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Pianetaazzurro FF Gallery (solo autore), ... per chi ha voglia di leggere...

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view post Posted on 1/3/2015, 23:43     +3   +1   -1
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Professore della Girella

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Introduzione:

È con molto timore che presento questo mio primo scritto in assoluto, che ha voluto essere una FF di un anime che evidentemente ha segnato la mia infanzia. Non c’è azione, si tratta piuttosto di un viaggio introspettivo che i nostri ragazzi si trovano a dover affrontare una volta sconfitto Vega e prima che Duke e Maria ripartano alla volta di Fleed.
Inutile dire che il finale ufficiale così affrettato non l’ho gradito, e quindi, inventandomi tempi e situazioni, mi sono immaginata i sentimenti che finalmente hanno trovato modo di manifestarsi tra i vari componenti del Team Goldrake, non più impegnati in una guerra logorante, e quindi più disposti a lasciar spazio ad emozioni intuibili già nell’anime…ci saranno situazioni prevedibili e altre meno, che sono giunte così per caso, vedendo muoversi i personaggi. Alla fine, il mio scopo era di arrivare al momento degli addii dando un senso profondo (IMHO) a quel silenzio di qualche secondo che gli autori dell’anime ci hanno propinato come ultimo saluto, quasi volesse essere riassuntivo del tutto.
La cronologia temporale mi ha fatto mettere l’abbattimento di Vega in inverno, 6-7 mesi dopo le rivelazioni di Rubina, e la partenza di Duke e Maria in estate, come pare avvenire anche nell’anime…
Ho considerato Alcor come personaggio unico dell’anime, come del resto l’ho sempre percepito, senza metterlo in collegamento con Koji… chiaramente ciò deriva da un errore avvenuto nel doppiaggio storico, ma del resto è quello che ha lasciato il segno, malgrado tutte le imperfezioni!


“L’AMORE NON ESISTE PER RENDERCI FELICI. IO CREDO CHE ESISTA PER DIMOSTRARCI QUANTO SIA FORTE LA NOSTRA CAPACITÀ DI SOPPORTARE IL DOLORE” (H. Hesse, P. Camenzind, 1904)


1.

Il vuoto dell’universo inghiottì gli ultimi bagliori provenienti dalla disintegrazione dell’astronave nemica, mentre le loro navicelle vennero investite da una tempesta di polvere radioattiva.

Actarus sentiva il martellare affannoso del cuore nel torace, ed il respiro era corto e veloce: aveva sferrato quell’ultimo colpo con un moto di disperazione, convinto che sarebbe rimasto anch’egli ucciso in quell’ impatto mortale; invece ora aveva davanti a sé lo spazio scuro e infinito, testimone inquietante della fine di un impero. Erano riusciti nel loro intento, Vega era stato annientato e la Terra era salva. Le mani gli tremavano nervosamente e la vista per un istante si annebbiò; ebbe un fremito lungo la schiena e la voce gli si bloccò in gola senza che riuscisse a dire qualcosa. Accarezzò i comandi di Goldrake, andati in parte in frantumi, e cominciò a singhiozzare convulsamente.

I ragazzi si erano dati appuntamento nella sala comando della Cosmo Special, situata nel blocco principale dell’astronave e raggiungibile da qualunque velivolo vi si fosse agganciato. Erano stravolti e stentavano ancora a realizzare quanto fosse accaduto. Alcor e Maria furono i primi ad arrivare, e si strinsero l’uno all’altra in un lungo abbraccio, mentre Venusia li raggiunse poco dopo convinta di trovarvi anche Actarus.

Procton apparve sullo schermo principale: l’uomo, con lo sguardo di approvazione e un sorriso appena abbozzato, esprimeva gratitudine a quei ragazzi che avevano sacrificato la loro innocenza e rischiato la vita per la salvezza del pianeta; per la prima volta si lasciò scappare una lacrima di commozione. Con la voce incerta per l’emozione a lungo trattenuta disse un sommesso “grazie” espirando profondamente. Il giorno della vittoria era dunque finalmente arrivato. Un intenso raggio di luce invase la sala della Cosmo Special illuminando i loro volti tirati: il sole stava sorgendo da dietro a quel bellissimo pianeta azzurro, e, per chi la vedeva dalla Terra, la loro navicella appariva come una grossa stella che ancora risplendeva nelle prime luci dell’alba.

Venusia era preoccupata, Actarus non li aveva raggiunti come da accordo. Tornò verso il Delfino Spaziale spinta dall’inquietudine: non riusciva ad intravvedere Goldrake. “Actarus !”, chiamò all’interfono, la voce rotta dalla tensione, “Actarus !”… Ma non ottenne risposta. Temeva per lui, anche se non sapeva bene cosa! Continuò a chiamare il suo nome, ma le sembrava di parlare al nulla. Poco dopo riuscì ad entrare in contatto con lui, ma avvertiva solo un respiro affannoso frammisto ad allarmi provenienti dalla cabina di pilotaggio di Goldrake. Lontano allora scorse una scia luminosa che si dirigeva velocemente verso la Terra. Goldrake pareva privo di controllo e stava precipitando attratto dalla forza di gravità.


2.

Improvvisamente sentì mischiarsi al sapore salato delle lacrime il gusto inconfondibile del sangue. Un colpo di tosse lo scosse dolorosamente ed il respiro divenne affannoso e bruciante. Sentiva la testa leggera e la nausea gli toglieva lucidità e forze. Doveva tentare un atterraggio prima di perdere i sensi, altrimenti si sarebbe sicuramente disintegrato precipitando da quell’altezza senza il minimo controllo. L’allarme risuonò ripetutamente in cabina, ma oramai riusciva a malapena ad intravvedere il punto dove avrebbe voluto atterrare. La velocità era eccessiva e non riusciva a tener testa allo stallo. Lo avevano chiamato invano per ridestarlo dal suo torpore, ma delirava, e gli sembravano solo voci sconnesse e lontane che si inseguivano e che andavano a confondersi con immagini frammentarie della battaglia appena vissuta. Intravvide il centro spaziale e l’entrata dell’hangar di Goldrake: con uno sforzo sovrumano cercò di allinearsi, ma poi non ebbe più controllo di nulla.

Dalla sala principale del Centro non poterono che assistere impotenti alla caduta ingovernabile di Goldrake; pochi istanti dopo una palla infuocata transitò rumorosamente davanti ai loro sguardi pietrificati prima di schiantarsi nella vallata sottostante. Un tremore sordo e sinistro corse lungo le mura della costruzione, e del fumo nero e denso si levò, togliendo visibilità e rendendo l’aria irrespirabile.

Nonostante le maschere un odore acre impregnava le narici ed i polmoni, e la vista era completamente annebbiata. I soccorsi avanzavano faticosamente in una lotta impari contro il tempo e la morte. Quando giunsero finalmente vicino a Goldrake si resero conto che, contro ogni aspettativa, aveva resistito all’impatto, e che il fumo era probabilmente dovuto all’entrata troppo veloce in atmosfera.

Dovevano raggiungere Actarus al più presto. Aveva smesso di dare segni di sé già da prima dell’impatto a terra, e da quel poco che erano riusciti a comunicare con lui, temevano per la sua incolumità.

Actarus, non si era mai sentito così estraneo agli avvenimenti circostanti. Il dolore alla parte destra del torace era diventato sordo e continuo e stentava a respirare; il cuore batteva all’impazzata fino a pulsargli nella testa, e quest’ultima pareva sul punto di scoppiare. Poi avvertì solo molto freddo; la testa prese a girare in un vortice e un ennesimo colpo di nausea lo tramortì. Iniziò a contorcersi per le convulsioni e perse nuovamente conoscenza; in quel momento gli sembrò di essere leggero e sempre più distante da quel suo corpo ferito e in fin di vita…

Alcor e Maria tentarono di sfondare l’accesso alla cabina di pilotaggio di Goldrake, ma l’impresa si presentò tutt’altro che facile: il Robot produceva scariche elettriche verso chiunque tentasse di avvicinarsi a lui, quasi non riconoscesse più la presenza di Actarus al suo interno, e questo non era un buon segno. Con il passare del tempo i sensori di Goldrake captarono gli impulsi provenienti dal medaglione reale di Fleed che Maria teneva al collo, e allora la porta d’accesso alla cabina di pilotaggio venne disarmata: Alcor e Maria vi si calarono e trovarono Actarus privo di sensi.

Le parole concitate di una donna e di un uomo lo riportarono in sé. Si sentì sollevare dalla posizione innaturale che doveva aver assunto, e in quel momento percepì nuovamente il dolore al torace. Emise un gemito e fu scosso da violenti colpi di tosse che parevano pugnalate. Un rivolo di sangue fuoriuscì dalla sua bocca ed il senso di soffocamento ritornò ad opprimerlo.

Alcor, aiutato da Maria, riuscì con non poche difficoltà a trasportare il corpo dell’amico fino ai paramedici, che nel frattempo si erano avvicinati il più possibile a Goldrake. Actarus era ancora miracolosamente vivo, ma non lo sarebbe stato ancora per molto: il pallore grigio del suo volto contrastava con i brandelli della tuta intrisa di sangue e detriti; ora aveva smesso di respirare ed il suo polso veloce e flebile era indice di uno stato di shock.

Forse era già troppo tardi, o forse no…

Procton e Venusia erano giunti a pochi passi da Goldrake giusto in tempo per vedere trasportare via il corpo inerme di Actarus e per scorgere nei volti di Alcor e Maria tutto l’orrore che avevano vissuto in quei momenti accanto a lui. Era in fin di vita, ma si attaccarono a quella minuscola speranza data da quel cuore d’acciaio che dava ancora un debole segno di sé! Procton abbracciò Venusia che si reggeva a malapena in piedi. La ragazza era scossa da un tremore incontrollabile dovuto alla tensione nervosa che stava emergendo in tutta la sua violenza. L’uomo la fece sedere e si inginocchiò di fronte a lei accarezzandone il volto pallido e stanco, e non poté trattenersi dal baciare sulla fronte quella creatura tanto determinata quanto fragile che aveva davanti a sé. L’aveva veduta crescere in fretta, e per questo, tra sacrifici e prove della vita, aveva sviluppato un carattere volitivo e tenace a dispetto di un fisico minuto. Aveva insistito per dare il suo contributo a quella guerra contro l’invasore alieno, forse più animata dall’amore per Actarus e la sua causa, che per reale spirito guerriero. L’aveva vista soffrire in silenzio accanto a suo figlio, accompagnarlo nella malattia e sostenerlo in quella che pareva essere una condanna a morte. Ora se la trovava di fronte con gli occhi bruni sbarrati, terrorizzati al solo pensiero di perderlo per sempre. La strinse a sé come avrebbe fatto con una figlia, e lasciò che si abbandonasse ad un lungo pianto silenzioso.

... per commenti, critiche, osservazioni e tutto quanto vi passa per la testa, qui:

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Edited by pianetaazzurro - 2/3/2015, 23:35
 
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3.

L’intervento chirurgico stava oramai durando da diverse ore: una parte metallica della plancia di comando di Goldrake aveva trafitto il torace di Actarus e lacerato un polmone facendolo collassare. Le ferite riportate erano gravi, e poco dopo essere stato rinvenuto nella cabina di pilotaggio, era collassato ed entrato in coma. Si era resa necessaria una trasfusione, e fortunatamente Maria stava tutto sommato bene da potergli donare il suo sangue. Durante l’intervento il cuore di Actarus si era fermato e i medici avevano temuto di non riuscire a strapparlo alla morte. Fuori, in una saletta d’attesa, si erano tutti riuniti avvolti in un silenzio pesante, interrotto di tanto in tanto da un sospiro che voleva tentare di placare l’inquietudine.

A Venusia quel tempo parve non esistere, credeva di vivere in un mondo parallelo in cui lei era solo spettatrice. Le immagini degli ultimi avvenimenti si accavallavano incessanti nella sua mente ed un turbinio di sensazioni la travolgeva come un mare tempestoso. Una stanchezza malvagia le era cascata addosso ma era decisa a resisterle con tutta sé stessa per amore di Actarus. Fossero stati gli ultimi istanti della sua vita, avrebbe voluto stargli accanto. Si sforzava di ricordare i momenti sereni trascorsi con lui, pochi a dire il vero, ma intensi. Il loro amore, o almeno così voleva chiamare quel sentimento che esisteva tra loro due, non aveva mai trovato lo spazio sufficiente per esprimersi a causa della guerra e delle pene che si accanivano incessantemente su di lui: a volte i suoi lunghi silenzi impenetrabili la spiazzavano e non riusciva minimamente a capire che cosa pensasse. Non era mai stato molto espansivo nel manifestarsi a lei, ma nemmeno l’aveva mai respinta. Vi erano stati momenti in cui lui appariva distante e sofferente per fatti di cui lei non conosceva niente e che faticava ad immaginarsi. Vi erano state carezze, qualche bacio d’affetto e lunghe cavalcate nei boschi. Spesso si fermavano su di un poggio ad aspettare che il tramonto infuocasse cielo e montagne; a volte Actarus portava con sé la chitarra e allora in quegli istanti intonava melodie evocative che lo trasportavano lontano da tutto e da tutti. Lui aveva spesso cercato la sua vicinanza, per sfuggire alla solitudine che oramai era diventata sua abituale compagna. In quei momenti amava prenderla per mano e andare per boschi e prati ad ascoltare quel silenzio che solo la natura sapeva offrire; oppure le cingeva le spalle con un braccio per tenersela vicino. In quei momenti capitava che egli appoggiasse il viso fra i suoi capelli per soffocare le lacrime. Lei si accorgeva di quel pianto da come lo sentiva deglutire duramente, battendosi contro la voglia di mettersi ad urlare. L’aveva sempre assecondato senza mai osare chiedergli niente, e lui le era grato. L’aveva poi visto diventare sempre più preoccupato e distaccato a causa della ferita mortale al braccio che peggiorava e minava la sua integrità fisica e mentale. Non la voleva coinvolgere ulteriormente in quella sofferenza di cui lui vedeva la risoluzione solo con l’avvicinarsi della propria morte, e lei aveva accettato ancora una volta questo suo comportamento in silenzio, e ora…? Fosse sopravvissuto cosa ne sarebbe stato di loro?

Sospirò profondamente un’altra volta e alzò lo sguardo al cielo come volesse pregare: una notte di metà inverno era sopraggiunta in tutto il suo gelido splendore, e lei sperò con tutte le forze che poteva ancora avere che non fosse l’ultima per quell’uomo straordinario che lei amava più di sé stessa.

Dopo aver donato il sangue a suo fratello, Maria si alzò dalla poltroncina barcollante. Il corpo le doleva ovunque e sentiva rimbombare la testa. Le portarono da bere e mangiare per riprendersi, ma un nodo allo stomaco le impediva di deglutire qualunque cosa. Stava ricacciando i suoi pensieri, non voleva ascoltarli e soprattutto non voleva avere a che fare con quelle capacità di premonizione che in passato avevano avuto sempre ragione. In quel momento le temeva più che mai per paura che annunciassero morte e dolore, e contro cui né lei né nessun altro avrebbero potuto fare qualcosa. Osservò Alcor che stava appoggiato alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto del cielo all’imbrunire. Strano come improvvisamente non lo vide più come il goliardico compagno con cui scambiare schermaglie da camerata: aveva profonde occhiaie e la fronte corrucciata. Gli zigomi erano pronunciati e pallidi, ed il suo sguardo sbarazzino aveva lasciato il posto a profondi occhi stanchi e assorti. Le sue mani magre avevano dita lunghe e affusolate che ora tremavano in modo impercettibile. In quell’istante lui si voltò incrociando i suoi occhi blu cobalto smarriti, che gli parlavano di sgomento, dolore e amore. Si mossero l’uno verso l’altra fino a toccare i loro corpi. Lei sentì i suoi muscoli tesi, e mai come in quel momento fu presa dal desiderio di essere amata da quell’uomo meraviglioso che era diventato. Non provò vergogna per quel pensiero giunto forse inopportunamente; in quel momento lei aveva bisogno di sentirsi abbracciata e protetta per sfuggire alla solitudine che le stava invadendo l’anima. Lui l’avvolse in un caldo abbraccio stringendola a sé e baciandola teneramente sul capo. Lei si abbandonò sfinita tra le sue braccia; appoggiò la testa sul suo petto e percepì l’accelerazione del suo cuore: il respiro le si bloccò a metà ed emise un gemito che parve un singhiozzo. Lui la prese in braccio come fosse una bambina, dirigendosi verso il divano: Maria sentì che si sarebbe presto addormentata, sperando così di poter sfuggire al tormento di quell’angoscia che non voleva abbandonarla.

Alcor si sedette adagiandola accanto a sé e lasciando che la testa appoggiasse sulle sue gambe. Prese ad accarezzarle i capelli e a contemplarne la bellezza. Quella ragazza venuta dall’ignoto gli stava entrando nel cuore: era selvaggia, forte e caparbia come suo fratello, intelligente e profondamente sensibile anche se sovente non lo dava a vedere. Benché le fosse subito piaciuta da morire, lui non avrebbe mai osato toccare la sorella ancora ragazzina del suo migliore amico. Ma ora più la osservava, e più provava per lei un genere di attrazione più coinvolgente ed adulto.


4.

Procton si alzò dalla poltrona: aveva bisogno di un po’d’aria e di stare solo, come del resto era sempre stato. Quel figlio eccezionale del tutto inatteso, aveva avuto il pregio di trasformarlo in un uomo capace di provare sentimenti che prima di allora non sapeva esistessero, preso com’era a studiare. Ora, fosse mancato, non osava neppure immaginare come avrebbe reagito. Si sentiva impotente, … no, non poteva perderlo proprio ora! Strinse i pugni fino a sentire dolore e uscì sul balcone.

Finalmente il chirurgo uscì dalla sala operatoria; i suoi piccoli occhi azzurri cercarono un contatto con i presenti e a loro si formò un nodo in gola. Si passò una mano sulla fronte sospirando, e fra l’incredulo e l’esausto annunciò che Actarus aveva superato bene l’operazione nonostante tutto. Si sarebbe ripreso completamente, non aveva certo dubbi su questo, ma quello che lo preoccupava di più era la rinnovata esposizione al Vegatron, avvenuta sicuramente al momento dell’impatto con l’astronave di Vega.

Actarus si trovava ancora in sala operatoria quando accennò ad aprire gli occhi. La vista annebbiata, percepì dapprima che qualcuno stava occupandosi di lui, poi lentamente le figure cominciarono a prendere forma. L’arsura gli bruciava in gola e sentiva la bocca impastata. Accanto intravvedeva schermi luminosi che riportavano e sorvegliavano il suo stato vitale… già, era vivo!

Cercò di portare alla mente gli ultimi avvenimenti, ma i ricordi erano confusi e assomigliavano piuttosto ad un incubo angosciante: avvertì di nuovo un’oppressione al torace e il cuore iniziò a martellargli nel petto e nella testa. Nella sua mente immagini di un vissuto recente si accavallavano ossessivamente dandogli la nausea. Profondi conati gli pugnalavano lo stomaco e un senso di gelo si impadronì del suo corpo sfinito. Gemette con una smorfia di sofferenza tentando di liberarsi da quell’inferno di malessere! Poi un’ondata di caldo gli salì alle tempie e ritrovò lentamente la calma: l’effetto di un sedativo lo fece piombare in un sonno senza ricordi.

Quando Venusia andò da lui, Actarus dormiva profondamente, e nel vederlo così pallido che pareva privo di vita, venne colta dallo sconforto: si avvicinò con timore e gli accarezzò la fronte, poi prese la sua mano e la strinse a sé. Non riuscì più a trattenersi e le lacrime sgorgarono violente. Tutte le emozioni più intime, dall’amore alla rabbia, fino all’impotenza, si trasformarono in singhiozzi irrefrenabili. L’uomo che amava, ancora una volta aveva rischiato la vita per tutti loro, sprezzante della propria incolumità, generoso e coraggioso. Lo guardava, era bellissimo, anche ora che pareva smagrito; la sua pelle bianca come l’alabastro era solcata da una lunga cicatrice a livello del torace e qui e là c’erano graffi ed ecchimosi. I capelli color del rame accarezzavano il suo lungo collo ed incorniciavano i tratti perfetti di quel viso provato dal logorio della guerra. Sperava fossero giunti alla fine di tutto: era esausta, gli occhi le bruciavano e cominciava a dolerle la testa; appoggiò il capo sul letto sprofondando ben presto nell’oblio del sonno. Procton passò di lì poco dopo, e quando la vide la ricoprì teneramente.

Poco più tardi venne svegliata dall’infermiera di turno che passava per i controlli. Si sentiva terribilmente intorpidita e probabilmente aveva qualche linea di febbre. Si alzò incerta avvertendo freddo; si volse verso Actarus che riposava tranquillo e gli diede un bacio sulla guancia. Dalla finestra della stanza osservò l’immensità del cielo sopra di lei, e non poté che rabbrividire d’inquietudine di fronte a quella notte che la sovrastava: lei sapeva cosa poteva accadere di terribile oltre la poesia delle stelle.

Si diresse verso la sua stanza camminando stanca nel corridoio vuoto e illuminato dalla fredda luce delle lampade al neon.

Passando davanti alla sala di controllo principale vide Procton ancora intento a lavorare e gli si avvicinò: “non dormi?”, chiese a mezza voce.

Lui ebbe un lieve sussulto, non si aspettava di trovarsela ancora in giro.

“Non ci riesco…” le rispose, e poi proseguì preoccupato:” Actarus è nuovamente venuto a contatto con radiazioni di Vegatron, e questo potrebbe portare ad una reazione di intolleranza ancora più importante di quella che aveva ai tempi della ferita sul braccio”.

Venusia era troppo stanca per capire che cosa Procton volesse dirle, …lo guardò sbigottita senza dire una parola e poi si diresse verso la stanza che condivideva con Maria. Si sedette sul bordo del letto in una stanza illuminata solo dalla bianca luce della luna; aveva bisogno di conforto e di parlare, ma quando si voltò verso il letto di Maria vide che la ragazza non c’era! Sorrise fra sé con una punta di amarezza: probabilmente loro ora erano assieme, ed era sicura che tra quei due non c’erano stati timori a svelare i sentimenti che provavano l’uno per l’altra. Lei invece non aveva certezze e viveva ancora nella speranza che quell’illusione intima di amore diventasse realtà. Si distese stancamente sul letto fissando pensierosa il soffitto della camera, in attesa che il sonno le facesse dimenticare tutti quei dubbi almeno per qualche ora.

...per tutto quello che vi viene in mente, qui:

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Edited by pianetaazzurro - 3/3/2015, 00:32
 
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5.

Maria si era assopita profondamente; quando si ridestò dovevano essere passate un paio di ore, e più nessuno si trovava nel locale d’attesa posto a fianco della sala chirurgica. Era intorpidita e leggermente disorientata, fino a quando un dolce ricordo la riportò fra le rassicuranti braccia di Alcor, … ma anche lui non era più lì! Fece per alzarsi dal divano quando sentì due mani calde appoggiarsi sulle spalle da dietro. Trasalì, ma subito si trovò di fronte il ragazzo che nel frattempo si era inginocchiato di fronte a lei accarezzandole dolcemente il viso e porgendole una tazza di tè caldo.

Maria temeva il peggio, ma Alcor si affrettò a rassicurala abbracciandola. Avrebbe desiderato vedere suo fratello, ma le disse che c’era già Venusia con lui, e che era meglio non disturbarla.

Alcor era sopraffatto dal modo di fare della ragazza, anche se non gli era chiaro quali fossero i suoi sentimenti per lei. Era bellissima e sensuale, ma anche molto giovane, e per certi versi immatura; eppure in una giornata come quella aveva sfoderato una sicurezza e una fermezza di carattere che l’avevano stupito. Era diversa, forse come lo era Actarus: parevano possedere risorse infinite ed era difficile non restarne affascinati.

Si alzò prendendola per mano, e l’aiutò a mettersi in piedi; Maria in un attimo si trovò di fronte a lui, nella profondità del suo sguardo maschile, caldo e protettivo. Percepiva il suo respiro trattenuto ed il tepore delle sue labbra; con un braccio lui la strinse a sé, attratto da quegli occhi a cui non sapeva resistere, e spinse forte le labbra contro le sue, affondando in quella bocca morbida in cui presero forma tutti i suoi più intimi desideri. La sollevò da terra cingendola contro il suo petto, e s’incamminò oltre la soglia di quella porta, in quella stanza in cui avrebbero esplorato l’indistinto confine tra amore e attrazione, tra desiderio e passione.

Lei si strinse al suo collo socchiudendo gli occhi, e si lasciò avvolgere dal caldo profumo del suo corpo virile.

Per la prima volta sentì le mani affusolate dell’uomo accarezzarla dove non avevano mai osato prima, e il suo corpo trasportarla verso sensazioni nuove. Nell’abbandono dell’amplesso, si strinse attorno a lui come fossero un tutt’uno, abbandonandosi a quelle rassicuranti emozioni che volle credere fossero amore.


6.

Si destò nel cuore della notte pensieroso: la sua vita, questa volta, era stata veramente appesa ad un filo, e se ne rendeva conto. Mai come in questa occasione si era spinto così vicino alla morte, quella morte che forse sperava di trovare perché non tollerava più l’enorme peso della sofferenza interiore che si portava appresso. Il suo unico desiderio da sempre era quello di salvare la Terra, cercando così di riscattare il genocidio fleediano, e ora aveva ottenuto ciò che più desiderava, lottando duramente, forse anche troppo! Era giunto ad un punto tale di disperazione che si era sentito pronto a sacrificare la vita pur di riuscire nel suo intento, e il destino era stato dalla sua, ma ancora una volta aveva scelto per lui: era vivo, e improvvisamente avvertì un senso di smarrimento…vivere significava che avrebbe dovuto nuovamente scendere a patti con i propri fantasmi.

Il sonno lo vinse di nuovo e si riaddormentò senza sogni né desideri, deciso forse a lasciarsi sorprendere da quello che il futuro aveva ancora in serbo per lui.

Venusia si svegliò presto in una stanza invasa dalla luce chiara del mattino; ora che era di nuovo lucida necessitava di risposte, e si diresse quindi verso l’ufficio di Procton. Lo trovò impeccabilmente pronto e già pienamente operativo nel proprio lavoro. Nonostante l’abbattimento di Vega dovevano stare all’erta, e di lì a poco sarebbero dovuti partire per il pattugliamento. Procton apparve impenetrabile come sempre ma mal celava una certa preoccupazione. Di fronte a Venusia cercò di deviar discorso, ma c’era ben poco da fare contro quegli enormi occhi interrogativi che lo stavano fissando. Le disse allora senza troppo tergiversare di essere molto preoccupato per il tasso di radioattività rilevato sul corpo di Actarus, e che temeva per la reazione del ragazzo, dato che aveva già rischiato di morire in passato a causa di un problema simile. Ora era solo questione di tempo, ma la reazione alla radioattività non avrebbe tardato a manifestarsi!

Un raggio di sole lo colpì in volto facendone risaltare la bellezza fuori dal comune: Actarus aprì gli occhi restando accecato dal chiarore della stanza. In controluce gli apparve allora una figura esile e longilinea avvolta in un’atmosfera che pareva irreale. È così che vide Venusia per la prima volta da quando aveva ripreso conoscenza. Rimase colpito da quanto le apparisse diversa, femminile e sensuale. Era da molto tempo che non riusciva più a vederla come la donna affascinante che era diventata. Tanto più la ragazza gli si svelava in tutta la sua bellezza discreta e riservata, quanto più si sentiva attratto dalla grazia e dalla serenità che riusciva a trasmettere. I loro occhi si incontrarono carichi di tensione e le parole gli morirono sul nascere. Lei gli fece cenno di non dire niente e si sedette sul bordo del letto accanto a lui. Quell’attimo durò un’eternità prima di sciogliersi in un abbraccio. Lei appoggiò la testa sul suo petto e lui prese ad accarezzarla. Venusia pianse lacrime di gioia per quel gesto inatteso, e lui trattenne il fiato inghiottendo i suoi sensi di colpa per non aver mai voluto esprimere i propri sentimenti a quella creatura straordinaria che aveva rischiato la vita per condividere il suo destino, e che ora stringeva fra le sue braccia.

No, non poteva più correre il rischio di perderla…

...Per i vostri graditi commenti, qui

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Edited by pianetaazzurro - 3/3/2015, 21:27
 
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7.

Erano trascorse diverse settimane dall’abbattimento di Vega, e l’inverno cedeva lentamente il passo ad una timida primavera. Benché non cessassero di sorvegliare i cieli, i ragazzi trovarono ben presto un’occupazione al Centro: Alcor e Maria lavoravano al perfezionamento della Cosmo Special affinché potesse affrontare viaggi interstellari, e Procton era ritornato ai suoi studi, non senza aver potenziato i suoi apparecchi per meglio monitorare l’attività nello spazio circostante la Terra. Venusia fra un impegno e l’altro era riuscita a ritagliarsi un po’di tempo per portare aiuto alla fattoria: stare a contatto con la natura le permetteva di superare meglio lo sconforto che ogni tanto provava al pensiero che Actarus non potesse essere lì con lei come una volta.

Actarus si stava riprendendo bene, anche se spesso combatteva contro stati d’animo oscuri che lo spingevano ad isolarsi effettuando interminabili uscite a cavallo alla ricerca nuovamente di equilibrio e serenità. Occasionalmente soffriva di emicranie lancinanti, di cui non aveva mai fatto esperienza prima, e che lo tramortivano per un paio di giorni. In quei momenti penosi cercava il sostegno e le cure di suo padre, come durante i primi tempi che si trovava sulla Terra. Erano il segno della rinnovata esposizione al Vegatron, per far fronte alla quale avevano ben pochi mezzi; per Procton trovare una soluzione rappresentava una sfida dettata da ragioni del cuore: Dio solo sapeva quanto avesse penato per quel figlio comparso all’improvviso, e quanto fosse duro per lui vederlo ancora soffrire per le conseguenze di quella guerra che gli aveva portato via tutto!

Quel giorno Actarus propose a Venusia una gita a cavallo. L’ultima volta era stato diversi mesi prima che abbattessero Vega, e lei ricordava bene lo stupore provato per le parole dette dal ragazzo. Se non fosse stato per quelle, forse non avrebbe perseverato a nutrire la speranza che tra loro esistesse qualcosa di più profondo della sola amicizia. Ma questo sentimento era ancora imprigionato nell’intimità inaccessibile di quell’uomo, i cui reali pensieri restavano avvolti nel mistero che lo contraddistingueva da sempre.

Cavalcarono velocemente nell’aria tiepida del bosco di betulle, accompagnati dal fruscio di foglie fragili appena sbocciate e dal profumo della terra al suo risveglio. Giunsero alla cascata dove già altre volte erano stati bene insieme: era un luogo di ricordi e di speranze disattese, ma era significativo che quando avevano qualcosa di importante da dirsi si ritrovavano sempre lì.

Osservò il ragazzo smontare agilmente da cavallo: appariva ancora più statuario del solito e l’incidente nulla aveva tolto a quel suo corpo atletico e seducente. Si avvicinò per aiutarla a sua volta a scendere dalla sella: la prese tra le braccia e la strinse forte a sé, … non erano mai stati così vicini. Venusia alzò lo sguardo incrociando il suo, profondo come un mare sconosciuto, inquietante e severo, e fu percorsa da un brivido: non aveva bisogno di aprigli il suo cuore, lui sapeva già tutto, ma ora era lei che, stordita, necessitava di chiarezza da parte di quell’uomo che appariva sempre così distante da tutto e, soprattutto, da lei!

Con un gesto inatteso, il giovane prese il suo volto tra le mani, sfiorandolo dolcemente, e spinse le sue labbra morbide contro le sue. Venusia socchiuse gli occhi per resistere ad un’improvvisa vertigine che le toglieva le forze, poi si abbandonò a lui, incapace di reagire. Chino su di lei, l’adagiò sul prato continuando a baciarla e ad accarezzare quel suo corpo esile. Il desiderio di essere amata da lui, rimasto così a lungo represso nel timore fosse inopportuno, fu così forte e dirompente da sembrarle dolore…

Si liberarono ad una passione sofferta, cercandosi con le mani e con le labbra, accarezzandosi quasi con timore, ma incapaci di resistere all’affanno di quel momento tanto desiderato. La paura di perdersi ancora e la dolente esultanza della passione, travolsero antiche inibizioni, regalando loro emozioni nuove che si sarebbero impresse per sempre nei loro cuori.

...Fine prima parte..., ma continua!!!
Per i vostri graditissimi commenti, qui

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“CHI PARTE SARÀ COMBATTUTO, MA CHI RESTA CADRÀ A PEZZI” (Paul Morand, il viaggio, 1927)

8.

Venne svegliato nel mezzo della notte in preda ad un’emicrania lancinante, il corpo madido di sudore freddo e la mente ancora lucida. Doveva raggiungere l’infermeria del centro spaziale prima che ne venisse tramortito. L’intossicazione al Vegatron diventava sempre più violenta, e senza rimedio. Il dolore fisico era qualcosa a cui nel tempo si era abituato, ma durante questi attacchi sperimentava l’obnubilazione di sé, e l’angoscia di soccombere a quel male si tramutava in uno stato d’agitazione degno di un incubo.

Si sdraiò sul lettino e la testa prese a giragli vorticosamente e una nausea malvagia lo invase. Procton accorse da suo figlio sapendo già che se lo sarebbe trovato di fronte in uno stato pietoso. Il ragazzo oramai non era più in sé, in preda com’era alle allucinazioni e al malessere generale. Dopo averlo calmato con un sedativo decise che era venuto il momento di tentare una nuova terapia recentemente messa a punto. Non era sicuro potesse funzionare, ma sperava di migliorare quella sintomatologia che limitava sempre più la vita del ragazzo.

Pur mantenendo la sua lucidità di scienziato, Procton si sentiva vulnerabile ed emotivamente coinvolto. Il solo pensiero di non riuscire a far qualcosa per aiutarlo gli era intollerabile, anche perché poteva contare solo su sé stesso e pochi suoi stretti collaboratori. Il mondo che suo figlio aveva salvato non sapeva nulla di Actarus, da dove provenisse, delle sue peculiarità. Forse era meglio così, perché se mai fosse trapelata la vera storia di Duke Fleed, il ragazzo non avrebbe più avuto pace. Ma per lui, padre amorevole ma uomo di scienza, questa segretezza significava solitudine oltre che responsabilità.

Non senza timori mise in atto la nuova terapia e si diede qualche tempo per valutarne l’efficacia. Poco dopo padre e figlio, vinti dal sonno, dormivano tranquilli, l’uno sul lettino dell’infermeria e l’altro nella poltrona posta accanto. Quando si svegliò, Procton fu ben lieto di constatare che il suo trattamento aveva avuto effetto. Si mise a contemplare suo figlio, lasciando vagare liberamente i pensieri: ne era orgoglioso e lo amava. Lui era sempre stato solo, non lo recriminava, ma ora teneva ad Actarus quasi più che a sé stesso! Cosa non ne aveva passate per tenerlo in vita quando era giunto sulla Terra, ed in seguito quanto penare per quei suoi silenzi e sensi di colpa per i quali lui poteva fare ben poco. Poi l’avvento di quella guerra del tutto nuova: non aveva mai visto combattere a quel modo con intelligenza, tattica e caparbietà. Era l’uomo fattosi macchina e la macchina divenuta mente pensante attraverso il suo pilota. Lui e Goldrake in battaglia erano in simbiosi, grazie ad una tecnologia sconosciuta che aveva anticipato i sogni di molti scienziati terrestri, ma ogni volta che partiva in missione sapeva che poteva essere l’ultima, e questo lo aveva logorato malgrado le apparenze.

Ora avrebbe desiderato per lui solo un po’ di serenità, se lo era immaginato accanto a sé, a riprendere l’esplorazione e lo studio dell’universo, …e invece il ragazzo in quell’universo da cui era venuto ci voleva tornare: glielo aveva fatto capire qualche giorno prima, mentre mettevano a punto un potenziatore d’immagini planetarie. Aveva puntato il telescopio verso Fleed e lo aveva messo a fuoco. Quando gli aveva mostrato quel punto luminoso nel vuoto siderale era trasalito come se fosse sul punto di precipitare nel nulla. Si era poi voltato verso suo figlio con aria incredula, e nell’intensità del suo sguardo aveva intravvisto la determinazione nel voler mettere in atto il progetto di ritorno.

In quell’istante maledetto le parole gli si bloccarono in gola, mentre Actarus, che mal celava le sue emozioni, gli disse solo che era suo dovere tornare su Fleed.

Sapeva dunque che si trattava unicamente di una questione di tempo, e anzi, probabilmente l’aver trovato una soluzione accettabile per trattare l’intossicazione al Vegatron non avrebbe fatto altro che anticipare la partenza. Il suo cuore di padre avrebbe dovuto resistere anche a questo, per il bene di quel figlio straordinario, che si preparava ad affrontare nuovamente un sacrificio dal prezzo molto alto da pagare. Era sicuro che nel suo intimo Actarus non era felice per quella decisione, ma non ci sarebbe stato modo di fargli cambiare idea. Restare sulla Terra sarebbe stato altrettanto penoso per lui, perlomeno in questa situazione di incertezza riguardo quel suo passato così lontano nel tempo e nello spazio, e che poteva apparire credibile solo a coloro che erano capaci di amare Actarus sinceramente.


Per chi desidera commentare questo capitolo dedicato a padre e figlio...

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9.

Da alcune settimane Alcor faticava a coinvolgere Actarus in attività che non fossero lavoro: era diventato vieppiù sfuggente e chiuso in sé stesso; studiava mappe stellari e sistemi extrasolari, e si cimentava in elaborazioni matematiche di una complessità disarmante facendo uso di segni e codici che lui proprio non riconosceva. Actarus era tornato ad essere quel ragazzo solitario e taciturno dei primi tempi, troppo distante con i pensieri e perennemente in conflitto con sé stesso; occasionalmente si prendeva qualche pausa suonando la chitarra, oppure partiva per lunghe corse a cavallo, ma poi tornava immediatamente al lavoro fino a notte inoltrata. Non parlava di lavoro con nessuno tranne che con suo padre. Ogni tanto durante i pattugliamenti, spingeva Goldrake sempre più in alto, ai limiti dell’atmosfera, ad una velocità superiore a quella della luce, per poi ricomparire al loro fianco come se niente fosse.

Ad Alcor faceva male vederlo così serio e poco incline a lasciarsi andare, proprio adesso che ce n’era la possibilità.

Quando infine si rese conto delle reali intenzioni dell’amico provò un’inattesa irritazione ed un senso di smarrimento.

Stava realmente pensando di ripartire per Fleed? Non che non ne avessero parlato tra di loro, ma molto ipoteticamente, senza un reale progetto; … ma ora tutto appariva così chiaro e deciso!

Alcor si sentì improvvisamente tradito nella fiducia e negli affetti! Era impotente di fronte a decisioni oramai prese, e si sentì in collera, con Actarus e con sé stesso, ma anche con quella situazione che non pensava potesse mai diventare realtà. Doveva sapere, essere sicuro, ma temeva che di fronte all’evidenza non sarebbe riuscito a controllarsi.

Ne approfittò quel pomeriggio stesso. Lo vide partire a cavallo e decise di raggiungerlo. Actarus non fu molto stupito di ritrovarselo accanto, né di percepirlo inquieto. Cavalcarono in silenzio per una decina di minuti finché Actarus, che era certo di conoscere i motivi di quello sguardo inquisitore, non ruppe il silenzio:

- “…tornerò su Fleed, … scusa se non te ne ho parlato prima, ma credimi, non è una decisione facile…!”.

Actarus pareva imperturbabile e distaccato, quasi stesse recitando un monologo in assenza di pubblico! Alcor visse questo atteggiamento come una provocazione!

Sentì improvvisamente cascargli addosso il mondo. Allora era vero, tutto era già deciso, e non ne aveva parlato con nessuno di loro! Forse che non li ritenesse in grado di affrontare insieme a lui i preparativi? Quali erano le vere ragioni del suo partire? Non era felice sulla Terra? Eppure non sembrava! E del dolore che avrebbe procurato a tutti loro? L’amore, l’amicizia, la lealtà, dove erano finiti? Avevano condiviso tutto, dolore, paura, e orrore. Avevano condiviso un’amicizia fuori dall’ordinario, si erano sostenuti nei momenti di sconforto e nella malattia, … perché ora non coinvolgerli in questo progetto! Possibile che tutto questo non potesse bastargli! Le domande ed i pensieri si rincorrevano oramai nella sua mente senza controllo, incrementando rabbia e frustrazione:

“… vuoi riprenderti il potere che ritieni ti spetti non è vero Duke, …principe di Fleed? ... Quanto fatto finora non basta al tuo ego smisurato, vero? ...”

Aveva perso il controllo… e sapeva di aver ferito Actarus, anzi, forse era quello che voleva, per dar voce al suo dolore. Non l’aveva mai chiamato con il suo vero nome e men che meno ne aveva mai sottolineato il ruolo. Un nodo alla gola soffocante gli aveva reso la voce spezzata e stridula.

Actarus fu talmente sorpreso dalle sue parole che non riuscì a trattenersi dal mollargli un sonoro ceffone; Alcor resistette alla voglia di controbattere. Se lo sentiva venire questo scontro, ma non s’aspettava che sarebbero bastate così poche parole per urtare nel profondo l’amico. Aveva colpito nel segno o gli aveva semplicemente mancato di rispetto? Credeva di conoscerlo, ma in realtà Actarus aveva ancora molti aspetti impenetrabili. Si sentì improvvisamente stupido!

- “Bastardo!”. Gridò.

- “Carogna!”. Spronò il cavallo e se ne tornò verso il Centro Spaziale.

Actarus si irrigidì e strinse i pugni inghiottendo bile amara come il veleno. Alcor forse non aveva tutti i torti, il suo passato stava ritornando prepotentemente a galla travolgendo ogni suo desiderio e il suo futuro! Se fosse stato solo un poco più indulgente verso sé stesso e meno perseverante, la decisione sarebbe stata già presa. Era sfinito, combattuto; si sentiva perseguitato da eventi che gli chiedevano sempre troppo e che lo portavano a spingersi oltre ogni limite umanamente immaginabile, svuotandolo della capacità di provare una felicità autentica. In quel momento odiava sé stesso e le sue straordinarie doti fisiche e di sopravvivenza. Quello era uno di quei momenti in cui avrebbe desiderato di non essere sopravvissuto all’ultimo scontro con Vega.

Cavalcò senza una meta finché giunse dove il caso voleva portarlo: era giunto il momento di venire a patti con sé stesso.

Piccoli fiorellini gialli sarebbero presto spuntati, ed i loro petali avrebbero preso a vorticare sospesi nel vento raccontando storie incredibili di mondi lontani a cui involontariamente avevano assistito. L’immagine di quel corpo di ragazza senza vita avvolto da petali di fiori, irruppe prepotentemente nei ricordi di colui che ancora si batteva contro un destino che lo aveva eletto al di sopra di tutto e di tutti suo malgrado. Il respiro affannoso e la vista offuscata da lacrime rabbiose, scese da cavallo e si inginocchiò a terra cercandone il contatto rassicurante. Trattenne il respiro e poi gridò al cielo ancora una volta tutto il suo disagio. Rubina, oramai pervenuta a fantasma ambiguo ed emblema di un mondo che solo lui conosceva, l’aveva messo di fronte ad una realtà che non si sarebbe mai aspettato e che nel suo intimo, doveva pur ammetterlo, aveva sperato non si realizzasse mai, per poter dare un colpo di spugna ad un passato troppo ingombrante ed indigesto. Il mondo che conosceva e rimpiangeva non c’era più, ma Fleed stava ritornando alla vita e lui non poteva moralmente sottrarsi ai doveri di Duke Fleed: era vero, era il principe di un pianeta meraviglioso distrutto da un olocausto nucleare, ma fosse anche per un solo superstite, lui che, fuggito, era ancora miracolosamente vivo, aveva il dovere di accertarsi delle condizioni in cui versava quella sua terra lontana. Solo dopo avrebbe, forse, trovato quella serenità di cui necessitava come dell’aria che respirava.

Questa nuova consapevolezza, per quanto dura da accettare con il suo carico di incertezze, gli stava paradossalmente ridando una speranza per un avvenire che fino a quel momento appariva avvolto in una nebbia spessa.

Tornò verso il centro sfinito e con l’emicrania nuovamente in agguato a ricordargli i suoi limiti ed il rischio che avrebbe corso oltrepassandoli…! Chiese nuovamente aiuto a suo padre; si sdraiò e chiuse gli occhi in attesa che la terapia facesse effetto.


... per i vostri graditissimi commenti..., qui

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10.

Maria aveva visto rientrare Alcor al Centro spaziale fuori di senno, e senza degnarle neppure uno sguardo si era avventato sulla moto ed era partito a tutta velocità. Era sicura che la causa di quel comportamento fosse un litigio con Actarus. Teneva molto a lui, e uno scontro tra i due era nell’aria da tempo…

Si mise a cercare Actarus, senza trovarlo. Giunse così nell’ufficio dell’osservatorio dove lui negli ultimi tempi era solito lavorare. Ne varcò la soglia con il vago sospetto che forse sarebbe stato meglio non entrare in quella stanza: il telescopio era puntato verso Fleed e mappe stellari indicavano un itinerario ben preciso che tenesse conto delle orbite della Terra e di Fleed!

Il ritorno su Fleed! Ecco a cosa stava lavorando suo fratello!

Fu una doccia gelida: nel suo futuro non vedeva Fleed, anche perché era da relativamente poco tempo che sapeva della sua esistenza. Su Fleed aveva vissuto pochissimo e non poteva rimpiangere quello che non ricordava… Ma le era stato detto che era la principessa ereditaria di quel pianeta, la sorella del Re, e questo forse non le consentiva di decidere solo ed unicamente per sé stessa.

Cosa avrebbe dovuto fare? Si mise al telescopio e fissò quel punto luminoso nel cielo, poi chiuse gli occhi e lasciò vagare le emozioni, mentre un caldo abbraccio le cinse le spalle, paterno, rassicurante, famigliare. Il Re di Fleed era lì, accanto a lei. Lo fissò negli occhi con incredulità, e vide oltre le apparenze, nelle ferite lacere del suo animo.

Actarus aveva bisogno di parlare, per giustificarsi, ora che era riuscito a fare un po’ di chiarezza, ora che non poteva più celare le sue intenzioni. Le sue parole erano intrise di orgoglio, senso del dovere e sacrificio, ma non riuscì a convincere Maria della sua risolutezza. La sua voce quasi inespressiva tradiva quella sofferenza che si portava dentro e che non voleva condividere con nessuno.

Ne ammirava lo spirito nobile e libero, il coraggio e la determinazione. Sostenitore convinto della pace e dell’armonia tra i popoli, il destino l’aveva trasformato in un guerriero come pochi altri ne erano esistiti, senza che mai perdesse di vista l’elevazione ai massimi livelli del bene sul male. Suo fratello era rimasto capace di provare compassione e pietà, e possedeva doti straordinarie che sentiva di dover mettere a disposizione della dignità della vita.

Ma Actarus era stato ferito, nel corpo e nello spirito, e malgrado si fosse sempre rialzato, era diventato più vulnerabile anche se non voleva darlo a vedere. Maria non poteva negare di sapere quale fosse la decisione giusta da prendere, perché lui non avrebbe potuto affrontare tutto questo ancora una volta da solo.

In quel momento sperimentò per la prima volta l’ambiguità e la rabbia di chi si vede costretto a rinunciare ai propri sogni per seguire i disegni di un volere superiore. Suo fratello doveva conoscere da tempo l’oppressione di questa tagliola sul cuore!

I loro sguardi si incrociarono, e lui capì che non sarebbe stato solo.



...ora anche Maria sa, ma Alcor sembra sofferente e Venusia?...Per i vostri preziosi commenti e consigli qui

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Edited by pianetaazzurro - 8/3/2015, 20:21
 
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11.

Alcor sforzava la moto nervosamente. Correva lungo la strada senza una meta. Aveva insultato Actarus e agito in preda ad emozioni sordide per le quali poteva provare solo imbarazzo. Cosa l’avesse spinto a un tale comportamento era un qual ché di struggente ed inconsueto che gli veniva da dentro.

Accostò; scese dalla moto ed incerto si appoggiò al tronco di un albero. Era in balia dell’ansia e si sentiva male: la testa gli pulsava, tremava nervosamente e lo stomaco era sul punto di rivoltarsi pugnalato dalla sua stessa rabbia.

Poco dopo giunse su di un promontorio affacciato sul mare, dove si sedette a guardarlo languire nella calma placida di un tardo pomeriggio. L’aria era ancora fresca nonostante l’inizio della primavera, ed il profumo della terra umida annunciava l’imminente arrivo della bella stagione. Distante all’orizzonte, un temporale si abbatteva violentando con il bagliore dei suoi fulmini il cielo già arrossato dal tramonto. Osservarlo gli diede il coraggio di guardarsi dentro, in quel suo animo sofferente…

Si sentiva un vigliacco e non capiva a fondo quel senso di frustrazione che lo attanagliava.

Sospirò scuotendo il capo in preda ad uno sconforto mai provato fino a quel momento.

La guerra lo aveva radicalmente cambiato, e aveva messo in evidenza lati ambigui del suo carattere: anziché orrore, aveva provato piacere nell’abbattere gli invasori, che per lui non rappresentavano altro che carne da macello. Actarus lo aveva più volte ripreso riguardo questo aspetto distorto del provare piacere, ma non poteva fare a meno di sentire un’intima soddisfazione di fronte alle macerie del nemico. Ammirava la superiorità di Actarus, capace di rendere omaggio a quelli che volevano essere i suoi carnefici. Aveva poi dovuto apprendere a lasciarsi guidare da lui in una guerra senza precedenti: dopo il contrasto era subentrata una sinergia che li aveva portati a capirsi all’istante. Quante volte si erano soccorsi l’un l’altro, e nei momenti di incertezza Actarus aveva sempre saputo trovare le parole giuste per ridargli forza e coraggio; da parte sua si era ritrovato più volte a salvargli la vita.

Sorrise fra sé a quei ricordi… ora non sarebbe più accaduto niente di tutto questo… e non senza stupore se ne dispiacque.

Ma perché tutto questo proprio ora?

All’improvviso irruppe in lui un’intuizione sconcertante e insospettabile fino a quel momento. Una sensazione vertiginosa gli salì al volto, ed il cuore fece un sobbalzo, lasciandolo sconvolto per quel pensiero inammissibile che si stava facendo largo: la bizzarra provocazione di un’immagine sensuale prendeva forma nei suoi pensieri più intimi e segreti, al tal punto da apparire tanto sconveniente quanto attraente. Ebbe la vaga sensazione di trovarsi in un universo parallelo. Diversamente da quanto accaduto fino a quel momento, si sentì travolto dal fascino di Actarus senza riuscire a resistergli. Questo trasporto, a cui stentava dare un nome, era inesorabilmente ambiguo e inquietante. Incredulo, avrebbe desiderato sopprimere quei sentimenti così diversi e coinvolgenti, ma al contempo faticava a negare a sé stesso quell’attaccamento che provava per lui.

Ritornò verso casa in preda allo smarrimento. Strano come le emozioni non abbiano né forma né sostanza, e possano apparire mutevoli nel loro continuo e sorprendente divenire: le sue più radicate certezze erano state stravolte, come se niente fosse, da un abbaglio che si stava trasformando in un tormento…

Chi era e che cosa rappresentava Actarus per lui? La prospettiva che presto le loro strade si sarebbero separate aveva messo a nudo le sue fragilità; aveva ancora bisogno di lui, era un fratello, un padre, un maestro… un amico!

Malgrado il freddo della sera, Maria si sedette sul balcone del Centro cercando di riordinare le emozioni in attesa che Alcor facesse ritorno. Il cielo era terso e sopra di lei brillavano quelle stelle di cui sentiva il richiamo.
Sospirò con una punta di amarezza: come gli avrebbe comunicato la partenza?

Da lontano avvertì il rombo nervoso della sua motocicletta.

Dal balcone lo osservò mentre smontava dalla moto: effettuava movimenti lenti, distratti, e sembrava perso nei meandri di pensieri penosi. Lo vide appoggiarsi al muro con fare esausto, portandosi una mano sugli occhi come se si fosse appena svegliato da un sogno assurdo. Era pallido e stravolto. Si sentiva attratta da lui, e l’angosciava l’idea che forse non sarebbe mai stato suo, non ora che aveva deciso di ritornare su Fleed, …non ora, che lo sentiva così distante da lei!

Il ragazzo si accorse che lo stava osservando e provò un vago senso di malessere frammisto a colpevolezza. La desiderava e aveva bisogno di lei. La sua bellezza ed il suo carattere spumeggiante lo catturavano ogni qualvolta posasse su di lui quel suo sguardo inquietante color indaco; ma ora avvertiva in lui anche ambiguità e sgomento. Salì da lei e l’abbracciò stringendola forte a sé; le sfiorò i capelli con le labbra, come volesse soffocare i rimorsi per aver ceduto alla tentazione di guardare in faccia ai suoi demoni interiori. Maria non fece domande, sapeva come trovare le risposte, se solo avesse voluto, ma non le cercò. Si diressero verso la loro stanza: si amarono in silenzio, reprimendo i sensi di colpa e le verità non dette… poi rimasero abbracciati tutta notte cullando segreti impronunciabili ai loro cuori.

Era sveglio già da un po’e contemplava quella Dea che dormiva al suo fianco: i lunghi capelli rossi avvolgevano dolcemente il suo esile collo e poi più giù, fino a coprirne i seni; il suo torace si muoveva lentamente al ritmo di un respiro leggero come un alito di vento, ed il suo corpo bianco come l’alba pareva immobile. Quando un raggio di sole tiepido invase la stanza illuminandole il bel viso, la ragazza aprì finalmente gli occhi ancora carichi di sonno.

“Partirai anche tu per Fleed?”.

“Si” …

Alcor socchiuse gli occhi: si sentì mancare l’aria, come fosse stato pugnalato in quel suo cuore che chiedeva solo amore!


... non bastonatemi per tutta questa confusione mentale che ho infilato nel cervellino di Alcor...

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12.

La primavera avanzava dolcemente in un tripudio di colori e profumi freschi e sensuali. Il tepore del sole invitava ad approfittare di questa natura generosa. Durante il giorno, l’aria umida della notte lasciava filtrare la brezza tiepida proveniente dal mare, evocatrice di giorni spensierati su spiagge assolate. Energia vitale e stanchezza si intrecciavano in una danza di sensazioni, invitando ad abbandonarsi al sonno sbarazzino che coglieva d’improvviso e che permetteva di sognare …e progettare.

Venusia adorava questa stagione. Era capace di sorprendersi ogni anno per lo spettacolo che la natura sapeva offrire. Amava lo sfaldarsi leggero dei fiori di ciliegio, i cui petali andavano a ricoprire campi e strade come fossero fiocchi di neve. Le piaceva cavalcare nei campi estesi di nanohana, assaporandone il profumo dolce di miele e contemplandone il colore giallo oro che contrastava con l’azzurro del cielo.

Socchiuse gli occhi per godere di quegli istanti, ma un pensiero maligno si fece largo in questa effimera felicità che lei cercava di catturare: era in primavera che, l’anno precedente, aveva intravvisto la fine del suo sogno d’amore.

Aspettava Actarus per il Tè: voleva parlarle, e il suo sesto senso le stava dicendo che non sarebbe stato nulla di piacevole.

Era assorta in mille pensieri quando Actarus la raggiunse baciandola dolcemente sulle labbra: la bocca semichiusa ed i capelli spettinati ad incorniciarne il volto pallido gli conferivano un fascino unico e irresistibile.

Venusia fu colpita dal suo aspetto affaticato e dalla mancanza di sonno che si accaniva su quegli occhi bellissimi; lavorava ininterrottamente da diverse settimane, e negli ultimi tempi non aveva partecipato neppure ai pattugliamenti dei cieli, vuoi perché Goldrake era perennemente in revisione, o perché riteneva che potessero alternarsi a coppie, e lei di recente era sempre uscita con Alcor…. Non aveva voluto chiedere del perché di questa decisione per timore della risposta, ma ora sentiva che tutto il suo non voler vedere e non voler sentire era paragonabile ad un castello fatto di sabbia, …fragile di fronte all’inevitabile onda che lo avrebbe travolto.

Actarus le rivolse uno sguardo carico di colpevolezza… non riusciva a trovare le parole per dirle che sarebbe tornato su Fleed! Era come dirle che sarebbe morto, che non ci sarebbe stato futuro per loro, almeno nell’immediato! E anche quest’ultima ipotesi gli sembrava un’illusione bugiarda priva di rispetto per quella donna che lui amava e stimava, e con la quale avrebbe voluto continuare a condividere una vita diversa!

Rabbia e impotenza nei confronti di questo amore che chiedeva tutt’altro si avvicendavano nei suoi pensieri fino a sfinirlo, e di tutto questo riusciva a nascondere ben poco a Venusia. Stando assieme, la ragazza aveva acquisito un’ipersensibilità a fior di pelle che la rendeva capace di mettersi in sintonia con lui quasi fosse una fleediana.

Lei gli si avvicinò discretamente come sempre, incrociò il suo sguardo blu notte e si mise a fissarlo quasi si trattasse dell’ultima volta che l’avrebbe visto:

” Resta…! “

Lo disse con voce incerta, frammista ad un sospiro per placare il nodo di un singhiozzo ingoiato.

Lui guardava lontano, verso quei tramonti che tanto amava, e aveva gli occhi umidi di un pianto che avrebbe voluto lasciar sfogare, ma che tratteneva per orgoglio. Quanta pena gli stava costando questa decisione!

Ancora una volta Actarus doveva cedere il passo ai doveri di Duke Fleed. La sua felicità non contava. Un senso di disgusto lo riportò a quella realtà scomoda che cercava di mascherare con il suo amore per Venusia.
Avrebbe voluto fare a pugni con tutto ciò che gli stava attorno, avrebbe voluto perdere il controllo una buona volta, ma lui non ne era capace. Si odiava per questo.

“Non posso…!”

Lo disse con un filo di voce, per trattenere quell’urlo di malessere che avrebbe voluto uscire allo scoperto.

“Ti aspetterò…”

Venusia cercava i suoi occhi sfuggenti alla ricerca di una conferma.

Sulle labbra del principe di Fleed morirono quelle parole tanto attese …

“Ritornerò da te”… mormorò a sé stesso.

Ora non era in grado di prometterle quello che sarebbe stato anche il suo più grande desiderio. Avrebbe custodito quella piccola speranza nel suo cuore, per annullare tutte le distanze e sentire Venusia il più vicino possibile.

Rimasero abbracciati nel silenzio immobile di quel tramonto. La brevità della fioritura dei ciliegi, nella sua struggente bellezza e fugacità, era come quel loro amore sofferto, puro ed indelebile nei ricordi. Una brezza leggera fece volteggiare mille e mille petali di quei fiori bianchi sui loro sogni infranti, e l’idea dell’assenza dell’uno per l’altra si fece feroce e bruciante.


... scusate l'ora tarda... spero di non rattristare troppo i vostri sogni...


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“IL TESTAMENTO DI ACTARUS ”

13.

La cena tutti insieme era divenuta tradizione: rappresentava un momento conviviale di distensione che tutti aspettavano e con il tempo erano diventati una famiglia molto unita.

Ma ora tutto era diverso, loro se ne sarebbero presto andati, ed il sottile intreccio di sentimenti che era venuto a crearsi negli anni aveva preso il sopravvento rendendo tutto molto difficile.

Actarus aveva solo una certezza: era suo dovere partire! Il prezzo da pagare era immenso, si trattava della sua felicità accanto alle persone che amava, ma oramai aveva accettato il suo destino. Con un misto di rassegnazione e malinconia si convinse che quanto prima fossero partiti, meglio sarebbe stato per tutti.

Quella sera, distante come non mai dai discorsi che animavano la tavolata, si sorprese a contemplare ad uno ad uno quelle persone che gli stavano accanto, animate ciascuna da un sentimento autentico e profondo, e alle quali lui non era mai riuscito ad esprimere pienamente il proprio amore per timore di dover soffrire ulteriormente.

Maria si era decisa a partire con lui, e ne era rimasto sorpreso: lei era più terrestre di lui, la ragazzina stava diventando donna e avrebbe sicuramente avuto una vita appagante sulla Terra. Non aveva voluto approfondire le ragioni che l’avevano spinta sui due piedi ad accettare questo cambiamento, ma era convinto che alla base ci fossero una delusione profonda e un desiderio di riscatto. Era sicuro che la sua personalità dirompente e volitiva fosse la premessa per affrontare una vita insolita, e il ritorno sul pianeta natale ne era l’occasione. Diceva di essere innamorata di Alcor, ma un velo di tristezza offuscava i suoi occhi solo a nominarne il nome. Qualcosa fra i due era cambiato, …ma chi dei due ne soffriva di più era lui.

Alcor … era diverso. Spesso cupo e silenzioso, aveva perso quel suo comportamento irriverente e allegro. In poco tempo tutti i suoi impeti da ragazzo incosciente erano scomparsi come neve al sole. Appariva distaccato e sofferente, sempre a disposizione di tutti ma schivo. Cercava qualcosa che lo soddisfacesse, ma evidentemente non era ancora riuscito a dare un senso a quel suo penare. Lavorava instancabilmente alla Cosmo Special affinché potesse effettuare viaggi interstellari, quasi questi fossero diventati la sua unica priorità per dare un senso ad una vita che improvvisamente vedeva svuotarsi.

E suo padre? Quanto si sentiva colpevole nei suoi confronti. Lui mai e poi mai gli avrebbe chiesto di restare, ma sapeva che mentiva a sé stesso quando gli diceva che era giusto ripartire per ricostruire Fleed. Cosa ne sapeva di Fleed? Niente, aveva creduto ai suoi racconti, il resto erano solo supposizioni dedotte dall’osservazione al telescopio ed elaborazioni matematiche. Sicuramente lo studioso che era in lui sosteneva questa partenza per lealtà verso la vita che si era scelto. L’uomo integro che era, non avrebbe mai voluto che il figlio si sottraesse ai suoi doveri per restare sulla Terra, e allora si era creato una realtà convincente per poter accettare quel distacco.

Posò gli occhi su di lei… la sua femminilità elegante e senza malizia gli ricordava sua madre, e la risolutezza che si nascondeva dietro a quegli occhi dolci la rendevano una donna unica. Aveva perso l’innocenza che lui avrebbe voluto preservarle senza coinvolgerla nella guerra, ma lei aveva voluto dimostrargli quanto fosse grande il suo amore per lui e la sua causa. Per tanti versi erano molto simili. Non l’aveva mai vista piangere, ma si chiedeva quanto le costasse questa determinazione, … la calma apparente di un mare che presto avrebbe conosciuto una delle sue peggiori tempeste.

Colpito dal peso di un vago malessere si alzò dalla tavola: sentiva Actarus sempre più disarmato nei confronti del ritorno di Duke dagli inferi di Fleed. Un’attrazione irresistibile verso quel suo passato rimasto incompiuto!


14.

Si abbandonò ai suoi pensieri addossato al tronco di un albero, in compagnia della sua chitarra e lasciando che le dita intonassero spontaneamente quello che il suo animo aveva da dirgli. Quella sera i ricordi di Fleed lo aggredirono spiazzandolo. Cosa andava cercando? Conferme? Riscatto? Espiazione? Vita? …Morte?

Durante i primi anni di permanenza sulla Terra aveva fantasticato sul suo ritorno su Fleed, e ora che questo stava diventando realtà, vedeva vacillare le sue convinzioni a causa dell’amore verso questa Terra, verso i suoi amici e per Venusia! Quanto aveva vissuto? Non lo sapeva, a volte credeva un’eternità, altre volte come ora, niente. Era diventato più vulnerabile, diverso, più disposto a considerare valori profondi e personali a cui in passato non aveva né voluto né potuto dare ascolto per un senso di dovere ed altruismo.

Quando abbandonò Fleed non c’era più niente, ora avrebbe invece abbandonato quanto di più caro aveva. Esisteva ancora qualcosa di quel meraviglioso pianeta e del suo popolo? O forse sparuti fleediani vivevano su altri mondi felicemente, senza pensare di abbandonare quella pace ritrovata nella nuova patria che li aveva accolti? Ma per lui la questione era diversa, aveva ereditato dei doveri, e non poteva decidere per sé senza prima sapere come stessero realmente le cose.

Actarus ascoltava la voce del cuore, mentre Duke quella della coscienza e di ricordi mai rimossi che chiedevano a gran voce chiarezza. Se Actarus avesse voluto vivere, Duke avrebbe dovuto morire. Se Duke avesse trovato un senso al suo infinito cercare, Actarus probabilmente non avrebbe mai più fatto ritorno sulla Terra!

Partiva per ritrovare le tracce dell’esistenza di quel piccolo popolo così evoluto dall’aver commesso l’errore di credere che la guerra non avesse più alcun senso. Forse avrebbe potuto fare ancora qualcosa, per onorare il progresso di chi non avrebbe mai dovuto subire una tale ingiustizia.

Quella guerra accaduta fra mondi lontani aveva portato all’annientamento di popolazioni di un’intera nebulosa tecnologicamente molto più evoluta della Terra. Se veramente non ci fosse stato più niente da fare per Fleed, avrebbe cercato di donarne l’eredità alla Terra che tanto amava. L’avrebbe così resa meno vulnerabile agli attacchi di altri imperi del terrore che si aggiravano non poco lontano da lei…

Che fosse questo il reale scopo di questo viaggio? Poteva sperare anche in un ritorno?

Si poneva domande senza risposte, o perché impossibili, o perché le avrebbe trovate ritornando solo alle sue origini.

Si distese sul prato e si mise a contemplare la via lattea nella sua inquietante immobilità… distinse la costellazione della Lira… Fleed era lì…




...Actarus diventa sempre più alieno, più Duke, suo malgrado... il raccoglimento prima della partenza
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Edited by pianetaazzurro - 12/3/2015, 00:38
 
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15.


E la Terra? Era al sicuro? No, anche se oramai erano mesi che non subiva più attacchi dall’esterno.

Pochi avrebbero potuto far fronte ad una nuova guerra aliena, e Alcor era uno di quelli. Aveva assoluta fiducia in lui: era certo che la condivisione di tutto quanto accaduto, aveva creato un legame di amicizia e rispetto che avrebbe retto anche al dolore della separazione. Ora lo vedeva però sofferente, credeva di non essere riuscito a fargli capire quanto lo stimasse e quanto gli volesse bene: dargli la sua eredità avrebbe potuto forse colmare quel vuoto che era venuto a crearsi tra di loro?

Stava ancora contemplando la bellezza immobile di quel cielo notturno quando udì i passi di Alcor giungere verso di lui.

Alcor era pallido e stanco e mal celava lo sconforto in cui era caduto alla notizia della loro partenza. Stava male, non poteva negarlo, a causa di Maria e Actarus che se ne stavano andando. Se da un lato provava una gran rabbia nei confronti di Actarus perché gli stava portando via Maria, dall’altro non si rassegnava all’idea che avrebbe perso anche lui, un amico o forse di più, al quale si era scoperto legato da un affetto spiazzante. Era la prima volta che provava un sentimento come quello, che aveva confuso le sue certezze, forse per un abbaglio o forse perché qualcosa era veramente cambiato in lui. Era solo certo di un fatto: affrontare la loro assenza sarebbe stato molto penoso, e più ci pensava e più credeva di impazzire. Non c’era soluzione per quel dolore, non ci sarebbe stata soluzione per colmare quel vuoto che avrebbero ben presto lasciato.

Vedendo Alcor in quello stato, Actarus si sentì tremendamente colpevole; era certo di non meritarsi tutta questa condanna da parte di chi lo amava, ma Duke era ritornato con un bagaglio carico di un passato maledettamente doloroso, che non avrebbe potuto fare altro che generare ulteriore dolore.

Era giunto per Actarus il momento di rinunciare al suo posto su questa Terra, di tornare ad essere Duke, principe ereditario di Fleed. Non voleva più venire a patti con i suoi reali desideri, oramai era troppo tardi per i ripensamenti.

Si rivolse ad Alcor, temendo un nuovo scontro con lui:

“La Terra non è del tutto al sicuro…”.

Sospirò.

“Conto su di te! Mio padre e Venusia saranno al tuo fianco, ma lei…”.

Socchiuse gli occhi come per sfuggire un’immagine insopportabile. La sua voce si fece meno sicura, tradendo la sua pena nel pronunciare queste parole.

“Ti prego, stalle vicino e sostienila qualora ti accorgessi che non sta bene. Tu la conosci, e lei ti vuole bene e, … aiutala …!”

Alcor vide negli occhi dell’amico tutta l’angoscia di un uomo deciso, ma anche rassegnato e combattuto. Gli stava affidando quanto di più caro avesse: custodire la pace e proteggere la donna che amava, alla quale non aveva potuto promettere una vita insieme e ben poco sull’eventualità di un ritorno.

Actarus gli posò le mani sulle spalle abbassando gli occhi in attesa di una conferma: aveva fiducia in lui e necessitava delle rassicurazioni di un amico vero.

Lui, Alcor, avrebbe desiderato sentirsi dire tutt’altro! Forse era anche felice di poter fare qualcosa che gli veniva chiesto in nome di quell’intesa di sempre, quasi quella promessa che Actarus stava attendendo da lui rappresentasse l’ultima istantanea di ciò che presto sarebbe diventato passato, … ma si trattava di una magra consolazione.

“Conta su di me! “

Lo disse con voce emozionata.

Si abbracciarono, con affetto, stima e rispetto.

Alcor sentì sgretolarsi il mondo sotto ai piedi e si trattenne dal manifestare tutta la sua più intima disperazione, perché sapeva che non sarebbe servito a niente cercare di far cambiare idea ad una persona di cui non conosceva tutto, e il cui mistero era proprio all’origine di quel fascino irresistibile che aveva colpito tutti loro.
Ma poi volle continuare, quasi cercasse di farsi ancora del male. Il suo tono divenne più duro, per quanto apparisse una supplica:

“Perché lei?”

“Lei chi?”

Actarus sperava di non dover rispondere a questa domanda.

“Maria! Perché non parti con Venusia?”

Seguì un silenzio doloroso per entrambi.

“Perché deve essere così!”

Mentre diceva queste parole non riuscì a sostenere lo sguardo severo di Alcor. Si voltò con una stizza serrando i pugni e s’incamminò con passo nervoso verso casa.

Passò davanti allo studio di suo padre. Dormiva sulla sua poltrona, il volto esausto e invecchiato. Lavorava instancabilmente affinché suo figlio potesse partire, e stava mettendo a punto un’interfaccia di comunicazione che avrebbe permesso loro di mantenere i contatti, ma il dolore per l’imminente perdita di quel figlio gli era penetrato nel profondo dell’animo mettendone a nudo le difese, e si vedeva! Actarus gli si avvicinò e lo baciò sulla fronte. Stava perdendo un altro padre.

Giunse nella stanza. Venusia si era già addormentata. Indossava una camicia di seta bianca che risplendeva alla luce della luna avvolgendo il suo esile corpo in una carezza. Il respiro era leggero e silenzioso, e morbide ciocche brune le circondavano il viso …sembrava serena e questo lo rincuorava. Sarebbe tornato mai da lei? Chiedeva certezza laddove non ve n’era, ma credeva in sé stesso, e volle convincersi che un giorno si sarebbero ritrovati. Quell’amore, avrebbe mai potuto annullare tutte le distanze?

Si distese accanto a lei abbracciandola, …poi iniziò a ricoprirla di baci e ad accarezzare il suo volto, il suo corpo, … con amore, … con passione.

Lei si lasciò cullare da quelle braccia che le cingevano i fianchi. Vincendo il sonno cercò quel contatto fisico capace di accendere i sensi; poi incontrò le sue labbra e la sua bocca, dolci come il nettare dei fiori di quell’ultima primavera.
Ad occhi chiusi, si lasciarono guidare dalle emozioni e dai sensi fino ad appartenersi. Un intreccio di sospiri e desiderio, un lento e profondo ondeggiare, come fosse l’inerzia del mare, nella consapevolezza della fine imminente.


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Edited by pianetaazzurro - 12/3/2015, 20:36
 
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"L'AMORE E' ANCHE IMPARARE A RINUNCIARE ALL'ALTRO, A SAPER DIRE ADDIO SENZA LASCIARE CHE I TUOI SENTIMENTI OSTACOLINO CIÔ CHE PROBABILMENTE SARÂ LA COSA MIGLIORE PER COLORO CHE AMIAMO" ( S. Bambaren, il Delfino, 1995)

16.


No, Alcor non ce l’avrebbe fatta ad assistere alla loro partenza.

Quello sparire inghiottiti dal cielo se l’era immaginato già troppe volte, ed era come prendere un pugno nello stomaco. Lui li amava, e stava per perderli probabilmente per sempre. Questo amore si sarebbe presto cristallizzato nei suoi più intimi ricordi, e lo avrebbe custodito come qualcosa di unico e irripetibile, capace di dargli forza per affrontare da solo il suo futuro.

Credere che un giorno li avrebbe rivisti era come impedire ad una ferita di rimarginarsi, ma al contempo ci sperava.

Anticipava nei suoi pensieri quel momento in cui loro avrebbero preso definitivamente coscienza che tutto era oramai finito, e si chiedeva quando mai si sarebbe risvegliato da questo incubo…

Maria era diventata brava a sorprenderlo nei momenti di maggior angoscia, e trovava sempre un modo per distoglierlo dai suoi pensieri. Con lei si divertiva e avevano tante passioni in comune, la moto prima di tutte. La vigilia della partenza fu lei a proporgli un’ultima corsa fino al mare.

Ma come poteva quella ragazza pensare a divertirsi in questo momento!

Alcor non ne aveva voglia, ma la sua insistenza sbarazzina lo convinse a quel diversivo: forse quella giornata al mare, soli loro due, gli avrebbe permesso di scaricare la tensione ed il torpore che lo attanagliavano fino al midollo.

Maria correva in moto dinnanzi a lui in modo spericolato, noncurante del rischio, e lui faticava a starle dietro. Questo comportamento volutamente immaturo lo irritò per la prima volta dopo tanto tempo.

Giunti finalmente al mare, su di una spiaggia deserta, Maria smontò di sella con fare trionfante, e negli occhi una scintilla di sfida. Ma che cosa voleva dimostrare? … Volle abbracciarla per calmare quell’irrequietezza: non aveva dubbi, lei fuggiva da qualcosa, era in ansia come un animale in preda ad una premonizione, ma non voleva parlargliene.

“Ehi, ma che ti è preso? Sei impazzita?”

Maria si girò verso di lui, … fissandolo con uno sguardo forte e impenetrabile. Si divincolò, e senza dir nulla si incamminò verso il mare togliendosi i vestiti ad uno ad uno… si tuffò in quell’acqua azzurra e cristallina, alla ricerca di un abbraccio in cui poter sfogare le proprie pene, e si lasciò cullare dalle onde e dalla brezza tiepida che le accarezzava il viso. In quel momento avrebbe voluto lasciarsi andare, non pensare più a niente fino a quando il freddo che si insinuava nelle sue viscere l’avrebbe fatta addormentare per sempre. Non sapeva più quello che voleva, per lei partire o restare avrebbe significato l’inferno… quel cambiamento che si profilava era troppo estremo per il suo cuore di ragazza. Aveva il presentimento che non sarebbe mai più tornata indietro, e che se anche ciò fosse accaduto, non avrebbe trovato più niente di quello che stava per lasciare. Le sembrava di aver perso anche Alcor, che avvertiva distaccato e stanco.

“Maria! Ma che modi sono? “

Alcor l’aveva raggiunta… proprio non si aspettava quel bagno fuori programma.

Lei si lasciava galleggiare inerte senza rispondere, e lui ne rimase sedotto: sembrava una sirena, una bellezza inusuale e sfuggente.

I loro corpi si toccarono sospinti dalla corrente, rabbrividendo.

“Dai usciamo,… fa freddo!”

Alcor proprio non riusciva a trovarci nulla di divertente in quel bagno gelido, nonostante la presenza magnetica di lei.

Lei aprì gli occhi color del mare e in un istante trascinò Alcor verso di sé; poi spinse forte le sue labbra contro quelle del ragazzo. Con una punta di amarezza Maria espresse quello che pareva essere l’ultimo desiderio di chi sente che l’amore sta sfuggendo:

“Amami, per l’ultima volta, …domani saremo solo fantasmi…”

Non l’aveva mai vista così possessiva e indifesa. La paura irrazionale di chi crede di aver sbagliato tutto si era impadronita di lei.

“Cosa vuoi dire con questo?”

Alcor non voleva ammettere quanto in realtà già sapeva.

Lei, ora ne era certo, sognava un rapporto unico e privo di compromessi che lui in questo momento non era in grado di darle.
Forse lo scoprirsi così coinvolto dall’amicizia con suo fratello l’aveva portato a trascurare quell’amore ideale e immaturo che li aveva travolti con troppo impeto.
Non era stato in grado di soddisfare quella giovane donna, tanto speciale quanto fragile…. Provò un moto di rabbia e frustrazione: forse erano ancora troppo giovani per capire la complessità di quello che stava loro accadendo, e quanto si sentiva meschino per aver tradito la purezza dei loro sentimenti.

La prese dolcemente fra le braccia e cullandola la trascinò a riva…. Sotto il sole tiepido, rimasero stesi sulla sabbia ad aspettare quella scintilla che li avrebbe portati ad appartenersi per l’ultima volta, nella speranza che, in un futuro incerto, più adulti e consapevoli, i loro cuori si sarebbero riconciliati senza più segreti né pretese.

In quella sera senza senso, obbligato ad accettare l’evidenza dei fatti, Alcor si ritrovò solo senza pensieri né desideri, svuotato del suo mondo. Le uniche due persone che amava, e che desiderava stessero accanto a lui, stavano per lasciarlo… cosa poteva esistere di più doloroso. Né lacrime né rabbia, solo un sogno impossibile. Il disappunto di fronte all’ineluttabile lo indusse a cercare di dimenticare. La sete aveva fatto il resto… La testa dolente ed il passo incerto per l’effetto dell’alcool, si lasciò cadere pesantemente sul divano del suo ufficio… e un sonno violento lo strappò dal quella realtà divenuta insostenibile.

… cosa avrebbe fatto l’indomani non lo sapeva. In cuor suo ora sperava di potersi dimenticare di quel momento che doveva ancora arrivare.


... per le vostre rimostranze riguardo la mia crudeltà...

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Edited by pianetaazzurro - 13/3/2015, 22:57
 
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17.

L’estate era oramai alle porte, calda e quasi soffocante. Il sole era generoso e non di rado la sera si sviluppavano temporali spettacolari, di insolita violenza e bellezza, e Actarus amava quei momenti.

No, niente era stato più lasciato al caso: era giunto il momento di partire.

Aveva solo un grande rimorso: Venusia.

Durante la guerra era riuscito a non illuderla, si era trattenuto, e quasi l’aveva respinta per non vederla soffrire a causa sua e non dover soffrire a sua volta. Ma alla fine le sue difese avevano ceduto, e si era lasciato coinvolgere da quell’amore che per molto tempo aveva cercato di allontanare; forse era accaduto per sfinimento, forse perché si era trovato in fin di vita, o forse perché desiderava provare l’ebbrezza di un sentimento a cui altre volte aveva dovuto rinunciare. Ma ora questo rendeva tutto più difficile.

Quanto avrebbe desiderato che partissero insieme!

Lei sapeva dove trovarlo: silenziosa e discreta come sempre, aggraziata come petali di fiori al vento, gli si avvicinò cingendolo ai fianchi. Non ebbero bisogno di parlare, si erano già detto tutto e promesso l’impossibile per ingannare l’evidenza. Lei aspettava solo che lui le dicesse quando sarebbe partito. Non aveva voluto saperlo per non trovarsi a contare i giorni e le ore che avrebbero ancora potuto trascorrere insieme, ma sapeva in cuor suo che la partenza era oramai imminente… le aveva accennato che sarebbe stato d’estate, e ora quell’aria calda e umida carica di tensione appariva fin troppo premonitrice…

Stettero seduti abbracciati ad osservare quel temporale dalla terrazza del Centro.

Poi Actarus incrociò il suo sguardo disarmante, e accarezzandole il volto le mise tra i capelli un crisantemo rosso … baciò sfuggente le sue labbra pallide e poi la strinse a sé cullandola come fosse una bambina indifesa.

“Sarà domani …”

Dominava a stento le sue emozioni, ma non voleva che lei lo vedesse così; desiderava invece infonderle quella sicurezza e forza d’animo di cui avrebbe avuto bisogno dopo la sua partenza.

La ragazza trattenne il fiato e spalancò gli occhi: era sull’orlo di un abisso ed il senso di vuoto le penetrò nelle viscere. Doveva resistere, ancora per poco; voleva mostrarsi forte e coraggiosa e non disperata. Si sforzò di compiacere a quella menzogna che voleva vederla felice del fatto che lui potesse coronare il suo sogno.

Si guardarono a lungo in un silenzio irreale, poi lui si allontanò da lei dicendole che sarebbe tornato più tardi …

Lo vide incamminarsi verso l’hangar di Goldrake per una ultima volta, poi udì solo il rimbombo dei suoi passi allontanarsi nel corridoio vuoto.

” Duke! ...” Mormorò.

Non lo aveva mai chiamato con quel nome, gli aveva detto che per lei sarebbe sempre stato Actarus, ma ora in lui non vedeva più nulla che glielo ricordasse…


18.

Aveva bisogno di stare sola, si era rannicchiata accanto alla finestra della camera da letto e guardava il cielo ancora carico di nubi pesanti e umide.

Si era promessa che non avrebbe pianto, e aveva lottato contro quelle lacrime che le ferivano gli occhi, ma ora non riuscì più a trattenerle: sgorgarono violente e dolorose come lame affilate e i singhiozzi la scuotevano fin dentro nelle ossa.

Alzò gli occhi esalando un lamento di disperazione per poi ritornare a piegarsi su sé stessa.
Se ne stava lì, accovacciata e immobile nel suo immenso dolore. Eppure doveva aspettarselo questo momento, sapeva che sarebbe arrivato, ma in cuor suo sperava che questo giorno non vedesse mai l’alba.

La porta si aprì e l’elegante figura di quel Principe alieno si fece silenziosamente avanti.

Actarus non aveva idea se fosse stato tanto o poco convincente con le sue promesse. Non voleva illuderla ma ci credeva e teneva a lei come alla sua stessa vita. Tante, troppe incognite si prospettavano all’orizzonte, e lui le stava chiedendo tempo e fiducia. Ma fino a che punto era stato onesto con lei e con sé stesso?
In cuor suo celava il segreto dei suoi più intimi desideri, che non osava svelare neppure a sé stesso per non cedere al fascino dell’illusione. Aveva preso la sua decisione, dolorosa e per certi versi contrastante, ma era giusto così. Lo straziava solo il fatto di non aver lasciato possibilità di scelta a Venusia.

Questi pensieri, come demoni, sarebbero presto diventati i suoi compagni di viaggio.

Si avvicinò a lei e provò una fitta al cuore nel vedere quegli occhi dolci e sinceri, cosi gonfi e arrossati dal pianto.
Non l’aveva mai vista così.

Venusia per la prima volta avrebbe voluto urlargli contro il suo dolore e la sua rabbia, ma si rese conto di quanto penasse anche lui per quella situazione. Conosceva troppo bene quegli occhi blu, cupi e profondi; aveva imparato a vedere oltre, nell’animo di quell’uomo meraviglioso e straordinario che le stava di fronte. Voleva credere alle sue promesse, anzi doveva, altrimenti sentiva che sarebbe potuta anche morire di lì a poco, quando l’avrebbe visto innalzarsi lontano nel cielo fino a scomparire nell’infinito.

Si inginocchiò innanzi a lei e le sollevò il mento asciugando le lacrime con estrema delicatezza, poi appoggiò il palmo della mano sulla sua guancia umida.

Venusia guardò intensamente il volto pallido e meraviglioso del Re di Fleed e chiuse gli occhi con una smorfia di dolore.
No, non poteva più guardarlo.

Lui le cinse le spalle e l’aiutò a sollevarsi da terra appoggiandola al suo petto e stringendola a sé, contro il suo cuore. La prese in braccio come sempre, chiedendole per un’ultima volta di abbandonarsi a lui. La osservava come per trattenere nei suoi ricordi l’immagine del suo volto per sempre. Dolcemente l’adagiò sul letto chinandosi su di lei. Le loro labbra si sfiorarono cercandosi, e quel bacio soffocò il dolore per la separazione imminente.

Sospiri carichi d’emozione si confusero a gemiti convulsi, mentre i loro corpi si intrecciavano accendendo quel desiderio nutrito dal senso dell’abbandono. Furono carezze e baci, e una dolce nostalgia li accolse asciugando le ultime lacrime. Si unirono nel tormento di quell’ultimo atto d’amore, come in una danza, liberi di appartenersi fino allo sfinimento, per essere certi di riuscire a ricordare ogni istante di quella loro passione che presto sarebbe diventata solo una prospettiva seducente.

Epilogo:

L’alba di un giorno nuovo giunse inesorabilmente, pesante di quelle aspettative ed emozioni che li avrebbero segnati per sempre.
Poche parole, solo sguardi sfuggenti per non lasciare il tempo alle emozioni di manifestarsi, per credere in un arrivederci, per consentire a ciascuno di raccogliersi nell’intimità di quelli che sarebbero diventati presto ricordi indelebili.

L’aria rarefatta di un mattino d’estate si vestì di un silenzio irreale, e solo il lamento del vento tra gli steli d’erba sembrava voler sottolineare lo smarrimento delle loro anime di fronte al nulla.

Il mondo circostante aveva già cambiato colore e la seducente malinconia della solitudine li sorprese come un colpo di vento.

Accarezzò con gli occhi per un'ultima volta il volto sincero della donna che amava, poi Goldrake si levò leggero nel cielo bianco di sole.

Chiunque avesse visto la sua luce in quel momento l’avrebbe scambiata per una meteora come tante.
Ritornavano a quell’immaginario che ai più pareva ancora impossibile, ma per loro, che li avevano accolti e che ne avevano condiviso gli ideali, i segni del loro passaggio erano impressi nella mente e scalfiti nel cuore, e nulla sarebbe stato più lo stesso.

Un lungo grido silenzioso le salì in gola, tagliente come una punta di diamante e bruciante come una lingua di fuoco; chiuse gli occhi e si sentì trascinata nella voragine di quello sconforto che non aveva più ragione di trattenere. In quegli istanti eterni la sua luce era scomparsa nel vuoto sovrastante, risucchiata da una dimensione a cui lei non poteva accedere. Le aveva detto che erano tutti figli delle stesse stelle e che per questo un giorno si sarebbero ritrovati per non lasciarsi mai più… una frase buttata al vento, con un senso profondo e sfuggente come ogni attimo della vita di quel principe venuto da un mondo lontano.

Guardò Procton, gli occhi vitrei di un padre che soffre in silenzio, e si abbandonò all’abbraccio di quell’uomo frastornato che condivideva il suo stesso dolore.

La strinse forte a sé come una figlia, e le disse che solo chi ama veramente sa lasciar partire l’amato all’inseguimento del proprio destino. Sapeva però che era stata donata loro quella certezza che, se mai un giorno fosse ritornato, sarebbe stato per il richiamo nostalgico di quell’amore unico e sincero che aveva trovato sulla Terra e che sapeva aspettare…


***** FINE *****


... Per piangere insieme , per maledirmi e per tutto il resto, qui...


#entry571223521

Edited by pianetaazzurro - 15/3/2015, 16:20
 
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Capita a volte, del tutto inaspettatamente, che un'idea si insinui in modo seducente nella mente di chi contempla una serie di immagini per puro piacere estetico e apprezzamento dell'opera altrui.
Mi è capitato ieri, e l'ispirazione si è trasformata nella solita necessità morbosa di scrivere.
Probabilmente non tutti saranno disposti a condividere questa mia idea bizzarra, che ha sorpreso pure la sottoscritta, ma oramai conoscete l'animo trasgressivo e inquieto che ho dipinto per l'eterno secondo...

Il disegno controverso in questione lo trovate qui ...


L’incubo di Koji:
La trasgressione oltre la morte



L’ultima tremenda battaglia li aveva messi a terra.
Goldrake pareva semidistrutto ed era avvolto da un rogo di fiamme.
Lui invece aveva avuto fortuna, ed era solo stordito dall’impatto con il terreno.

Per un istante era rimasto impietrito dallo sgomento e dal senso di morte, poi si era reso conto che tutto sarebbe finito per sempre se non si fosse precipitato in soccorso di Duke al più presto.
Scrollatosi di dosso il torpore della paura, corse in preda all’angoscia verso la testa del guerriero d’acciaio, dove rinvenne il giovane privo di sensi.

Lo chiamò disperatamente fino a quando non lo vide aprire gli occhi alienati dal dolore.

A fatica Duke mosse una mano tremante verso il braccio per placare il bruciore di quella ferita che lo stava uccidendo. La cute a brandelli e la carne lacera intrisa di sangue, contrastavano con il pallore del suo volto trasfigurato da una smorfia di sofferenza.

Lo prese sottobraccio sussurrandogli parole di coraggio, chiedendogli un ultimo sforzo per lottare contro le fiamme di quell’inferno. Sentì il peso del suo corpo febbrile affidarsi a lui: Duke faticava a tenersi in piedi e respirava a stento gemendo ad ogni passo.
Lo sorresse fino a terra, quando si accorse che Duke non rispondeva più.

Lo trascinò lontano dall’odio di quel fuoco che voleva divorarselo e lo adagiò sull’erba, esausto per lo sforzo e senza fiato per l’arsura di quella corsa nel fumo soffocante.
Tossì convulsamente per poi lasciarsi cadere accanto a Duke colto da una vertigine.

*************************************

Quando riaprì gli occhi stava in una stanza bianca dalla luce indistinta.

Accanto a lui Duke pareva immobile, non più arso dalla febbre, non più straziato dalla ferita.
Il suo corpo nudo e glabro era chiaro come la luna e misterioso come la notte.
Accarezzò quei capelli color del rame e sfiorò con le labbra la sua pelle diafana e morbida come i petali di un giglio.

Dalla bocca di quell’angelo alieno fuoriuscirono un sospiro e un lamento che parvero un consenso.

Rabbrividì in preda all’emozione insolita di quel desiderio inquietante.
Si avvicinò a quel corpo vincendo il pudore dei suoi turbamenti, e mentre baciò le sue labbra, fu avvolto dal fulgore di una luce irreale, un batter d’ali fin dentro al cuore, e un lamento struggente trafisse i suoi desideri che si persero nel blu dei suoi occhi.
Improvvisamente la luce bianca di quell’angelo tentatore scomparve risucchiata dal vuoto dell’universo sovrastante, trascinando con sé nell’eternità quell’illusione d‘amore.

**********************************

Si svegliò di soprassalto, un grido d’angoscia imprigionato nella gola.

La stanza gli parve spoglia e scura, illuminata solo dalla luce fioca di mezza falce di luna.
Si sedette incerto sul bordo del letto respirando con affanno mentre si asciugava il sudore dal viso.

Quell’incubo era diventato un sogno, e il sogno un dubbio fatale capace di divorargli la vita.
Aveva bisogno d’aria: andò alla finestra e alzò gli occhi verso il mistero del cielo, cercando di vedere oltre l’infinito. Implorò che quel sogno non fosse realtà, mentre i suoi pensieri affogavano in lacrime amare come la sua solitudine.


Per frustarmi e maledirmi qui

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Edited by pianetaazzurro - 12/4/2015, 20:05
 
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view post Posted on 23/5/2015, 11:27     +2   +1   -1
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Potrei definirla un'innocente trasgressione di un sabato di maggio...come sempre il Principe mi ispira, e questa volta la causa è questa immagine di Ieko



Vorrei essere”

Vorrei essere quella luce che illumina il tuo volto e che rischiara la tua pelle, fatta di polvere dì stelle.
Illuminerei quei capelli color del rame, mentre leggeri accarezzano il collo dove pulsa la vita.
Mi appoggerei come una carezza su quelle mani morbide e sensuali, che fanno stridere le corde per dar voce al tuo cuore.

Vorrei essere quella goccia di fatica che scivola sulla fronte, e mi trasformerei in una lacrima salata per annegare nell’oscurità dei tuoi occhi.
Scivolerei lungo quelle guance luminose fino a sfiorare le tue labbra di velluto, ed esplorerei la tua bocca con un bacio fugace.
Sfiorerei la tua gola e ascolterei l’affanno del respiro, come fossi cullata da un soffio di vento.
Bagnerei il tuo petto appoggiandomi sul cuore, per spiarne furtiva i singhiozzi d’amore.
E mi lascerei cadere lungo il ventre e i fianchi e ancora oltre, nella vaghezza dei tuoi impulsi profondi.

Vorrei essere quella chitarra, un corpo appoggiato sulla pelvi, che strapazzi e abbracci al ritmo delle passioni.
Le tue dita l’accarezzano e ne sfiorano le corde, vorrebbero spezzarle, per calmare il tormento.
Muovi le mani, e vorrei essere quella chitarra, appoggiata al tuo corpo per sentirne l’ardore.
Sarei la tua chitarra, voce di lacrime silenziose, e sarei quelle corde, che intonano gemendo, un grido di dolore.


Per i vostri graditi commenti, qui

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