Finalmente ce l'ho fatta...
Per Kojimaniaca, splendida scrittrice e sensibile artista, con grandissima ammirazione.
NON LASCIARMIL’aveva perduto, l’aveva ritrovato e poi l’aveva perso ancora, e stavolta per sempre. Non sarebbe mai tornato, mai più... Kenzo Kabuto, suo padre, era morto.
Le mani in tasca e il viso indurito, Koji fissò il mare che si rifrangeva ai suoi piedi, come un mostro domato. La spiaggia era completamente deserta. Poco lontano da lì, fino a pochi giorni prima si sarebbe vista emergere dall’acqua la sagoma inconfondibile della Fortezza delle Scienze... ma era tutto scomparso per sempre. Come suo padre.
Koji prese a camminare lungo la riva del mare, senza meta, incurante delle conchiglie sotto i suoi piedi scalzi; rimboccò l’orlo dei pantaloni ed entrò nell’acqua. Rabbrividì sentendola fredda e alzò gli occhi verso l’orizzonte.
Alti sopra di lui, stridevano i gabbiani; il mare era grigiastro, ostile. Il cielo nuvoloso si stava rapidamente scurendo, la spiaggia era una distesa di arida sabbia incolore… un paesaggio triste, bigio, senza speranze né prospettive.
Adattissimo a come si sentiva lui, dunque.
Per anni e anni era stato convinto di essere un orfano: lui e Shiro erano stati allevati dal nonno, baby sitter e governanti si erano succedute. Il padre e la madre erano stati solo alcune fotografie che stavano sbiadendo e un mucchio di ricordi in cui era dolorosissimo sprofondare.
La notizia l’aveva colpito anni dopo, come un fulmine inaspettato: il padre, da anni creduto morto, era invece sopravvissuto.
La seconda notizia era stata ancora più scioccante: in tutto quel periodo, invece di tornare da loro, i suoi figli, Kenzo si era occupato di due orfani... due perfetti estranei.
Koji raccolse un sassolino, lo scagliò con rabbia nell’acqua. Ricordava ancora la sua collera, la sua delusione bruciante: perché in tutto quel tempo lui non aveva mai saputo niente? Perché suo padre aveva lasciato che lui e Shiro lo piangessero come morto? E soprattutto, perché invece di tornare dai suoi figli aveva adottato quei due orfani? Che cosa c’entravano, loro?
Kenzo Kabuto era stato un uomo logico e ragionevole, e logiche e ragionevoli erano state le sue spiegazioni.
– Koji, tu non puoi sapere dell’addestramento cui ho dovuto sottoporre Tetsuya per trasformarlo nel guerriero che è diventato... e ho dovuto farlo, o non avremmo avuto alcuna speranza di sconfiggere i Mikenes. Tu non hai la minima idea della vita che ha fatto Tetsuya – Kenzo gli aveva messo le mani sulle spalle, gliele aveva strette; per una volta, la sua voce fredda e controllata aveva tremato leggermente: – Non avrei mai potuto imporre una cosa simile a te. Non a mio figlio.
Koji aveva chinato il capo, mentre sentiva un piacevole tepore nel petto: suo padre aveva agito così perché era preoccupato per lui, gli voleva bene!
Un istante dopo, un pensiero insidioso si fece strada nel suo animo: ma per tutti quegli anni era stato Tetsuya a stargli accanto. Non lui.
Aveva lasciato parlare Kenzo, ascoltando ognuna delle sue logiche e ragionevoli parole; ma dentro di lui, nascosto ma presente, il tarlo della gelosia aveva continuato a lavorare. Si era sforzato di ignorare tutti quei pensieri negativi, di comportarsi normalmente e di essere gentile con Tetsuya, e in effetti era sempre riuscito a nascondere il suo disagio: ora, tutto rispuntava prepotentemente, come un pallone gonfio di gas putrido che riaffiora con violenza dall’acqua.
Koji scagliò furiosamente un altro sasso tra le onde.
Il suo rancore era improvvisamente emerso, avvelenandogli l’animo: non un solo pensiero astioso era però rivolto al padre. Tutto il suo odio era per quel fratellastro, quell’estraneo scostante e pieno di sé che lui s’era sforzato di sopportare. Aveva sempre cercato d’ignorare la disapprovazione implicita di Tetsuya per il suo stile di vita e il suo atteggiarsi a vero guerriero, forte del severissimo addestramento cui solo lui era stato sottoposto; ma ora basta.
Era lui, Tetsuya, l’estraneo, che si era insinuato nelle loro vite, lui che si era frapposto tra padre e figlio, lui che in tutti quegli anni aveva avuto solo per sé l’intera attenzione di Kenzo – attenzione che sarebbe spettata a lui, Koji, il figlio legittimo.
Come non bastasse, era sempre per colpa di Tetsuya che Kenzo era morto, scagliandosi con la Fortezza delle Scienze contro il mostro che stava per distruggere il Grande Mazinga ed uccidere Tetsuya. Sempre Tetsuya, sempre Tetsuya che si frapponeva tra padre e figlio…
Il pensiero che lui,
l’estraneo, fosse ferito e in ospedale attraversò fugacemente la coscienza di Koji: in quel momento provava troppo dolore per soffermarsi a pensare agli altri, e la possibilità che anche Tetsuya stesse soffrendo non lo sfiorò nemmeno. Anche in quel momento, riusciva a pensare al fratellastro solo come individuo arrogante, pieno di sé, sprezzante.
Sei sempre stato insopportabile, Tetsuya… se solo penso che mio padre è morto per salvare un bastardo come te! Formulare quel pensiero e provare una fitta di rimorso fu tutt’uno: le parole di suo padre, le ultime che aveva articolato a fatica mentre la vita lo abbandonava, risuonarono ancora in lui: “Tetsuya mi è caro come un figlio, proprio come te, Koji… è dovere di un padre sacrificarsi per il proprio figlio”.
Per papà, Tetsuya era proprio come me… io avevo sempre pensato di essere qualcosa di speciale per mio padre, e invece…Koji chinò la testa, reprimendo le lacrime, mentre la collera riprendeva a montare in lui. Respinse rabbiosamente le altre parole che gli aveva detto Kenzo – quelle solo per lui, quelle che adesso non voleva ricordare – e strinse rabbiosamente i pugni.
Non avrebbe mai potuto perdonare Tetsuya. Voleva che soffrisse anche lui, voleva rovesciargli addosso tutto il suo rancore, voleva vedere quegli occhi grigi, sempre alteri e sprezzanti, riempirsi di dolore. Solo allora lui avrebbe potuto trovare un po’ di sollievo dal suo tormento.
Se Koji fosse stato più riflessivo, più maturo, avrebbe capito che odiare Tetsuya era infinitamente più facile che elaborare il lutto per il padre. In quel momento, addossare ogni responsabilità al fratellastro, detestarlo, era una possibilità che si stendeva davanti ai suoi piedi come un sentiero spianato; e lui lo intraprese senza la minima esitazione.
È tutta colpa tua, Tetsuya. Colpa tua. Maledizione a te, e al giorno in cui sei entrato a far parte della nostra vita.Adesso basta.
Sordo a qualunque cosa non fosse la sua collera, Koji tornò indietro di corsa, verso la sua motocicletta che aveva lasciato al limitare della spiaggia. Si pulì alla bell’e meglio i piedi dalla sabbia, s’infilò calze e scarpe e balzò in sella. Si mise il casco: quante volte aveva dovuto dire al suo fratellino, Shiro, d’indossarlo? Praticamente, ogni volta che l’aveva portato con sé in moto. Certe cose proprio non si vogliono apprendere…
Il pensiero di Shiro lo bloccò, ma fu solo per un attimo: l’aveva affidato a Sayaka e al professor Yumi, non c’era da preoccuparsi.
Avviò rabbiosamente la moto: voleva discutere alcune cose con Tetsuya, e l’avrebbe fatto subito.
La grande costruzione bianca si ergeva davanti a lui, severa: del resto, gli ospedali non sono mai edifici dall’aspetto frivolo.
Koji controllò l’antifurto della moto, prima di lasciare il parcheggio ed avviarsi a grandi passi verso l’ingresso.
Non si pose problemi circa lo strano orario che aveva scelto per la visita, scartò l’ipotesi che Tetsuya per qualche motivo non potesse o non volesse parlare con lui: troppo preso dal cruccio che l’angustiava, Koji non era certo in grado di badare a certi dettagli.
Vagamente, ricordò d’aver sentito bisbigliare sulle condizioni di salute di Tetsuya: era rimasto ferito nell’ultimo scontro, ma non doveva essere nulla di così grave. Koji era sicuro che le lesioni che aveva riportato non fossero pericolose.
Percorse corridoi, salì con l’ascensore, camminò per altri corridoi: incontrò pochissime persone, non fece caso a nessuna di loro e nessuno fece caso a lui.
Entrò nel reparto in cui Tetsuya era stato ricoverato e prese ad osservare le porte della camere, cercando il numero che Jun gli aveva comunicato… quando? Due giorni prima…? Era passato così tanto tempo, da quando Tetsuya era stato ferito e suo padre era… era…
Scosse la testa: non voleva pensare a papà.
Si concentrò sul suo astio, invece.
La sigla che cercava… era arrivato.
S’arrestò sulla soglia: l’uscio era socchiuso, e da dentro non proveniva alcun suono.
Koji rimase un attimo sospeso, e per un istante parve chiedersi se fosse opportuno piombare in camera di Tetsuya per rovesciargli addosso il suo rancore; sentì echeggiare nelle orecchie la voce dura e sferzante di lui, ricordò l’ostilità che aveva percepito nelle sue frasi secche, le continue discussioni, i puntigli… e il fatto che il tutto fosse culminato nel non voler collaborare con lui, nel non volersi battere al suo fianco nell’ultimo scontro.
Pensavi che io non fossi alla tua altezza, vero?, Koji sentì bruciargli gli occhi e respinse le lacrime.
Non hai voluto ascoltare, hai fatto di testa tua… e papà si è sacrificato per salvarti. Sarebbe stato meglio se fossi morto tu, Tetsuya. Sarebbero stati ben pochi a rimpiangerti. Si passò rabbiosamente la mano sugli occhi; poi, con un gesto brusco spinse da parte la porta.
Scivolò in silenzio nella stanza: era andato fino là proprio per affrontare Tetsuya, ma in quel momento non volle nemmeno gettare uno sguardo alla figura immobile nel letto.
La sua attenzione era tutta per Jun, accasciata su una poltrona, il viso nascosto tra le mani.
Piange per... per Tetsuya...? si disse Koji, allibito.
È così grave...?In quel momento, lei parve percepire la sua presenza; s’asciugò rapidamente le lacrime e si voltò a guardarlo.
Appariva grigiastra in viso, gli occhi rossi, incavati e gonfi di chi ha pianto a lungo; le mani che tese verso di lui erano scosse da un tremito violento: – Koji, sono così contenta che tu sia qui...!
Attonito, lui fece un passo verso di lei; un attimo dopo se la ritrovò tra le braccia, scossa dai singhiozzi. Rimasero così a lungo, lei che piangeva tutto il suo dolore e lui che tentava in qualche modo di consolarla, balbettando parole impacciate.
– Scusami – mormorò infine Jun, quando ebbe ripreso una parvenza di controllo – Con quello che è successo... il professore, e ora Tetsuya... – improvvisamente, parve ricordarsi che Koji era il vero figlio dello scomparso professor Kabuto: lui aveva più diritto di lei al dolore per la perdita del padre – Koji, mi spiace! Non dovrei dire proprio a te...
– Lascia stare – tagliò corto lui, più brusco di quanto avrebbe voluto – Come sta Tetsuya?
Jun lo condusse più lontano dal letto, quasi avesse temuto che il malato potesse sentirli: – Le ferite sono serie, ma lui è forte. Ce la farebbe sicuramente, se... – si morse il labbro, scossa da un nuovo tremito.
– Se...? – l’incoraggiò Koji.
– Se solo lui volesse ancora vivere – disse Jun, in un soffio.
Koji gettò un rapido sguardo verso il letto: – Stai scherzando...!
Jun scosse il capo, reprimendo le lacrime.
– Mi avevano detto che non era grave…! – esclamò Koji, con voce soffocata.
– Non lo sarebbe… ma il problema è un altro – mormorò lei – Tetsuya si sente spaventosamente responsabile di quello che è successo. Si accusa per la morte del professore...
Infatti, è tutta colpa sua!, si disse rabbiosamente Koji,
Non potrò mai perdonarlo!– ...e poi, si sente colpevole verso Shiro e te.
Verso me? Figuriamoci... – È davvero sconvolto – continuò Jun – Koji, dico sul serio, non l’ho mai visto così! Mi ricordo di quando s’incolpava per la morte del cane di quella bambina, Midori: era fuori di sé dal dispiacere, ma almeno allora sperava che Midori lo perdonasse – si voltò a guardarlo rapidamente in viso, poi chinò la testa: – Adesso temo che sia convinto che tu non voglia perdonarlo.
Koji trattenne il fiato. Perdonare Tetsuya? Perdonare il pazzo che ha causato la morte di mio padre?
Jun gli mise una mano sul braccio: – Koji...
Lui le prese la mano, gliela strinse: provava un misto d’affetto e ammirazione per Jun, ma non poteva – non voleva – dire nulla, promettere nulla... in quel momento vide la profonda stanchezza di lei. Quanto tempo era rimasta, accanto a Tetsuya? Ormai erano passati più di due giorni da quando lui era rimasto ferito...
– Jun, non puoi continuare così – disse con dolcezza – Vai a riposare.
– Non posso lasciarlo...
– Resto io con lui – disse impulsivamente Koji – Ti prego, Jun, devi dormire un poco.
Lei parve esitare: si sentiva veramente distrutta, l’idea di sdraiarsi, di riposare era davvero attraente.
– Non mi muoverò di qui – assicurò lui, guidandola verso la porta – Hai la mia parola.
Jun si fermò proprio sulla soglia: – Koji, lui... lui sta veramente male. Ho davvero paura che... che lui...
– Vedrai, ce la farà. – asserì Koji, in tono leggero – Tetsuya è molto forte.
– Oh, no! È molto fragile, invece!
Fragile? Ma vogliamo scherzare? Quello è fragile come un blocco di cemento armato... – Va bene, Jun. Ci penso io. Alla peggio, basta che suoni il campanello e chiami l’infermiera, no?
Uscita Jun, Koji chiuse la porta e si voltò verso il letto, fissando ostilmente il corpo che vi giaceva.
Passare la notte a vegliare Tetsuya… proprio quello che mi ci voleva! Imparerò mai a stare zitto?Si riprese, provando una fitta di vergogna: aveva agito d’impulso, come sua deplorevole abitudine, ma l’aveva fatto per Jun. Gli era parsa talmente stanca, talmente provata, che in lui il buon cuore aveva agito prima del buon senso; ora lei avrebbe potuto finalmente riposare, mentre lui si sarebbe trovato a dover dare assistenza proprio all’ultima persona con cui avrebbe voluto aver a che fare.
Inutile recriminare, ormai è fatta.Koji s’accomodò sulla vecchia poltrona di fianco al letto: non era poi così scomoda. Prese una coperta in pile che Jun aveva ripiegato e lasciato sullo schienale e se la gettò addosso, disponendosi filosoficamente a passare una notte che, lo sentiva, sarebbe stata molto, molto lunga.
Tetsuya non si mosse, non emise un sospiro: era sprofondato in un sonno pesante, e fortunatamente era voltato dall’altra parte, in modo che Koji non fosse nemmeno costretto a guardarlo in faccia. Meglio così. Con un po’ di fortuna avrebbe dormito fino all’indomani, magari non si sarebbe nemmeno accorto del cambio avvenuto al suo capezzale.
Koji guardò l’ora: le otto e mezzo. Non aveva nemmeno portato con sé un libro, e naturalmente a quell’ora lui non aveva affatto sonno. Dannazione…
Si guardò in giro: una camera quadrata, molto pulita come qualsiasi camera d’ospedale. Mobili semplici e lineari, pareti chiare, due grandi finestre. Un vaso di fiori dava un tocco di gentilezza a quell’ambiente così asettico e severo: Jun, senza dubbio.
Fiori per Tetsuya… un cactus spinoso sarebbe più indicato.Koji gettò un’occhiata colma di desiderio al piccolo televisore sul tavolino: magari, tenendo il volume molto basso…
Tetsuya si mosse nel sonno, gemette. No, niente TV.
Tornò a guardarsi attorno, e finalmente scorse quello che aveva tanto sperato di trovare: dall’anta semiaperta dell’armadio facevano capolino alcuni giornali.
Koji li esaminò: un paio di quotidiani, un mensile scientifico e una rivista di moda femminile. Scartò i quotidiani che aveva già letto, diede una rapida scorsa alla rivista (“Ma in che modo si conciano, queste?”) e sprofondò nuovamente nella poltrona immergendosi nella lettura del mensile scientifico.
Dopo essersi istruito sulle relazioni tra parte destra e sinistra del cervello, sugli ultimi ritrovamenti nella zona di Stonehenge e sulla vita sessuale dei celenterati, Koji pensò d’averne avuto abbastanza e passò all’ultima pagina, dove campeggiava il temuto, complicatissimo cruciverba.
Stava impazzendo sull’otto orizzontale (L’ultimo faraone della XVIII dinastia, otto lettere) quando un gemito lo riportò alla realtà.
Alzò gli occhi dal giornale: Tetsuya si era voltato sulla schiena, il viso contratto in una smorfia di sofferenza. Una mano era tesa verso di lui, quasi fosse stata alla ricerca di qualcosa, di qualcuno.
Ostile, Koji guardò quella mano che si protendeva inutilmente verso... verso cosa, verso chi? Forse sperava che lui gliela avrebbe stretta?
Fissò quasi con odio quelle lunghe dita forti, tanto forti da poter guidare il Grande Mazinga; ma dentro di sé non sentì pietà, compassione.
Hai ucciso mio padre, si disse Koji, affondando ostinatamente il naso nel giornale.
Non è per te che resto qui: lo faccio solo per Jun, perché gliel’ho promesso. Non fosse per lei, me ne sarei andato da un pezzo.Si obbligò a tenere gli occhi sul cruciverba, mentre Tetsuya, il viso stravolto dall’angoscia, continuava ad agitare la mano nel vuoto. Sembrava un uomo che stesse brancolando alla cieca nel buio, e tendesse la mano nella speranza di trovarne un’altra che lo tenesse saldamente, lo guidasse alla luce... suo malgrado, Koji abbassò il giornale. Guardò ancora quel viso sconvolto, quelle dita tremanti, e provò vergogna. Fece per afferrare quella mano tesa: ma il braccio ricadde.
Koji rimase un istante come sospeso; poi alzò le spalle. Ovviamente, nemmeno nella malattia Tetsuya aveva bisogno degli altri... benissimo, che s’arrangiasse da solo.
Riaprì il giornale e tornò al cruciverba.
Tetsuya parve sprofondare in un sonno più profondo; ma non era certo un riposo ristoratore, il suo. Il viso gli si contraeva in smorfie di sofferenza, le mani stringevano convulsamente le coperte, qualche parola inintelligibile gli usciva dalle labbra contratte e secche. Senza degnarlo d’uno sguardo, Koji chiuse il giornale, spazientito: non riusciva più ad andare avanti col cruciverba. Tanto valeva cercare di dormire un poco. S’avvolse meglio nella coperta e cercò una posizione più comoda.
All’improvviso, Tetsuya sbarrò gli occhi, fissando un punto davanti a sé, un’espressione incredula sul viso sfatto: – ...Professore...?
Koji sobbalzò, ma si riprese subito: naturalmente, non c’era proprio nessuno in quella stanza, oltre loro.
Di bene in meglio… adesso delira. Sono proprio fortunato.Pallidissimo, due chiazze scarlatte sugli zigomi, Tetsuya tentò di rialzarsi su un gomito; il braccio gli tremò, ma lui tese l’altra mano davanti a sé, rivolgendosi ancora ai suoi fantasmi: – Professore...
Stavolta, Koji guardò meglio il fratellastro: era stravolto ma sorrideva, come se avesse visto qualcuno che mai avrebbe sperato di rivedere. I suoi occhi, cerchiati e fondi, adesso d’un grigio chiarissimo, slavato (
morti, pensò con un brivido Koji) fissavano ostinatamente sempre uno stesso punto, guardando quello che solo lui poteva scorgere.
In quel momento, Koji fu invaso da una paura come non ne aveva mai provata in vita sua, mai nemmeno quando in battaglia si era sentito spacciato. Solo allora capì quanto avesse sottovalutato lo stato di Tetsuya... “È molto fragile”, aveva detto Jun; e lui non le aveva creduto.
Improvvisamente, il terrore che lui morisse gli tolse il fiato.
– Tetsuya, no! – lo strinse tra le braccia, come per ancorarlo a sé stesso, al mondo reale: trasalì sentendolo così magro e fragile, proprio lui che era sempre stato vigoroso e pieno di vita. Attraverso il tessuto del pigiama percepì il bruciore del suo corpo esausto, divorato dalla febbre. Pareva impossibile che un uomo potesse sopportare una simile temperatura...
– Tetsuya, no! – Koji non sapeva nemmeno cosa stava dicendo, le parole gli uscivano da sole dalle labbra – No! Non ti lascio andare! Non puoi! Non te lo permetterò!
Tetsuya non lo ascoltava. In preda alla febbre continuava a protendersi verso ciò che lui solo era in grado di vedere, il viso trasfigurato dalla gioia: – Professore...!
Koji non faticava a trattenerlo: quel corpo fragile, indebolito dalle ferite e dalla febbre non poteva certo opporre resistenza. Ma la battaglia che si stava svolgendo non era sul piano fisico, e Koji non era affatto sicuro di riuscire a vincere: – Tetsuya, ti prego! No!
Rimasero qualche istante immobili, Tetsuya sempre teso verso ciò che lui solo vedeva, e Koji aggrappato a lui in quella che, lo sapeva, era la sua battaglia più disperata. Tetsuya tentò un’ultima volta di protendersi in avanti; poi le sue misere forze gli mancarono, e s’accasciò su sé stesso, restando completamente immobile. Terrorizzato (tutta quell’inerzia, in un corpo che era sempre stato scattante, pieno di vita!) Koji capì di essere sul punto di perdere. Un grido di vera angoscia gli eruppe dalla gola: – Tetsuya! Resta con me, non lasciarmi anche tu!
Tetsuya emise un singhiozzo, mentre un’altra espressione (delusione?) prendeva il posto di quella spaventosa gioia ultraterrena; Koji continuò a tenerlo stretto, lottando con la morte come non aveva mai lottato prima d’allora: tutti i suoi combattimenti con i mostri non erano nulla, nulla, in confronto a quest’ultimo scontro. Pregò, supplicò, chiamò il fratello, implorò, promise... nemmeno lui aveva più coscienza di cosa stava facendo.
Tetsuya parve riprendere un minimo di forze; si rialzò sul gomito, una luce folle negli occhi, e tentò ancora una volta di gettarsi in avanti; Koji lo strinse tra le braccia e si rivolse all’unica persona cui ancora non aveva osato ricorrere.
Papà, ti prego, non portarmelo via... ti prego, ti prego... non potrei sopportarlo... non anche lui...Rimasero così a lungo, Tetsuya che tentava inutilmente di protendersi verso ciò che si stava ormai allontanando da lui e Koji che continuava a stringerlo a sé, trattenendolo con tutto il suo essere; poi improvvisamente il corpo martoriato di Tetsuya cedette e il giovane si afflosciò sul materasso, il viso contratto dalla sofferenza: – Papà...
Era stato appena un soffio, un sussurro per una parola che lui mai prima d’allora si era mai permesso di dire. Per la prima volta da che si conoscevano, Koji provò una pena indicibile per il fratellastro: – Ci sono io, qui. Penserò io a te, andrà tutto bene...
Tetsuya non rispose: era nuovamente sprofondato nel torpore della febbre.
Solo allora Koji osò lasciare il fratello, solo allora osò riprendere fiato; gli toccò una mano, poi la fronte, e scattò subito verso il campanello per chiamare l’infermiera.
Poco prima era stato troppo occupato a trattenere Tetsuya per pensare di chiedere aiuto; ora premette il pulsante con disperazione. Sapeva di non poter farcela da solo.
Una dottoressa entrò col passo frettoloso di chi è abituato alle emergenze. Non fece domande, le bastò guardare in viso Tetsuya per capire. Gli tastò il polso, scosse il capo e gli rilevò la temperatura. Emise un’esclamazione soffocata e si precipitò fuori della stanza, tornando subito con una siringa; alzò una manica del pigiama di Tetsuya e gli praticò l’iniezione nel braccio, poi gli tastò nuovamente il polso.
Spaventato, Koji riuscì finalmente a spiccicare parola: – È... molto alta?
– Quarantuno e due – sussurrò lei – L’iniezione dovrebbe abbassargli la temperatura. Ha avuto convulsioni?
– Ha... ha delirato – disse in fretta Koji. Avrebbe voluto chiedere se c’era pericolo, ma aveva troppa paura della risposta che avrebbe ricevuto.
Guardò ansiosamente Tetsuya. Gli era sempre apparso alto e forte, pieno di vigore e di spirito: in quel momento gli sembrò incredibilmente piccolo e minuto, inaspettatamente fragile e indifeso. Lo guardò in viso e gli parve di vedere altri lineamenti sovrapporsi a quei tratti forti: per un attimo, Koji ebbe una visione del bambino che era stato, del ragazzo che anni prima il professor Kabuto aveva scelto d’adottare.
Un’infermiera entrò di corsa, portando un paio di borse del ghiaccio; ne pose una sulle caviglie di Tetsuya e l’altra contro la parte alta della schiena, prima d’affrettarsi fuori.
– Abbiamo un altro paziente molto grave – spiegò in tono di scusa la dottoressa – È tutta notte che siamo impegnate con lui... anche se temo che non ne avrà per molto. Non è un giovanotto forte come... è vostro fratello?
– Sì – rispose lentamente Koji – È mio fratello.
La dottoressa gli rivolse un sorriso stanco; poi toccò la fronte di Tetsuya: – Bene, sta cominciando a sudare.
Koji sentì piegarglisi le ginocchia e ricadde nella poltrona. Non seppe per quanto tempo la dottoressa rimase accanto a Tetsuya, tastandogli il polso e misurandogli la febbre ad intervalli regolari; di tanto in tanto entrava un’infermiera, si consultava a voce bassa con la dottoressa e s’allontanava in fretta. D’istinto, Koji mormorò una preghiera per quell’altro malato che stava lentamente morendo.
– Va meglio – disse infine la dottoressa.
Koji trasalì, incredulo, e lei gli mostrò il termometro: trentotto e uno.
– Grazie, papà – mormorò, mentre lei esaminava rapidamente le medicazioni sul torace di Tetsuya, controllando che le fasciature fossero ancora a posto e le ferite non avessero ripreso a sanguinare; quindi gli richiuse la giacca del pigiama e gli sistemò le coperte: – Devo andare da quell’altro paziente. Non penso che ci sia da preoccuparsi, almeno per il momento; se ci sono problemi, chiamate subito.
Koji assentì, incapace di spiccicare parola; quindi rimase a fissare Tetsuya, che ora era sprofondato in un sonno tranquillo. Il viso non presentava più quelle spaventose chiazze scarlatte di febbre, il respiro era regolare. Guardò l’orologio: le due meno cinque.
Stanchissimo, infreddolito, Koji s’avvolse nella coperta e cercò una posizione un po’ più comoda. Non voleva dormire, naturalmente, ma...
Piombò nel sonno senza nemmeno rendersene conto.
Non seppe cosa fu a svegliarlo: semplicemente sussultò, aprì gli occhi e vide puntato su di sé lo sguardo grigio e serio di Tetsuya: – Koji...?
– Come stai? – represse uno sbadiglio.
Tetsuya si guardò rapidamente attorno, quasi stesse chiedendosi dove si trovasse. Riconobbe la sua stanza d’ospedale, e i ricordi di quanto era successo lo assalirono all’improvviso. Dolore, senso di colpa e profonda vergogna s’alternarono rapidamente nei suoi occhi; Tetsuya voltò di lato la testa, non osando guardarlo in faccia: – Io... il professore… è tutta colpa mia.
Koji trattenne il fiato, mentre sentiva agitarsi nell’animo una pallida traccia dell’odio che aveva nutrito per Tetsuya; ma era una pallida traccia appunto, e scolorì rapidamente davanti al ricordo freschissimo di quella notte che non era ancora trascorsa del tutto.
– No – disse lentamente – Non è colpa tua – riprese fiato, cercando le parole che faticavano a venirgli – È stata una sua scelta.
Tetsuya non rispose, non si voltò nemmeno, ma Koji era sicuro che non stesse perdendo una parola, e continuò: – Lo so perché me lo ha detto lui, prima... prima di morire – affrontare il ricordo della morte di suo padre era dolorosissimo, e allo stesso tempo gli dava un inaspettato sollievo; Koji riprese, con maggior decisione: – Lo sapevi che mi ha parlato di te?
Tetsuya scosse lievemente il capo: no, non lo sapeva.
– Ha detto – Koji sentì risuonare in sé quella voce così cara – Ha detto che un padre deve sacrificarsi per i suoi figli... e che tu sei come un figlio, per lui. Proprio come me.
Tacque: non poteva vedere Tetsuya in viso, ma poteva sentire il suo respiro accelerato, poteva vedere la mano contratta sulla coperta. Attese in silenzio, mentre risentiva anche le ultime parole di suo padre... parole destinate solo a lui, e che sarebbero state il suo tesoro più prezioso: “Koji, non dimenticare di essere gentile ed premuroso con tutte le persone che ti sono amiche”.
Allora, quelle parole l’avevano ferito: come avrebbe potuto essere gentile, provare affetto per quel pazzo che l’aveva reso orfano?
Ora che aveva rischiato di perdere anche Tetsuya, ora che aveva lottato per lui, Koji provò un’ondata profonda d’affetto per quel suo fratello adottivo ruvido e orgoglioso. Come avrebbe potuto odiarlo, dopo averlo visto moribondo, indifeso, in preda alla febbre? Dopo averlo sentito invocare disperatamente l’uomo che per lui era stato come un padre?
Era un Koji molto maturato quello che prese una mano di Tetsuya e la strinse: un Koji che aveva perso moltissimo, ma che sapeva anche che avrebbe potuto guadagnare altrettanto. Certo, con il carattere spigoloso di Tetsuya non si poteva sperare che le cose sarebbero state sempre facili, tutt’altro; ma adesso la sofferenza li aveva avvicinati, e lui non intendeva rinunciare a ciò che aveva già conquistato.
– Koji... mi dispiace – bisbigliò Tetsuya.
– Lo so –
adesso capisco quanto gli hai voluto bene anche tu, pensò Koji.
– Non posso perdonarmelo... sono stato un pazzo.
Anch’io, pensò Koji.
Ho anch’io le mie colpe verso di te… ma ne parleremo quando starai meglio.– Tu e Shiro avete perso così tanto... – la voce di Tetsuya parve spezzarsi.
– Adesso ascoltami – disse con fermezza Koji.
Col coraggio di chi è abituato a guardare in faccia ostacoli e nemici, Tetsuya si voltò verso di lui e Koji riprese: – Tutti noi abbiamo perso tanto: Shiro e io, certo, ma anche tu e Jun. Non vogliamo però perdere anche te, per cui smetti con i sensi di colpa e cerca di guarire in fretta, o avrai reso inutile il sacrificio di nostro padre.
Tetsuya trasalì, sorpreso dal tono secco di Koji, o forse dalle parole che mai si sarebbe aspettato, “nostro padre”; ma fu un attimo. Gli occhi grigi cercarono ansiosamente quelli neri: s’incontrarono, si guardarono e si capirono più che se avessero parlato.
Tetsuya si rilassò, il suo corpo contratto si distese; uno scintillio del suo antico spirito guizzò nel suo sguardo.
– D’accordo, Kabuto – mormorò, soffocando uno sbadiglio – ... e grazie.
È di nuovo lui, pensò Koji, sorridendo tra sé; quindi guardò il suo orologio: – Le quattro e un quarto. Vediamo se riusciamo a dormire un poco.
Jun s’affrettò per il corridoio dell’ospedale.
Aveva riposato alcune ore, svegliandosi improvvisamente quella mattina con l’orrenda sensazione che fosse successo qualcosa d’irreversibile; l’angoscia l’aveva spinta a vestirsi in fretta e precipitarsi a tutta velocità al capezzale di Tetsuya. Aveva avuto un bel ripetersi che in caso d’emergenza Koji l’avrebbe sicuramente chiamata: dentro di sé, lei era sicura che fosse successo qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe fatto sì che nulla sarebbe stato più come prima.
Disperata, Jun aveva guidato l’automobile come una pazza, continuando a pregare che non fosse successo niente, che Tetsuya fosse ancora vivo; mentre percorreva a tutta velocità gli interminabili corridoi dell’ospedale, continuò a rimproverarsi per aver lasciato proprio Koji ad accudire Tetsuya. Come aveva potuto fare una cosa simile? Quei due non erano mai andati d’accordo, ultimamente erano stati come cane e gatto, e ora che era successo... che il dottor Kabuto... non voleva pensarci... beh, sicuramente quello che era accaduto non avrebbe certo migliorato i già pessimi rapporti tra Koji e Tetsuya.
Sono stata pazza, pazza, pazza, continuava a ripetersi Jun, senza voler pensare a quanto era stata stanca, quanto aveva avuto bisogno di riposare un poco, quanto quel po’ di sonno le era stato prezioso...
Bussò alla porta ed aprì senza nemmeno aspettare una risposta... e s’arrestò immediatamente.
Tetsuya dormiva nel suo letto, il viso disteso e sereno come non l’aveva mai visto. Accanto a lui, avvolto nella coperta, Koji riposava nella sua poltrona.
Meravigliata, Jun fece un passo avanti, rimanendo attonita a guardarli. Ultimamente li aveva sempre sentiti ostili l’uno verso l’altro, li aveva sempre visti accapigliarsi, provocarsi, coprirsi di insulti; ora, la pace che emanava da loro era talmente evidente da essere palpabile.
Si sono trovati, pensò Jun, sentendosi bruciare gli occhi,
Dio mio, si sono trovati...Sorrise, incredula. S’asciugò le lacrime e tornò a guardarli, chiedendosi come fosse possibile, cosa fosse accaduto, perché... all’improvviso rivide dentro di sé il viso del professor Kabuto, quell’uomo che lei aveva amato come un padre, e per un folle istante ebbe la percezione di sentirlo vicino, vicinissimo... ed ebbe la sua risposta.
Grazie, papà...