sorrise, come se dal solo profumo potesse ricavare qualche soldo in più.
In quel momento una donna di una cinquantina d’anni fece capolino dal portone all’entrata del cortile. Aveva l’aspetto pallido e sofferente, e l’espressione desolata del suo viso era accentuata dallo scialle di seta nera che portava intorno alle spalle.
“Buon giorno, vicino,” disse, porgendo la mano al ricco contadino, “che arsura che c’è oggi! Sembra che perfino i capelli brucino in testa.”
“Lasci che brucino, madre Stine, lasci che brucino,” egli rispose, “dovete solo guardare il fieno contenuto in quel carro! Per quanto mi riguarda, non può mai fare troppo caldo.”
“Eh, vicino, ridete pure - voi che vivete del commercio con il fieno! Ma cosa ne sarà di noialtri, se continua così!”
Il contadino premette con il pollice la cenere che si trovava nel fornello della sua pipa, quindi sbuffò alcune grosse nuvole di fumo.
“Vedete,” disse,” è questo che capita a volerla sapere troppo lunga. Gliel’avevo detto al vostro defunto marito, ma lui non mi dava ascolto. Cosa lo ha spinto a vendere tutti i suoi terreni sui bassipiani? Adesso siete ben sistemati con i campi sugli altipiani, dove le vostre semine rinsecchiscono e il vostro bestiame crepa di sete.”
La donna sospirò.
L’omaccione si fece più accondiscendente. “Però, madre Stine,” egli disse, “sono sicuro che non siate venuta qua senza motivo; allora, ditemi di che si tratta.”
La vedova rivolse lo sguardo al suolo. “Sapete bene,” disse, “che avevamo accordato che i cinquanta denari che mi avete prestato ve li avrei restituiti fino a San Giovanni; e quella data è molto vicina ormai.”
Il contadino le posò sulla spalla la mano polposa. “Non vi preoccupate, brava donna! Non ho gran bisogno di quel denaro; non vivo alla giornata, io. Potete darmi in pegno i vostri terreni. Non sono tra i migliori, ma per questa volta basteranno. Sabato possiamo andare insieme in tribunale e mettere tutto per iscritto.”
La donna desolata respirò, sentendosi un po’ sollevata. “Questo significa nuove spese,” disse, “ma comunque vi ringrazio.”
Il contadino non aveva cessato di guardarla con i suoi occhi piccoli e furbi. “E giacché siamo qui,” continuò, “e parliamo insieme, ho un’altra cosa da dirvi: ho notato che vostro figlio, Andrees, gironzola intorno a mia figlia.”
“Ma vicino, cosa ci vuole fare? I ragazzi sono cresciuti insieme!”
“Sarà; ma se il ragazzo s’illude di potersi installare qui e godersi i beni altrui tramite un matrimonio d’interesse, ha fatto i conti senza l’oste.”
La figura delicata della donna si raddrizzò un poco, mentre rispondeva allo sguardo dell’uomo quasi con ira: “Cos’è che avete da dire contro il mio Andrees?” chiese.
“Contro il vostro Andrees, madre Stine? Assolutamente nulla. Ma,” dicendo così accarezzò i bottoni d’argento che ornavano il suo panciotto rosso, “mia figlia è mia figlia, e la figlia di un contadino ricco può trovare di meglio.”
“Non sfidate troppo il destino, vicino,” disse la donna con voce mite. “Prima che venissero questi anni torridi…”
“Ma sono venuti e ci sono ancora, e anche quest’anno non avete nessuna prospettiva di immagazzinare alcun raccolto. E i vostri affari continuano ad andare a ritroso.”
La donna aveva cominciato a riflettere profondamente; le ultime parole sembrava non averle più sentite. “Sì,” disse infine, “purtroppo pare che abbiate ragione - la Geltrude della pioggia si deve essere addormentata. Ma c’è il modo di svegliarla.”
“La Geltrude della pioggia?” ripeté il contadino. “Credete anche voi a queste chiacchiere?”
“Non sono chiacchiere, vicino!” rispose la donna con fare misterioso. “La mia bisavola, quando era giovane, l’ha svegliata una volta. Ricordava anche il versetto che bisogna recitare per farlo e me lo ripeteva spesso; ma da allora me lo sono scordato.”
L’uomo grasso si mise a ridere finché i bottoni non gli ballarono sulla pancia. “Be’, madre Stine, allora vedete di ricordarvelo, quel versetto! Io intanto guardo il mio barometro, che da otto settimane segna tempo bello costante.”
“Il barometro è solo un oggetto, vicino, non è lui a fare il tempo!”
“E la vostra Geltrude della pioggia è solo un fantasma, una storia da baraccone, un bel niente!”
“Insomma, vicino,” disse la donna, titubante, “voi siete uno di quelli dalle convinzioni moderne, che credono solo a ciò che vedono con i loro occhi.”
L’uomo si prese ancora più la briga. “Convinzioni moderne o antiquate,” esclamò, "andate pure a cercare la vostra donna della pioggia e recitatele il vostro versetto, se riuscite a farvelo tornare in mente! E se riuscite a far piovere nel giro delle prossime ventiquattr’ore, allora…” Si fermò e sbuffò alcune dense nubi di fumo.
“Allora cosa, vicino?” chiese la donna.
“Allora… Be’, per tutti i diavoli, che vostro figlio chieda pure in sposa la mia Maren!”
In quel momento si aprì la porta del salotto e li raggiunse un’avvenente ragazza, con una figuretta snella e gli occhi castani da cerbiatta.
“Accetto la scommessa, papà,” esclamò, “è valida!” Quindi si rivolse a un uomo anziano che stava entrando in casa dalla parte della strada: “L’avete sentito anche voi, cugino Schulze!”
“Suvvia, Maren,” disse il contadino, “non è necessario che tu cerchi dei testimoni contro tuo padre; hai la mia parola, e da quella non mi allontanerò di un palmo.”
Il cugino Schulze intanto guardò la giornata assolata per un po’, appoggiandosi sul suo lungo bastone. Forse i suoi occhi, più aguzzi, avevano visto nella profondità del cielo infuocato un puntino bianco, o forse desiderava solo che ci fosse e per questo ci credeva; comunque ebbe un sorrisetto ambiguo e disse:
“A buon rendere, cugino; in ogni caso, Andrees è un ragazzo in gamba.”

Poco dopo, mentre il contadino e il cugino Schulze si trovavano in salotto a sistemare i conti, dall’altra parte della strada del paese Maren entrò con madre Stine nel piccolo soggiorno della casa di questa.
“Ma, bambina mia,” disse la vedova mentre toglieva dall’angolo il suo arcolaio, “lo conosci il versetto che si recita alla donna della pioggia?”
“Io?” domandò la ragazza, gettando indietro il capo con fare sorpreso.
“Mi sembrava di sì, perché sei stata così baldanzosa davanti a tuo padre.”
“Ma no, madre Stine, l’ho fatto perché sentivo di doverlo fare, e perché pensavo che il versetto vi sarebbe tornato in mente. Frugate un po’ nella vostra memoria, deve pur trovarsi da qualche parte!”
Madre Stine scosse la testa. “La bisavola mi è morta presto. Mi ricordo bene che anche allora, quando c’era una gran siccità come adesso e ci colpiva la sciagura con la semina e il bestiame, lei mi diceva segretamente: ‘Questo è un dispetto dell’Ometto di Fuoco; lo fa perché una volta sono stata io a svegliare la donna della pioggia.’”
“L’Ometto di Fuoco?” chiese la ragazza, “e questo ora chi sarebbe?”
Ma prima che potesse ottenere risposta saltò su con gli occhi fissi sulla finestra ed esclamò: “Santo cielo, madre, è Andrees che torna a casa! E che brutta cera ha!”
La vedova si alzò dall’arcolaio. “Certo, bambina,” disse, abbacchiata, “non vedi cosa porta in spalle? Un’altra delle nostre pecore è crepata di sete.”
Poco dopo il giovane massaio entrò nel soggiorno e posò la bestia morta sul pavimento ai piedi delle due donne. “Guardate un po’ qua!” disse rabbuiato e si asciugò il sudore dalla fronte con una mano.
Le donne avevano più occhi per lui che per la creatura morta. “Non addolorarti tanto, Andrees!” disse Maren. “Vedrai che tutto tornerà a posto: vogliamo svegliare la donna della pioggia.”
“La donna della pioggia!” egli ripeté con voce spenta. “Sì, Maren, se qualcheduno potesse svegliarla! - Ma non è solo per quello che sono accasciato; là fuori mi è capitato qualcosa di strano.”
La madre gli strinse affettuosamente la mano. “Allora parlane, figlio mio,” lo esortò, “prima che ti faccia stare male.”
“Allora sentitemi!” egli rispose. “Volevo dare un’occhiata alle nostre pecore e vedere se l’acqua che avevo portato su per loro ieri sera era già evaporata. Ma quando sono arrivato al pascolo ho visto subito che c’era qualcosa di strano: il mastello per l’acqua era stato rimosso, e anche le pecore non si vedevano da nessuna parte. Per cercarle sono sceso dal ciglio dei campi fino alla Gran Collina. E quando sono arrivato dall’altra parte le ho viste tutte distese in terra, ansando, con i colli allungati; questa povera creatura qui era già crepata. Il mastello si trovava lì vicino, rovesciato. Non potevano essere state le bestie a farlo; ho capito subito che era stata opera di qualche malintenzionato.”
“Ragazzo, ragazzo,” lo interruppe la madre, “chi dovrebbe voler danneggiare una povera vedova?”
“Ascoltatemi, madre, c’è dell’altro. Sono salito sulla collina e ho scrutato la pianura in tutte le direzioni; ma non si vedeva nessuno, solo l’aria ardente che aleggiava silenziosa sui campi, come tutti i giorni. E vicino a me, su una delle grosse pietre all’ingresso della galleria che scende dalla collina, una grossa lucertola si godeva i raggi di sole.
Mentre guardavo fisso davanti a me, tra il perplesso e l’arrabbiato, a un tratto sentii dietro di me, dall’altra parte della collina, un borbottio come di una persona che parla alacremente con se stessa; e come mi volto, cosa vedo? Un ometto cartilaginoso vestito di rosso, con un berretto rosso a punta sulla testa, che sbuffava camminando su e giù per i campi di erica. Mi spaventai - da dove poteva essere spuntato così a un tratto? E aveva un aspetto tanto brutto e deformato. Aveva grandi mani rossicce che teneva incrociate dietro alla schiena, e le dita storte si muovevano all’aria come le zampe di un ragno.
Mi nascosi dietro al cespuglio di spine che cresce sulla collina accanto alle pietre, perché da lì potevo guardarlo senza essere visto. Quella brutta figura camminava ancora tra l’erica; si chinò e strappò qualche filo di erba secca, e mi sembrò che dovesse finire in terra con quella testaccia che sembrava una zucca. Invece si risollevò sulle sue gambine, e mentre sfregava l’erba tra le sue grosse mani fino a polverizzarla si mise a ridere in modo tanto raccapricciante che dall’altra parte della collina le pecore, che pure erano mezze morte, si levarono e corsero giù dal ciglio dei campi in una pazza fuga.
A questo l’ometto rise ancora di più e quindi si mise a saltellare da una gambina sull’altra, ed io pensai che avrebbero dovuto rompersi sotto a quel corpo grosso e deforme. Era terribile da vedere, e peggio ancora era lo scintillio cattivo che veniva dai suoi occhietti neri.”
La vedova aveva preso la mano della ragazza.
“Adesso lo sai chi è l’Ometto di Fuoco?” disse. Maren annuì.
“Ma la cosa più orrenda di tutte,” proseguì Andrees, “era la voce. ‘Se sapessero, se lo sapessero, i villani, i bifolchi!’ berciava. E poi con una voce cigolante e gracidante si mise a ripetere uno strano versetto, sempre lo stesso, dall’inizio alla fine, come se non potesse mai averne abbastanza. Aspettate, che forse me lo ricordo.”
E dopo pochi attimi ripeté:

“Evaporata è l’onda,
Divenuta polvere è la sorgente!”

La madre tutt’a un tratto tolse le mani dall’arcolaio, che aveva fatto girare mentre suo figlio raccontava la sua strana avventura, e cominciò a guardarlo intensamente. Ma lui taceva e cercava di ricordarsi.
“Continua!” ella disse a voce bassa.
“Non me lo ricordo, madre; il versetto mi ha piantato in asso. E dire che l’ho ripetuto ancora e ancora tra me e me, mentre tornavo a casa.”
Allora con voce un po’ insicura madre Stine continuò ella stessa:

“Silenziosi sono i boschi,
L’Ometto di Fuoco danza sui campi!”

Rapidamente, il figlio aggiunse:

“Fai attenzione!
Se non ti svegli,
Una notte verrà Madre Terra
A riportarti a casa.”

“E’ il versetto di Geltrude della pioggia!” esclamò madre Stine. “Presto, ripetilo un’altra volta! Maren, stai bene attenta affinché non lo dimentichiamo nuovamente.”
E questa volta madre e figlio dissero insieme, simultaneamente e senza interrompersi:

“Evaporata è l’onda,
Divenuta polvere è la sorgente!
Silenziosi sono i boschi,
L’Ometto di Fuoco danza sui campi!
Fai attenzione!
Se non ti svegli,
Una notte verrà Madre Terra
A riportarti a casa.”

“Adesso tutta la miseria avrà fine!” esclamò Maren. “Ora possiamo svegliare Geltrude della pioggia; domani i campi torneranno a essere verdi, e dopodomani potremo sposarci!” E con frasi che si accavallavano e gli occhi lucenti, la ragazza spiegò al suo innamorato la promessa che era riuscita a strappare al padre.
“Calma, bambina,” disse ora la vedova, “ma tu la sai la via per andare da Geltrude della pioggia?”
“No, madre Stine; non ricordate neppure la strada?”
“No, Maren, non sono stata io ad andare a trovarla ma la mia bisavola. E lei la strada giusta non me l’ha mai insegnata.”
“Andrees,” disse Maren afferrando il braccio del giovane contadino che aveva ascoltato con la fronte corrugata, “tu cosa ne dici? Di solito hai sempre qualche buona idea!”
“Forse ne ho una anche questa volta!” egli rispose guardingo. “Oggi a mezzogiorno devo portare ancora acqua da bere alle pecore. Chissà se non mi riesca ad ascoltare ancora una volta l’Ometto di Fuoco da dietro al cespuglio di rovi! Se conosce il versetto probabilmente sa anche la strada; quella grossa testa sembra essere piena di questo tipo di sapienza.”
Così fu presa la decisione; i tre ne discussero ancora per un po’, ma non riuscivano a trovarne una migliore.


~ continua ~


Traduzione: settembre 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 27/9/2016, 23:14

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La Geltrude della pioggia - parte 2
Favola nordica


Quel pomeriggio, Andrees si recò al pascolo trasportando due secchi colmi di acqua fresca. Quando si avvicinò alla Gran Collina vide già il folletto: era seduto su una delle pietre. Si stava pettinando la barba con le dita di una mano; tutte le volte che toglieva la mano dalla barba un mucchietto di fiocchi bianchi si staccava e fluttuava sopra i campi nell’aria sotto al sole accecante.
‘Sono arrivato troppo tardi,’ rifletté Andrees, ‘oggi non saprò più nulla.’ Quindi si accinse a girare intorno alla collina, come se non avesse visto l’ometto, per raggiungere il mastello rovesciato. In quel momento, la creatura lo chiamò.
“Credevo che tu avessi da parlarmi,” sentì la voce stridente del folletto dietro di sé.
Andrees si voltò e tornò indietro di qualche passo. “Cosa dovrei avere da parlare con voi?” chiese. “Io neppure vi conosco.”
“Però, tu vorresti sapere la strada per andare dalla Geltrude della pioggia?”
“E a voi, chi lo ha detto?”
“Il mio mignolo sinistro, che è molto più furbo di certi giovanotti grandi e grossi.”
Andrees si fece coraggio e si avvicinò di qualche passo alla brutta creatura seduta in cima alla collina.
“Il vostro mignolo sinistro sarà anche furbo, ma la strada per raggiungere la donna della pioggia non la sa neppure lui; quella non la conoscono neppure gli uomini più saggi.”
Il folletto si gonfiò come un rospo e passò ancora un paio di volte la sua mano attraverso alla barba infuocata; Andrees si sentiva come respinto dall’arsura che la creatura emanava. Ma improvvisamente, fissando il giovane contadino dai suoi occhietti cattivi con aria di scherno e di superiorità, cigolò: “Sei un sempliciotto, Andrees. Anche se ora io ti dicessi che Geltrude della pioggia abita dietro alla grande foresta, tu non sapresti che dietro di essa si trova un salice cavo.”
‘E’ meglio che gli faccia credere di essere stupido,’ pensò Andrees; di norma era un ragazzo onesto, ma per questo non gli mancava la furberia tipica delle persone genuine.
“Avete ragione,” disse spalancando la bocca, “questo naturalmente non lo saprei.”
“E poi,” continuò il folletto, “anche se io ti dicessi di questo grande salice cavo, tu non sapresti che dentro di esso si trova una scaletta che porta al giardino della donna della pioggia.”
“Come ci si può sbagliare!” esclamò Andrees. “Pensavo che nella casa di Geltrude della pioggia si potesse semplicemente entrare dalla porta.”
“E anche se tu scendessi da quella scala,” disse il folletto, “non sapresti che Geltrude della pioggia può essere svegliata solo da una fanciulla che è ancora vergine.”
“Vero,” rispose Andrees, “quindi tutto questo non mi serve a nulla. Meglio che me ne torni a casa mia.”
A questo la bocca larga del folletto si contrasse in un sorriso malizioso.
“Non vuoi versare acqua nel tuo mastello?” domandò. “Le tue belle pecore sono quasi morte di sete.”
“E nuovamente avete ragione!” rispose il giovane e fece il giro intorno alla collina con i suoi secchi. Ma quando versò l’acqua nel mastello rovente, questa si levò con un sibilo ed evaporò nell’aria sotto forma di una nube di vapore caldo.
‘Sta bene!’ pensò. ‘Adesso le pecore le porto a casa, e domani il più presto possibile accompagno Maren da Geltrude della pioggia. Lei sì che la risveglierà!”
Intanto dall’altra parte della collina il folletto era balzato in piedi dalla sua pietra. Gettò in aria il suo berretto rosso e si fece rotolare giù dalla collina ridendo come un ossesso. Quindi saltò nuovamente in piedi sulle sue gambine sottili, fece una folle danza tra i campi e gridò ancora e ancora con la sua voce stridente:
“Quel sempliciotto, quel bifolco pensava davvero di potermela fare! Non lo sa che per svegliare Gertrude bisogna recitarle il versetto giusto! E il versetto giusto lo conosce solo Eckeneckepenn, ed Eckeneckepenn, quello sono io!”
Il maligno folletto non sapeva che aveva rivelato il versetto lui stesso, quella mattina.

I girasoli che si trovavano nel giardino davanti alla finestra della camera di Maren erano appena stati raggiunti dal primo raggio di sole, quando la ragazza aprì la finestra e fece capolino per respirare l’aria fresca. Suo padre, che dormiva nell’alcova del salone vicino, doveva essersi svegliato al rumore; il suo russare, che poco prima aveva attraversato tutti i muri, si era interrotto.
“Che fai, Maren?” domandò con voce assonnata. “C’è qualcosa che non va?”
La ragazza si passò un dito sopra alle labbra; sapeva bene che il padre non le avrebbe permesso di lasciare la casa, se avesse conosciuto le sue intenzioni. Ma si ricompose in fretta.
“Non riuscivo a dormire, padre,” esclamò, “voglio andare nei campi insieme con gli altri; stamattina c’è un’aria bella fresca.”
“Non è tuo dovere, Maren,” rispose il contadino, “mia figlia non è una domestica.” Dopo un attimo aggiunse: “Fa’ pure, se ti diverte! Ma torna a casa prima che venga il caldo. E non dimenticare di prepararmi la birra calda!”
Con queste parole si girò dall’altro lato facendo scricchiolare il letto, e subito dopo la ragazza sentì nuovamente il consueto russare.
Pian piano ella aprì la porta della sua camera. Quando uscì dal portone del cortile, sentì la voce del garzone di suo padre che stava svegliando le fantesche.
‘Non è bello dire le bugie’ pensò sospirando un po’, ‘ma cosa non si fa per il suo amore!’
Dall’altra parte della strada la aspettava già Andrees, vestito con i suoi abiti della domenica.
“Lo ricordi il versetto?” le chiese.
“Sì, Andrees! E tu ti ricordi la strada?”
Il giovane annuì.
“Andiamo, allora.”
In quel momento uscì dalla casa madre Stine e infilò nella tasca del figlio una bottiglietta che conteneva un idromele. “Mi è rimasto questo della bisavola,” disse, “ne parlava come di una cosa molto segreta e preziosa. Vi farà bene con questo caldo.”
Cosicché, alla prima luce del mattino, i due si allontanarono seguendo la silenziosa strada del villaggio, mentre la vedova rimase intenta a seguire con lo sguardo la direzione in cui erano scomparse le loro due figure giovani e forti.
L’itinerario dei giovani li condusse al di fuori dal villaggio e attraverso una vasta brughiera. Arrivati al bosco, videro che le foglie degli alberi erano per la più parte rinsecchite e cadute in terra, sicché il sole filtrava da tutte le parti; i due si sentivano quasi abbagliati dalle mutevoli luci.
Dopo avere percorso un lungo tragitto tra gli alti tronchi di querce e faggi, la ragazza prese la mano del giovane.
“Cos’hai, Maren?”
“Mi sembra di avere sentito battere l’orologio del villaggio, Andrees.”
“Sì, credo di averlo sentito anch’io.”
“Devono essere le sei!” ella disse. “Chi preparerà la colazione a mio padre? Le fantesche sono tutte andata a lavorare nei campi.”
“Può darsi, Maren; ma non possiamo farci nulla.”
“No,” ella disse, “ormai non possiamo tirarci indietro. Ma tu te lo ricordi il nostro versetto?”
“Certamente, Maren!

“Evaporata è l’onda,
Divenuta polvere è la sorgente!”

E quando il giovane tentennò un attimo, lei aggiunse in fretta:

“Silenziosi sono i boschi,
L’Ometto di Fuoco danza nei campi!
Fai attenzione!
Se non ti svegli,
Una notte verrà Madre Terra
A riportarti a casa.

Oh,” disse la ragazza, “come brucia il sole!”
“Sì,” disse Andrees sfregandosi la fronte, “temevo anch’io di prendermi l’insolazione.”
Al che uscirono dal bosco; e lì a qualche passo da loro si trovava davvero un vecchio salice. L’imponente tronco era completamente cavo, e all’interno si intravedeva un buio che sembrava condurre all’abisso della terra.
Andrees scese da solo per primo, mentre Maren si sedette sull’orlo della cavità e tentò di seguirlo con lo sguardo. Dopo breve tempo non riuscì più a vederlo e sentiva solo il rumore dei suoi passi che si allontanava.
Cominciò a prendere paura: era completamente sola, e anche da sottoterra alla fine non sentì più nulla. Infilò il capo nella cavità e chiamò: “Andrees - Andrees!” Ma tutto rimase silenzioso, ed ella chiamò un’altra volta: “Andrees!”
Finalmente, dopo un altro po’ di tempo le sembrò di sentire nuovamente dei passi che si avvicinavano, e finalmente riconobbe la voce del giovane che la chiamò per nome, e infine poté prendere la mano che lui le porgeva.
“C’è una scaletta che scende,” disse lui,” ma è stretta e malferma, e non so fino a dove arriva.”
Maren ebbe un moto di spavento.
“Non avere paura,” disse lui, “ti porterò io; ho il passo fermo.” Quindi sollevò la snella ragazza sulle sue larghe spalle, e dopo che lei ebbe stretto le braccia intorno al suo collo, cominciò a scendere lentamente con lei nel baratro.

Intorno a loro si trovava il buio più completo; Maren si sentì meglio lo stesso, mentre veniva portata gradino per gradino giù per una tortuosa scala a chiocciola, perché qui all’interno della terra almeno non sentiva più il caldo. Dall’alto non arrivava neppure il suono più remoto; solo una volta sentirono, da lontano, il cupo rombo di acqua sotterranea che cercava invano di farsi un varco all’aperto.
“Cos’è stato?” sussurrò la ragazza.
“Non lo so, Maren.”
“Ma non siamo ancora arrivati in fondo?”
“Sembra di no.”
“Speriamo che il folletto non ti abbia preso in giro!”
“Non credo, Maren.”
Così, i due scesero ancora e ancora in fondo. Alla fine videro nuovamente un bagliore di luce venire da sotto, che diventava più chiaro a ogni passo; allo stesso tempo sentirono anche salire verso di loro un calore soffocante.
Quando spuntarono all’aperto dopo l’ultimo gradino, scoprirono intorno a loro un paesaggio completamente sconosciuto. Maren si guardò intorno sconcertata.
“Il sole sembra comunque essere lo stesso,” disse infine.
“In ogni caso non fa meno caldo,” disse Andrees e la posò con i piedi per terra.
Si trovavano su un largo argine in pietra da cui si snodava una larga via affiancata da salici, di cui non si riusciva a vedere la fine. I due non ci pensarono due volte e si misero a camminare tra gli alberi come se conoscessero la strada.
Guardando da uno o l’altro lato vedevano un bassopiano brullo e sconfinato, attraversato da tante fosse e incavature secche che sembrava consistere solo di un groviglio infinito di alvei abbandonati. Questo pareva confermarsi ulteriormente da un effluvio opprimente nell’aria, che ricordava quello di un canneto prosciugato.
I salici crescevano in fila, e tra le loro ombre si trovava una tale arsura che i due camminatori a volte credevano di vedere piccole fiammelle bianche svolazzare sulla strada impolverata. Ad Andrees vennero in mente i fiocchetti bianchi che erano fuoriusciti dalla barba infuocata del folletto. Una volta gli sembrò di vedere due occhiacci scuri fissarli dalla luce del sole cocente. Un’altra volta credette di sentire chiaramente vicino a sé la folle danza delle gambine sottili, prima a sinistra, poi a destra; ma quando si girò non vide nulla, solo l’aria caldissima che tremava, accecante e scintillante, davanti ai suoi occhi.
‘Già,’ pensò prendendo la mano della ragazza, mentre i due continuavano la strada a fatica, ‘fai di tutto per ostacolarci; ma questa volta non la passerai liscia.’
I due continuarono ancora e ancora per la loro strada, ciascuno sentendo solo il respiro ansante dell’altro vicino a lui. La strada scorreva davanti a loro, sempre la stessa, e sembrava non avere fine; ai loro fianchi si trovavano sempre, interminabili, i salici grigiastri e mezzi spogliati delle loro foglie, mentre ai lati si vedeva la bassura sinistra, sovrastata solo da umidi vapori.
Improvvisamente, Maren si fermò e si appoggiò al tronco di un salice con gli occhi chiusi. “Non ce la faccio più,” mormorò, “l’aria è infuocata.”
In quel momento ad Andrees tornò in mente la bottiglietta di idromele, che finora non avevano toccato. Quando la stappò, subito si spanse un profumo come se fossero rifiorite le migliaia di fiori dal nettare dei quali, chissà quanti anni prima, le api avevano prodotto il miele su cui basava la bevanda. Non appena le labbra della ragazza ebbero toccato l’orlo della bottiglia, ella aprì gli occhi.
“Oh,” esclamò, “abbiamo raggiunto un prato fiorito?”
“No, Maren; ma bevi pure, ti farà bene!”
Dopo avere bevuto la ragazza si raddrizzò e si guardò intorno con occhi svegli. “Bevi anche tu, Andrees; la fatica più grande l’hai fatta tu.”
“Però, questo sì che è un vino!” disse Andrees, dopo avere assaggiato. “Lo sa il cielo da cosa lo ha fabbricato la bisavola!”
Così rinforzati e incoraggiati, i due continuarono a camminare chiacchierando allegramente. Ma dopo un po’, la ragazza si fermò nuovamente.
“Cos’hai, Maren?” domandò Andrees.
“Nulla; solo che pensavo…”
“A cosa, Maren?”
“Vedi, Andrees… mio padre ha ancora metà del suo fieno fuori sui campi; e ora io vado e voglio far piovere…”
“Tuo padre è un uomo molto ricco, Maren; ma noialtri abbiamo già messo via il nostro po’ di fieno, e i frutti dei nostri campi si trovano ancora sulle piante e rinsecchiscono.”
“Sì, Andrees, hai ragione - bisogna pensare anche agli altri!” Ma tra sé e sé, dopo un po’ Maren pensò: ‘Non illuderti, Maren, tu stai facendo tutto questo solo per il ragazzo che ami!’
Così continuarono ancora per un po’, finché a un tratto la ragazza esclamò:
“Cosa c’è la in fondo? Santo cielo, sembra un enorme giardino!”
E infatti, senza neppure sapere come, avevano oltrepassato la lunghissima via dei salici per arrivare in un grande parco. Dal prato ora rinsecchito si alzavano ovunque gruppi di alti e magnifici alberi. Le foglie erano in parte cadute o si trovavano, secche e flaccide, sui rami, ma i rami si allungavano ancora arditamente verso il cielo, e le possenti radici sprofondavano massicce nel terreno. Una profusione di fiori come i due non ne avevano mai visti copriva il suolo qua e là; ma i fiori erano tutti vizzi e ammosciati e sembravano essere stati colpiti dal calore letale mentre si trovavano in piena fioritura.
“Questo è il posto giusto, direi!” disse Andrees.
Maren annuì. “Allora rimani qui e aspettami.”
“Certo,” disse lui, allungandosi all’ombra di una grande quercia. “Adesso tocca a te. Ricordati solo bene il versetto, e stai attenta a non sbagliare!”


~ continua ~


Traduzione: settembre 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 27/9/2016, 23:17

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La Geltrude della pioggia - parte 3
Favola nordica


Fu così che Maren proseguì da sola per il gran prato sotto agli altissimi alberi, e ben presto Andrees non riuscì neppure più a scorgerla.
La ragazza continuò a camminare ancora e ancora nella landa deserta. Dopo un po’ i gruppetti di alberi finirono, e il suolo davanti a lei si inabissò. Maren si avvide che stava camminando nel letto prosciugato di un corso d’acqua; il fondo era coperto di sabbia bianca e ciottoli, e qua e là si trovavano dei pesci morti con le scaglie argentate che luccicavano al sole. In mezzo al bacino scorse un uccello di una specie a lei sconosciuta; era grigio e ricordava un airone, ma era talmente grande che se avesse sollevato il capo sarebbe stato più alto di un essere umano. Ma ora aveva appoggiato il lungo collo sulle ali e sembrava dormire.
Maren si sentì timorosa. A parte l’inquietante e muto uccello non si vedeva un solo essere vivente; neppure il ronzio di una mosca interrompeva il silenzio che poggiava sul posto come uno sgomento tangibile. Per un attimo pensò di chiamare il nome del fidanzato, ma non ne ebbe il coraggio; il pensiero di sentire echeggiare la propria voce in questa landa squallida le incuteva più paura di ogni altra cosa.
Così puntò il suo sguardo fisso all’orizzonte, dove si vedevano nuovamente crescere gruppi di alberi, e continuò per il suo cammino senza guardare né a sinistra né a destra. Il grande uccello non si mosse mentre lo oltrepassò silenziosamente; solo per un attimo le parve di vedere un bagliore nero sotto alle bianche palpebre chiuse. La ragazza respirò, sollevata.
Dopo un altro lungo cammino il letto del lago si strinse e divenne il canale di un ruscelletto che attraversava un boschetto di tigli. Le ramificazioni di questi alberi giganteschi erano talmente fitte che nonostante la scarsezza di foglie non lasciavano filtrare neppure un raggio di sole. Maren continuò ad andare avanti nella strada tratta dal canale, con la volta degli alberi sopra di sé ed una inaspettata sensazione di fresco intorno; le sembrava di trovarsi in una grande chiesa. Ma tutto a un tratto i suoi occhi furono colpiti da una luce accecante; gli alberi non c’erano più, e davanti a lei si innalzavano delle rocce grigie colpite dagli sferzanti raggi del sole.
La ragazza si trovò in un bacino sabbioso, completamente asciutto, dentro cui probabilmente un tempo si era gettata una cascata proveniente dalle rocce ora secche. Aguzzò gli occhi per vedere se si snodava una via per salire sulle rocce -
- Improvvisamente si spaventò. Quello che vide a metà strada sulla caduta delle rocce non poteva essere parte delle pietre, anche se si trovava nell’aria immobile con aspetto altrettanto grigio e stecchito; Maren si accorse presto che si trattava di un abito che copriva, cadendo in lunghe pieghe, una figura giacente.
Trattenendo il respiro, Maren si avvicinò. Finalmente riconobbe con chiarezza che si trattava di una donna, alta e dalle fattezze maestose. Il suo capo era abbandonato sulle rocce; i capelli biondi, lunghi fino ai fianchi, erano sporchi di polvere e di foglie rinsecchite.
La ragazza la osservò attentamente. ‘Deve essere stata molto bella,’ pensò, ‘prima che le sue guance diventassero così flaccide, e i suoi occhi così infossati. E che labbra pallide! Che sia lei, Geltrude della pioggia? Non sembra neppure che dorma; deve essere una donna morta! E com’è tutto quieto e sperduto qui!”
Maren si fece coraggio. Si avvicinò alla donna e si inginocchiò accanto a lei, e, avvicinando la bocca all’orecchio marmoreo della figura silenziosa, cominciò a recitare con fermezza:

“Evaporata è l’onda,
Divenuta polvere è la sorgente!
Silenziosi sono i boschi,
L’Ometto di Fuoco danza nei campi!”

Dalla pallida bocca della donna uscì un rantolo profondo e pieno di rammarico; la ragazza continuò, con ancora più insistenza:

“Fai attenzione!
Se non ti svegli,
Una notte verrà Madre Terra
A riportarti a casa.”

Un lieve brusio si levò in cima agli alberi, e da molto lontano si udì qualcosa come un tuono. Immediatamente dopo un suono stridente lacerò l’aria: sembrava venire dall’altra parte delle rocce e ricordava il verso rabbioso di una bestia. Spaventata, Maren si girò per vedere da dove fosse venuto quel suono; quando ritornò a vedere sul posto, la figura della donna stava diritta in piedi dinanzi a lei.
“Cosa vuoi da me?” chiese.
“Oh, dama Geltrude!” rispose la ragazza, rimanendo in ginocchio. “Avete dormito tanto a lungo che ogni pianta e ogni animale sta per morire di sete!”
La donna la guardò con gli occhi spalancati; sembrava risvegliarsi da un sonno popolato da sogni pesanti.
Infine chiese, con voce afona: “Ma la sorgente non getta più acqua?”
“No, dama Geltrude.”
“E il mio uccello, non vola in cerchio sopra il lago?”
“Sta fermo al sole e dorme.”
“Ohimè!” gemette la donna della pioggia. “Dobbiamo affrettarci. Alzati e seguimi, e porta con te la brocca che si trova lì vicino a te.”
Maren obbedì, e le due donne cominciarono a salire sul lato delle rocce. Qui si trovavano alberi ancora più possenti e fiori ancora più belli, ma era tutto vizzo e inodore. Le due donne costeggiarono il canale del ruscello che dietro di loro aveva formato la cascata gettandosi dalle rocce. La donna della pioggia camminava piano e con passo malfermo, solo di quando in quando si guardava intorno sconsolata. A Maren parve che dove ella posasse il piede si formasse un velo verde sull’erba, e quando il suo abito grigiastro toccava il fogliame dei cespugli si sentiva un fruscio come di acqua corrente, che le fece aguzzare l’orecchio.
“Sta già piovendo, dama Geltrude?” domandò.
“No, bambina mia, devi prima riaprire il pozzo.”
“Il pozzo? Dove si trova?”
Le due si erano appena lasciate alle spalle un piccolo boschetto.
“Là!” disse la dama Geltrude, e alcune migliaia di passi davanti a loro, Maren vide alzarsi davanti ai loro occhi un’imponente costruzione. Sembrava un mucchio di sassi, messi gli uni sopra gli altri frastagliati, senza ordine; parevano raggiungere il cielo, perché la parte superiore si perdeva in un una sfumatura di luce e di vapore. Per terra, la facciata percorsa da grandi sporti era interrotta da archi ogivali che ricordavano porte e finestre, benché vere porte o finestre non si vedessero.
Le due donne impiegarono un po’ di tempo per avvicinarsi alla costruzione; infine dovettero fermarsi davanti alla sponda di un fiumiciattolo che vi scorreva intorno come un anello. Anche qui l’acqua era evaporata, solo un sottile rigagnolo scorreva ancora nel mezzo; sul fondo del letto del fiume secco si trovava una barca sfracellata.
“Attraversa il letto del fiume!” le disse la dama Geltrude. “Questa forza oscura non ha potere su di te. Riempi bene d’acqua la brocca, ne avrai bisogno.”
Quando Maren, obbediente, scese dalla sponda del fiume, si trattenne a stento da ritornare indietro; il caldo qui era così intenso che lo sentiva attraverso le suole delle scarpe.
‘Non importa,’ pensò, ‘che si rovinino pure!’ E continuò alacremente per la sua strada, tenendo ben stretta la brocca.
Ad un tratto nei suoi occhi si dipinse l’orrore: vicino a lei il fango rinsecchito si aprì e una manona dalle dita storte e rossicce ne fuoriuscì e fece per agguantarla.
“Coraggio!” la incitò la voce di dama Geltrude dalla riva del fiume.
A Maren sfuggì un grido di spavento, al suono del quale l’apparizione scomparve.
“Chiudi gli occhi,” sentì nuovamente la voce della donna dietro a sé.
Allora Maren continuò a camminare tenendo chiusi gli occhi; quando sentì dell’acqua sotto ai suoi piedi si chinò e riempì la brocca. Quindi risalì l’altra sponda senza difficoltà e senza incontrare altri pericoli.

Infine raggiunse lo strano castello e, con il cuore che le batteva in gola, attraversò uno dei grandi archi aperti.
Si fermò in entrata, piena di stupore. L’interno della costruzione sembrava formato da un solo, grandissimo spazio. Imponenti colonne di concrezioni calcaree da gocciolamento portavano un soffitto tanto alto da essere invisibile; a Maren sembravano quasi delle enormi ragnatele che pendevano qua e là come tanti pizzi e frappe.
La ragazza rimase in piedi come sperduta e si guardò intorno, ora di qui, ora di là, ma gli enormi spazi sembravano essere infiniti fuorché l’apertura da cui era entrata; colonna dopo colona si perdeva davanti ai suoi occhi, e per quanto si sforzasse Maren non riusciva a vederne la fine. Infine il suo sguardo si posò su un infossamento nel terreno. E davvero!, non lontano da lei si trovava il pozzo; era chiuso da una botola e lì accanto si trovava una chiave d’oro.
Mentre si avvicinava, la ragazza notò che il suolo non era coperto da lastre di pietra come vi era abituata dalla chiesa del suo villaggio, ma da canneti ed erbe rinsecchiti; ma ormai non si stupiva più di nulla.
Finalmente si trovò vicino al pozzo e stava per prendere in mano la chiave; ma ritrasse in fretta la mano, perché si avvide che la chiave, splendente alla luce di un raggio di sole che entrava dall’esterno, aveva il suo colore perché scottava, non perché era d’oro. Senza indugio vi versò sopra il contenuto della brocca: l’acqua evaporò emettendo un sibilo che echeggiò dappertutto negli ampi spazi. Quindi aprì la porticina del pozzo.
Non appena ebbe aperto la botola, dal profondo della terra uscì un odore fresco che lentamente si sollevò tra le colonne sotto forma di uno strato umido, come una nebbia leggera.
Pensierosa, respirando a grandi boccate l’aria fresca, Maren andò in giro per il castello. In quel momento ai suoi piedi avvenne un nuovo miracolo: come un soffio un verde chiaro si fece largo tra le piante secche, i fili d’erba si raddrizzarono, e ben presto la ragazza passeggiò tra una profusione di fiori e foglie che germogliavano.
Ai piedi delle colonne i non-ti-scordar-di-me dipinsero il suolo di azzurro; in mezzo, iridi gialle e viola fiorirono e sparsero un dolce profumo. Dalle punte delle foglie si sollevarono libellule, scrollarono le loro ali e quindi si innalzarono in volo, scintillando e danzando, sopra le corolle dei fiori, mentre il fresco profumo proveniente dal pozzo riempiva sempre di più l’aria e si muoveva tra i raggi di sole come tante scintille argentate.
Proprio mentre Maren pensò che non avrebbe mai potuto finire di ammirare e meravigliarsi, dietro di sé sentì un sospiro da una voce femminile, come di una persona che si sta mettendo a suo agio. E infatti quando voltò lo sguardo verso il pozzo vide che sul muschio cresciuto sul suo bordo si trovava seduta una bellissima, florida donna vestita di una lunga veste bianca e argentata come una perla. Aveva appoggiato il capo su una delle sue braccia nude e lisce, i lunghi capelli biondi scendevano sulle sue spalle come onde morbide e lucenti; il suo sguardo era rivolto alle colonne che reggevano il soffitto.
Involontariamente, anche Maren sollevò lo sguardo: allora si accorse che ciò che a lei erano sembrate enormi ragnatele non erano altro che i tessuti velati delle nuvole che, riempite dal profumo che si levava dal pozzo, si appesantivano sempre più. Una delle nubi si staccò dal soffitto e scese fluttuando lentamente, sicché Maren vide il viso della bella donna vicino al pozzo solo come attraverso un velo grigiastro. Allora questa batté le mani, e la nuvola uscì galleggiando all’aperto dalla finestra più vicina.
“Allora!” disse la bella donna. “Ti piace?” Sorrise e tra le sue labbra rosee si intravidero dei bei denti bianchi.
Quindi fece cenno a Maren di avvicinarsi e sedersi vicino a lei sul muschio; e quando una nuova intessitura di vapore si staccò dal soffitto, disse: “Ora batti le mani!”
Maren obbedì e anche questa nuvola uscì all’aperto come la prima, e la donna disse: “Vedi com’è facile! Sei quasi più brava di me.”
Maren guardò la bella e allegra donna con sorpresa. “Ma voi,” domandò, “chi siete?”
“Chi sono? Ma bambina, che domanda sciocca!”
La ragazza la guardò ancora una volta titubante e quindi disse, esitando: “Siete voi Geltrude della pioggia?”
“E chi altri dovrei essere?”
“Perdonatemi! Ma siete così cambiata; adesso siete così bella, e piena di vita.”
Al sentire queste parole, la dama Geltrude si fece silenziosa. “Sì, e te ne sono grata. Se non mi avessi svegliata la battaglia l’avrebbe vinta l’Ometto di Fuoco, e io sarei dovuto tornarmene sottoterra dalla madre.” Si strinse un po’ nelle bianche spalle in un gesto di raccapriccio, e aggiunse: “E dire che è così bello e verde il mondo quassù!”
Quindi si fece raccontare da Maren come aveva trovato la strada per raggiungerla, e si stese sul muschio ad ascoltarla. Di quando in quando coglieva uno dei fiori che crescevano vicino a lei, e lo metteva tra i capelli di Maren o tra i suoi. Quando Maren le raccontò del lungo e duro cammino sulla diga dei salici, la dama Geltrude sospirò e disse: “Quella diga è stata costruita da voi umani. Ma fu tantissimo tempo fa! Non ho mai visto un abito come il tuo indosso alle loro donne. A quel tempo venivano a trovarmi spesso: io gli davo semi e germogli di piante e cereali nuovi, e loro ricambiavano portandomi i frutti delle loro messi. Loro non mi dimenticavano ed io non mi dimenticavo di loro, e ai loro campi non mancava mai l’acqua. Ma da molto tempo gli uomini si sono straniati da me, e nessuno viene più a trovarmi. E con il caldo e la noia mi sono addormentata, e il bieco Ometto di Fuoco per poco non l’avrebbe avuta vinta.”
Mentre sentiva queste parole anche Maren si era stesa sul muschio con gli occhi chiusi; intorno a lei si raccoglieva nuovamente l’umidità, e la voce della dama Geltrude era dolce e accogliente.
“Mi ricordo di una volta ancora,” ella continuò, “ma è stato già molto tempo fa; mi venne a trovare un’altra ragazza, che portava un abito simile al tuo. Le donai il miele del mio prato, ed è stato l’ultimo dono che un essere umano abbia mai ottenuto dalla mia mano.”
“Vedete,” disse Maren, “è stata una bella fortuna! Quella ragazza deve essere stata la bisavola del mio fidanzato, e la bevanda che ci ha tanto rinvigoriti deve essere stata fatta dal vostro miele.”
La donna della pioggia si ricordò della sua amica di tanto tempo fa; infatti chiese, “Ha ancora i suoi bei riccioli castani sulla fronte?”
“Chi, dama Geltrude?”
“La bisavola, come la chiami tu!”
“Ma no, dama Geltrude,” rispose Maren, e per una volta si sentì più saggia della sua amica nonostante il grande potere di questa; “la bisavola è invecchiata.”
“Invecchiata…?” domandò la bella donna. Non capiva la parola, giacché per lei non esisteva l’età.
Maren pensò come spiegarglielo nel modo migliore. “Vedete,” disse infine, “noi esseri umani cambiamo quando passano gli anni; ci vengono i capelli grigi, gli occhi stanchi, e ci sentiamo accasciati e imbronciati - e allora, dama Geltrude, ci chiamano vecchi.”
“E’ vero,” rispose questa,” ora che lo dici me ne ricordo: tra le donne umane che ho visto tanto tempo fa ce ne erano anche alcune di queste. Ma non fa nulla; portami la tua bisavola, che la farò ritornare giovane e bella.”
Maren scosse il capo. “Non si può, dama Geltrude,” disse, “la bisavola è già morta da un pezzo.”
La donna sospirò. “Povera bisavola.”
Dopodiché entrambe rimasero silenziose, ancora distese confortevolmente sul morbido letto di muschio.
“Bambina!” esclamò a un tratto dama Geltrude, “a forza di chiacchierare ci siamo dimenticate di far piovere. Guarda un po’, siamo tutte coperte dalle nubi; quasi non ti vedo più!”
“Cielo, mi so bagnando come un pulcino!” esclamò Maren aprendo gli occhi.
Dama Geltrude rise. “Batti un po’ le mani, ma gentilmente, per non strappare le nuvole!”
Così le due donne si misero a battere piano le mani; ben presto le nuvole si misero a fluttuare e ondeggiare, i tessuti nebbiosi si pigiarono verso le aperture e svolazzarono all’aperto uno dopo l’altro. Dopo breve tempo Maren vide nuovamente davanti a sé il pozzo e la terra verde coperta di iridi gialle e viola. Quindi anche le cavità delle finestre si liberarono, e sopra alle corone degli alberi del giardino fino in lontananza si vedevano le nuvole che coprivano l’intero cielo. Passarono ancora pochi minuti, finché da fuori Maren sentì come un brivido attraversare le foglie degli alberi e dei cespugli, e quindi cominciò un mormorio possente e incessante.
Maren stava seduta, con le mani in grembo. “Sta piovendo, dama Geltrude,” disse a bassa voce.
Questa annuì appena con il suo capo biondo; era come assorta in un sogno.
D’improvviso dall’esterno venne un forte crepitio accompagnato da urla, e quando la ragazza guardò all’infuori dell’arco, spaventata, vide grandi nubi di vapore alzarsi a intervalli dal letto del fiume che circondava il castello e che aveva attraversato un’ora prima. In quel momento la bella donna della pioggia mise le braccia intorno a lei e si strinse alla giovane donna umana che le era distesa vicino, tremando un po’. “Si sta spegnendo l’Ometto di Fuoco,” sussurrò, “senti come strilla! Ma non può farci più nulla.”
Le due donne si tennero abbracciate per un bel po’; infine da fuori non si sentì più nulla, a parte il lieve scrosciare della pioggia. Allora si alzarono, dama Geltrude chiuse la botola del pozzo e la chiuse con la chiave.
Maren le prese la mano bianca e le diede un bacio. “Vi ringrazio, cara dama Geltrude, a nome mio e di tutto il mio villaggio! E ora,” aggiunse esitando un poco, “vorrei andare a casa.”
“Di già?” domandò la donna della pioggia.
“Il mio fidanzato mi aspetta; si sarà fatto una bella doccia ormai.”
Dama Geltrude sollevò l’indice. “Prometti che anche quando sarete sposati non lo lascerai mai ad aspettarti?”
“Prometto che non lo farò mai, dama Geltrude!”
“Allora vai, mia cara; e quando sarai tornata racconta di me agli altri del tuo villaggio, affinché non mi dimentichino più. Adesso andiamo, ti accompagno io.”

All’esterno del castello erano spuntati dovunque il verde del prato e il fogliame di alberi e cespugli sotto alla fresca rugiada venuta dall’alto. Quando arrivarono al fiume le due donne scoprirono che questo riempiva nuovamente il suo intero letto, e come se le avesse attese la barca, come riparata da mano invisibile, galleggiava presso la sponda coperta di erba rigogliosa. Entrarono e attraversarono il fiume scorrendo piano sull’acqua, mentre le gocce di pioggia cadevano giocherellando e tintinnando sulla superficie.
Non appena ebbero messo piede sull’altra sponda, vicino a loro si fecero sentire gli usignoli che cantavano dal profondo del boschetto.
“Oh,” fece dama Geltrude respirando e sentendosi togliere un peso dal cuore, “è il tempo degli usignoli, non è ancora troppo tardi!”
Le due costeggiarono il rigagnolo che conduceva alla cascata: questa si gettava nuovamente scrosciando sopra le rocce e quindi scorreva nel largo canale sotto agli oscuri alberi di tiglio. Una volta scese dalle rocce camminarono al fianco di questo, sotto agli alberi. Quando furono uscite di nuovo all’aperto, Maren vide lo strano uccello volare in grandi cerchi sopra il lago, il cui largo bacino arrivava fino ai loro piedi.
Ben presto camminarono sulla sponda del lago, respirando continuamente i profumi più dolci e ascoltando il mormorio delle onde che lambivano la sponda, bagnando i ciottoli luccicanti. Migliaia di fiori lussureggiavano ovunque dove guardassero; Maren notò anche violette e iridi di maggio e diversi altri fiori che non erano di stagione, ma che non erano potuti fiorire a causa della malefica aridità.
“Non vogliono rimanere indietro,” disse dama Geltrude, “così ora fioriscono tutti insieme.”
A volte scuoteva il suo capo biondo e le gocce di pioggia spruzzavano intorno a lei come scintille, oppure congiungeva le mani facendo scorrere dalle sue bianche braccia l’acqua come da una conchiglia. Altre volte allargava le mani, e dove le gocce toccavano la terra salivano nuovi odori, e fiori freschi e mai visti spuntavano sfolgoranti dal prato in un infinito gioco di colori.
Quando ebbero fatto il giro del lago Maren si voltò ancora una volta per guardare sulla sua superficie, che sotto alla pioggia cadente non lasciava intravedere l’altra riva; le venne un brivido al pensiero che quella mattina lo aveva attraversato a piede asciutto. Dovevano essere ormai vicine al luogo dove aveva lasciato Andrees.
E infatti, eccolo lì sotto agli alti alberi, con il capo appoggiato sopra alle braccia incrociate; sembrava dormire.
In quel momento Maren guardò di lato la bella dama Geltrude, che attraversava il prato vicino a lei con il suo passo fiero e la bocca rossa e sorridente, e si sentì quasi umiliata nei suoi semplici abiti da paesana.
‘Questo non è bene,’ pensò, ‘credo sia meglio se Andrees non la veda!’
Si fermò e disse: “Vi ringrazio per avermi accompagnata, dama Geltrude; ormai quasi ci sono, adesso la strada la troverò da me.”
“Ma non ho ancora detto buongiorno al tuo fidanzato…”
“Non datevene la pena, dama Geltrude,” rispose Maren, “è un semplice ragazzo umano come tutti gli altri, e va proprio bene per una ragazza di campagna come me.”
La dama Geltrude la guardò attentamente; aveva indovinato i suoi pensieri. “E si è trovato una gran bella ragazza, sciocchina!” sorrise facendo un altro gesto con il dito. “Scommetto che al tuo villaggio sei la più graziosa di tutte.”
La ragazza si sentì scoperta e arrossì fin sotto alle radici dei capelli. Dama Geltrude sorrise nuovamente.
“Ascoltami,” disse, “ora che le sorgenti sono tornate a scorrere potete accorciarvi la strada. Lì sotto all’argine dei salici c’è una barca: saliteci e vi porterà presto e sicuri a casa. E ora ti dico addio.” Posò un braccio intorno al collo della ragazza e le diede un bacio. “Quasi mi ero dimenticata come fossero belle fresche le labbra di un essere umano!”
Quindi si voltò e attraversò nuovamente il prato sotto alle gocce cadenti che la circondavano. Cominciò a canticchiare una melodia dolce e monotona, e quando la sua bella figura fu scomparsa tra gli alberi Maren non fu più sicura se quello che sentiva da lontano era ancora la sua voce, o solo lo scroscio della pioggia.
Rimase ferma per un po’; quindi, avvertendo un’improvvisa nostalgia, allungò le braccia in direzione della donna della pioggia. “Addio, cara e bella dama Geltrude, addio!” disse.
Ma non avvenne nessuna risposta; ora Maren sentì chiaramente che era rimasto solo lo stormire della pioggia.

Infine Maren si avvicinò lentamente all’entrata del giardino, e vide il giovane contadino in piedi sotto agli alberi. “Ma che faccia fai?” gli disse una volta che si fu avvicinata.
“Corbezzoli, Maren!” esclamò Andrees, “chi era quel bel pezzo di donna?”
La ragazza gli prese il braccio e lo indusse a girarsi, ridendo. “Non c’è bisogno di spalancare tanto gli occhi,” disse, “quella era Geltrude della pioggia; non è fatta per un giovane umano come te.”
Anche Andrees si mise a ridere. “Be’, Maren,” rispose, “me lo potevo immaginare che eri riuscita a svegliarla; guarda come mi sono bagnato! E un rinverdire come questo non l’ho mai visto in tutta la mia vita. - Ma ora vieni; torniamocene a casa, e che tuo padre mantenga la sua promessa.”
Vicino all’argine dei salici trovarono la barca e vi salirono. Il bassopiano era già tutto inondato, sull’acqua e in aria si vedevano tanti tipi diversi di uccelli; le snelle rondini di mare schizzavano sopra alle loro teste gridando e affondando le punte delle ali in acqua, il gabbiano reale nuotava maestosamente vicino alla loro barca che seguiva la corrente; sugli isolotti verdi che oltrepassavano di quando in quando si intravedevano i galli acquatici con il colletto dorato, intenti ai loro combattimenti.
La barca si muoveva rapidamente sull’acqua e la pioggia cadeva ancora, dolce ma incessante. Ma ora il corso d’acqua si restrinse, e ben presto rimase solo un ruscello di larghezza media.
Andrees, a poppa, già da qualche tempo proteggeva i suoi occhi con la mano e scrutava l’orizzonte. “Guarda lì, Maren,” esclamò improvvisamente, “quelli non sono i miei campi di segale?”
“E’ vero, Andrees; e come sono divenuti belli verdi! Guarda, quello su cui stiamo navigando è il torrente del nostro villaggio!”
“Hai ragione, Maren; ma cosa c’è lì in fondo? Santo cielo, è tutto allagato!”
“Mamma mia!” esclamò Maren, “sono i prati di mio padre! Tutto quel bel fieno, si rovinerà!”
Andrees le strinse la mano. “Il prezzo non è troppo alto, Maren,” le disse, “tuo padre non diventerà un pover’uomo per questo, e i miei campi finalmente portano frutti.”
La barca si fermò presso l’alto tiglio più vecchio del villaggio. I due scesero a riva e presero la strada del villaggio, tenendosi per mano. Da tutte le case gli abitanti li salutavano festosi; probabilmente in loro assenza madre Stine aveva chiacchierato un po’ riguardo alle loro intenzioni.
“Piove!” dicevano i bambini che correvano per le stradine sotto alle gocce.
“Piove!” disse il cugino Schulze, che era affacciato alla finestra di casa sua e offrì una stretta di mano ai due quando gli passarono vicino.
“Sì, eccome se piove!” disse anche il ricco contadino, che si trovava nuovamente all’entrata della sua gran casa con la pipa in bocca. “E tu, Maren, stamattina mi hai preso proprio per il naso! Ma adesso venite in casa, voi due. Cugino Schulze mi ha confermato che Andrees è un bravo ragazzo, e che quest’anno otterrà un buon raccolto; e se piove così un anno sì e un anno no a me sta bene, così gli alti e bassi si tengono la bilancia. Dopo andremo insieme da madre Stine, così organizziamo tutto per benino.”

Da quel giorno erano ormai passate diverse settimane. La pioggia aveva smesso, e gli ultimi carri carichi di raccolto erano entrati nei fienili, adorni da corone di fiori e nastri colorati; e in pieno sole un gran corteo nuziale si stava incamminando verso la chiesa.
Gli sposi erano Maren e Andrees; dietro di loro, a braccetto, si trovavano madre Stine e il ricco contadino padre di Maren.
Quando furono quasi arrivati al portone della chiesa e dall’interno si sentiva già il corale che il vecchio cantore stava suonando sull’organo per accoglierli, d’improvviso proprio sopra di loro si avvicinò una nuvoletta bianca dal cielo azzurro, e alcune gocce di pioggia caddero sulla corona nuziale della sposa.
“Significa fortuna!” disse la gente radunata nel cortile della chiesa.
“E’ stata la Geltrude della pioggia!” si dissero a bassa voce gli sposi. E stringendosi le mani, entrarono nella chiesa per far suggellare il loro matrimonio.


Traduzione: settembre 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Grand Pez di Girella

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Questa storia la dedico ad Aster, dopo le risate che mi ha fatto fare con la sua FF a base di saggi, studenti ribelli e pastiglie di tranquillanti... wink(1)


Ribellione delle buone maniere
Racconto satirico


Nel ristorante di Luigi i posti erano quasi tutti occupati da famiglie arrivate insieme ai loro figli. Ciononostante, il locale era piuttosto tranquillo. Solo un tavolo era ancora libero, vicino al bar.
„Che meraviglia,“ disse il padre, „proprio sotto agli occhi del personale. Messi così, i cinque euro ce li sogniamo.“
„Allora ce ne andiamo?“ domandò la madre.
„Ma io ho fame,“ frignò il piccolo.
„PSSST!“ fecero entrambi i genitori.
Non gli avevano forse inculcato che durante la prossima ora doveva farsi vedere soltanto dal suo lato migliore? E guai a parlare senza che gli fosse rivolta una domanda? E gli avevano chiesto qualcosa, forse? No!
„Tutta colpa di quello stupido premio,“ si lamentò il figlio. I camerieri che si trovavano dietro al bar alzarono lo sguardo.
„PSSSSSST!“ sibilarono i genitori. Quindi spinsero il figlio frettolosamente a sedersi su una delle sedie e sorrisero ai camerieri, anche se un po’ rigidamente.

Qualche giorno prima avevano letto sul giornale che Luigi, il proprietario del ristorante, aveva deciso di imitare l’esempio di un locale giapponese a Calgary che offriva uno sconto alle famiglie con bambini. Solo che naturalmente c’era una condizione: cioè che i bambini, mentre si trovavano nel suo locale, si comportassero impeccabilmente.
In questo articolo di giornale Luigi si era sfogato riguardo ai bambini che solitamente frequentavano il suo ristorante: prima ingollavano le pizze biascicando a tutto spiano, e dopo formavano spontaneamente delle bande che si inseguivano tra i tavoli schiamazzando a più non posso.
I genitori di questi debosciati li ignoravano, oppure godevano del fatto di poter finalmente discorrere tra di loro, anche se dovevano urlare per farsi sentire tra voci dei loro rampolli. Oppure, ancora peggio, ingozzavano in fretta il menu („I nostri ottimi piatti, tutti preparati amorevolmente,” fu citato Luigi) per ripartire al più presto, imbarazzatissimi. Gli altri ospiti, quelli che non avevano bambini, si congedavano a mai più rivederci.
„Al ‚Da Luigi’ in futuro voglio avere come ospiti solo dei bambini bene educati, e per lo scopo sono anche pronto a sborsare un po’,“ aveva concluso il ristoratore.
Inizialmente, l’idea sembrava funzionare: finalmente i genitori potevano parlarsi a volume normale. Anche se i numerosi sibili che a volte si levavano dai tavoli disturbavano un poco.
„Stai tranquillo!”
„Tieni la bocca chiusa mentre mastichi!”
„Non dimenarti!”
„Tieniti diritto!”
„Mangia sopra al piatto!”
„Stai seduto!”
„Non fare rumore mentre mangi!”
„Non fare rumore mentre bevi!”
„Chi è stato a ruttare?”
Solo al terzo tavolo vicino all’entrata ci fu un piccolo problema. „Te l’avevo detto che una pastiglia di tranquillante bastava!” aggrediva il marito sua moglie che era intenta a sollevare la testa della figlia - impiastricciata di salsa di pomodoro - dal piatto di spaghetti. Di quando in quando la bella addormentata espirava sbuffando pezzetti di pasta e pomodoro sulla bianchissima tovaglia.
„Il tavolo dieci oggi paga cinque euro in più,” mormorò Luigi al cameriere.
Il padre della famiglia appena entrata gettò a sua moglie uno sguardo eloquente. Ordinarono una pizza per il loro figlio invece degli spaghetti, e grazie, niente da bere - tanto il bicchiere lo rovescia sempre.
„Ma io ho sete,“ bofonchiò il figlio.
„ZITTO adesso!“ sibilarono i genitori. Per essere sicuri spinsero la sua sedia così vicina al tavolo da pigiarlo tra lo schienale e il bordo.
„Aria!“ ansimò il pargolo.
„Resta così, altrimenti ti cade di nuovo un pezzo di pizza sotto il tavolo,” disse la madre. Il figlio tentò ugualmente di riconquistare un po’ di spazio muovendosi a sinistra e a destra il più piano possibile.
„Ma stai un po’ composto,“ disse il padre severamente, „come quella bambina lì,” e indicò la figlia dei genitori del tavolo vicino.
Quello che il padre non vide era che la bambina era stata legata alla sedia con due tovaglioli di stoffa, e affinché non si notasse i genitori le avevano coperto le gambe con la tovaglia.
Seduta a un altro tavolo si trovava una madre con uno scacciamosche: tutte le volte che il figlio tentava di mangiare con le mani invece di utilizzare le posate gli dava un colpetto - non forte, solo per rinfrescargli la memoria. Per fortuna sapeva mangiare gli spaghetti con una mano sola, all’italiana, invece di utilizzare il cucchiaio.
Il figlio segava la sua pizza di malavoglia, perché di solito preferiva mangiarla con le mani. „Non fare quella faccia, i cinque euro li abbiamo di sicuro,” tentò di incitarlo il padre.
Il figlio mugugnava. Dal tavolo vicino si sentiva lo scacciamosche. Da tutti i tavoli venivano dei borbottii.

Dopo tre quarti d’ora di buona educazione e solo 346 ammonimenti il padre chiese il conto, „con la riduzione, per favore!“
„No, signore,“ disse Luigi scuotendo la testa, „i cinque euro non glieli posso abbonare.“
„Ma perché? E’ stato tranquillissimo!“ esclamarono i genitori indicando il figlio. In quella guardarono sul suo posto. Il figlio non c’era più.
Mentre i suoi genitori conferivano con il proprietario il bambino era strisciato sotto il tavolo vicino e, armato con il coltello da pizza, era intento a tagliare i tovaglioli che legavano la bambina alla sedia. Gli altri bambini presenti lo videro.
I primi bambini si alzarono saltando sulle sedie. Il volume nel locale si alzò a dismisura. Bicchieri furono rovesciati, tovaglie strappate dai tavoli; uno dei padri utilizzò come scudo un cestino del pane vuoto perché sua figlia aveva cominciato a bombardarlo con i grissini. Un bambino si strappò il tovagliolo dal collo, gettò il cucchiaio dietro di sé e lasciò cadere la sua faccia nel gelato al cioccolato con la bocca aperta.
I camerieri si rifugiarono in cucina. Luigi si strappò i suoi pochi rimasugli di capelli e piagnucolò: „Questa è la fine della civilizzazione!”
Mentre delle fette di pizza volavano per aria, si sentì un rumore umido: una porzione di spaghetti alla bolognese era finita sul vetro della porta e scivolava lentamente verso terra – proprio sul punto dove Luigi aveva scritto a mano la sua iniziativa dei cinque euro.
Le strie oleose attraversarono parte della scritta, cancellando la parola ‘educati’.
Un passante si fermò e lesse: „Sconto per bambini…” Il bambino che teneva per la mano sentì le urla che fuoriuscivano dal locale ed esclamò, estasiato: „Mi ci porti?!”



Traduzione: ottobre 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 30/10/2016, 16:53
 
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view post Posted on 30/10/2016, 17:59     +1   -1
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Data la stagione, questa volta una storia "gotica". Forse è un po' melodrammatica, ma spero che piaccia comunque...


Tradimento di sangue - Parte 1
Racconto fantastico / gotico


Ogni sera, quando il buio calava sul Castello di Speranza, la contessina Teresa scendeva nelle segrete a trovare il suo prigioniero. Queste visite erano legate a certe formalità, cerimoniali come le gesta di un prete che celebra un rituale antico e solenne davanti all’altare.
Per prima cosa congedava tutti i suoi servitori, anche il sordomuto Rondo che le obbediva come un cane ammaestrato. Dopodiché, ferendosi ogni volta le sue delicate mani con il duro metallo, sprangava la porta del suo appartamento con i catenacci e chiudeva tutte le finestre a chiave. Se, nascosto dietro a uno degli arazzi, si fosse trovato qualche segreto osservatore, avrebbe notato qualcosa di strano: su ognuna delle chiusure di ferro, intagliato rudemente e a fatica da mani non abituate a un simile lavoro, c’era il segno della croce.
Quindi la contessina si inginocchiava brevemente davanti al piccolo altare in legno di quercia e piegava le mani in segno di preghiera sopra il rosario; un gesto divenuto pura consuetudine, era da molto tempo ormai che essa non pregava.
Lo specchio che si trovava dall’altra parte della stanza la rifletteva vagamente, un disegno ombroso di bianco e nero - le trecce nere coperte da pizzo bianco, il nero abito da lutto sopra cui si incrociavano le bianche mani che reggevano perle di avorio, il viso smagrito e pallido come alabastro con sopracciglia nere disegnate come da un delicato pennello.
Un viso fatto per la dolcezza e l’amore; ma era divenuto duro e crudele, gli occhi privi di altra espressione se non di odio, la bella bocca una linea bianca e sottile. Pareva una santa, tramutata in una creatura infernale dalla doppia frusta dell’afflizione e della vendetta che aveva giurato.
La contessina si alzò e mise da parte il rosario. Sollevò il coperchio di una cassapanca intagliata e ne estrasse una sferza a tre code fatta di cuoio intrecciato. Alle punte si trovavano piccole punte di metallo, affilate come rasoi; il cuoio si era scurito ed il metallo era coperto da chiazze torbide e rossastre. Quando per errore sfiorò una delle punte ritrasse subito le dita: il metallo si era bagnato del suo sangue.
Si strinse nelle spalle e non si curò del dolore. L’impugnatura della frusta mostrava anch’essa una croce, incisa maldestramente con un coltello.
Quando spinse indietro il chiavistello della porta segreta nascosta tra i pannelli di legno che coprivano il muro non si sentì il minimo cigolio - i cardini venivano oliati regolarmente.
Con una fiaccola in mano scese i gradini che scendevano dietro alla porta, silenziosa come un’ombra. Lo strascico del suo abito spazzò da parte alcune ragnatele e fece sgattaiolare piccoli ragni nelle fessure delle pietre murali.
L’odore di acqua salmastra proveniente da guazzi sotterranei le venne incontro. Un tempo le sue delicate narici avrebbero fremito incontrando questa puzza; ma quel tempo era passato da molto. Lei stessa non sapeva come la giovane che era stata era cambiata: aveva temuto ogni ombra, le sue delicate mani avevano sanguinato mentre lottava con il catenaccio allora completamente arrugginito - quando era scesa qui per la prima volta, spinta dalla disperazione e dall’orrore.
Si fermò un attimo ed emise un sospiro. “Ma perché vengo qui?” domandò a se stessa.
E come un’eco dalle profondità marcite della segreta sentì una voce: “Vieni qui.”
Fece ancora due giri della scala a chiocciola e raggiunse un corridoio con un soffitto a volta, illuminato dalla pallida luce della luna che trapelava attraverso pozzi viscerali scavati molti secoli prima. Il corridoio era fiancheggiato da rimasugli di un periodo truce: le barre arrugginite di un paranco che ricordava lo strappado, una grata di metallo incrociato come una branda, la forma crudele, verde bronzata, della Vergine di Ferro.
La contessina non degnò di uno sguardo gli orribili oggetti che una volta l'avevano fatta tremare; oggi le sembravano come degli amici familiari. Per un attimo la sfiorò il pensiero - C’è ancora tempo per mettere tutto a posto, - prima di girare l’ultimo angolo del corridoio, dove un’inferriata si ergeva dal pavimento di pietra fino al soffitto. La giovane prese la chiave dalla catenella che portava alla cintura, aprì il cancello e lo attraversò.
“Buona sera, contessina,” disse l’uomo incatenato al muro.
La contessina inchinò il capo. “Anche a Voi una buona sera, Messere,” ella rispose con la sua voce melodica, il cui suono era talmente suo da non rivelare minimamente il cambiamento che era avvenuto in lei.
Guardò l’uomo che le si trovava davanti da capo a piedi. Le sue braccia erano fermate da polsini di ferro attaccati al muro da lunghe catene che attraversavano pesanti anelli. Pastoie di ferro, anch’esse attaccate a catene, circondavano le sue caviglie. Era abbigliato solamente di una lacera camicia bianca, e da calzoni da equitazione in cuoio. Quando si inchinò il bagliore emesso dalla fiaccola fu catturato dai suoi capelli biondi, che gli scendevano sulle spalle, e la sua ombra danzando sul muro assunse una forma che ricordava delle grandi ali.
La giovane rimase cautamente lontana dall’uomo e vagò con lo sguardo sul suo volto, che era sottile, dai lineamenti marcati e di una contenuta sensualità. Quando egli sollevò nuovamente il volto il suo sguardo, in cui scintillava una strana luce, incontrò quello di lei. Fu uno sguardo lungo, quasi come quello di un innamorato.
Ogni volta la strana bellezza dell’incatenato sconvolgeva segretamente la contessina.
Bellezza? Una strana parola in questo contesto, ma era bellezza; la bellezza di un’aquila irrequieta, prigioniera, che fustiga l’aria con la disperazione e il tormento selvaggio della sua fame disumana. Ma fu lui ad abbassare lo sguardo per primo, anche se la sua voce era carica di una sorta di melodiosa canzonatura.
“Siete molto bella stasera, Madonna,” egli disse. “Mi rincresce non potervi baciare la mano.”
Un’espressione guizzò sul viso di lei, come l’eco di un sentimento che non riusciva a spiegarsi. “Allora,” gli disse spontaneamente, “baciatela, se vi pare.” E gli offrì la sua mano dalle dita sottili, che ancora sanguinavano lievemente.
Era un gesto sprezzante, ma egli prese la sua mano, si chinò su di essa e la toccò con le labbra. Improvvisamente l’uomo si impennò come preso da una subitanea follia; le mani avvinte in catene quasi le schiacciarono il polso e la strapparono verso sé avidamente. Con un movimento fulmineo dell’altra mano ella alzò la frusta, si ritrasse e sferzò un unico, brutale colpo. Egli si ritrasse per pochi secondi, ed ella si trovò nuovamente fuori della sua portata. I suoi occhi scintillavano.
“Mi ero dimenticata,” lo schernì, “che la luna è piena, e Voi - siete affamato!”
Egli si trovava, accasciato, tra le catene e non rispose al suo sarcasmo. Infine le rispose, con voce calma: “Sì, la luna è piena. Avete nuovamente degli incubi, non è vero, contessina?”
Ella fremette come per scrollarsi di dosso i ricordi, e gli rispose fermamente: “Mi ritengo fortunata se non potete arrecarmi danno peggiore che quello di inviarmi dei brutti sogni.”
Una lieve nausea le fece storcere la bocca. Indietreggiò di qualche passo e alzò nuovamente la frusta.
“Conte Angelo Fioresi!” La sua voce risuonava nella volta. “Avete goduto della vostra ultima vittima - vampiro!” Rise di lui, trionfante. “Sono tre mesi che vi tengo qui incatenato, e ogni giorno vedo le vostre forze abbandonarvi e la vostra orrenda fame aumentare.”
L’uomo tirò disperatamente le catene, ma era solo uno sfogo breve, e ben presto fu costretto e ritirarsi, esausto, e appoggiarsi al muro, scivolando al suolo.
“Una volta avreste potuto spezzarle, queste catene,” ella continuò sogghignando godendo del suo crudele trionfo, “se non vi avessi incavato il segno della croce. Ma oggi credo che anche catene comunissime basterebbero a trattenervi.”
L’uomo si sollevò appoggiandosi sulle sue mani.
“Madonna”, disse a bassa voce, “la mia vita dipende dalla vostra misericordia. Potete potervi fine a ogni momento. Nessuno potrebbe biasimarvi di desiderare la mia morte. Perché, invece, godete tanto delle mie sofferenze?”
“Avete l’ardire di domandarmelo?” ella rispose con voce resa stridula dallo strazio - un ultimo ricordo della fanciulla innocente che era stata pochi mesi prima. “Voi, che vi siete insinuato in questo castello come pretendente e avete tratto in inganno mio padre con la vostra astuzia, spacciandovi per il nipote di un suo vecchio amico? Quante volte mi parlava di Voi e diceva che in vostra compagnia si sentiva ringiovanito, che gli sembrava che l’amico della sua giovinezza fosse ritornato dai morti! Non sapeva quanto dicesse il vero.”
Il conte scosse il capo.
“No,” rispose stanco. “Se proprio dovete ripetere questa vecchia e triste storia, almeno non storcetela. Che le creature come noi ritornino dai morti è solo una stupida frottola. Noi moriamo, ma viviamo molto più a lungo delle creature umane, a meno che la nostra vita non sia terminata da un incidente - o da qualcuno che le ponga fine deliberatamente.”
Il viso distorto della giovane sembrava fluttuare davanti ai suoi occhi alla tremula luce della fiaccola.
“Sia come sia. Il vostro vecchio amico, mio padre, si ammalò e morì. Poi fu la volta di Rico, mio fratello - consumato da un male misterioso. Infine toccò a Cassilda, la mia sorella maggiore che mi fu come una madre dopo la morte della nostra, e che fu sotterrata in terra non benedetta. E ancora Voi, tenacemente, desideravate ottenermi in moglie.”
“Madonna, Voi mi chiamate un mostro...”
“Potete negarlo?” ella esclamò. “Volete forse chiamarvi umano, Voi che non avete toccato cibo o bevanda in tutti i mesi che vi trovate qui?”
“Concedo che non sono un essere qual Voi,” egli ammise a testa china. “Il mio popolo è molto più antico del vostro, contessina. Forse esisteva già prima che il vostro Dio donasse alla vostra razza il diritto di chiamarsi la razza dominante. Come certe bestie ci nutriamo, una volta adulti, solo del sangue di creature vive. Prima di compiere i vent’anni ero convinto di essere un uomo come tutti gli altri. Non sono stato io a uccidere la vostra famiglia, contessina. E anche se lo fossi stato, che differenza farebbe? Il vostro fratello maggiore, Stefano, fu ucciso in duello dal signore di Monteno, eppure la famiglia Monteno è ospite d’onore qui al Castello di Speranza. Quando venni qui,” un segreto dolore lo attraversò e lo fece sussultare, “non ero a conoscenza del fatto che la vostra famiglia era già destinata alla morte.”
“Voi mentite!” ella urlò e fece schizzare la frusta. L’oggetto attraversò l’aria, sibilando, e lo colpì in viso e sul petto. L’uomo emise un grido roco, e un sorriso malefico apparve sul volto della ragazza.
“Mi fa bene al cuore vedere che potete soffrire,” gli disse. “Soffrite, come ho sofferto io!”
La frusta aveva fatto sanguinare la sua vittima. Con un’espressione stranamente avida, ella guardò le gocce rosse e lucenti scendere sul suo viso.
“Badate a Voi, Madonna,” disse il conte Angelo Fioresi, gentilmente. “Io cercavo il sangue umano per sopravvivere; ma Voi lo cercate per puro piacere.”
Ella alzò nuovamente la frusta, infuriata, ma quindi abbassò la mano.
“’Perché non riesco a desiderare la vostra morte?” esclamò. “Perché non Vi ho ucciso subito? Perché non riesco a liberare la sacra terra del Signore da una creatura come siete Voi?”
“E perché i vostri sogni sono così crudeli,” egli domandò a voce bassa, “e perché un tempo mi amavate, Madonna? Il vostro Dio ha vietato ai suoi fedeli la vendetta. Perché non potevate uccidermi e lasciarmi alla Sua vendetta, e all’inferno - o alla Sua clemenza?”
Bruscamente, ella si girò e attraversò nuovamente il corridoio, fuggendo per la ripida scala a chiocciola, mentre i suoi passi echeggiavano duri nella buia notte.
E Angelo Fioresi, uomo, mostro, vampiro, qualunque cosa fosse veramente, abbandonò il viso sulle sue mani e pianse.

Tornata nella sua camera, la contessina di Speranza spalancò le finestre. Tremava dal freddo mentre la gelida aria notturna soffiava tra le sue vesti, liberandole dal tanfo delle segrete. Sentì l’impulso di inginocchiarsi e pregare, ma la voce del vampiro riecheggiava nella sua mente: Iddio ha vietato la vendetta.
Cosa sono divenuta? si domandò, quasi allibita. Si stese sul suo grande letto a baldacchino, ma temeva di addormentarsi per paura degli incubi che la funestavano negli ultimi tempi. Si disse che doveva trattarsi di un maleficio del vampiro che teneva incatenato; ma nelle notti di luna piena il terrore era così intenso che non osava chiudere occhio. Allora rimaneva distesa sulle coperte e pensava a come aveva conosciuto e infine fatto prigioniero il mostro in guisa umana che ora si trovava nelle segrete del suo castello di famiglia.
Sin da quando venne al Castello di Speranza per la prima volta, si era dimostrato gentile e servizievole. All’inizio ella aveva pensato che fosse venuto per richiedere in sposa sua sorella Cassilda; le era parso naturale visto che Cassilda era la maggiore, e inoltre più bella di lei. Ma riguardo a questa, egli aveva dimostrato solo immutabile cortesia e gentilezza. Era questo comportamento che non riusciva ad associare con tutto l’orrore che aveva dovuto conoscere più tardi. Quando erano morti suo padre e poco dopo su fratello, ella aveva pianto tra le sue braccia.
“Il destino mi perseguita,” gli aveva detto, “non potete più desiderarmi.”
Ma lui aveva risposto, con un lieve sorriso: “Forse il destino si stancherà di perseguitarvi, una volta che sarete mia moglie.”
Ma già in quei giorni sembrava che si aggirasse un sortilegio crudele, perché anche nel villaggio che sorgeva ai piedi del castello molte persone morivano, e sembrava che fosse scoppiata una segreta, fatale epidemia. Infine morì anche Cassilda; ma il prete che prendeva servizio al castello, padre Milo, rifiutò di far vedere a Teresa un’ultima volta il corpo della sorella.
Quel giorno Angelo era venuto da lei mentre piangeva davanti alla porta della cappella: ora si ricordava che egli non vi aveva mai messo piede. Sul suo viso bello e aperto aveva visto una tristezza che le era parsa come vera compassione. Com’era possibile che si fosse trattato solo di nefanda ipocrisia?
“Teresa, Teresa, non sopporto di vedervi soffrire così.”
Ora ruminava: cosa sarebbe accaduto se avesse ceduto alla sua richiesta e lo avesse sposato nonostante tutto, e fosse partita con lui come desiderava? Lui avrebbe potuto accedere alla cappella, per il matrimonio? I segni della croce lo allontanavano; avrebbe potuto sposarla, dopotutto?
Non sarebbe stato più utile allo scopo, forse, se lo avessi legato a me stessa con l’aiuto del sacramento?
Quella sera padre Milo, con il volto contratto e il corpo tremante dall’orrore, l’aveva tratta con sé nella cappella e l’aveva benedetta con il segno della croce. Quindi l’aveva fatta sedere sulla panca mentre lui, rimanendo in piedi davanti a lei, le aveva parlato con parole raccapriccianti. All’inizio non lo aveva veramente ascoltato: troppo fantastici le sembravano i suoi prolissi resoconti di casi di morte accaduti tra la gente del villaggio, degli strani segni trovati sulla gola di suo padre e di suo fratello, il suo accenno a un delitto ancora peggiore legato alla morte di Cassilda. Solo lentamente, ancora incredula, aveva capito cosa il buon uomo stava tentando di spiegarle: che tutto ciò fosse opera dell’infestazione di un vampiro!
“Ma cosa dite - quelle sui vampiri sono solo delle storie che le balie raccontano d’inverno davanti al caminetto!” ella lo aveva respinto.
Lui aveva scosso il capo. “No, si tratta dell’opera di un demonio - o almeno eseguito da qualcuno che è in combutta con il demonio,” egli le aveva risposto, con il viso pallido e afflitto.
E lentamente, parola dopo parola, era riuscito a convincerla. Anche se all’inizio aveva creduto solo a metà alle storie terribili che le raccontava - del Conte Fioresi che qualcuno aveva visto uscire dalla finestra della sua camera sotto forma di un pipistrello, e che una pia donna del villaggio giurava di avere sentito puzza di cadavere quando le era passato vicino -, alla fine gli credette che fosse il suo pretendente la causa di tutto.
Lo spavento e la furia si avvalsero di lei, mentre cadde in ginocchio, prostrata, ai piedi del vecchio sacerdote.
“Cosa possiamo fare?”
E padre Milo le aveva risposto, lentamente: “La bestia deve morire.”
“La sua morte non basterebbe!” ella aveva esclamato tormentata, il suo viso divenuto bianco come il velo di lutto che portava. “Mi ricordo ora, che nella notte prima della sua morte Cassilda venne a trovarmi, in lacrime, mentre mi trovavo già a letto - e io non sapevo il perché!”
Padre Milo le posò una mano sul capo. “Devi essere coraggiosa, figlia mia, e sopportare con forza ciò che ti sto per dire. Cassilda è morta di propria mano, per paura di patire lo stesso destino.”
Teresa emise un grido di dolore. “La morte è troppo misericordiosa per questo mostro! Deve soffrire - soffrire come abbiamo sofferto io e i miei!”
“La vendetta è nelle mani di Dio,” la ammonì il sacerdote. “Non lo so con sicurezza, ma ho sentito che queste orribili creature non possono morire veramente ma rimangono vive nelle loro tombe, dalle quali emergono di quando in quando alla ricerca del sangue degli esseri umani. Figlia mia, devo lasciarti sola per un poco. Devo viaggiare a Roma e chiedere una dispensa per procedere con questo - questo mostro come è necessario per liberarci da lui per sempre.”
“Dovete partire questa notte stessa!”
“Prima dobbiamo trovare un mezzo per proteggere Voi e gli altri,” egli rispose, “affinché non possa fare a Voi quello che ha fatto ai vostri familiari. Siate accorta! Non lasciategli notare nessun cambiamento nel vostro atteggiamento verso di lui. Non deve capire che ormai sappiamo chi lui è veramente. Al mio ritorno lo renderemo inoffensivo e lo faremo morire di morte certa, affinché rimanga nelle mani di Dio, nella Sua infinita misericordia, il compito di punirlo o di perdonarlo.”
Teresa nascose il viso tra le mani. “Un mostro fuoriuscito da una tomba - e dire che io lo amavo!” sussurrò. “Come potete parlare di misericordia? Vorrei poterlo vedere bruciare per sempre all’inferno!”
Il sacerdote si segnò e scosse il capo tristemente. “Mi addolora sentirvi parlare così. Potete porre limiti alla clemenza divina?”
“Per questo demonio, sì!”
“Eppure un grande santo un giorno disse a Satana in persona: Anche a te posso promettere il perdono di Dio, se solo lo preghi onestamente. Non dimenticatevi del resto, Teresa! Il conte Fioresi è un valente soldato e un onorato cortigiano. Ha sopportato questa maledizione terribile per molti anni, e deve essere un inferno in terra dovere vivere così, ripudiato davanti a Dio e agli uomini. Volete negare che un giorno il Signore potrebbe perdonare anche a un essere come lui?”
“Se credessi una cosa simile,” ella era esplosa con passione, “allora farei tutto il possibile per allontanarlo dal perdono divino per l’eternità, e farlo soffrire come abbiamo sofferto io e la mia famiglia!”
Il prete allora le aveva risposto, con semplicità: “Siete sovraeccitata ora, e non mi stupisce. Pregate il Signore affinché vi perdoni le vostre parole affrettate.” Le aveva porto la mano e l’aveva aiutata ad alzarsi. “Devo partire subito; intanto venite con me nella vostra camera, dobbiamo assicurarci che sarete sicura lì.”
Furono le sue mani, dopo di questo, a intagliare il segno della croce nel legno di tutte le porte e finestre, e a spargere l’acqua benedetta in tutti gli angoli. Aveva lasciato intoccata la porta d’entrata per occuparsene come ultima, ma quando si rivolse verso di essa Teresa si sentì improvvisamente soffocare. Anche per amore della propria vita non sopportava l’idea di essere completamente rinchiusa da segni magici, anche se si trattava di segni cristiani.
“Questa porta la sigillerò io stessa dall’interno, con la croce che porto al collo,” gli disse, e mentre parlava aveva già in mente il suo piano.
“Forse è meglio così,” ammise il prete. Dalla sua toga estrasse una piccola fiala. “Versate questo liquido nel suo vino”, le disse, “e che Dio ci perdoni per questo, figlia mia. Almeno basterà per fargli morire la prima morte. Quando sarò ritornato da Roma lo annienteremo con il palo e il fuoco.” Con un gesto di grande rispetto le porse un rosario. “Questo è un antico oggetto ereditario della mia famiglia; un tempo fu benedetto da un uomo santo. Il rosario gli impedirà di tornare dai morti prima del mio ritorno.”
Le aveva posto una mano sul capo in segno di benedizione. “Ascoltatemi!” le aveva detto, severamente. “Dimenticatevi di questi brutti pensieri di vendetta. Vi ordino per la salvezza della vostra anima di pregare per questo sperduto agnello di Dio; pregate per l’anima di Angelo Fioresi.”
Ma le sue parole erano cadute su un cuore impietrito. Ella aveva chinato il capo, ma dentro di sé aveva fatto un giuramento: Non sarà mai.



Traduzione: ottobre 2016
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Edited by Delari - 5/11/2016, 13:42
 
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Tradimento di sangue - Parte 2
Racconto fantastico / gotico


Con le sue proprie mani, Teresa aveva preparato le provviste per il primo tratto del viaggio di padre Milo; ma quando gli aveva detto addio e il suo cavallo si era allontanato gli aveva volto le spalle, e per la prima volta aveva avuto un sorriso crudele mentre la sua mano stringeva la piccola fiala. “Non tornerà,” mormorò. “E la vendetta sarà mia.”
Allontanandosi dal grande portone incontrò il conte Fioresi che le sorrideva. Si costrinse a sorridergli a sua volta e a porgerli la mano da baciare.
“Per dove è partito il sacerdote?” egli le aveva chiesto.
“A procurare il permesso di matrimonio per noi, nonostante il periodo del lutto,” gli aveva risposto, imperturbabile.
“Allora adesso siamo soli?” Aveva sorriso e l’aveva tratta tra le sue braccia. “Speriamo comunque che torni presto.”
In quel momento Teresa aveva visto la sua fronte corrugarsi come non mai, e rabbrividendo si era ritratta da lui mentre la voleva baciare. “Non ora!”
In quella notte rimase sveglia: si sentiva come una capra che viene legata al palo per far uscire allo scoperto l’insidioso leone di montagna. La pallida luce proveniente dalla porta socchiusa sfiorava il suo volto, ed ella aspettava il passo e l’ombra avvicinarsi a questa porta, l’ombra che ricordava quella di due nere ali. Tremando, teneva in mano la croce e pensava: È proprio vero che il vampiro si muove come un gatto o un fantasma, senza fare il minimo rumore.
Infine, con gli occhi chiusi, sentì l’ombra dell’uomo avvicinarsi e chinarsi su di lei, finché le sue morbide labbra le sfiorarono il collo. Come svegliandosi dal sonno, ella mormorò: “Angelo?”
“Cara...”
“Aspetta,” sussurrò e strinse forte il crocefisso nella sua mano, “la porta è ancora aperta.”
“Farai rumore,” egli disse piano e fece per fermarla - ma svelta come un fulmine si era avvicinata alla porta, l’aveva chiusa e sigillata con il chiavistello segnato dalla croce.
“E ora,” gli aveva rivolto, con il volto bianco come la sua camicia da notte, “lasciatemi vedere se riuscirete ad andarvene così come siete venuto, Angelo, conte Fioresi - demonio, mostro, assassino - vampiro!” Si gettò su di lui con una fiaccola nella mano alzata. Lui sgusciò via e come una bestia feroce messa alle strette, si avvicinò di corsa alle finestre sprangate e alla seconda porta. Fu tutto inutile.
La voce della ragazza tremava. “L’ho sempre creduto solo a metà, fino adesso. Mi sembrava una mostruosa menzogna. Eppure ora so che è tutto vero.”
Il conte allungò le mani verso di lei, ma ella alzò la croce per respingerlo. Si era aspettata che l’uomo si gettasse su di lei per ucciderla, ma lui non si mosse.
“Teresa,” la pregò, “non è come credete. Vi prego, vi scongiuro: ascoltatemi prima che sia troppo tardi.”
Ma lei era così traboccante di ira e di sdegno che non volle ascoltarlo. Per la prima volta, sollevò la frusta contro di lui e lo aggredì percuotendolo ripetutamente sul capo e sulle spalle. Egli gridò di dolore, quindi le strappò l’ordigno di mano con un solo gesto e lo gettò in terra.
“Badate, Madonna,” disse con voce attenuata. “Vi sono molte cose che io so, a differenza di Voi. E vi dico, Teresa, che in questo momento siete in un pericolo molto più grande di quello che potrebbe provenire da me. Volete ascoltarmi - almeno per poco tempo, per amore di vostro padre che si trova nella tomba?”
“Ascoltare Voi, mostro, assassino, profanatore di morte?” ella urlò.
Un sorriso torbido passò sul volto di lui. “Ancora questa vecchia favola, che io sappia tornare dalla bara? No, Madonna, io non conosco ancora la morte. E non ho intenzione di morire. Ma se non mi ascoltate vi portate in pericolo sempre peggiore. Per questo vi intimo di starmi a sentire.”
Le si avvicinò ancora, come se volesse afferrarla e costringerla ad ascoltare le sue parole; ma ella afferrò il crocefisso che si trovava sull’inginocchiatoio e lo tenne dinanzi a sé. Lui si ritrasse sussultando, e lei domandò, ansiosa: “Allora almeno questa superstizione si basa sulla realtà?”
Lui fece alcuni passi indietro e nascose il volto dietro al braccio sinistro. “È vero parzialmente, Teresa. Non posso toccarvi finché portate il simbolo della vostra fede, il segno che vi trovate sotto alla protezione di Dio. Ma per l’ultima volta, vi scongiuro...”
“Che mi faccia incantare dalle vostre parole?” ella urlò. Tenendo ancora il crocefisso in mano sollevò la frusta dal suolo e con essa aggredì nuovamente la sua figura rannicchiata fino a farla sanguinare. “Allora potete sanguinare, e soffrire?” esclamò trionfante.
“Esattamente come Voi,” egli mormorò e si lasciò cadere in ginocchio.
Proteggendosi con il crocefisso, Teresa cominciò ad abbattersi su di lui con la frusta. Godette infinitamente ogni volta che sentiva il rumore tetro della frusta che colpiva il suo corpo, e i segni insanguinati che cominciarono ad attraversare la sua pelle.
Infine si trovò in piedi davanti a lui, ansante, mentre lui era a terra, sanguinando e privo di sensi. Sempre osservandolo attentamente, perché temeva che fingesse solo di essere svenuto, Teresa si avvicinò alla cassapanca e ne estrasse delle pesanti catene. Le sue mani delicate avevano segnato la croce nei collari per mani e piedi, con l’aiuto di un anello diamantato. Quindi chiamò segretamente Rondo, il sordomuto, e con il suo aiuto trasportò il conte giù per la scala segreta di cui solo lei era a conoscenza, e con le mani che tremavano chiuse i lucchetti delle catene che lo legavano al muro. Si sentiva nauseabonda dal terrore, ma allo stesso tempo era conscia di una sensazione di profonda soddisfazione davanti alla riuscita della prima parte della sua vendetta. Infine si era accasciata sul letto, sentendosi svenire.
“Apri le finestre!” aveva comandato a Rondo.
Dopo che il servo si fu allontanato ella si addormentò, ma fu perseguitata da incubi orribili. Le sembrava di alzarsi e di sgattaiolare per il castello, furtiva e silenziosa come un fantasma. Confuse e orribili immagini di sangue e di visi morenti le apparirono in sogno. Si svegliò per scoprire che nel sogno si era alzata, e che si stava affacciando da una delle finestre dai vetri incorniciati da bordi di piombo.
Mi ha forse stregata? si domandò, e mentre la luce del giorno si diffondeva per la camera cadde nuovamente sul suo letto e si addormentò.
Si svegliò solo verso sera e, fremendo, scese giù nella cripta. Ma la sua paura si attenuò quando vide il nemico incatenato. E così si abituò, sera per sera, a scendere nelle segrete...

Mentre i giorni passavano, ella pensava sempre meno ad altre cose, e infine viveva soltanto per i momenti in cui si recava dal suo prigioniero e guardava nei suoi occhi selvaggi - gli occhi di un falcone rinchiuso in gabbia. Quando le sue suppliche la stufavano lo faceva tacere con la frusta; anche nel manico di questa aveva intagliato il simbolo della croce, affinché egli non potesse strappargliela di mano.
Gli incubi continuavano a perseguitarla. Il crudele incantesimo sembrava allargarsi in tutto il castello: alcuni servitori fuggirono, altri vennero a riferirle di casi di casi di morte accaduti al villaggio; ma ella quasi non li ascoltava, li scacciava via come insetti fastidiosi. Il portatore di morte è al sicuro, incatenato nelle segrete, pensava; la gente non può più attribuire questi decessi a visitazioni soprannaturali e spiegare qualsiasi tipo di morte in questo modo.
Era impaziente e crudele, il suo unico desiderio era divenuto quello di scendere nelle segrete e torturare il suo prigioniero, per poi tornare nella sua camera e addormentarsi, completamente esausta.
La popolazione del villaggio brontolava perché Padre Milo non era più tornato. Inviarono da lei alcune anziane donne affinché le chiedessero di appuntare un nuovo prete.
“Volete forse darmi degli ordini?” ella gridò loro, camminando in fretta su e giù per il salone. Quando la piccola delegazione se ne fu andata, essa si guardò allo specchio, sgomenta, e pensò: Mi crederanno impazzita.

Così passarono altre tre lune, senza che cambiasse quasi nulla. Infine venne una notte in cui Angelo quasi non si mosse quando ella gli parlò. Era disteso sulla paglia, tra le catene, e sembrava privo di sensi.
Finalmente egli aperse gli occhi e mormorò: “Godete della mia vista quanto volete, Madonna. Non ho più molto da vivere. Ma io vedo anche come state cadendo sempre di più nella perdizione. Non per me, ma per Voi stessa ve lo chiedo: fatela finita.”
“Ma guarda,” ella lo sbeffeggiò,” il diavolo si ammalò, e volle farsi monaco! Volete che vi faccia ordinare da Padre Milo nella nostra cappella di famiglia?”
“Non sono un mostro di crudeltà,” egli replicò, “anche se non posso rimproverarmi di ritenermi tale. Eppure, Teresa, io mi trovo qui, fermamente incatenato. Allora perché la vostra gente muore?”
Ella fece spallucce, noncurante. “Quelli crepano come le mosche. È forse compito mio sorvegliare i loro corpi, o le loro anime?”
La creatura incatenata le gettò uno sguardo strano, come se la volesse mettere alla prova. “Una volta non avreste parlato così. Una volta eravate buona e pia.”
“Anche se io fossi un demonio appartenente all’ultimo girone dell’inferno - chi, se non Voi, mi avrebbe reso tale?”
Egli quasi rise. “No, Voi vi siete protetta bene da me; ma chi vi ha protetto dal mostro che si trova in Voi stessa?”
“Tacete!” essa gridò con voce stridula. “Tacete!” Fece sibilare la frusta direttamente sul suo volto, e l’uomo si accasciò con un urlo di insopportabile dolore. Sangue scorreva dalle sue labbra lacerate.
Teresa lasciò cadere la frusta e cadde in ginocchio vicino a lui.
Ha detto la verità, si sta avvicinando alla sua fine, pensò. Che dunque rimanga qui per l’eternità.
Il crocefisso che ancora portava attaccato a una catena al collo oscillava lentamente da un lato all’altro e gettava strane ombre sul suo prigioniero. Involontariamente, i suoi pensieri presero un’altra direzione.
La mia vendetta l’ho avuta. Non è ancora troppo tardi per abbandonare l’odio e fare ciò che Padre Milo mi diceva: di porre fine alle sue sofferenze e lasciarlo alla misericordia divina. Devo solo infilargli un pugnale nel cuore... Mi ha detto lui stesso che non può ritornare dai morti. Ma io posso pregare per lui dopo la sua morte e fare penitenza, e ottenere la clemenza del Signore. E Angelo - lui diverrà cenere, come avrebbe già dovuto accadere tanto tempo fa, e dovrà rispondere dei suoi malefici davanti a Dio.
Aveva la sensazione che la cella brulicasse di spiriti che la guardavano, in attesa; le sembrava di trovarsi a un bivio, aspettando che un condannato venisse giustiziato o perdonato, e la creatura condannata era essa stessa. Poteva scrollarsi di dosso l’odio e invocare misericordia, oppure...
Le sue labbra si incresparono in un sogghigno crudele. No, mai e poi mai avrebbe rinunciato al piacere che aveva trovato qui! No, che egli soffrisse, soffrisse per l’eternità! Chi aveva bisogno del perdono di Dio? Tanti vivevano al di là del Suo regno!
“È troppo tardi allora,” disse l’uomo ad un tratto.
Teresa ebbe un moto di raccapriccio. Ma egli si sollevò e le si avvicinò inarrestabile, alzando le braccia e spezzando le catene che gli avevano trattenuto mani e piedi.
Teresa lanciò un urlo, si ritrasse impaurita e volle alzarsi. Inciampò sulla frusta caduta in terra, cadde sul lastricato e Angelo fece due passi e si trovò in piedi dinanzi a lei.
“La mia intenzione era di salvarvi,” disse. “Ricordatevi dei vostri incubi, Teresa: non erano cominciati già molto prima che io venissi al Castello di Speranza?... Molti anni fa una donna della famiglia Fioresi sposò un uomo dei Speranza; ed io sapevo che almeno un membro della vostra famiglia lo avrebbe ereditato, il sangue della mia casata. Se si fosse trattato di Rico, lo avrei preso al mio servizio come paggio, per vigilare su di lui e proteggerlo. E avrei salvato anche Voi,” mormorò con voce quasi inaudibile. “Vi avrei protetta come una cosa più preziosa per me della mia stessa vita. Vi ho sorvegliata, guardato la vostra sicurezza, vi ho protetta, anche prima di sapere la verità su di Voi. Per salvare vostro padre era ormai troppo tardi.”
La giovane si fece sfuggire un grido di orrore mentre comprendeva il significato di queste parole. Ma ma egli continuò, inesorabilmente.
“Quando Rico morì non sopportai il dolore, e nella mia disperazione, non sapendo come fare per proteggervi, mi confidai con Cassilda. Non immaginavo che si sarebbe uccisa, incapace di sopportare il terrore. Speravo che insieme avremmo potuto proteggervi finché avrei potuto spiegarvi, cautamente, chi siete veramente, affinché non ne prendeste danno. Volevo farvi accettare la verità, non come qualcosa di orribile ma soltanto come un altro modo di vivere; un’altra natura, che esiste seguendo le proprie regole, senza per questo significare pericolo per gli altri.” Sospirò. “Non ho ucciso io i vostri familiari,” proseguì. “Da più di duecento anni vivo così, e sin dal primo giorno in cui seppi della mia vera natura nessun essere umano è morto per causa mia. So bene come... nutrirmi... della linfa vitale degli esseri umani, senza arrecare danno peggiore di un salasso eseguito da un medico. Non sono né cattivo né crudele, Madonna, per il semplice fatto di vivere come il destino me lo impone.”
Si chinò su di lei. Fuori di sé dalla paura, essa gli spinse incontro il crocefisso.
“No,” egli disse piano, prendendola per le spalle, “questo non vi proteggerà più.”
Quasi tristemente aggiunse: “Sono cresciuto con il timore di questo simbolo. Nel mio cuore e nella mia mente è impresso a fuoco che non ho il diritto di toccare nessun essere umano che si rivolge a Dio implorando la Sua protezione. Finché non sapevate chi siete, Teresa, finché c’era ancora la possibilità che vi atteneste alla vostra religione in vera, sincera fede, non potevo vincere questo simbolo della vostra seria convinzione. E anche le croci che avevate intagliato nelle mie catene mi ostacolavano, perché nel farlo eravate convinta di dover proteggere Voi e gli altri dalla mia malvagità. Ma ormai Voi stessa siete divenuta un essere iniquo. Non potete più chiedere la grazia di Dio. La croce è ormai solo un simbolo vuoto e senza senso per Voi, e quindi non può trattenermi.”
Le strappò il crocefisso dal collo, lo guardò mestamente e quindi lo lasciò cadere al suolo.
“Forse è vero che io non ho mai posseduto un’anima,” disse con voce stanca. “Ma Voi, Madonna Teresa, avete gettato via la vostra. Ormai siete un mostro tale da non avere posto in nessun luogo al mondo, neppure tra la mia gente.”
L’ultima cosa che la contessina scorse chiaramente prima che una nebbia rossa si calò su di lei come per soffocarla era il volto addolorato del suo prigioniero.

In quella notte gli abitanti del villaggio accorsero perché il Castello di Speranza stava andando in fiamme; non poterono più fare nulla.
Nessuno si accorse dell’uomo silenzioso, sfigurato da cicatrici, che si addentrava a cavallo nel bosco, lentamente, piegato sulla sella come da un dolore e rammarico infiniti. Non guardò indietro una sola volta, ma continuò per la sua strada con il capo chino sul collo del cavallo. Solo di quando in quando mormorava una parola.
“Teresa... Teresa...”



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Martin scopre la cometa di Natale
Racconto di famiglia


L’inverno con le sue notti ricche di stelle scintillanti è ormai vicino, e i gemelli quindicenni Christoph e Görge hanno acquistato una serie di lenti e si sono messi d’impegno a costruire un cannocchiale; lo vogliono anche appendere in parallasse.
Il loro fratellino di cinque anni, Martin, gironzola intorno ai due astronomi in erba per qualche giorno con le mani in tasca e di quando in quando fa delle domande. Quindi se ne ritorna nella sua cameretta.
“Ragazzi,” chiede una sera a cena, “credete che io possa vedere una stella con questo?” Dicendo così estrae dalla tasca dei pantaloni un vecchio rotolo di filo, se lo tiene davanti agli occhi e lo dirige verso la lampada appesa sopra al tavolo. “Perché questo è il mio cannocchiale.”
“Fa’ un po’ vedere,” dice Christoph ridendo.
“Qui ci ho messo una lente. Pensi che basti per vedere una stella?”
Christoph strizza gli occhi e guarda attraverso il rotolo. “Certo che si può vedere una stella. Si può vedere di tutto. Non tanto bene come a occhio nudo, ma comunque…”
Il padre vorrebbe sapere di che tipo di lente si tratta. Christoph gli dà il rotolo: la lente è un coccio di vetro triangolare, che Martin ha fissato davanti all’apertura con dei chiodini.
“Ma che cannocchiale fantastico,” dice il padre, guardando la lampada con un occhio attraverso il rotolo. Un’ondata di tenerezza e di gratitudine per il figlio lo pervade.
“Papà, pensi che io possa vederci una stella?”
“Certo, le puoi vedere tutte. Rieccoti il tuo cannocchiale.”
Allora anche la mamma vuole dare un’occhiata. Prima ammira la piccola costruzione da tutti i lati, quindi la accosta all’occhio per guardare. Alla fine riappoggia il cannocchiale sul tavolo con attenzione, mette le mani davanti al viso, le abbassa un poco e sopra alle dita getta al padre uno sguardo luminoso.
“Ci posso vedere anche la luna?” domanda Martin.
Görge obbietta che questa sera non c’è la luna.
“Ma le stelle?”
“Di stelle ne bastano e avanzano.”
“Allora voglio guardare due… anzi tre stelle attraverso il mio cannocchiale.”

Non appena è finita la cena, Martin corre in terrazza e perlustra il cielo con il suo rotolo di filo. Dopo un quarto d’ora struscia nella biblioteca e aspetta che il padre, che sta leggendo il giornale, alzi lo sguardo.
“Allora, Martin?”
“Non ne vedo di stelle, purtroppo.”
“Perché no?”
“Ci sono solo dei puntini.”
“Le stelle sono fatte così: hanno l’aspetto di puntini scintillanti.”
“Ma nel mio libro illustrato sono tutte diverse: hanno le punte grandi e grosse.”
Il padre riflette che i disegnatori forse farebbero meglio a essere un po’ più realistici: adesso tocca a lui consolare il figlio della delusione che gli hanno causato.
“Le stelle normali hanno l’aspetto di puntini, Martin. E anche quando le guardi attraverso il cannocchiale dei ragazzi sono ancora dei puntini. Non c’è niente da fare, purtroppo. L’unica eccezione è forse la cometa di Natale, quella probabilmente è tutta fatta di luci e bagliori.”
“La posso vedere la cometa con il mio cannocchiale?”
“Non credo, Martin. Ai nostri tempi la cometa di Natale non compare più. Io almeno non l’ho mai vista.”
“Peccaaaaato.”

Infine arriva la sera in cui i gemelli finalmente montano il loro cannocchiale all’aperto, per scrutare le meraviglie dello spazio. Ormai fa molto freddo; fra poco sarà Natale, e la neve fresca brilla alla luce delle stelle. Il resto della famiglia partecipa al grande evento ben imbacuccata. Christoph e Görge si sono perfino dimenticati le giacche, tanto sono eccitati. Vogliono vedere se riescono ad osservare le lune di Giove. Ma sembra che non sia tanto facile scoprire una determinata stella fra tutte le altre: il cannocchiale va toccato solo con le punte delle dita, perché il minimo movimento basta per far scomparire dalla vista il tentennante puntino tanto inseguito.
“Smettila di correre in giro, Viola!” esclama Görge irritato in direzione della sorella di otto anni.
“Ma qual è Giove?” domanda Martin.
Il padre indirizza lo sguardo del bambino al di sopra della punta di un pino silvestre fino alla cintura di Orione, e da lì fino alla stella Aldebaran e le Pleiadi fino alla grande stella lucente che vi si trova sopra, su un lato.
“Eccolo lì Giove.”
Martin alza il bavero del cappotto e fruga nella sua tasca. Quindi appoggia il suo cannocchiale all’occhio, inclina indietro il capo e cerca Giove.
A un tratto dice piano, come a sé stesso: “Oh!” Un’altra volta, sconcertato: “Oh!” E ancora, tutto stravolto: “Oh!”
“Cosa c’è?” chiede il padre.
“Vedo la cometa di Natale!” sussurra Martin, senza togliere il rotolo di filo dall’occhio.
“Davvero? E com’è fatta?”
“Con tutti i raggi intorno, gialli, verdi e d’oro.”
Al che anche il padre deve guardare attraverso il cannocchiale di Martin. E davvero, intorno a Giove c’è uno splendore, un luccichio da non dirsi.
Ma il padre si accorge ben presto da dove viene questa esplosione di luce: sul coccio di vetro si trovano due macchiette di grasso una sopra l’altra, e nei piccoli solchi la luce della stella si infrange e si divide in tanti riverberi.
“Adesso, adesso!” esclama Christoph dall’altra parte della terrazza. “Le ho trovate. Se ne vedono due. Due lune, chiarissime!”
Viola saltella da una gamba all’altra. “Fatemi vedere!”
“Prima io,” fa Görge. “Tu non te ne intendi di queste cose.”
Intanto il padre mette indietro il piccolo cannocchiale nella mano di Martin e dice che non ha mai visto una stella più miracolosa in vita sua. “Vieni, facciamola vedere alla mamma.”
“L’hanno vista anche Christoph e Görge la cometa di Natale?”
“No. Il loro cannocchiale è fatto solo per le stelle comuni.”
“Quale cannocchiale trovi che sia meglio, quello mio o quello dei ragazzi?”
“Un cannocchiale attraverso cui si può vedere la cometa di Natale è certamente unico in tutto il mondo.”
“Oh…” fa il piccolo Martin.



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La potente e magica signora Berchta, chiamata anche Perchta o Holle, fa fermamente parte delle credenze tedesche. Compare già molto prima delle dodici sante notti di Natale, e il suo giorno, il 6 gennaio, sin da tempi andati era un giorno di festa giacché segnava la fine delle notti d’incenso, durante le quali si credeva che vagassero in giro gli spiritelli maligni.
Per rendersi amica la signora Berchta la gente le offriva del cibo che collocava sul tetto della propria casa, dato che la signora volava per aria; oppure apparecchiava una tavola per lei fuori di casa. Di solito era una ragazza a portare in tavola il cibo, e se in questi attimi sentiva abbaiare un cane, ciò significava che da quella direzione sarebbe un giorno venuto il suo futuro sposo.
La signora Berchta sa essere buona e generosa, lasciando oro e monete alle brave lavoratrici; ma intuisce se una è avida ed egoista, e se necessario la punisce.


La luce spenta


Ai piedi della montagna si trovava una vecchia fattoria. Ogni notte dell’Epifania, che in quelle regioni veniva anche chiamata “la notte della Berchta”, passava di lì la signora Berchta con la sua slitta, accompagnata da un nugolo di folletti.
Sin da tempo immemorabile vigeva la tradizione che la contadina posasse una tavola imbandita vicino alla vecchia strada cava dove doveva passare il tratto. La signora Berchta benediva i doni e i donatori, assaggiava un po’ il cibo e per tutto l’anno rimaneva bendisposta verso i campi, le bestie e la famiglia e i servitori della fattoria. Però c’era un regolamento severo: a nessuno era permesso di uscire di casa per origliare o spiare, affinché la signora Berchta non si sentisse importunata da sguardi curiosi mentre si ristorava.
Una di queste sere, dopo che la contadina aveva come suo solito accuratamente disposto la tavola vicino alla gola e la luna stava appena per sorgere sulla foresta montana, la domestica più giovane non stette più nella pelle dal dubbio e dalla curiosità.
Non vista sgattaiolò dalla casa, si nascose dietro al fienile e sbirciò la tavola imbandita, sulla quale si trovavano le vivande fumanti.
Così attese, impaziente, passando da un piede all’altro. Ma non si vedeva nulla; non un coniglio saltellava sul nevaio, non un uccello faceva capolino dai rami ghiacciati della betulla che alla luce della luna si chinava sulla tavola e sembrava fatta di cristallo. Il silenzio dell’attesa le fece venire sonno, e la ragazza cominciò a perdere la fede nelle credenze della vecchia contadina.
Finalmente dalla foresta montana si alzò un lieve frinire, come dei canti accompagnati da strumenti a corda, che si avvicinò insieme a passetti che zampettavano nella morbida neve: erano i folletti. Davanti a tutti camminava la signora Berchta stessa, e intorno a lei la luce della luna si addensava facendola splendere tutta. I piccoli erano appesi ai suoi capelli o si nascondevano sotto al suo fluttuante mantello come i pulcini sotto l’ala di una chioccia. Altri canticchiavano con voci argentine e suonavano strumenti che ricordavano piccole cetre e violini. Alla fine del corteo, altri folletti spingevano e tiravano un pesante aratro che strusciava sui campi; altri portavano brocche ricolme di una rugiada dorata, che di quando in quando sciabordava e attraversava la neve appoggiandosi sul suolo dormiente.
Improvvisamente, la signora Berchta si fermò poco prima del tavolo riccamente imbandito e disse a uno dei folletti: “Vedo due luci di troppo: vai a spegnerle.”
La ragazza nascosta dietro alla porta di legno sentì un fiato gelido sulle ciglia, e la luce della luna si spense; l’oscurità scese su di lei come un sacco nero. Il bel canto che aveva sentito si spense in un triste lamento. Spaventata, ella aprì la porta, ma anche fuori rimase prigioniera della sua notte senza luce. La luna era morta.
Infine tornò a tastoni, piangendo, alla fattoria, e nella cappa del camino cercò invano la consueta luce del fuoco; ma questa volta il bruciore del focolaio le bruciò solo la pelle e i capelli, senza farle vedere nulla. Era cieca, e cieca rimase, e non c’era medicina o preghiera che potesse guarirla.

Nella fattoria si trovava una donna molto anziana, che vi aveva lavorato tutta la vita, e faceva ancora parte del mondo antico. A ogni ora era seduta vicino al focolare, tesseva immersa nell’odore del fumo e vedendo molte cose invisibili agli altri. Sapeva molto delle vecchie leggende e credenze, e conosceva più cose riguardo ai cambiamenti della natura e lo sviluppo delle cose di molti altri. A volte, mentre stava tessendo, fermava ad un tratto la ruota dell’arcolaio, metteva in grembo le sue mani vizze, guardava dinanzi a sé come se vedesse lontano, e sospirava come persa in un ricordo felice: “Eh sì, quelli sì che erano tempi quando Berchta filava!” E i suoi vecchi occhi scintillavano come se potesse vedere la magica donna.
Ora la giovane serva, che un tempo era stata lesta e vispa, fu costretta a passare molto tempo vicino all’anziana signora e il camino a tessere, spezzare il lino, cardare la lana e fare altri lavori di cui è capace anche un cieco. Ma nonostante la vicinanza del fuoco era sempre rigida e rattrappita, e la sua giovane anima era congelata dall’afflizione per avere perduto la vista. Così rimase piena di durezza e ripicca per tutto il resto dell’inverno, e nessuna parola di conforto della vecchia riuscì a scaldarla.
Quando però infine la primavera si fece largo da tutti i pertugi e il primo canto degli uccelli si fece udire dal giardino fiorito, anche l’anima della giovane si risvegliò, e presa da improvvisa gioia esclamò: “Senti, nonna, come cantano gli uccelli! Chissà cosa potrebbero raccontarci, se avessero la favella! Cosa potremmo apprendere, se sapessimo la lingua degli animali!”
La vecchia sorrise e rispose: “È da molto che aspetto questa musica. Allora voglio raccontarti delle esperienze che ho fatto e le cose che ho imparato, ai tempi che Berchta era ancora tra noi.”
Così ella annodò un filo nuovo a quello vecchio e si mise a raccontare le vecchie storie dei suoi tempi: della donna dei boschi, della vecchia zia tessitrice, della signora del giardino di rose e della madre dei folletti. La giovane la incitò a raccontarle ancora e ancora, e così il buio che aveva dentro di sé venne poco a poco rischiarato.
Infine venne la fine dell’anno e ritornarono le dodici notti sante, in casa si spanse il profumo di panpepato e la promessa della nascita del Redentore si sentiva ovunque, mentre il sole si preparava a rinascere dall’ombra nella notte del solstizio.
Spesso, di notte, la ragazza cieca restava silenziosa, come in ascolto, nel suo letto e ripensava a tutto ciò che le aveva raccontato la vecchia. Era come se avesse visto sé stessa in uno specchio, e come se questo specchio le avesse aperto gli occhi dell’anima. Aveva visto e sofferto tutto ciò che aveva udito come se fosse accaduto a lei, e ora, ascoltando nella notte di Natale, sapeva che doveva compiersi qualcosa. Così rimase sveglia, finché non sentì uno strano confabulare proveniente dalla vicina stalla.
Udì il toro che si arrotava le corna al legno della mangiatoia, e dal suo muso sentì chiara la sua voce che domandava, ruminando, alla mucca: “Hai sentito anche tu che signora Berchta vuole perdonare alla cieca?”
E la mucca gli rispose: “Sì, e ho anche sentito che vuole ridarle la vista.”
“E come farà?” chiese il toro con tono cupo.
“Accadrà come la signora Berchta dirà alla vecchia nonna.”
Tutto questo la ragazza cieca lo sentì come in un sogno. Non riuscì a muovere nemmeno un muscolo, e per il resto della notte le sembrò di sentire voci confuse e di vedere, nel sonno, visi bui e appannati.
La mattina dopo raccontò alla vecchia ciò che aveva sentito dire le bestie. Ed ella le rispose: “Questa notte in sogno ho visto la signora Berchta valicare i monti. Aveva le sembianze della mia defunta madre, mi ha salutata gentilmente e mi ha incaricata di darti un messaggio: la sera del sei gennaio, quando è la sua notte, ti chiede di prepararle ancora una volta la tavola.”

Così accadde che quando il sole fu tramontato la sera del dodicesimo giorno santo, la vecchia nonna prese per mano la ragazza cieca e la accompagnò alla gola del monte. E sotto alla betulla la cieca apparecchiò la tavola con una tovaglia di lino bianco, che lisciò con cura prima di posarvi sopra scodelle e brocche. Dalle sue mani che lavoravano a tentoni salì il ricordo dell’anno passato, quando questa tavola imbandita era stata l’ultima cosa che aveva veduto prima di piombare in una notte eterna. I suoi occhi si tramutarono in due pozzi viventi, e le gocce salate trapelarono nel lino bianco.
Allora sentì una voce dolce, proprio sopra la sua fronte: “La luna è sorta, chi piange, chi si affligge?”
“Oh,” disse la ragazza incolpandosi, “volevo vedere la signora Berchta con i miei occhi, anche se lei non desidera essere vista. Non ci credevo, e per punizione ho perduto la luce della luna, del sole e di tutte le altre cose.”
E la signora Berchta, che era ritornata insieme ai suoi folletti, rispose: “È così: un anno fa ho spento i tuoi occhi, ma al loro posto dentro di te si sono accese due luci nuove. Porta dunque una luce doppia, vai in pace e non dimenticare ciò che hai imparato.”
Soffiò sopra agli occhi morti della ragazza, e intorno a questa la luce rifiorì con tutte le stelle, e tutto intorno a lei era come era stato l’anno prima.
Anche la luna splendeva, la tavola si trovava imbandita sotto alla betulla scintillante di ghiaccio. Ma la signora Berchta era già ripartita valicando i monti, e solo da lontano si sentiva ancora un lieve cantare e suonare di minuscoli strumenti.



Traduzione: gennaio 2017
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



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Edited by Delari - 25/1/2017, 22:41
 
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