La Geltrude della pioggia - parte 3
Favola nordicaFu così che Maren proseguì da sola per il gran prato sotto agli altissimi alberi, e ben presto Andrees non riuscì neppure più a scorgerla.
La ragazza continuò a camminare ancora e ancora nella landa deserta. Dopo un po’ i gruppetti di alberi finirono, e il suolo davanti a lei si inabissò. Maren si avvide che stava camminando nel letto prosciugato di un corso d’acqua; il fondo era coperto di sabbia bianca e ciottoli, e qua e là si trovavano dei pesci morti con le scaglie argentate che luccicavano al sole. In mezzo al bacino scorse un uccello di una specie a lei sconosciuta; era grigio e ricordava un airone, ma era talmente grande che se avesse sollevato il capo sarebbe stato più alto di un essere umano. Ma ora aveva appoggiato il lungo collo sulle ali e sembrava dormire.
Maren si sentì timorosa. A parte l’inquietante e muto uccello non si vedeva un solo essere vivente; neppure il ronzio di una mosca interrompeva il silenzio che poggiava sul posto come uno sgomento tangibile. Per un attimo pensò di chiamare il nome del fidanzato, ma non ne ebbe il coraggio; il pensiero di sentire echeggiare la propria voce in questa landa squallida le incuteva più paura di ogni altra cosa.
Così puntò il suo sguardo fisso all’orizzonte, dove si vedevano nuovamente crescere gruppi di alberi, e continuò per il suo cammino senza guardare né a sinistra né a destra. Il grande uccello non si mosse mentre lo oltrepassò silenziosamente; solo per un attimo le parve di vedere un bagliore nero sotto alle bianche palpebre chiuse. La ragazza respirò, sollevata.
Dopo un altro lungo cammino il letto del lago si strinse e divenne il canale di un ruscelletto che attraversava un boschetto di tigli. Le ramificazioni di questi alberi giganteschi erano talmente fitte che nonostante la scarsezza di foglie non lasciavano filtrare neppure un raggio di sole. Maren continuò ad andare avanti nella strada tratta dal canale, con la volta degli alberi sopra di sé ed una inaspettata sensazione di fresco intorno; le sembrava di trovarsi in una grande chiesa. Ma tutto a un tratto i suoi occhi furono colpiti da una luce accecante; gli alberi non c’erano più, e davanti a lei si innalzavano delle rocce grigie colpite dagli sferzanti raggi del sole.
La ragazza si trovò in un bacino sabbioso, completamente asciutto, dentro cui probabilmente un tempo si era gettata una cascata proveniente dalle rocce ora secche. Aguzzò gli occhi per vedere se si snodava una via per salire sulle rocce -
- Improvvisamente si spaventò. Quello che vide a metà strada sulla caduta delle rocce non poteva essere parte delle pietre, anche se si trovava nell’aria immobile con aspetto altrettanto grigio e stecchito; Maren si accorse presto che si trattava di un abito che copriva, cadendo in lunghe pieghe, una figura giacente.
Trattenendo il respiro, Maren si avvicinò. Finalmente riconobbe con chiarezza che si trattava di una donna, alta e dalle fattezze maestose. Il suo capo era abbandonato sulle rocce; i capelli biondi, lunghi fino ai fianchi, erano sporchi di polvere e di foglie rinsecchite.
La ragazza la osservò attentamente. ‘Deve essere stata molto bella,’ pensò, ‘prima che le sue guance diventassero così flaccide, e i suoi occhi così infossati. E che labbra pallide! Che sia lei, Geltrude della pioggia? Non sembra neppure che dorma; deve essere una donna morta! E com’è tutto quieto e sperduto qui!”
Maren si fece coraggio. Si avvicinò alla donna e si inginocchiò accanto a lei, e, avvicinando la bocca all’orecchio marmoreo della figura silenziosa, cominciò a recitare con fermezza:
“Evaporata è l’onda,
Divenuta polvere è la sorgente!
Silenziosi sono i boschi,
L’Ometto di Fuoco danza nei campi!”
Dalla pallida bocca della donna uscì un rantolo profondo e pieno di rammarico; la ragazza continuò, con ancora più insistenza:
“Fai attenzione!
Se non ti svegli,
Una notte verrà Madre Terra
A riportarti a casa.”
Un lieve brusio si levò in cima agli alberi, e da molto lontano si udì qualcosa come un tuono. Immediatamente dopo un suono stridente lacerò l’aria: sembrava venire dall’altra parte delle rocce e ricordava il verso rabbioso di una bestia. Spaventata, Maren si girò per vedere da dove fosse venuto quel suono; quando ritornò a vedere sul posto, la figura della donna stava diritta in piedi dinanzi a lei.
“Cosa vuoi da me?” chiese.
“Oh, dama Geltrude!” rispose la ragazza, rimanendo in ginocchio. “Avete dormito tanto a lungo che ogni pianta e ogni animale sta per morire di sete!”
La donna la guardò con gli occhi spalancati; sembrava risvegliarsi da un sonno popolato da sogni pesanti.
Infine chiese, con voce afona: “Ma la sorgente non getta più acqua?”
“No, dama Geltrude.”
“E il mio uccello, non vola in cerchio sopra il lago?”
“Sta fermo al sole e dorme.”
“Ohimè!” gemette la donna della pioggia. “Dobbiamo affrettarci. Alzati e seguimi, e porta con te la brocca che si trova lì vicino a te.”
Maren obbedì, e le due donne cominciarono a salire sul lato delle rocce. Qui si trovavano alberi ancora più possenti e fiori ancora più belli, ma era tutto vizzo e inodore. Le due donne costeggiarono il canale del ruscello che dietro di loro aveva formato la cascata gettandosi dalle rocce. La donna della pioggia camminava piano e con passo malfermo, solo di quando in quando si guardava intorno sconsolata. A Maren parve che dove ella posasse il piede si formasse un velo verde sull’erba, e quando il suo abito grigiastro toccava il fogliame dei cespugli si sentiva un fruscio come di acqua corrente, che le fece aguzzare l’orecchio.
“Sta già piovendo, dama Geltrude?” domandò.
“No, bambina mia, devi prima riaprire il pozzo.”
“Il pozzo? Dove si trova?”
Le due si erano appena lasciate alle spalle un piccolo boschetto.
“Là!” disse la dama Geltrude, e alcune migliaia di passi davanti a loro, Maren vide alzarsi davanti ai loro occhi un’imponente costruzione. Sembrava un mucchio di sassi, messi gli uni sopra gli altri frastagliati, senza ordine; parevano raggiungere il cielo, perché la parte superiore si perdeva in un una sfumatura di luce e di vapore. Per terra, la facciata percorsa da grandi sporti era interrotta da archi ogivali che ricordavano porte e finestre, benché vere porte o finestre non si vedessero.
Le due donne impiegarono un po’ di tempo per avvicinarsi alla costruzione; infine dovettero fermarsi davanti alla sponda di un fiumiciattolo che vi scorreva intorno come un anello. Anche qui l’acqua era evaporata, solo un sottile rigagnolo scorreva ancora nel mezzo; sul fondo del letto del fiume secco si trovava una barca sfracellata.
“Attraversa il letto del fiume!” le disse la dama Geltrude. “Questa forza oscura non ha potere su di te. Riempi bene d’acqua la brocca, ne avrai bisogno.”
Quando Maren, obbediente, scese dalla sponda del fiume, si trattenne a stento da ritornare indietro; il caldo qui era così intenso che lo sentiva attraverso le suole delle scarpe.
‘Non importa,’ pensò, ‘che si rovinino pure!’ E continuò alacremente per la sua strada, tenendo ben stretta la brocca.
Ad un tratto nei suoi occhi si dipinse l’orrore: vicino a lei il fango rinsecchito si aprì e una manona dalle dita storte e rossicce ne fuoriuscì e fece per agguantarla.
“Coraggio!” la incitò la voce di dama Geltrude dalla riva del fiume.
A Maren sfuggì un grido di spavento, al suono del quale l’apparizione scomparve.
“Chiudi gli occhi,” sentì nuovamente la voce della donna dietro a sé.
Allora Maren continuò a camminare tenendo chiusi gli occhi; quando sentì dell’acqua sotto ai suoi piedi si chinò e riempì la brocca. Quindi risalì l’altra sponda senza difficoltà e senza incontrare altri pericoli.
Infine raggiunse lo strano castello e, con il cuore che le batteva in gola, attraversò uno dei grandi archi aperti.
Si fermò in entrata, piena di stupore. L’interno della costruzione sembrava formato da un solo, grandissimo spazio. Imponenti colonne di concrezioni calcaree da gocciolamento portavano un soffitto tanto alto da essere invisibile; a Maren sembravano quasi delle enormi ragnatele che pendevano qua e là come tanti pizzi e frappe.
La ragazza rimase in piedi come sperduta e si guardò intorno, ora di qui, ora di là, ma gli enormi spazi sembravano essere infiniti fuorché l’apertura da cui era entrata; colonna dopo colona si perdeva davanti ai suoi occhi, e per quanto si sforzasse Maren non riusciva a vederne la fine. Infine il suo sguardo si posò su un infossamento nel terreno. E davvero!, non lontano da lei si trovava il pozzo; era chiuso da una botola e lì accanto si trovava una chiave d’oro.
Mentre si avvicinava, la ragazza notò che il suolo non era coperto da lastre di pietra come vi era abituata dalla chiesa del suo villaggio, ma da canneti ed erbe rinsecchiti; ma ormai non si stupiva più di nulla.
Finalmente si trovò vicino al pozzo e stava per prendere in mano la chiave; ma ritrasse in fretta la mano, perché si avvide che la chiave, splendente alla luce di un raggio di sole che entrava dall’esterno, aveva il suo colore perché scottava, non perché era d’oro. Senza indugio vi versò sopra il contenuto della brocca: l’acqua evaporò emettendo un sibilo che echeggiò dappertutto negli ampi spazi. Quindi aprì la porticina del pozzo.
Non appena ebbe aperto la botola, dal profondo della terra uscì un odore fresco che lentamente si sollevò tra le colonne sotto forma di uno strato umido, come una nebbia leggera.
Pensierosa, respirando a grandi boccate l’aria fresca, Maren andò in giro per il castello. In quel momento ai suoi piedi avvenne un nuovo miracolo: come un soffio un verde chiaro si fece largo tra le piante secche, i fili d’erba si raddrizzarono, e ben presto la ragazza passeggiò tra una profusione di fiori e foglie che germogliavano.
Ai piedi delle colonne i non-ti-scordar-di-me dipinsero il suolo di azzurro; in mezzo, iridi gialle e viola fiorirono e sparsero un dolce profumo. Dalle punte delle foglie si sollevarono libellule, scrollarono le loro ali e quindi si innalzarono in volo, scintillando e danzando, sopra le corolle dei fiori, mentre il fresco profumo proveniente dal pozzo riempiva sempre di più l’aria e si muoveva tra i raggi di sole come tante scintille argentate.
Proprio mentre Maren pensò che non avrebbe mai potuto finire di ammirare e meravigliarsi, dietro di sé sentì un sospiro da una voce femminile, come di una persona che si sta mettendo a suo agio. E infatti quando voltò lo sguardo verso il pozzo vide che sul muschio cresciuto sul suo bordo si trovava seduta una bellissima, florida donna vestita di una lunga veste bianca e argentata come una perla. Aveva appoggiato il capo su una delle sue braccia nude e lisce, i lunghi capelli biondi scendevano sulle sue spalle come onde morbide e lucenti; il suo sguardo era rivolto alle colonne che reggevano il soffitto.
Involontariamente, anche Maren sollevò lo sguardo: allora si accorse che ciò che a lei erano sembrate enormi ragnatele non erano altro che i tessuti velati delle nuvole che, riempite dal profumo che si levava dal pozzo, si appesantivano sempre più. Una delle nubi si staccò dal soffitto e scese fluttuando lentamente, sicché Maren vide il viso della bella donna vicino al pozzo solo come attraverso un velo grigiastro. Allora questa batté le mani, e la nuvola uscì galleggiando all’aperto dalla finestra più vicina.
“Allora!” disse la bella donna. “Ti piace?” Sorrise e tra le sue labbra rosee si intravidero dei bei denti bianchi.
Quindi fece cenno a Maren di avvicinarsi e sedersi vicino a lei sul muschio; e quando una nuova intessitura di vapore si staccò dal soffitto, disse: “Ora batti le mani!”
Maren obbedì e anche questa nuvola uscì all’aperto come la prima, e la donna disse: “Vedi com’è facile! Sei quasi più brava di me.”
Maren guardò la bella e allegra donna con sorpresa. “Ma voi,” domandò, “chi siete?”
“Chi sono? Ma bambina, che domanda sciocca!”
La ragazza la guardò ancora una volta titubante e quindi disse, esitando: “Siete voi Geltrude della pioggia?”
“E chi altri dovrei essere?”
“Perdonatemi! Ma siete così cambiata; adesso siete così bella, e piena di vita.”
Al sentire queste parole, la dama Geltrude si fece silenziosa. “Sì, e te ne sono grata. Se non mi avessi svegliata la battaglia l’avrebbe vinta l’Ometto di Fuoco, e io sarei dovuto tornarmene sottoterra dalla madre.” Si strinse un po’ nelle bianche spalle in un gesto di raccapriccio, e aggiunse: “E dire che è così bello e verde il mondo quassù!”
Quindi si fece raccontare da Maren come aveva trovato la strada per raggiungerla, e si stese sul muschio ad ascoltarla. Di quando in quando coglieva uno dei fiori che crescevano vicino a lei, e lo metteva tra i capelli di Maren o tra i suoi. Quando Maren le raccontò del lungo e duro cammino sulla diga dei salici, la dama Geltrude sospirò e disse: “Quella diga è stata costruita da voi umani. Ma fu tantissimo tempo fa! Non ho mai visto un abito come il tuo indosso alle loro donne. A quel tempo venivano a trovarmi spesso: io gli davo semi e germogli di piante e cereali nuovi, e loro ricambiavano portandomi i frutti delle loro messi. Loro non mi dimenticavano ed io non mi dimenticavo di loro, e ai loro campi non mancava mai l’acqua. Ma da molto tempo gli uomini si sono straniati da me, e nessuno viene più a trovarmi. E con il caldo e la noia mi sono addormentata, e il bieco Ometto di Fuoco per poco non l’avrebbe avuta vinta.”
Mentre sentiva queste parole anche Maren si era stesa sul muschio con gli occhi chiusi; intorno a lei si raccoglieva nuovamente l’umidità, e la voce della dama Geltrude era dolce e accogliente.
“Mi ricordo di una volta ancora,” ella continuò, “ma è stato già molto tempo fa; mi venne a trovare un’altra ragazza, che portava un abito simile al tuo. Le donai il miele del mio prato, ed è stato l’ultimo dono che un essere umano abbia mai ottenuto dalla mia mano.”
“Vedete,” disse Maren, “è stata una bella fortuna! Quella ragazza deve essere stata la bisavola del mio fidanzato, e la bevanda che ci ha tanto rinvigoriti deve essere stata fatta dal vostro miele.”
La donna della pioggia si ricordò della sua amica di tanto tempo fa; infatti chiese, “Ha ancora i suoi bei riccioli castani sulla fronte?”
“Chi, dama Geltrude?”
“La bisavola, come la chiami tu!”
“Ma no, dama Geltrude,” rispose Maren, e per una volta si sentì più saggia della sua amica nonostante il grande potere di questa; “la bisavola è invecchiata.”
“Invecchiata…?” domandò la bella donna. Non capiva la parola, giacché per lei non esisteva l’età.
Maren pensò come spiegarglielo nel modo migliore. “Vedete,” disse infine, “noi esseri umani cambiamo quando passano gli anni; ci vengono i capelli grigi, gli occhi stanchi, e ci sentiamo accasciati e imbronciati - e allora, dama Geltrude, ci chiamano vecchi.”
“E’ vero,” rispose questa,” ora che lo dici me ne ricordo: tra le donne umane che ho visto tanto tempo fa ce ne erano anche alcune di queste. Ma non fa nulla; portami la tua bisavola, che la farò ritornare giovane e bella.”
Maren scosse il capo. “Non si può, dama Geltrude,” disse, “la bisavola è già morta da un pezzo.”
La donna sospirò. “Povera bisavola.”
Dopodiché entrambe rimasero silenziose, ancora distese confortevolmente sul morbido letto di muschio.
“Bambina!” esclamò a un tratto dama Geltrude, “a forza di chiacchierare ci siamo dimenticate di far piovere. Guarda un po’, siamo tutte coperte dalle nubi; quasi non ti vedo più!”
“Cielo, mi so bagnando come un pulcino!” esclamò Maren aprendo gli occhi.
Dama Geltrude rise. “Batti un po’ le mani, ma gentilmente, per non strappare le nuvole!”
Così le due donne si misero a battere piano le mani; ben presto le nuvole si misero a fluttuare e ondeggiare, i tessuti nebbiosi si pigiarono verso le aperture e svolazzarono all’aperto uno dopo l’altro. Dopo breve tempo Maren vide nuovamente davanti a sé il pozzo e la terra verde coperta di iridi gialle e viola. Quindi anche le cavità delle finestre si liberarono, e sopra alle corone degli alberi del giardino fino in lontananza si vedevano le nuvole che coprivano l’intero cielo. Passarono ancora pochi minuti, finché da fuori Maren sentì come un brivido attraversare le foglie degli alberi e dei cespugli, e quindi cominciò un mormorio possente e incessante.
Maren stava seduta, con le mani in grembo. “Sta piovendo, dama Geltrude,” disse a bassa voce.
Questa annuì appena con il suo capo biondo; era come assorta in un sogno.
D’improvviso dall’esterno venne un forte crepitio accompagnato da urla, e quando la ragazza guardò all’infuori dell’arco, spaventata, vide grandi nubi di vapore alzarsi a intervalli dal letto del fiume che circondava il castello e che aveva attraversato un’ora prima. In quel momento la bella donna della pioggia mise le braccia intorno a lei e si strinse alla giovane donna umana che le era distesa vicino, tremando un po’. “Si sta spegnendo l’Ometto di Fuoco,” sussurrò, “senti come strilla! Ma non può farci più nulla.”
Le due donne si tennero abbracciate per un bel po’; infine da fuori non si sentì più nulla, a parte il lieve scrosciare della pioggia. Allora si alzarono, dama Geltrude chiuse la botola del pozzo e la chiuse con la chiave.
Maren le prese la mano bianca e le diede un bacio. “Vi ringrazio, cara dama Geltrude, a nome mio e di tutto il mio villaggio! E ora,” aggiunse esitando un poco, “vorrei andare a casa.”
“Di già?” domandò la donna della pioggia.
“Il mio fidanzato mi aspetta; si sarà fatto una bella doccia ormai.”
Dama Geltrude sollevò l’indice. “Prometti che anche quando sarete sposati non lo lascerai mai ad aspettarti?”
“Prometto che non lo farò mai, dama Geltrude!”
“Allora vai, mia cara; e quando sarai tornata racconta di me agli altri del tuo villaggio, affinché non mi dimentichino più. Adesso andiamo, ti accompagno io.”
All’esterno del castello erano spuntati dovunque il verde del prato e il fogliame di alberi e cespugli sotto alla fresca rugiada venuta dall’alto. Quando arrivarono al fiume le due donne scoprirono che questo riempiva nuovamente il suo intero letto, e come se le avesse attese la barca, come riparata da mano invisibile, galleggiava presso la sponda coperta di erba rigogliosa. Entrarono e attraversarono il fiume scorrendo piano sull’acqua, mentre le gocce di pioggia cadevano giocherellando e tintinnando sulla superficie.
Non appena ebbero messo piede sull’altra sponda, vicino a loro si fecero sentire gli usignoli che cantavano dal profondo del boschetto.
“Oh,” fece dama Geltrude respirando e sentendosi togliere un peso dal cuore, “è il tempo degli usignoli, non è ancora troppo tardi!”
Le due costeggiarono il rigagnolo che conduceva alla cascata: questa si gettava nuovamente scrosciando sopra le rocce e quindi scorreva nel largo canale sotto agli oscuri alberi di tiglio. Una volta scese dalle rocce camminarono al fianco di questo, sotto agli alberi. Quando furono uscite di nuovo all’aperto, Maren vide lo strano uccello volare in grandi cerchi sopra il lago, il cui largo bacino arrivava fino ai loro piedi.
Ben presto camminarono sulla sponda del lago, respirando continuamente i profumi più dolci e ascoltando il mormorio delle onde che lambivano la sponda, bagnando i ciottoli luccicanti. Migliaia di fiori lussureggiavano ovunque dove guardassero; Maren notò anche violette e iridi di maggio e diversi altri fiori che non erano di stagione, ma che non erano potuti fiorire a causa della malefica aridità.
“Non vogliono rimanere indietro,” disse dama Geltrude, “così ora fioriscono tutti insieme.”
A volte scuoteva il suo capo biondo e le gocce di pioggia spruzzavano intorno a lei come scintille, oppure congiungeva le mani facendo scorrere dalle sue bianche braccia l’acqua come da una conchiglia. Altre volte allargava le mani, e dove le gocce toccavano la terra salivano nuovi odori, e fiori freschi e mai visti spuntavano sfolgoranti dal prato in un infinito gioco di colori.
Quando ebbero fatto il giro del lago Maren si voltò ancora una volta per guardare sulla sua superficie, che sotto alla pioggia cadente non lasciava intravedere l’altra riva; le venne un brivido al pensiero che quella mattina lo aveva attraversato a piede asciutto. Dovevano essere ormai vicine al luogo dove aveva lasciato Andrees.
E infatti, eccolo lì sotto agli alti alberi, con il capo appoggiato sopra alle braccia incrociate; sembrava dormire.
In quel momento Maren guardò di lato la bella dama Geltrude, che attraversava il prato vicino a lei con il suo passo fiero e la bocca rossa e sorridente, e si sentì quasi umiliata nei suoi semplici abiti da paesana.
‘Questo non è bene,’ pensò, ‘credo sia meglio se Andrees non la veda!’
Si fermò e disse: “Vi ringrazio per avermi accompagnata, dama Geltrude; ormai quasi ci sono, adesso la strada la troverò da me.”
“Ma non ho ancora detto buongiorno al tuo fidanzato…”
“Non datevene la pena, dama Geltrude,” rispose Maren, “è un semplice ragazzo umano come tutti gli altri, e va proprio bene per una ragazza di campagna come me.”
La dama Geltrude la guardò attentamente; aveva indovinato i suoi pensieri. “E si è trovato una gran bella ragazza, sciocchina!” sorrise facendo un altro gesto con il dito. “Scommetto che al tuo villaggio sei la più graziosa di tutte.”
La ragazza si sentì scoperta e arrossì fin sotto alle radici dei capelli. Dama Geltrude sorrise nuovamente.
“Ascoltami,” disse, “ora che le sorgenti sono tornate a scorrere potete accorciarvi la strada. Lì sotto all’argine dei salici c’è una barca: saliteci e vi porterà presto e sicuri a casa. E ora ti dico addio.” Posò un braccio intorno al collo della ragazza e le diede un bacio. “Quasi mi ero dimenticata come fossero belle fresche le labbra di un essere umano!”
Quindi si voltò e attraversò nuovamente il prato sotto alle gocce cadenti che la circondavano. Cominciò a canticchiare una melodia dolce e monotona, e quando la sua bella figura fu scomparsa tra gli alberi Maren non fu più sicura se quello che sentiva da lontano era ancora la sua voce, o solo lo scroscio della pioggia.
Rimase ferma per un po’; quindi, avvertendo un’improvvisa nostalgia, allungò le braccia in direzione della donna della pioggia. “Addio, cara e bella dama Geltrude, addio!” disse.
Ma non avvenne nessuna risposta; ora Maren sentì chiaramente che era rimasto solo lo stormire della pioggia.
Infine Maren si avvicinò lentamente all’entrata del giardino, e vide il giovane contadino in piedi sotto agli alberi. “Ma che faccia fai?” gli disse una volta che si fu avvicinata.
“Corbezzoli, Maren!” esclamò Andrees, “chi era quel bel pezzo di donna?”
La ragazza gli prese il braccio e lo indusse a girarsi, ridendo. “Non c’è bisogno di spalancare tanto gli occhi,” disse, “quella era Geltrude della pioggia; non è fatta per un giovane umano come te.”
Anche Andrees si mise a ridere. “Be’, Maren,” rispose, “me lo potevo immaginare che eri riuscita a svegliarla; guarda come mi sono bagnato! E un rinverdire come questo non l’ho mai visto in tutta la mia vita. - Ma ora vieni; torniamocene a casa, e che tuo padre mantenga la sua promessa.”
Vicino all’argine dei salici trovarono la barca e vi salirono. Il bassopiano era già tutto inondato, sull’acqua e in aria si vedevano tanti tipi diversi di uccelli; le snelle rondini di mare schizzavano sopra alle loro teste gridando e affondando le punte delle ali in acqua, il gabbiano reale nuotava maestosamente vicino alla loro barca che seguiva la corrente; sugli isolotti verdi che oltrepassavano di quando in quando si intravedevano i galli acquatici con il colletto dorato, intenti ai loro combattimenti.
La barca si muoveva rapidamente sull’acqua e la pioggia cadeva ancora, dolce ma incessante. Ma ora il corso d’acqua si restrinse, e ben presto rimase solo un ruscello di larghezza media.
Andrees, a poppa, già da qualche tempo proteggeva i suoi occhi con la mano e scrutava l’orizzonte. “Guarda lì, Maren,” esclamò improvvisamente, “quelli non sono i miei campi di segale?”
“E’ vero, Andrees; e come sono divenuti belli verdi! Guarda, quello su cui stiamo navigando è il torrente del nostro villaggio!”
“Hai ragione, Maren; ma cosa c’è lì in fondo? Santo cielo, è tutto allagato!”
“Mamma mia!” esclamò Maren, “sono i prati di mio padre! Tutto quel bel fieno, si rovinerà!”
Andrees le strinse la mano. “Il prezzo non è troppo alto, Maren,” le disse, “tuo padre non diventerà un pover’uomo per questo, e i miei campi finalmente portano frutti.”
La barca si fermò presso l’alto tiglio più vecchio del villaggio. I due scesero a riva e presero la strada del villaggio, tenendosi per mano. Da tutte le case gli abitanti li salutavano festosi; probabilmente in loro assenza madre Stine aveva chiacchierato un po’ riguardo alle loro intenzioni.
“Piove!” dicevano i bambini che correvano per le stradine sotto alle gocce.
“Piove!” disse il cugino Schulze, che era affacciato alla finestra di casa sua e offrì una stretta di mano ai due quando gli passarono vicino.
“Sì, eccome se piove!” disse anche il ricco contadino, che si trovava nuovamente all’entrata della sua gran casa con la pipa in bocca. “E tu, Maren, stamattina mi hai preso proprio per il naso! Ma adesso venite in casa, voi due. Cugino Schulze mi ha confermato che Andrees è un bravo ragazzo, e che quest’anno otterrà un buon raccolto; e se piove così un anno sì e un anno no a me sta bene, così gli alti e bassi si tengono la bilancia. Dopo andremo insieme da madre Stine, così organizziamo tutto per benino.”
Da quel giorno erano ormai passate diverse settimane. La pioggia aveva smesso, e gli ultimi carri carichi di raccolto erano entrati nei fienili, adorni da corone di fiori e nastri colorati; e in pieno sole un gran corteo nuziale si stava incamminando verso la chiesa.
Gli sposi erano Maren e Andrees; dietro di loro, a braccetto, si trovavano madre Stine e il ricco contadino padre di Maren.
Quando furono quasi arrivati al portone della chiesa e dall’interno si sentiva già il corale che il vecchio cantore stava suonando sull’organo per accoglierli, d’improvviso proprio sopra di loro si avvicinò una nuvoletta bianca dal cielo azzurro, e alcune gocce di pioggia caddero sulla corona nuziale della sposa.
“Significa fortuna!” disse la gente radunata nel cortile della chiesa.
“E’ stata la Geltrude della pioggia!” si dissero a bassa voce gli sposi. E stringendosi le mani, entrarono nella chiesa per far suggellare il loro matrimonio.
Traduzione: settembre 2016
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