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Traduzioni, Follie varie...

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view post Posted on 19/3/2016, 21:49     +1   +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Per la festa del papà, dedicata a tutti i genitori stressati, un'altra storiella satirica... un po' cattiva, ma ormai la mia reputazione credo di essermela fatta... :via:


Orrore alle vitamine
Favola satirica


Questa è la storia della snella signora Spaghetti e del grosso Papà Pasta.

I due abitavano in una casa bella e spaziosa insieme ai loro tre figli, che si chiamavano Anna, Massimo e Maria. Siccome erano dei bravi genitori, tutti i giorni preparavano da mangiare per i loro rampolli. E dato che volevano essere genitori democratici, tutti i giorni la signora Spaghetti chiedeva ai bambini, “Cosa volete da mangiare oggi?”
E i bambini regolarmente rispondevano: “Spaghetti!!”
Quando Papà Pasta, che anche lui cucinava alle volte, faceva la stessa domanda, la risposta era: “Pastasciutta!!”
Inutile dire che dopo un po’ i genitori si stufavano. Quando sentivano la solita risposta, la signora Spaghetti strillava: “Non ancoooora!”
E il papà gemeva: “No! Nooo! Noooo!!”

Quindi si impegnavano a cucinare le migliori ricette prese dal Libro dell’Alimentazione Complementare, come i canederli di patate con semi di girasole, il timballo di verdure con salsa ai semi di zucca, il risotto alle nocciole o la spadellata di miglio e carote con salsa al prezzemolo, perché volevano che i loro figli crescessero sani e forti.
Insomma, sudavano su forno e fornelli, tagliavano e spezzettavano, mescolavano e condivano cereali, verdure e quant’altro; infine, ansando, portavano in tavola enormi pentole ricolme di cibo squisito. E regolarmente, i bambini facevano domande del tipo:
“Cos’è quella roba rossa?”
“Sono carote, bambini.”
“Che schifo!! E quella roba verde?”
“Peperone.”
“Aaaagh! Ci sono sempre i peperoni da mangiare! Ancora i peperoni! Non gli vogliamo, non li mangiamo!”
E signora Spaghetti e Papà Pasta si trovavano soli e abbandonati davanti ai piatti stracolmi di cibo fumante. Papà Pasta era stato educato a finire sempre quello che c’è nel piatto, e mangiò fino a diventare tondo come una forma di parmigiano. Signora Spaghetti era stata educata diversamente, quindi per la preoccupazione non mangiò quasi più nulla, fino a diventare magra come un grissino.

Alla fine i genitori si rassegnarono a cucinare spaghetti e pasta di ogni tipo, altrimenti i loro figli non avrebbero mangiato. Affinché mandassero giù almeno un po’ di cibo sano prepararono un’ottima salsa a base di verdura; ma appena la appoggiarono sul tavolo, Anna esclamò:
“Per me solo la pasta!”
E Massimo incalzò: “Anche per me, voglio solo la pasta nuda.”
Maria ancora non sapeva parlare, in cambio fece del suo meglio per spingere la scodella giù dal tavolo.
Quindi i bambini mangiarono ancora pasta scondita, la signora Spaghetti non riuscì a mandare giù nulla, e papà Pasta, dopo avere salato la montagna di pasta e salsa sul suo piatto con le sue lacrime, ne mangiò fino ad assumere la forma di una palla di gomma.
Rimasero comunque dei resti, e i genitori vollero metterli nel congelatore in cantina; ma papà Pasta inciampò e rimbalzò sulle scale, popom, popom, popom... Fino a ruzzolare sull’ultimo gradino, dove scoppiò come un sacchetto di riso. Finì addosso alla signora Spaghetti, che non resistette perché era diventata tanto magra, e si ruppe in sette pezzi.

Finalmente!, i bambini si trovarono soli e indisturbati nella bella e grande casa, e tutti i giorni cucinavano e si nutrivano solo di pasta nuda. E sarebbero certamente vissuti per sempre felici e contenti, se intanto non fossero tutti e tre morti di scorbuto...



Traduzione: marzo 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.



Per commenti, critiche e via dicendo: https://gonagai.forumfree.it/?t=71738486&st=45#lastpost
 
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view post Posted on 30/3/2016, 19:27     +1   +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Sgruntttt!!

Dieci giorni senza accesso al forum, volevo postare quest'ultima storiella (leggasi: dialogo) per Pasqua e naturalmente non ce l'ho fatta.
Questa l'avevo già pubblicata tra le barzellette, ma dato che si adegua al periodo dell'anno la riposto qui. Buon divertimento (spero...)


L’uovo a colazione
Scenetta matrimoniale


Lui: Berta!
Lei: Sì.
Lui: L’uovo è sodo!
Lei: tace.
Lui: L’uovo è sodo!!!
Lei: Ho sentito.
Lui: Ma per quanto tempo ha bollito quest’uovo?
Lei: Non fa bene mangiare troppe uova.
Lui: Vorrei sapere quanto tempo ha bollito quest’uovo…?
Lei: Tu non lo vuoi sempre a quattro minuti e mezzo?
Lui: Sì.
Lei: E allora, perché me lo domandi?
Lui: Perché quest’uovo non può aver bollito per quattro minuti e mezzo!
Lei: Ma io lo bollo per quattro minuti e mezzo tutte le mattine.
Lui: E allora, com’è che qualche volta è troppo mollo e qualche volta troppo sodo?
Lei: Che ne so io - non sono una gallina!
Lui: Ma va’! E come sai che l’uovo è pronto?
Lei: Lo tolgo dall’acqua dopo quattro minuti e mezzo, santo cielo!
Lui: Guardando l’orologio, o come?
Lei: Lo sento… una massaia le sente queste cose.
Lui: Le sente? Cos’è che senti?
Lei: Me lo sento quando l’uovo è pronto.
Lui: Ma è sodo… forse con il tuo sentimento c’è qualcosa che non va.
Lei: Con il mio sentimento? Io sto in cucina tutto il giorno, faccio il bucato, riordino le tue cose, mi affanno perché la casa sia confortevole, ho tutti i grattacapi del mondo con i bambini, e tu dici che c’è qualcosa che non va con i miei sentimenti?!
Lui: Va bene… va bene… ma quando un uovo bolle a sentimento, vuol dire che quando bolle per quattro minuti e mezzo è solo per caso.
Lei: Ma a te cosa interessa se l’uovo bolle quattro minuti e mezzo per caso! Basta che bolle quattro minuti e mezzo!!
Lui: Io vorrei un uovo morbido e non un uovo morbido per caso! Non m’interessa quanto bolle!
Lei: Ah! Allora non t’interessa… te ne freghi se io sto quattro minuti e mezzo a sgobbare in cucina!
Lui: No… no…
Lei: Ma è importante invece… l’uovo deve bollire quattro minuti e mezzo.
Lui: E’ quello che dico anch’io…
Lei: Ma se hai appena detto che non t’interessa!
Lui: L’unica cosa che m’interessa è un uovo morbido a colazione!! Non m’importa quanto tempo ci vuole!!
Lei: Dio, come sono primitivi gli uomini!
Lui: fra sé e sé La ammazzo… domani la ammazzo!


Traduzione: marzo 2010
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.

Edited by Delari - 28/5/2016, 23:16
 
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view post Posted on 17/4/2016, 00:51     +1   +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Tanto per cambiare, un testo un po' più lungo... Si tratta di una delle mie novelle favorite tedesche.


La dama dei rubini

Ambientazione: Arnstadt nel Thüringen, 1881


Parte 1

Con le taschine del grembiule piene di mollette, zia Sophie stava staccando la biancheria dalle corde stese nel cortile. Si sentiva felice e orgogliosa mentre sgusciava tra i bei capi di lino bianco: cos’era il bianco della neve, a confronto con le tovaglie e lenzuola di famiglia? Da tempo innominato c’era sempre un sole splendente, ideale per sbiancare le stoffe, quando il lino della rinomata famiglia Lamprecht veniva pulito e asciugato, i vecchi capi che ancora provenivano dalla produzione propria, prima che “Lamprecht & Sohn” scambiasse la fabbrica di lino con una di porcellana raffinata. Il bel tempo durante questo giorno secondo lei era doveroso come il famoso “tempo dell’imperatore”, che non voleva mai farsi vedere se non splendeva il sole; così diceva zia Sophie ammiccando, anche se alla signora di casa, suocera dell’attuale capofamiglia, non piaceva sentirla dire così e parlava di blasfemia.
Ma oggi l’asciutta aria estiva attraversava nuovamente la biancheria stesa ad asciugare, e il sole di luglio sembrava concentrarsi tutto nell’enorme rettangolo del cortile di casa. Sopra i tetti le rondini volavano come frecce di acciaio luccicante; i loro nidi erano attaccati ai cornicioni delle finestre del primo piano dell’ala est della casa, e nessuno impediva loro di stabilirvisi, anche quando si appoggiavano sul tetto e cinguettavano con insistenza. Né uno sguardo né una mano si accennava a scacciarli, perché le finestre di questo lato della gran casa pietra non venivano mai aperte, al massimo una volta l’anno per far entrare un po’ d’aria; ma subito dopo, le pesanti tende con il disegno di fiori venivano nuovamente chiuse e le stanze tornavano al buio.
La casa principale, la cui facciata guardava la piazza più grande della città, era dotata di camere e saloni a sufficienza, e gli abitanti non erano numerosi, per cui non c’era bisogno di utilizzare le suddette stanze. Ma la gente diceva diversamente, era convinta che ci fosse un buon motivo perché quelle stanze rimanessero chiuse. Per quanto fosse bello e luminoso l’edificio sul lato posteriore della casa, per quanto fossero ampie le sue stanze e per quanto sembrasse pacifico con le sue finestre alte e silenziose, era la scena di una lotta continua e spettrale nei secoli. Così mormoravano i cittadini nelle strade e stradine, e chi abitava nella casa non contraddiceva... Perché sin dall’anno 1795, quando la bella signora Dorothea Lamprecht era morta nel letto della camera dell’ala est insieme alla sua figlioletta, non si era trovato quasi nessun inserviente che non avesse visto almeno una volta il lungo strascico della camicia da notte della signora mentre si aggirava per il corridoio, o che non fosse stato costretto a stringersi a ridosso del muro, mezzo morto dalla paura, per lasciar passare la figura lunga, magra e vestita di grigio della prima moglie.
Causa delle apparizioni, così si raccontava, era stato uno spergiuro.
Justus Lamprecht, il bisnonno dell’attuale capofamiglia, aveva dovuto giurare solennemente a sua moglie, quando questa si trovò sul letto di morte, che non si sarebbe risposato - per non dare una matrigna ai suoi due figli, diceva, ma tutti sospettavano che la donna, molto gelosa dacché non era mai stata bella, non avesse voluto lasciare il posto al fianco del marito a un’altra.
Ma il signor Justus aveva avuto un cuore ardente, e la sua bella pupilla Dorothea, che poco dopo venne a vivere in casa sua, non era da meno. Anche a costo di dover andare all’inferno con lui lo avrebbe sposato, dichiarò, a dispetto della gelosia della prima moglie. E infatti i due si sposarono e tubarono come due colombe, e lo sposo come dono di nozze diede a Dorothea una parure di rubini; e un giorno la giovane moglie si ritirò in una sontuosa camera da letto nell’ala est della casa e mise al mondo una figlioletta. Il signor Justus Lamprecht si dichiarò al culmine della felicità.
Quell’anno ci fu un inverno gelido, e nella notte di Natale, mentre fuori imperversava una tempesta di neve, allo scoccare della mezzanotte in punto la porta che si affacciava sul corridoio si aprì lentamente e sommessamente, e chi entrò non era altri che la prima moglie, Judith Lamprecht, che sembrava avvolta in una nebbia grigia come fatta di ragnatele. E questa nube grigia insieme all’abito di velo grigio con la brutta testa in cima si erano appoggiate sul letto della giovane madre e chinate su di lei come per succhiarle il sangue dal cuore. L’infermiera che vegliava su di lei era rimasta come paralizzata nella sua poltrona, dall’orrore e dal freddo che la creatura fantasma emanava; svenne e si svegliò solo ore dopo, al pianto della neonata.
La porta del corridoio era rimasta spalancata ed entrava un’aria ghiacciata. Della cattiva signora non si vedeva neanche più un lembo del vestito, ma la signora Dorothea stava ritta nel letto e balbettava, chiedendo che le dessero la bimba; dopo poche ore cominciò a delirare, e cinque giorni dopo si trovò nella bara, con la figlioletta in braccio.
I medici dissero che madre e figlia erano morte per via di una forte infreddatura; che la porta non era stata ben chiusa e si era aperta durante la notte facendo entrare l’aria invernale, e che l’infermiera si era addormentata e aveva avuto un incubo.
Le stanze nell’ala est vennero chiuse, e non vi abitò più nessuno. Ma nella famiglia, tra i servitori e gli abitanti della cittadina rimase il dubbio; il giuramento del signor Lamprecht era ben conosciuto, e pochi credettero che si fosse davvero trattata di una disgrazia originata da cause naturali. E in casa, fino a oggi molti di tanto in tanto giuravano di avere visto, verso l’imbrunire, la bella seduttrice sgattaiolare dalla sfarzosa camera da letto attraverso la porta chiusa, mentre la inseguiva, a distanza di pochi passi, la prima signora vestita di grigio, come una furia, per stringerle le lunghe e scarne braccia attorno al collo con intenzioni assassine...

Fino alla fine del diciottesimo secolo la famiglia aveva commerciato con il lino, e molti chiamavano i prosperosi commercianti “i Fugger di Thüringen”. A quei tempi la grande casa che si affacciava sul mercato sembrava un alveare tanto era attiva; le balle di lino erano state accatastate fino al soffitto, e ogni settimana grossi carri erano partiti in ogni angolo del mondo carichi della preziosa mercanzia.
E per questo, fino al giorno odierno il giorno di pulizia ogni luglio era dedicato ai ricordi del tempo passato. Capi di lino che nessuno utilizzava - per carità! - venivano tolti dagli armadi, lavati e messi al sole e quindi appoggiati in altre pieghe, affinché non ingiallissero e la stoffa non si spezzasse. Oggi nel cortile che un tempo era stato talmente affollato che neppure un filo d’erba aveva trovato posto tra i ciottoli lussureggiavano diversi alberi, e anche il vecchio pavimento non era riuscito a resistere al cambio dei tempi, cosicché un bel tappeto d’erba copriva il suolo scosceso e cespugli di rose spargevano i loro petali multicolori sul morbido verde, mentre le foglie dei tigli frusciavano davanti al lato ovest della casa, ancora oggi chiamato “tessitura”; e la vecchia casa di imballaggio con la balconata di legno, che chiudeva il cortile in direzione nord, era tutta coperta da un mantello di fiorangelo.
La fabbrica di porcellana, che era stata sostituita alla produzione di lino, si trovava fuori città, in vicinanza del villaggio di Dambach.
L’attuale padrone della fabbrica e capo della famiglia era vedovo. Aveva due figli, e zia Sophia, ultima rimasta di una linea collaterale dei Lamprecht, gli conduceva la casa, con zelo, saggezza e parsimonia. E l’allegra zia con il naso grosso e gli intelligenti occhi castani diceva che era stata la migliore idea della sua vita quella di rimanere zitella, affinché almeno un’autentica fisionomia Lamprecht si affacciasse ancora sul mercato dalla finestra del soggiorno delle massaie. La “signora consigliere”, chiamata così perché suo marito faceva parte del consiglio della città, e che era la suocera del signor Lamprecht, non voleva sentire osservazioni come questa o quella dell’annuale “tempo dell’imperatore”; ma la signora era molto raffinata e spesso era ospite a corte, e la zia Sophie faceva sempre una faccia innocente, e così tra le due donne non s’iniziavano mai delle liti.
Il consigliere e sua moglie, i suoceri del signor Lamprecht, occupavano un appartamento al primo piano dell’edificio centrale. Il vecchio signore aveva affittato il suo bel feudo e si era ritirato; ma non sopportava a lungo la vita in città, per cui spesso lasciava soli la moglie e il suo unico figlio e rimaneva a Dambach, all’aria di campagna dove poteva camminare nel bosco e dare la caccia alle lepri, e abitava nel padiglione annesso alla fabbrica del genero come e quando voleva.

L’orologio della vicina torretta del municipio suonò le quattro, e con l’ora del caffè pomeridiano venne anche la fine della stesura del lino. Zia Sophia tolse adagio le mollette dai pregiati pezzi di lino e li tolse dalle corde, quando all’improvviso sentì un tuffo al cuore.
“Che disastro!” esclamò in direzione della vecchia domestica che la stava aiutando. “Guarda un po’ qui, Bärbe! La tovaglia che raffigura il matrimonio di Cana ha uno strappo!”
“A quell’età, signorina Sophie, non mi stupisce! Tutto ha il suo tempo.”
“Ma come sei saggia, Bärbe! Santo cielo, lo strappo va attraverso tutto il viso del coppiere, farò una bella fatica a rattopparlo.” Con queste parole scrutò il vecchio tessuto esaminandolo contro luce. “Certo, è un vecchio pezzo ereditario, il coperto era ancora quello della signora Judith.”
Bärbe si schiarì la gola e guardò di sottecchi le finestre dell’ala est. “Non è bene parlare ad alta voce di quelli che non trovano pace sottoterra, signorina Sophie!” ammonì scuotendo la testa con disapprovazione. “Proprio adesso che gli spiriti si fanno di nuovo vedere - solo ieri sera il cocchiere ha visto una figura bianca girare l’angolo...”
“Bianca? Allora non si è trattato dell’abito di ragnatele... Così il nostro grasso e buon cocchiere si dà delle arie nel soggiorno della servitù? Fifoni, volete che tutta la città si metta ancora a parlare di noi?” Si strinse nelle spalle e piegò la tovaglia. “A me non importa nulla. Che la gente dica pure della 'dama fantasma nella casa Lamprecht', la nostra famiglia è abbastanza vecchia e rinomata! Questo è un lusso che possiamo permetterci, non meno di quelli che abitano nel castelletto fuori città.”
Queste ultime parole non erano indirizzate alla domestica - gli occhi castani di Sophie strizzavano allegramente verso il gruppetto sotto il tiglio che si trovava davanti all’edificio della ex tessitura. Qui sul fine naso della signora consigliere scintillava un paio di occhiali; l’anziana signora aveva portato il suo pappagallo a prendere un po’ d’aria fresca e vigilava vicino a lui per via dei gatti di casa. Ricamava, e vicino a lei, seduto al tavolo da giardino imbiancato, si trovava il suo nipotino di sette anni, Reinhold Lamprecht, intento a scrivere sulla sua lavagnetta di ardesia.
L’anziana signora appoggiò il suo lavoro di ricamo sul tavolo e si avvicinò a Bärbe.
“Cosa sento - il cocchiere dice di avere visto qualcosa sul corridoio ieri?”
“Sissignora, l’ha vista e lo spavento gli sta ancora nelle ossa. Stava dando la cera ai pavimenti nell’appartamento est, e quando è sceso dalle scale gli è sembrato di sentire una porta che si chiudeva dietro di lui, piano piano... signora, in quel corridoio dove non viene mai girata una chiave! Insomma, gli sono venuti i brividi, ma si è fatto coraggio e ha sbirciato attorno all’angolo: e allora gli è passata davanti una figura che attraversava il corridoio, tutta esile e sottile e bianca dal capo ai piedi...”
“Non dimenticare i guanti neri, Bärbe!” aggiunse zia Sophie.
“Che il Signore me ne scampi, signorina Sophie, quella roba bianca non aveva indosso neppure un filo nero! E come ha passato l’altro angolo il suo velo si è sollevato e tutto si è dissolto come fumo al vento! Il cocchiere dice che all’ora dell’imbrunire niente e nessuno lo convincerà più a salire all’ala est.”
“Non glielo chiede nessuno, a quell’eroe!” rispose zia Sophie; ma mentre allungava la mano per togliere dalla corda un tovagliolo, un rumore le fece voltare la testa. “Mamma mia, cos’è questo trambusto? Gretel, ma sei impazzita...!”
Attraverso l’alta volta dell’arco d’entrata dell’edificio principale stava entrando di gran carriera una graziosa carrozza da bambini tirata da due caproni. La guidatrice, una bambina di nove anni, si reggeva in piedi e teneva le briglie ferme nelle sue manine. Il cappello di paglia, dalla cupola rotonda e la falda larga, era appena tenuto fermo dai nastri al collo della bambina, invece di appoggiarsi sui suoi ricci lunghi e castani che svolazzavano al vento.
Il veicolo continuò il suo tragitto fino ai tigli, dove stava seduto il piccolo Reinhold; solo allora, tirando energicamente le briglie, la conduttrice si fermò di scatto.
“Grete, non mi va che tu prenda i miei caproni!” si arrabbiò Reinhold con voce piagnucolosa, e il suo visetto sottile e pallido si arrossò per la rabbia. “Papà li ha regalati a me!”
“Non lo farò più, Holdchen, te lo prometto,” gli assicurò la sorella mentre saltava dalla carrozza. “Non ti arrabbiare, suvvia - mi vuoi ancora bene?” Abbracciò con trasporto il fratello recalcitrante. “I poveri Hans e Benjamin volevano uscire un po’, è da tanto che sono chiusi nella loro stalla!”
“Vuoi forse dire che hai fatto tutta la strada da sola, partendo da Dambach?” chiese la signora consigliere, la voce delicata scossa dallo sdegno e dallo spavento non ancora passato.
“Certo, nonna! Il cocchiere è troppo grosso per sedersi nella carrozzina dietro a me. Papà è tornato a casa a cavallo, e io dovevo sedermi nella carrozza grande insieme alla fattoressa; ma mi sono stufata ad aspettare.”
“Che cosa stupida da fare! E il nonno?”
“Stava in entrata e si teneva la pancia dal gran ridere quando sono passata.”
“Sì, tu e il nonno - sempre a fare comunella!” L’anziana signora indicò la nipote con l’indice, indignata. “E che aspetto! Vuoi dirmi che hai attraversato la città in questo stato?”
La piccola Margarete lanciò un’occhiata noncurante al suo abbigliamento. “Le macchie me le sono fatte mangiando i mirtilli!” disse tranquillamente. “Vi sta bene, perché dovete sempre mettermi gli abitini bianchi? Ha ragione Bärbe, andrebbe meglio il lino da imballaggio.”
Zia Sophie si mise a ridere, e le si aggregò l’allegra risata proveniente da una voce maschile. Poco dopo l’incursione della carrozzina era entrato nel cortile un giovane, un’attraente diciannovenne, l’unico figlio della signora consigliere; essa era la seconda moglie di suo marito ed era stata non la madre ma la matrigna della defunta signora Lamprecht. Il giovane portava sottobraccio un fascio di libri e proveniva dalla scuola superiore.
La bambina gli gettò uno sguardo rabbuiato. “Non c’è niente da ridere, Herbert!” brontolò.
“Davvero? Questa me la ricorderò, madamigella! Posso chiedere come stiamo in quanto ai compiti? In campagna, intenta a mangiare mirtilli la signorina difficilmente avrà ripetuto la sua lezione di francese, e non voglio pensare a tutti gli sgorbi che finiranno sul quaderno di calligrafia quando stasera dovrà fare il lavoro in fretta e in furia...”
“Non farò nessuno sgorbio! Starò attenta e darò il mio meglio, proprio per fare dispetto a te, Herbert!”
“Quante volte te lo devo dire, sgarbata, che non si dice ‘Herbert’ ma ‘zio’!” si arrabbiò la signora consigliere.
“Ma nonna, non posso chiamarlo zio, anche se è il cognato di papà!” replicò la piccola, seccata. “I veri zii devono essere vecchi! Mi ricordo benissimo come li guidava Herbert, i caproni, e rompeva i vetri delle finestre con palle e pietre. E adesso non è nient’altro che uno scolaretto che va in giro con i libri sottobraccio. - Brrr, Hans! Fermi!” rabbuffò il tiro di caproni impazienti.
Il giovane era arrossito durante le parole critiche pronunciate senza riserva e a voce alta dalla bambina. Fece un sorriso un po’ forzato: “Saputella! Meriteresti una bella sculacciata!” disse tra i denti. Il suo sguardo lambì, impacciato, la casa di imballaggio che si trovava di fronte.
La loggia di legno, un po’ storta, che passava davanti alle finestre del primo piano di questo vecchio edificio, era coperta da fiorangelo come una pergola; solo qui e là un arco lasciava passare un po’ di aria e luce. E in una di queste nicchie verdi si intravedeva a volte scintillare qualcosa che sembrava oro appannato, e di quando in quando una mano bianca, affusolata si alzava al di sopra della balaustra per carezzare soprappensiero i capelli o affondarsi nella profusione bionda... Ma in questo momento tutto era silenzioso e immobile.
La signora consigliere fu l’unica ad accorgersi dello sguardo furtivo del figlio. Non disse nulla, ma la sua fronte si corrugò in maniera arcigna, mentre girò deliberatamente la schiena alla casa di imballaggio.
“Cara Sophie, mio figlio ha ragione - le maniere di Gretchen peggiorano di giorno in giorno!” disse a zia Sophie udibilmente irritata. “Faccio del mio meglio quando la bambina viene da me, ma a che serve se qui dabbasso voialtri ridete solo della sua malcreanza? La nostra Fanny aveva un senso per il tatto ammirevole, sin da quando era piccola. Cosa direbbe se vedesse la sua figlia crescere così selvaggia e ineducata, se sentisse la bambina parlare in maniera così diretta e scortese! Dubito che ci sia molto da fare, con questa testa!”
“E’ legno duro, signora consigliere! Difficile da intagliare,” rispose zia Sophie con un sorriso benevolo. “Non rido mai di vera maleducazione, non si preoccupi! Ma la nostra Grete non mi dà nessuna preoccupazione con queste cose. Forse non è molto brava a fare inchini e riverenze, glielo credo subito, e non posso farci molto; a me importa soprattutto che il nostro diavoletto rimanga sempre brava e onesta e non impari a dissimulare e lusingare e dire un sacco di belle cose a cui lei stessa non crede.”
La piccola Margarete, ancora indignata per l’osservazione circa la sculacciata che aveva sentito come se l’avessero davvero picchiata, aveva intanto portato la carrozzina e i caproni nella scuderia con l’aiuto di Bärbe; nel frattempo Reinhold mostrava al giovane zio i suoi esercizi di scrittura sulla lavagnetta.
Il bambino era di un aspetto molto delicato, una figuretta di debolezza preoccupante, dai movimenti lenti e sommossi.
“La nostra Gretel ha un eccesso di energia, vuole sfogarsi!” continuò zia Sophie. “Lo volesse il Signore che il nostro tranquillo e pallido bambino lì,” indicò furtivamente il piccolo, e il suo sguardo si rabbuiò, “ne avesse un po’ di più!”
“Ho la mia propria opinione riguardo alle persone troppo irrequiete, cara mia!” rispose la signora consigliere stringendosi nelle spalle. “Io preferisco di gran lunga un atteggiamento di distinta calma. E non ricominci a parlare della ‘debolezza’ di Reinhold, se lo sapesse quanto mi irrita! Cielo, l’unico figlio maschio dei Lamprecht, la sua speranza, il suo gioiello! Grazie a Dio i suoi organi interni sono perfettamente a posto! Il dottore lo ha attestato, e io non dubito che crescendo, Reinhold un giorno non mancherà di tenere il passo con suo padre riguardo a forza e destrezza.”
Questa asserzione, tuttavia, sembrava piuttosto audace volendo confrontare lo striminzito ometto seduto al tavolo da giardino con l’uomo che in quel momento entrò a cavallo nel grande cortile.
Aveva qualcosa di imponente, il cavaliere che in quel momento uscì dall’ombra del profondo portone secondario, quello che sboccava davanti alla casa di imballaggio: il signor Lamprecht non aveva ancora quarant’anni ed era un uomo dall’aspetto appariscente, alto e snello come un abete, i capelli e la barba bruna, lo sguardo acceso e con la postura e i movimenti pieni di dignità.
“Guarda, papà, sono già qui! Dieci minuti in anticipo! I caproni sono molto più veloci del tuo Lucifero, corrono eccome!” trionfò Margarete, che sentendo lo scalpiccio degli zoccoli risuonare sul lastricato del portone era corsa fuori dalla porta della scuderia per andare incontro al padre.
Il rumore del portone che si apriva però causò anche un movimento nel nascondiglio verde della loggia, che si trovava proprio sopra l’entrata - la testa bionda si alzò e con apparente curiosità si chinò dall’arco coperto di frasche, facendo scivolare in avanti due grosse trecce.
Apparentemente sulla balaustra si erano trovati alcuni fiori, perché il movimento brusco con cui la ragazza appoggiò il braccio fece cadere alcune rose che finirono sul lastricato, davanti agli zoccoli del cavallo bruno. La bestia si imbizzarrì, ma il cavaliere le diede qualche pacca amichevole sul collo ed entrò nel cortile. Con uno sguardo fisso che sembrava non guardare né a destra né a sinistra l’uomo, avvicinandosi, alzò brevemente il cappello in segno di saluto; con negligenza lasciò che il cavallo calpestasse i fiori e non alzò neppure lo sguardo - il signor Lamprecht era orgoglioso, e sua madre capiva benissimo che egli ignorasse gli abitanti della casa di imballaggio il più possibile.
La sua figlioletta sembrava vederla diversamente; corse verso la casa sul lato nord del cortile e raccolse i fiori. “Stava intrecciando una corona, signorina Lenz?” chiese in direzione del loggiato. “Sono cadute un paio di rose - vuole che gliele lanci o gliele porti su?”
Non ottenne risposta; la giovane era scomparsa, si era ritirata all’interno della casa, forse spaventata dal cavallo imbizzarrito.
Intanto il signor Lamprecht era smontato. Era abbastanza vicino per sentire la suocera dire, con sorpresa e disapprovazione, a zia Sophie: “Perché questo grado di intimità tra Gretchen e questa gente?”
“Intimità? Non ne so nulla, signora. Non penso che la bambina sia mai salita per le scale di quella casa. E’ solo gentilezza d’animo, Gretel è altruista per natura. Forse è anche la gioia di poter ammirare tanta bellezza - io non sono da meno; mi sento sobbalzare i cuore nel petto tutte le volte che vedo la bella ragazza sul loggiato.”
“Questione di gusti,” fece la signora consigliere, parlando alla leggera ma gettando uno sguardo rabbuiato al figlio che in quel momento era chino sulla lavagnetta di Reinhold. “Non direi mai nulla contro la premura di Gretchen, mi sono sempre ritenuta una persona mite e cristiana! Ma sono anche ferma nelle mie convinzioni conservative, e certi limiti non si devono sorpassare. Ho sentito che la ragazza abbia lavorato come governante in Inghilterra e che possieda un grado d’istruzione superiore - ma con tutto il rispetto per queste aspirazioni, è solo la figlia di uno degli uomini che lavorano per la nostra fabbrica, e questo non dobbiamo dimenticarlo. Non è così, Balduin?” si rivolse al genero.
Questo alzò appena il capo, ma uno sguardo breve e seminascosto si indirizzò dai suoi occhi scuri, veloce e bruciante come se volesse fare un mucchietto di cenere della personcina piccola e delicata dell’anziana signora. Questa dovette aspettare un attimo prima di ottenere la conferma che desiderava, ma infine il bell’uomo rispose, con fare noncurante:
“Ha ragione come sempre, madre! Chi oserebbe dire diversamente?”
Quindi spinse il cappello ancora di più sugli occhi e accompagnò il cavallo verso la scuderia che faceva parte della casa di tessitura.

Traduzione: aprile 2016
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Edited by Delari - 5/12/2017, 17:45
 
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Grand Pez di Girella

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La dama dei rubini

Parte 2

Intanto sotto ai tigli c’era una gran animazione. Margarete aveva appoggiato le rose raccolte sul tavolo da giardino - solo finché la signorina Lenz sarebbe tornata sul loggiato, aveva detto e si era inginocchiata vicino al fratellino.
“Guarda qui, Grete!” disse Herbert e indicò la lavagnetta di ardesia. La sua voce era un po’ insicura. Probabilmente è ancora in collera con me, pensò la bambina. “Guarda un po’ e vergognati. Reinhold ha due anni meno di te e la sua scrittura è bella e corretta - non c’è paragone con le tue lettere, che sembrano tutte anchilosate, come se le avessi scritte con un pezzo di legno invece della penna!”
“Ma sono ben leggibili,” rispose la piccola senza scomporsi, “tanto chiare Bärbe dice sempre che può leggerle benissimo anche senza mettersi gli occhiali, e di quelli ha sempre bisogno per leggere il libro dei canti in chiesa - perché devo sprecare tanto tempo con tutti quegli stupidi ghirigori?”
“Sei pigra e incorreggibile!” rispose il giovane e in quel mentre afferrò distrattamente una delle rose per sentirne il profumo, avvicinandola però alle labbra invece che al naso.
“E’ vero, a volte sono pigra a scuola,” ammise la bambina onestamente. “Ma non quando si tratta di imparare la storia... solo con la matematica...”
“E con i compiti a casa, dice il maestro.”
“Cosa ne sa lui? Un uomo così anziano, che sta sempre chiuso o a scuola o nella sua casa in quel vicolo stretto e buio, dove non entra mai il sole - cosa ne sa come ci si sente quando si è distesi all’erba nel giardino di Dambach ad ascoltare il canto degli uccellini... Ehi, fermo! Quella non si ruba!” si interruppe e si gettò in un baleno sul piano della tavola per acchiappare la rosa, che Herbert, il distrattone, stava facendo scomparire nella tasca del giacchino.
Ma il giovane, che di solito si dominava, in questo momento le sembrò quasi irriconoscibile - pallido, con gli occhi pieni di astio afferrò la piccola mano prima che lo toccasse e la scacciò come se fosse un insetto velenoso.
Alla bambina sfuggì un’esclamazione di dolore, e anche Reinhold saltò su di soprassalto dalla sua panchina.
“Ebbene, che succede?” domandò il signor Lamprecht, che aveva affidato il suo cavallo al garzone che gli era venuto incontro, e adesso si stava avvicinando al tavolo.
“Non è bello fare una cosa così - è quasi come un furto!” esclamò la piccola Margarete, ancora sotto l’influsso dello spavento. “Le rose appartengono alla signorina Lenz.”
“Ebbene...?”
“Herbert ha preso una rosa bianca e l’ha messa nel taschino!”
“Che bambinata!” rimbrottò la signora consigliere. “Che burla di pessimo gusto, Herbert!”
Il signor Lamprecht aveva il volto un po’ arrossato, come se la cavalcata gli avesse messo addosso molto caldo. Si avvicinò al giovane lentamente, passando la frusta da una mano all’altra. Un sorriso di superiorità, beffardo e volutamente offensivo, gli passò sulle labbra, quindi serrò gli occhi e fissò direttamente il giovane che gli stava di fronte arrossendo violentemente.
“Lascialo, bambina!” disse il signor Lamprecht alla figlia facendo spallucce con disinvoltura. “Sicuramente Herbert ha bisogno della sua refurtiva per la scuola - il maestro di botanica gli avrà chiesto di portargli una rosa alba domani.”
“Balduin...” La voce del giovane era smorzata come se avesse un groppo in gola.
Il signor Lamprecht si girò con ironica solerzia verso il gruppetto. “Non ho forse ragione quando dico che il nostro bravo studente, il più ambizioso secchione che i nostri banchi di scuola abbiano mai visto, non ha in mente altro che i suoi studi in vista degli esami? Suvvia, non sgobbare tanto! Da qualche tempo hai gli occhi tutti incavati, e le tue rosee guance da fanciullo si sono scolorite. Ma il nostro futuro signor ministro avrà bisogno di nervi d’acciaio.”
Fece una breve risata canzonatoria, diede al giovane una pacca sulla spalla e fece per allontanarsi.
“Devo parlarti un momento, Balduin!” gli esclamò dietro la signora consigliere.
Il signor Lamprecht si fermò, doverosamente, anche se sembrava che il suolo gli scottasse sotto ai piedi. Prese dalla mano della suocera la gabbietta con il pappagallo, mentre Herbert li sorpassò correndo in casa di gran carriera.
“Adesso Herbert l’ha tenuta davvero, la rosa!” mormorò Margarete e per la rabbia batté la piccola mano sul tavolo. “Non ci credo, papà ha scherzato. Herbert che dovrebbe portare al maestro una rosa - figuriamoci!”
Raccolse i fiori rimasti, legò i gambi con il nastro di seta che aveva tra i capelli e corse verso la casa di imballaggio per gettare il piccolo mazzo dall’altra parte del loggiato. Questo rimase sulla balaustra; nessuno si curò di raccoglierlo, e la bambina tornò sui suoi passi, delusa.
Il cortile era diventato quieto. Zia Sophie e Bärbe avevano portato in casa i cestini di biancheria, stracolmi fin sopra all’orlo, il garzone era uscito dopo aver accudito il cavallo; e il bambino minuto e silenzioso disegnava con ammirevole pazienza le sue belle lettere sulla lavagnetta.
Margarete si sedette vicino a lui e mise in grembo le piccole mani abbronzate. Lasciava penzolare i piedini irrequieti e con i suoi occhi attenti e intelligenti osservava il volo delle rondini mentre si incrociavano sui tetti e tagliavano l’aria azzurrina con manovre ardimentose, per poi scomparire sotto ai cornicioni sporgenti dell’ala est.
Intanto Bärbe venne di nuovo attraverso al cortile con un panno in mano. Con esso pulì il tavolo da giardino, vi appoggiò una tovaglia e sopra un vassoio con il servizio da caffè, che tintinnò lievemente al movimento. Indi si mise a raccogliere e raggomitolare le corde da biancheria. Di quando in quando gettava uno sguardo irritato alla bambina, che osservava con occhi schietti le finestre del piano superiore dell’edificio sedicente infestato dai fantasmi.
“Bärbe - Bärbe, svelta, girati! C’è qualcuno lì sopra!” esclamò la piccola a un tratto e indicò con il dito una delle finestre della ex camera da letto della signora Dorothea.
Automaticamente, come spinta da un potere superiore, Bärbe girò la testa verso la finestra indicata, e per lo spavento fece cadere i gomitoli di corda. “La tenda si muove da sola!” mormorò.
“Ma va’, Bärbe, può essere stato uno spiffero di vento!” disse Margarete dopo un averci pensato. “No, c’era qualcuno lì in mezzo,” indicò di nuovo la finestra. “La tenda si è aperta e qualcuno ha guardato fuori. Ma non può essere, lì non abita nessuno.”
“Santo cielo, bambina, non indicare con il dito!” bisbigliò Bärbe e le prese la piccola mano. Girò la schiena alla suddetta finestra e si rifiutò di gettarvi una sola occhiata. “Vedi, Gretchen, ecco cosa capita a essere troppo curiose! Per le cose come quelle che succedono in quella camera è meglio non avere occhi.”
“Bärbe, sei superstiziosa - attenta che non ti senta la zia Sophie!” la rabbuffò Margarete. “Proprio ora bisogna guardare bene, invece! Voglio sapere chi è stato! E’ andato tutto così in fretta - un attimo e la figura era già sparita. Ma io penso che sia stata la cameriera della nonna, lei ha un viso bianco e sottile.”
“La cameriera, figuriamoci!” Adesso fu la cuoca a fare la ramanzina con aria di superiorità. “Mi spieghi come avrebbe fatto a entrare nella camera? Forse attraverso la toppa? E poi non lo farebbe mai più per tutto l’oro del mondo, cara mia! La saputella è stata curiosa come te, e l’altro ieri sera all’imbrunire si è presa un bello spavento, proprio come ieri il cocchiere!... Vai a vedere, se vuoi, nel salone con la tappezzeria rossa, dove ci sono i vecchi quadri: è stata lei ad andare in giro, quella con il diadema di rubini nei capelli d’ebano! Non trova pace e tutte le sere appare in casa e fa rabbrividire la gente.”
“Bärbe, zia Sophie dice sempre che non devi raccontare queste cose a noi bambini!” Margarete pestò il piedino per terra. “Non vedi che Holdchen ha paura?” In maniera rassicurante da perfetta mammina mise un braccio intorno al fratellino, che aveva ascoltato con gli occhi spalancati e spaventati. “Vieni, piccolo, lo sai che i fantasmi non ci sono - non ci sono affatto! Sono tutte sciocchezze!”
In questo momento zia Sophie uscì nuovamente dall’edificio. Portò il bricco del caffè e insieme ad esso posò un grosso dolce cosparso di granelli di zucchero sul tavolo. “Gretel, sembri un galletto in assetto di combattimento! Cosa c’è questa volta?” domandò, mentre Bärbe guardò bene di allontanarsi.
“C’era qualcuno nel salotto lì in alto,” rispose la piccola in maniera succinta e indicò la finestra incriminata.
Zia Sophie gettò uno sguardo noncurante alla fila di finestre del piano superiore. “Là sopra?” domandò con una breve risata. “Tu sogni ad occhi aperti, bambina mia!”
“No, zia, era una persona in carne ed ossa! Proprio lì dove c’è il tendone rosso, si è diviso in mezzo. Ho visto le dita, lunghe e bianche, che lo hanno aperto, e una fronte circondata da capelli chiari...”
“Uno scherzo del sole, Gretel, nient’altro!” assestò zia Sophie con indifferenza e con il coltello cominciò a tagliare a fette il dolce. “Quello giocherella e si specchia in tutti i colori sui vetri e a volte fa uno strano effetto. Se avessi con me la chiave ti porterei subito con me in quella camera, per farti vedere che non c’è nessuno. Ma la chiave ce l’ha il papà, e lui sta conversando con la nonna, e non li voglio disturbare.”
“Bärbe dice che ha guardato giù la dama dei rubini, quella del ritratto nel salone rosso - lei va in giro per la casa, zia, e vuole farci paura,” si lamentò Reinhold con una vocina piagnucolosa.
“Adesso capisco!” disse zia Sophie. Appoggiò il coltello e guardò di sopra la spalla la vecchia cuoca, che aveva ricominciato a raggomitolare le corde facendo finta di niente. “Come sei buona, Bärbe! Cosa ti ha fatto la povera dama del salone rosso che ne fai uno spauracchio per i suoi pronipoti?”
“Non c’è nessun bisogno dello spauracchio, signorina Sophie!” ribatté Bärbe con ostinazione. “Gretchen non ci crede lo stesso... E’ questo il male oggigiorno! I bambini già da piccoli non vogliono più credere a nulla che non possono toccare con le mani. Ma quando uno non crede più ai fantasmi e alle streghe, alla fine non ha neppure più fede nel nostro Signore - è questa la causa dell’empietà dei nostri giorni, e io ci giurerei!”
“Credi pure quello che vuoi; ma i bambini in futuro li lasci in pace con queste cose, te lo dico una volta per tutte!” intimò zia Sophie con severità. Quindi versò il caffè ai bambini e servì loro una fetta di dolce per ciascuno.



Traduzione: aprile 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.

Edited by Delari - 5/12/2017, 17:46
 
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Grand Pez di Girella

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Aggiungo una vecchia immagine della città di Arnstadt, tanto per rendere l'idea.

Arnstadt è antichissima, la più vecchia città della regione Thüringen: secondo certe fonti esiste sin dall'anno 704. Il più famoso "figlio" della città è J.S. Bach.

Attached Image: Arnstadt

Arnstadt

 
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view post Posted on 6/5/2016, 12:32     +1   +1   -1
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Grand Pez di Girella

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Terzo e ultimo capitolo...

Vi avverto subito che non ho l'intenzione di tradurre tutto, dato che si tratta di venti capitoli! Ma ultimamente, rileggendo il libro ho notato che in fondo i primi tre capitoli anticipano, rispettivamente spiegano già, tutto il resto.

L'intreccio che segue è complicato da capire per i protagonisti, non per il lettore attento: il mistero viene svelato una decina di anni dopo da Margarete e Herbert, ormai divenuti adulti.

Se volete facciamo a gara a chi indovina prima... :wub:


La dama dei rubini

Parte 3

“Devo parlarti un momento, Balduin!” aveva detto la signora consigliere, e da quando il signor Lamprecht aveva l’onore di essere suo genero, le richieste della signora venivano obbedite da lui come ordini. Così anche oggi.
Aveva una ruga di disappunto sulla fronte e sembrava che avesse voluto strangolare con le sue mani il pappagallo viziato che portava davanti a sé nella sua gabbietta e che strideva come se potesse leggere i suoi pensieri; ma la signora consigliere di questo non notava nulla, ancora meno perché dal primo piano venne loro incontro la cameriera, che si fece dare la gabbietta e la riportò al suo posto.
Così la delicata, sottile donnina camminava ignara graziosamente al fianco del genero, e il suo corto strascico di seta scura frusciava finemente sui gradini.
L’appartamento privato del signor Lamprecht si apriva vicino allo scalone e comportava la fine della lunga fila di stanze del piano medio. Dietro a queste stanze, a ridosso del cortile, si trovava il corridoio, anche chiamato salone corridoio dagli abitanti, perché la sua lunghezza e poderosa larghezza era tipica per la spaziosa generosità dei vecchi tempi. Finiva solo dietro all’ultima stanza, il cosiddetto salone rosso, dove faceva una curva intorno all’ala est, che era stata aggiunta all’edificio in un tempo successivo, e si stringeva in un budello stretto e dalla luce fioca dietro alla camera dov’era morta la signora Dorothea; qui alcuni piccoli gradini portavano lateralmente giù verso la casa di imballaggio, e una finestrella in alto lasciava appena entrare un poco di luce diurna.
Nel salone corridoio si trovavano credenze antiquate di bellissimo intaglio, e vicino alla parete sul retro, in mezzo alle porte a due ante di legno scuro che conducevano alle stanze, stavano in fila diverse sedie, i cui sedili e appoggi imbottiti erano ancora foderati dello stesso velluto giallo che uno dei vecchi commercianti aveva a suo tempo portato da un suo viaggio ai Paesi Bassi. Ma anche se gran parte dello sfarzoso antico arredamento degli antenati della famiglia aveva mantenuto il suo posto qui, davanti all’appartamento del padrone di casa il rispetto verso i padri finiva: questo era arredato con il gusto e il lusso della modernità.
Sembrava piuttosto il boudoir di una dama che la stanza di un uomo quella dove il signor Lamprecht fece entrare la suocera. Legno di rosa, tende di seta, acquerelli e una dolce luce rosea che sembrava scaturire da ogni angolo - questo delicato arrangiamento creava uno di quei nidi dove si immagina comodamente raggomitolata una bella e giovane donna! E infatti, questa era stata la stanza della defunta signora Lamprecht.
Uomo di forti passioni, dopo la morte della giovane moglie il signor Lamprecht si era rinchiuso qui per diversi giorni finché gli era passato il dolore più acuto, e dopo non aveva mai lasciato cambiare nulla: la stanza era rimasta un luogo sacro per lui.
“Oh, che grazioso!” disse l’anziana signora rimanendo in piedi davanti alla scrivania, dove aveva appena voluto sedersi. Era davvero carino l’acquerello che si trovava sul medaglione di un portadocumenti - un reticolo diafano di felce, e dietro un pezzo di bosco, il suolo animato da creature e germogli segreti appena visibili. “Un’idea originale, ed eseguita bene!” aggiunse la signora consigliere e prese in aiuto la sua lorgnette per guardare meglio. “Molto carina davvero! Eseguito dalla mano di una dama, Balduin?”
“Può darsi,” egli rispose stringendosi nelle spalle dopo avere gettato uno sguardo di sfuggita al portadocumenti, prima di volgersi a raddrizzare un quadro. “Oggigiorno l’industria si serve volentieri anche dell’aiuto di mani femminili.”
“Allora non è stato disegnato appositamente per te?”
“Per me?”
Il chiodino che aveva il compito di tenere diritto il quadro era caduto al suolo, l’uomo alto e prestante si chinò per raccoglierlo e quando si alzò il sangue gli era un po’ salito alla testa. “Cara madre, forse che Lei non è al corrente di ciò che prima di tutto occupa le nostre vite al giorno d’oggi - l’egoismo - e pensa davvero che qualcuno farebbe davvero un lavoro così difficoltoso senza aspettarsi nulla in cambio?”
Mentre diceva così le volgeva ancora le spalle, intento a spingere il chiodo al suo posto nel muro. Dopodiché rivolse nuovamente il volto all’anziana signora, e un sorriso amaro e beffardo gli guizzò intorno alla bocca. “Consideriamo tutte le belle mani femminili di nostra conoscenza, e mi dica quali si cimenterebbero in un lavoro artistico, che richiede tanta pazienza, per un uomo che - non è più libero!”
“In questo hai ragione,” essa sorrise adottando il tono di voce che si adopera per ammettere qualcosa di inoppugnabile. “Lo sa tutta la città che la nostra povera, cara Fanny ha preso il tuo giuramento di eterna fedeltà con sé nella tomba. Solo l’altra sera se ne parlava a corte. La duchessa parlava del tempo quando la mia povera figliastra era ancora viva, invidiata da molte, e il duca ha detto che non si dovrebbe tanto enfatizzare tanto i ‘bei vecchi tempi’ a contrasto delle consuetudini odierne; dacché lo stimato e per la sua severità quasi temuto signor Justus Lamprecht da giovane aveva spezzato il suo giuramento di eterna fedeltà in maniera eclatante, mentre il suo pronipote lo mortifica con la sua nobile saldezza d’animo.”
Il signor Lamprecht era scomparso dietro al tendone rosso. Aveva appoggiato le mani sul davanzale e guardava, oltre la fontana della piazza del mercato, la viuzza che si apriva dall’altro lato.
“Allora, Balduin!” esclamò la signora consigliere e lo cercò con gli occhi, dato che dall’angolo della finestra non veniva alcuna risposta. “Non sei contento che a corte abbiano una così buona opinione di te?”
Il fruscio delle tende laterali nascose il sospiro che tremava sulle labbra dell’uomo mentre tornò a volgersi all’interno della stanza. “Il signor duca sembra ammirare questa qualità più in un altro che in se stesso - lui si è risposato.”
“Suvvia, Balduin, che modo di parlare!” si agitò l’anziana signora. “Come puoi permetterti di parlare così? Si tratta di un caso assolutamente diverso! La prima duchessa era malaticcia...”
“Per favore, madre, non c’è motivo di accaldarsi! Non parliamone più.”
“E va bene!” ella annuì. “Hai ragione, nel tuo caso non si può parlare di tentazioni. Dopo il tuo matrimonio con Fanny è perfettamente comprensibile che non potresti neppure di sfuggita considerare un legame con un’altra. La duchessa Friederike invece...”
“Era brutta e scorbutica.” Il signor Lamprecht gettò lì questa frase nel tentativo di trattenere la conversazione su un terreno neutro.
Ella scosse ancora il capo con disapprovazione. “Non oserei mai parlare così - in ogni caso la nobiltà abbellisce qualsiasi persona. E inoltre c’è una grandissima differenza; il duca non era legato da nessuna promessa, era perfettamente libero e autorizzato a risposarsi.”
Con queste parole, essa tornò ad appoggiarsi allo schienale della sua poltrona. “Non puoi giudicare cose come queste, caro Balduin. Fanny è stata il tuo primo e unico amore, e noi ti abbiamo dato la nostra figlia con gioia. Quando ti sei fidanzato con lei i tuoi genitori erano orgogliosi di te, perché con il tuo sentimento avevi rivolto il tuo sguardo in alto e non, come lo fanno molti giovani immaturi e confusi, su un livello più basso.” Con un profondo sospiro essa si interruppe, lo sguardo fisso dinanzi a sé con rammarico. “Dio lo sa che in ogni momento sono stata una madre protettiva e ligia al dovere, non meno dei tuoi genitori: eppure il mio proprio figlio si lascia distrarre - negli ultimi tempi Herbert mi causa delle preoccupazioni indescrivibili!”
“Il rampollo esemplare, madre?” Il signor Lamprecht la guardò di sopra la spalla con una risatina di scherno.
La signora consigliere si schiarì la voce e raddrizzò la sua figurina con aria piccata. “Lo è ancora, sotto molti aspetti. Ha una gran meta davanti...”
“Lo so, l’ho già detto mentre eravamo in cortile. Salirà e salirà, finché si troverà sotto ai piedi tutto gli altri arrivisti e non avrà più nessuno sopra di sé che non il personaggio più alto dello Stato.”
“Lo biasimi forse?”
“Affatto, se ne ha davvero le capacità. Ma al giorno d’oggi tanti gettano via le loro vere convinzioni e si mettono a fingere e lusingare, con il risultato che molti subalterni leccapiedi di intelligenza media diventano persone di grande autorità.”
“Che modo di bollare l’abnegazione più leale della propria persona!” protestò l’anziana signora. “Chiedi a te stesso se avresti la sfacciataggine di opporti a una direzione imposta da un’autorità superiore alla tua! Lo so bene che nessuno accoglie più volentieri di te gli inviti dei più nobili personaggi, e non ricordo di averti mai sentito esprimere la minima opposizione ai loro punti di vista.”
Questa osservazione tagliente ma veritiera venne accolta dal signor Lamprecht in perfetto silenzio. Con tedio apparente guardò il paesaggio dipinto sul quadro dinanzi a lui e chiese, dopo una breve pausa: “Cos’è che ha da rimproverare a Herbert?”
“Sta amoreggiando in maniera indegna!” sbottò l’anziana signora. “Se non mi ripugnasse tanto la volgarità direi che per me quella Blanka Lenz può andarsene a quel paese... Ieri un colpo di vento mi ha fatto cadere davanti un foglio di carta che gli deve essere caduto dal quaderno; conteneva un fervido sonetto ‘Dedicato a Blanka’... ero fuori di me!”
Il signor Lamprecht era ancora al suo posto davanti al quadro, ma un movimento era entrato in lui - come aveva fatto poco prima nel cortile agitò su e giù la mano lentamente, come se stesse ancora brandendo la frusta da cavallo.
“Bah, quello sbarbatello!” Allungò la sua figura e girandosi con un movimento allo stesso tempo militare e aggraziato si voltò a guardare nello specchio di fronte alla finestra, che raggiungeva il soffitto e gli mostrava un viso leggermente arrossato su cui si dipingeva un sorriso beffardo.
“Lo sbarbatello fa parte di una casa molto distinta, non te lo dimenticare!” rispose sua suocera sollevando l’indice in cenno di ammonimento.
Il signor Lamprecht si fece scappare una risata dura. “Mi perdoni, madre, ma per quanto mi impegni non riesco a immaginare il nostro signorino, ancora senza barba e con i libri di scuola sottobraccio, nel ruolo di un uomo pericoloso e seducente, per quanto brilli l’aureola della sua appartenenza a questo tetto patrizio!”
“Questo devono essere le donne a deciderlo,” brontolò la signora consigliere. “Ho tutte le ragioni per sospettare che Herbert di sera tardi vada a passeggiare sotto al loggiato di legno, il balcone di quella Giulietta...”
“Lui avrebbe l’ardire...?” si inalberò il signor Lamprecht tutt’a un tratto. La rabbia sfigurò i suoi lineamenti al punto da renderlo quasi irriconoscibile.
“Parli di ‘ardire’ riguardo a questa figlia di pittore? Sei impazzito, Balduin?” si inalberò l’anziana signora e si alzò sui suoi piedini con un improvviso scatto quasi giovanile.
Il genero non sopportò il fiume di parole eccitate che seguì e si ritirò dietro al tendone, dove tambureggiò con impazienza sui vetri della finestra.
Lo sguardo al di fuori della stanza sembrava averlo calmato. Smise con il tambureggiamento e guardò di lato la piccola signora. “Come faccio a non arrabbiarmi se quello scolaretto perde tempo con gli appuntamenti romantici! Bah, madre, non ci agitiamo!” Fece spallucce con un gesto beffardo. “Mi sembra una stupida ragazzata! Non sarà tanto difficile tenere sotto controllo un giovanetto immaturo che dovrebbe or ora essere immerso fin sopra i capelli nelle lezioni di greco e latino.”
“Allora vedi che siamo della stessa opinione, anche se non mi piace come parli di lui,” ella esclamò visibilmente sollevata. “E’ appunto per questo che volevo parlarti... Non mi preoccupo del futuro di Herbert per via di questa fiamma di gioventù, sono sicura che non oserebbe mai dimenticare cosa deve alla sua famiglia.”
“Al punto di voler sposare la figlia di un pittore di porcellane? Buon Dio! Sua Eccellenza, il nostro futuro ministro!” scoppiò a ridere il signor Lamprecht.
“Oggi ti sembra piacere più del solito ridere della carriera di Herbert - ma non ti illudere, arriverà tutto come deve! Tutto ciò che ho in mente, adesso, sono i suoi esami. E’ nostro dovere allontanare tutto quello che potrebbe distrarlo, a cominciare dalla ragazza che vive nella casa di imballaggio.”
Mentre ascoltava le sue parole il genero si era allontanato da lei e aveva fatto qualche passo su e giù; quindi prese da uno scaffale un libriccino di miniature, lo aprì e sembrò approfondirsi nella lettura.
L’anziana signora ora fremeva dall’irritazione. Ancora un attimo fa il genero le era sembrato quasi una furia, senza motivo apparente, e adesso dimostrava una indifferenza provocatoria. Ma era decisa a continuare a parlare, finché non avrebbe raggiunto la sua meta.
“Non capisco che cosa ci faccia qui tanto a lungo, la ragazza,” si infervorò. “All’inizio avevo sentito che stava per tornare in Inghilterra e doveva solo passare qualche settimana con i genitori per ricrearsi un po’. Ma intanto sono passate sei settimane, e per quanto io guardi e ascolti, non noto il minimo segno di partenza... La ragazza gode del dolce far niente. Legge, canticchia, danza, si infila fiori nei capelli... e la madre la guarda, estatica, e tutti i giorni sta tutta sudata sul loggiato, a stirare i vestitini chiari e leggeri della sua principessina, affinché questa abbia sempre un aspetto civettuolo e seducente... E questo è il fuoco fatuo intorno a cui si aggirano i pensieri del mio povero figlio! La ragazza deve andarsene, Balduin!”
Il padrone di casa faceva sfrusciare le pagine del libro con noncuranza. “Devo forse dire ai genitori che la mettano in un convento?”
“Per favore, non c’è niente da scherzare! La cosa è seria. Non m’importa dove vada, dico solo che deve lasciare questa casa!”
“La casa di chi, madre? Per quanto ne so qui ci troviamo nella casa Lamprecht e non nel feudo di mio suocero. Inoltre la famiglia Lenz abita dall’altro lato del cortile.”
“E’ appunto questo che non capisco!” ella esclamò, ignorando il tentativo del genero di ricordarle la sua autorità casalinga. “Non ricordo che nessuno abbia mai abitato nella casa di imballaggio.”
“Invece adesso è abitata, madre,” rispose l’uomo appoggiando il libro sul tavolo con noncuranza.
“Purtroppo, ed è stata anche messa in sesto per quella gente. Tu vizi troppo i tuoi operai.”
“Quell’uomo non è un operaio come tutti gli altri.”
“Ma se dipinge tazze da caffè e caminetti di pipa! Non vedo nessun motivo per cui proprio lui debba avere il privilegio di vivere nella casa del suo principale, come se a Dambach non ci fosse abbastanza spazio!”
“Quando ho ingaggiato il signor Lenz un anno fa mi ha chiesto di poter abitare in città. Sua moglie soffre di un male che a volte rende necessaria l’assistenza immediata di un medico.”
“E’ così allora!” L’anziana signora tacque per un momento, ma quindi riprese, dopo una breve riflessione: “Contro questo non si può dire nulla - sarei già contenta se non dovessimo più sentire la voce della piccola civettuola nel cortile mentre canta, e vederla passeggiare sul loggiato. Gli appartamenti in affitto in città non mancano.”
“Insomma dovrei buttare fuori lui e la sua famiglia dalla loro casa sui due piedi, solo perché ha la sfortuna di avere una figlia bella?” Gli occhi dell’uomo lampeggiarono in direzione della suocera e una fiamma oscura cominciò a brillare in essi. “Non ha pensato che tutta la famiglia e anche chi appartiene alla fabbrica penserebbe che ha fatto qualcosa di male? Come potrei fargli un simile affronto? Non ci pensi neppure, madre!”
“Ma santo cielo, bisogna fare qualcosa! Non si può continuare così!” ella esclamò, ormai quasi disperata. “Non mi rimane altro che andare io stessa da quella gente e convincerli a far partire la figlia. E se devo sacrificare una somma di denaro per questo, non mi dispiacerà.”
La voce del signor Lamprecht doveva essere atona, ma sembrava pervasa da uno spavento segreto. “Vuole rendersi ridicola? E non pensa alla mia reputazione come principale, come soffrirebbe da un gesto così? Forse che la gente dovrebbe pensare che il loro benessere dipenda dai nostri affari privati? Non posso permetterlo.”
“Per favore, figlio mio, non eccitarti per una cosa da nulla!” irruppe la signora consigliere freddamente e con un gesto elegante della mano. “Non è nient’altro che un capriccio, il tuo; un’altra volta il destino e l’alloggio del pittore Lenz e della sua famiglia non t’importeranno per niente. Nel frattempo dovrò rimanere attenta ogni ora e non troverò riposo.”
“Non si preoccupi per questo, madre! In me vede il Suo miglior alleato!” egli rispose con una risatina sardonica. “Vedrò di porre fine ai turgidi sonetti e le passeggiate serali - su questo Le dò la mia parola!”
In quel momento da fuori si sentì qualcuno aprire con foga la porta del corridoio, e dei piccoli passettini che si avvicinavano.
“Possiamo entrare, papà?” domandò la vocetta di Margarete, mentre le sue piccole mani bussavano energicamente.
Il signor Lamprecht aprì la porta e lasciò entrare i suoi due figli. “Allora, cosa c’è? I dolcetti di Dietendorf ve li siete già pappati tutti ieri, golosoni, e la bomboniera è vuota...”
“No, papà, non è per quello! Oggi abbiamo mangiato un dolce insieme al caffè!” rispose la bambina. “E’ che zia Sophie vuole avere la chiave - la chiave della camera in fondo al corridoio buio, che sta sempre chiusa.”
“E da dove ha guardato giù la signora del salone rosso poco fa...” aggiunse il fratellino.
“Cos’è ancora questa sciocca storia della dama del salone rosso?” domandò loro il padre con voce burbera.
“E’ quello che dice Bärbe, papà! Lo sai che è tanto superstiziosa,” rispose Margarete.
Quindi raccontò di quello che aveva visto alla finestra, del disegno di fiori sul tendone rosso della camera, che tutt’a un tratto si era separato in mezzo e che si erano vedute delle dita bianche e anche una fronte con dei capelli chiari, e zia Sophie diceva che non poteva essere, che era stato il riflesso del sole. Il signor Lamprecht raccolse il libro di miniature dal tavolo per rimetterlo al suo posto sullo scaffale.
“Certo che è stato il sole, sciocchina! Zia Sophie ha ragione,” rispose dopo aver riposto il libriccino con esattezza ed essersi girato. “Pensaci un po’, bambina!” le fece considerare e appoggiò l’indice contro la fronte. “Sei salita per farti dare la chiave della camera chiusa, e infatti ce l’ho - si trova lì, nell’armadietto delle chiavi. Come dovrebbe entrarci una persona fatta di carne ed ossa in quella camera, forse attraverso gli spiragli della porta?”
La bambina guardò il padre e ci pensò; ma non sembrava molto convinta. E così gli argomenti del padre non risultarono in altro che in una seria risposta: “Puoi credermi, papà, sono sicura che si è trattato della cameriera della nonna!”
Il signor Lamprecht scoppiò a ridere, e la signora consigliere non poté trattenersi dal ridere un po’ anche lei, nonostante non le fosse ancora passata l’agitazione.
“La mia Emma? Cielo, che idee ti frullano in testa, Grete! Lo sai che,” con queste parole ella si rivolse ammiccando al genero, “gli inservienti di casa vogliono ricominciare a farci paura per via di quella vecchia leggenda? Tutti pretendono di aver visto qualcosa, e non solo ombre e nubi di ragnatele - Emma per esempio mi ha giurato tremando e battendo i denti di aver visto sgattaiolare qualcosa di trasparente, e che dai veli per un momento è uscito un braccio tutto bianco e rotondo!” All’improvviso l’anziana signora appoggiò le mani intrecciate al petto. “Spero solo che non si tratti di un complotto tra Herbert e certe persone - il solo pensiero mi fa ribollire il sangue!”
“Poffare, questa sarebbe bella!” rispose il signor Lamprecht. “Allora sì che ci toccherebbe stare sempre in guardia... Ma a dire il vero sono stufo di queste sempiterne chiacchiere tra i nostri domestici, ne va del buon nome della casa! E’ sempre stato un errore non utilizzare l’ala est della casa; è proprio quello che alimenta la vecchia storia dei fantasmi. Ma io vi porrò fine - avrei voglia di invitare ad abitarci qualche famiglia di torcitore di porcellana da Dambach; ma la gente dovrebbe entrare e uscire passando dal salone corridoio, davanti alle mie porte, e tutto quell’andirivieni non mi andrebbe. Allora andrò io ad abitare di quando in quando, nella vecchia camera della signora Dorothea.”
“Questa sì che sarebbe una soluzione drastica!” sorrise la signora consigliere.
“E farò anche approntare una porta con un chiavistello per chiudere il salone corridoio dal corridoio piccolo - così quei conigli che vengono qui sopra a lavorare non avrebbero più modo di sbirciare intorno all’angolo e deliziarsi delle loro paure finché cominciano a vederli davvero, i fantasmi... Ci penserò!”
Mise la mano nella bomboniera che si trovava sul tavolo. “Guarda un po’, si sono ancora smarrite un paio di caramelle qui dentro!” disse e riempì di dolciumi le manine dei bambini. “E adesso per favore tornatevene giù - il papà ha un sacco di lavoro da fare.”
“E la chiave, papà, te ne sei dimenticato?” domandò la piccola Margarete. “Zia Sophie ha detto che vuole salire e aprire le finestre. Dice che non pioverà e che l’aria notturna spazzerà bene la camera, e domani vuole far pulire i pavimenti e i mobili.”
Il signor Lamprecht si arrossò leggermente in viso. “Basta con questa pulizia eccessiva!” esplose. “Qualche giorno fa il salone corridoio era tutto allagato. Dille che se lo scordi! Va’ giù, Gretchen, e dì alla zia che c’è tempo, e che verrò a parlarle io stesso per le modifiche.”
I bambini se ne andarono saltellando, mentre la signora consigliere si accommiatò e uscì dalla stanza con passetti ben misurati.
Lamprecht rimase in piedi nel mezzo della stanza. Fuori la porta si chiuse, e l’uomo aspettò finché si spense l’ultimo suono di passi sulle scale. Quindi si avvicinò in fretta alla scrivania, aprì il portadocumenti, con una mano accarezzò lievemente l’acquerello e lo rinchiuse in uno dei tiretti prima di uscire.

La stanza era abbandonata, e con l’imbrunire i mobili e la tappezzeria si colorarono di rosso pallido. Ma mentre la luce si estingueva, il ritratto della signora Fanny sembrò animarsi in maniera strana, come diventasse vivo e in un attimo la donna potesse afferrare lo strascico del suo abito color argento e appoggiare i piedi sul tappeto per seguire l’uomo a passi silenziosi, con gli occhi fiammeggianti... proprio come la defunta signora Judith...



Traduzione: maggio 2016
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Edited by Delari - 5/12/2017, 17:49
 
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Questa storiella la dedico a Shooting Star, che mi ha fatto tanto ridere con le sue FF su EcoRobot Grendizer :asd:
Buon divertimento (spero)...


L’alimentazione biologica
Scenetta matrimoniale


Personaggi: marito e moglie. E’ sabato, lui è appena tornato dalla spesa; lei ispeziona il contenuto dei sacchetti.

Lei: Ma cos’è questa roba - pizza surgelata, salsa per insalata in bottiglia di plastica, affettato preconfezionato? Tutte le volte che vai a fare la spesa abbiamo il frigo zeppo di confezioni di plastica e cibi precotti. Fanno male alla salute! Guarda un po’ il salame - sai che cosa contiene? (Legge la lista ingredienti.) Salmistratura al nitrito! Insaporitore! Stabilizzatori, acidificanti, antiossidanti, conservanti, coloranti. Perché compri sempre queste schifezze - vuoi forse avvelenarci?
Lui: Non sono schifezze, sono il massimo della praticità. E costano molto meno della roba che compri tu al supermercato biologico. Tutte le volte che porti il nostro denaro in quel negozio mi viene voglia di piangere - ho la sensazione che i nostri risparmi scompaiano lentamente in una specie di pozzo senza fondo. E scommetto che i gestori si sfregano le mani tutte le volte che ti vedono arrivare con il tuo sacchettino di iuta.
Lei: Ma non capisci? Si tratta della nostra salute! Non deve dipendere dal prezzo. Io faccio di tutto per preservarti da allergie, cancro all’intestino e anche peggio! Ma tu sei contrario a tutti gli alimenti che fanno bene già per principio.
Lui: Questa è un’insinuazione! Al contrario, io sono molto tollerante quando si tratta di alimentazione. E se proprio lo vuoi qualche volta possiamo anche mangiare sano, per me non è un problema! Te lo provo subito. Adesso vado al supermercato biologico e investo il nostro fondo pensione in acqua minerale imbottigliata con la luna piena e sale rosa Himalayano biologico-dinamico, solo per renderti felice. Guarda qua! (Agita il sacchetto di iuta davanti al naso della moglie.) Per provartelo, vado a fare la spesa con questo stupido sacchetto di stoffa.
Lei: Allora buon divertimento. Sei sicuro di volerci andare da solo?
Lui annuisce, ormai deciso a tutto. Fa un fascio del sacchetto di iuta, lo infila nella tasca della giacca ed esce di casa. Dopo circa dieci minuti chiama la moglie con il cellulare.
Lui: Sono io. Stavo pensando che potremmo fare il pane in casa domani, e volevo comprare la farina. Ma ci sono tanti tipi di cereali da far girare la testa! Dunque, qui vedo Ai Tre Cereali, Integrale, Chicchi Multipli, Integrale al Farro, Segale Integrale al Farro, Germe di Farro, Farro Chiaro, Segale, Saggina, Seme di Zucca, Kamut... Cosa diavolo è il Kamut?
Lei: Prendi una farina integrale al farro, è la migliore.
Lui: Va bene, a dopo.
Suona ancora.
Lui: Ancora io. Alcuni tipi di farina sono senza glutine - cosa significa, fanno bene o male?
Lei: Dipende. Fanno meglio alla digestione, ma la forma del pane non viene tanto bene. Decidi tu cosa preferisci. C’è qualcos’altro?
Lui: No, no. Ho la soluzione perfettamente sotto controllo. Ti viene in mente qualche altra cosa che manca in casa?
Lei: I dadi da brodo sono finiti.
Dopo alcuni minuti suona un'altra volta il telefono.
Lui: Credo che mi vogliano prendere per il c…! Su questo pacchetto di brodino sta scritto „vegetariano“, e su quest’altro „vegano“. Non è meglio se prendo quello a base di manzo? Almeno so che cosa contiene.
Lei: No, per piacere! Prendi quello vegano che è meglio.
Il telefono.
Lui: Sono arrivato allo scaffale della pasta. Ce n’è anche senza lattosio. Da quando in qua la pasta si fa con il latte?
Lei: La pasta non è a base di latte.
Lui: Se non può contenere lattosio non dovrebbe esserci scritto „senza lattosio“ sulla confezione. Allora, perché c’è lo stesso?
Lei: Probabilmente perché le persone intolleranti al lattosio possano essere sicure che quello che mangiano non ne contenga.
Lui: Ma non fa senso!! Allora perché non c'è scritto sopra anche che la pasta non contiene alcool?
Lei: Buona idea, domandalo alla commessa. E visto che ci sei, per favore porta anche un pezzo di formaggio.
Il telefono.
Lui: Come fai a sopportare questo posto non lo so. E‘ da dieci minuti che aspetto in coda davanti al banco formaggi mentre il commesso prepara un panino per un cliente: un pezzetto di cetriolo qui, un po’ di pepe appena macinato là… E il bello è che a quanto pare sono l’unico che se ne frega.
Lei: Si chiama servizio, caro mio. In un negozio come quello i commessi si prendono tempo per i clienti.
Lui: Ma io divento matto! Quest’uomo si muove al rallentatore! Come si fa a lavorare così sul mercato libero? Spero solo che non ci voglia altrettanto tempo alla cassa. - Ah, finalmente, è il mio turno. Ti richiamo dopo.
Suona un’altra volta il telefono.
Lui: Volevo comprare un formaggio! Un semplicissimo stramaledetto formaggio! E questo tizio mi chiede se voglio un formaggio a base di latte di capra o di mucca o senza lattosio. E ora che gli dico?
Lei: Caaaalma. Prendi un formaggio olandese senza lattosio.
Suona ancora una volta.
Lei: La Sua consulenza acquisti personale, cosa posso fare per Lei?
Dall’altra parte questa volta si sente una voce sconosciuta; è quella di una commessa del supermercato biologico. Mi scusi, è Lei la moglie di questo strano tipo?
Lei: Ma cosa è successo?
Commessa: Il collega del banco formaggi gli ha chiesto se soffre di intolleranza ai latticini, e allora lui gli ha gettato in testa un pezzo di Bel Paese. Quindi si è messo a chiedere tutte le commesse se i nostri spaghetti davvero non contengono alcolici. Dopo ha disposto i diversi tipi di farina in ordine alfabetico secondo il tipo di cereali. Alla cassa ha detto che è stufo di aspettare e ha cominciato a ballare intorno a una cassetta di acqua minerale - quella imbottigliata alla luce di luna piena.
Lei: Ha ballato…?
Commessa: Sissignora. Dopo si è fatto largo nello scompartimento verdure e ha minacciato una cliente con un cetriolo, ma alla vista dell’assortimento di erbe fresche si è messo a piangere. E quando ha scoperto le creme spalmabili senza ingredienti animali gli è venuto un travaso. Ci faccia un piacere e lo venga a prendere - non fa una buona impressione con gli altri clienti, se capisce cosa intendo.
Nel sottofondo si sente lui che canticchia.
Lui: Evviva la vita tutta salute!! Biscottini al farro… infuso alle 6 erbe… latte di vacche cornute… trallallero trallallaaaà!



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„Voglio solo aiutarvi!“
Scenetta familiare


Fino a poco fa, la famiglia, che abita in una bella casa in periferia di una grande città, era separata dai nonni paterni da una distanza di 300 chilometri. 300 bei chilometri che rendevano impossibili offerte di baby-sitting e visite a sorpresa, e che limitavano le visite a poche volte l’anno. Sempre abbastanza, però, per portare al limite della sopportazione il sistema nervoso della nuora causa la ben nota consuetudine della suocera di intromettersi dovunque.
Comunque i 300 chilometri aiutavano molto a tenere a freno la tensione, e rendevano più facile accorciare le telefonate: „Devo andare a prendere i bambini da scuola… Ho un appuntamento con il medico tra mezz’ora… Tra poco ho una videoconferenza in ufficio - grazie per la tua comprensione…“
Fino alla sera in cui il marito, mentre i coniugi si stavano rilassando insieme sul divano, disse: „Mia madre va in pensione il mese prossimo.“
„Mmhhm,“ disse la moglie mentre sorseggiava beatamente un po’ di vino.
„E i miei genitori adesso vogliono andare a vivere altrove, come hanno sempre detto.“
„Mmmhhm,“ disse la moglie, pensando all’estero.
„Hanno preso una decisione.“
„Mmmhm?“
„Traslocheranno in casa nostra.“
Alla moglie cadde di mano il bicchiere.
„E’ solo per un breve periodo,“ si affrettò ad ammansirla il marito mentre raccoglieva il bicchiere. La donna boccheggiava e lottava con sé stessa per non perdere le staffe. „Solo finché avranno trovato un appartamento nel vicinato.“
Questo era troppo.
„Neanche... per... sogno!“ ansimò.
„Ma,“ disse il marito tenendosi accuratamente fuori tiro, „ho già dato la conferma.“
(La scena seguente non è descritta in dettaglio per non urtare la sensibilità dei lettori. Arriviamo direttamente alle frasi finali.)
Lei: „Ma come hai potuto?!“
Lui: „Come facevo a dire di no? Sono sempre i miei genitori!“

I nonni arrivano un mese dopo. La nuora li accoglie con diversi ritagli di giornale: “Per evitarvi la fatica ho già cominciato a cercare negli annunci immobiliari,“ dice con un sorriso teso.
La nonna solleva un sopracciglio, sfoglia gli annunci e quindi solleva anche l’altro: „E’ tutto troppo lontano! Vogliamo starvi vicini, adesso che possiamo. Così potremo anche aiutarvi con i bambini.“
„I bambini hanno già dieci e dodici anni.“
„Appunto, è proprio ora,“ dice la nonna accarezzando i capelli dei nipoti. La nuora getta uno sguardo al marito. Lui tiene lo sguardo fisso sul capanno attrezzi, che avrebbe urgente bisogno di essere ridipinto.
Quando la madre torna dal lavoro il giorno dopo, incontra i figli in strada insieme al nonno. I bambini hanno nuovi skateboard. Proprio quelli che volevano guadagnarsi risparmiando da ormai sei mesi, guadagnandosi i soldini con dei piccoli lavoretti, per contribuire con metà all’esageratissimo prezzo. I genitori desideravano che imparassero a conoscere il valore del denaro, per non finire indebitati causa consumo di articoli di lusso prima di avere raggiunto i trent’anni.
„Li desideravano tanto,“ spiega il nonno, „e noi li abbiamo visti così poco finora. Allora abbiamo deciso di fargli una bella sorpresa.“ La nuora si trattiene a fatica. Lui la guarda senza lontanamente capire che problema possa avere.
Quindi lei gli chiede dove si trova la suocera. “E’ dentro - ti aiuta con le pulizie.“
La nuora si precipita in casa.
La suocera non si vede da nessuna parte. In cambio si vede benissimo il candelabro d’argento, lucidato fino a splendere. La nuora non lo aveva pulito per anni affinché assumesse una bella patina antica.
In cucina tutti gli armadi sono aperti e umidi, pentole, padelle, piatti e bicchieri si trovano tutti sulla credenza o sul pavimento. Anche il delicatissimo e amatissimo tavolino da salotto, che si macchia già quando gli si siede accanto una persona che ha una pronuncia umida, è bagnato perché strofinato di fresco.
La nuora digrigna i denti. In quella sente un rumore venire dalla stanza da letto. La loro stanza da letto.
Corre al piano di sopra. Tutti, proprio tutti gli indumenti si trovano sul letto, sgualciti a più non posso. Davanti all’armadio, in ginocchio, si trova la suocera, intenta a pulire l’ultimo angolino. La nuora è troppo allibita per parlare. La suocera no.
„Eccoti finalmente! Poveretta, ho subito guardato dove ti posso aiutare in casa. Santo cielo, questi armadi non sono stati puliti da un secolo! Non mi stupisce, con tutte le vostre obbligazioni. Ma come avete fatto finora?“
„Piuttosto bene,“ borbotta la nuora. Chiude gli occhi e tenta di ricordarsi quello che aveva imparato al corso di preparazione al parto: concentrarsi, inspirare ed esalare tensione, dolore e rabbia con il respiro. Inspirare. Profondamente. Espirare. Lentamente.
Durante il travaglio, la tecnica aveva funzionato. Adesso non funziona più.
Questa volta, la nuora boccheggia. Quindi esclama, con voce sempre più alta (e bisogna dire, verso la fine leggermente isterica): „Perché devi mettere le mani dappertutto? E soprattutto, perché frughi perfino NEL NOSTRO ARMADIO?!“
La suocera sembra sentirsi colta sul fatto, ma solo per un attimo: „Ma veramente, per chi credi che lo faccia? Non è mica curiosità la mia!“ Quindi getta il panno da pulire per terra con indignazione e abbandona la stanza da letto facendosi varco tra il letto e la nuora.
Prima di uscire, si gira ancora una volta verso di lei e proclama, con un tremito delle labbra: „Volevo solo aiutarvi!“

Quella sera stessa i nonni si sono trasferiti in albergo („Lo capiamo benissimo quando non siamo desiderati.“) Il marito cerca di fare da mediatore tra la moglie e i genitori.
Alla moglie: „Mia madre aveva le migliori intenzioni.“
La moglie dà dell’ingenuo al marito e gli chiede come mai non si accorge che sua madre vuole immischiarsi dappertutto e se necessario calpesta la sfera privata e perfino intima della famiglia.
Alla madre: „Non intendeva quello che ha detto.“ Invece sì, dice sua madre, la nuora intendeva ogni parola così come l’ha detta. Non ha mai potuto soffrire i suoceri. Forse che lui non se ne è mai accorto?
Mentre il marito telefona con sua madre, la moglie infuriata riordina gli abiti nell’armadio, ripone le stoviglie in cucina e tenta di salvare il tavolino da salotto. Il suo umore non migliora, e neppure il suo raffreddore. A mezzanotte è a letto con la febbre.
La mattina dopo non può alzarsi perché trema tutta. Suo marito non può restare per curarla, ha una conferenza importantissima in ufficio, annunciata già da mesi.
La nuora si gira e rigira nel letto e si sente malissimo. Si stanca solo al pensiero di dover rimuovere la coperta. In quella sente il campanello. Dopo qualche minuto una chiave si rigira nella toppa. Passi sulla scala, quindi la porta della stanza da letto si apre piano.
„Sei tu?“ sussurra la nuora.
La suocera entra sommessamente. „Scusa il disturbo,“ dice con molta formalità. „Mio figlio si è preoccupato e mi ha chiesto di venire a darti un’occhiata.“
La nuora non ha più le forze per arrabbiarsi. La suocera la guarda e vede che sta molto male. „Ti preparo un po’ di minestra,“ dice. „E se permetti, ti porto una camicia da notte fresca.“
La nuora riflette, poi mormora: „Be’, ormai lo sai dove stanno le cose.“

Due settimane dopo i nonni hanno trovato un appartamento molto grazioso. „E’ in centro,” dice la suocera, “così siamo più vicini agli avvenimenti culturali.” Per venire a trovare i nipoti adesso ci vogliono venti minuti di treno.
Abbastanza lontano.
E anche abbastanza vicino.



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Dato che pian piano si avvicina la stagione delle vacanze... :innocent.gif:


Piccolo traffico di confine (parte 1)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


L'antefatto

Berlino, fine luglio 1937
Karl, il mio amico pittore, mi ha scritto da Londra per chiedermi se a metà agosto sarei interessato a incontrarlo a Salisburgo. E’ stato invitato dalla direzione del Festival, giacché intendono ingaggiarlo come scenografo per l’anno prossimo. Intanto vogliono dare un’occhiata a lui mentre lui dà un’occhiata a qualche scenografia attuale. Gli hanno offerto due biglietti per una sfilza di rappresentazioni. Ci andrò! E’ un pezzo che non vado a teatro.
Prima devo fare una richiesta di valuta estera. Salisburgo si trova in Austria, quindi devo attraversare il confine; e chi al giorno d’oggi attraversa il confine può portare con sé al massimo 10,- marchi se non ottiene un’autorizzazione speciale. La mia logica matematica mi ha spiegato senza ombra di dubbio che in questo caso, calcolando che vi starò per un mese cioè 30 giorni, potrò spendere solo 33,3333 centesimi ogni giorno; ancora più esattamente, si tratta di 33,3333333 centesimi!
Quel che è troppo, è troppo (poco). Devo assolutamente spedire una richiesta per una somma più alta; la detterò oggi stesso alla mia segretaria.

Berlino, metà agosto
Karl si trova già a Salisburgo da giorni, e impaziente com’è mi ha già inviato un dispaccio. Vuole sapere perché non l'ho ancora raggiunto e quando penso di arrivare.
Ho telefonato all’ufficio valute estere e ho domandato se posso contare su una risposta alla mia richiesta in tempo prevedibile; umilmente ho scusato la mia curiosità accampando il fatto che il Festival di Salisburgo finisce il 1° settembre secondo il programma.
Il funzionario pubblico non mi ha offerto molte speranze. Le richieste si accatastano negli uffici, mi ha spiegato, e certamente capirò che vi sono occasioni ben più importanti di un viaggio di piacere. I permessi dell’Esercito e dell’Ufficio Passaporti li ho ottenuti: posso passare quattro settimane in Austria. Ma che faccio, se posso spendere solo dieci marchi?!

Berlino, 19° agosto
Karl mi sta bombardando di dispacci. Mi chiede telegraficamente se penso forse che il Festival sarà prolungato per fare piacere a me, e ha detto che è pronto a parlamentare con Toscanini per la prolungazione: devo solo informarlo se ho intenzione di arrivare a dicembre o magari già a novembre.
E ora? Dall’ufficio valute estere ancora non ho ottenuto risposta, e non me la sento di telefonare un'altra volta. Gli impiegati hanno certamente altre cose per la testa che le mie vacanze.
L’amico Erich mi ha dato un consiglio niente male: alla fine ho telefonato con l’hotel Axelmannstein a Bad Reichenhall e ho prenotato una camera con bagno. Conosco l’hotel da altri viaggi nella regione, ed è molto comodo: campo da golf, piscina, campi da tennis, tutto incluso.
La mia segretaria si occupa del mio biglietto per il treno con cuccetta. Le ho anche detto di tenere d'occhio la risposta dell’ufficio valute estere. Stasera si parte!


Il piano

In cuccetta per Bad Reichenhall, 19° agosto
Mi sto divertendo un mondo e sorrido maliziosamente. Il treno sta attraversando la Franconia di gran carriera. Sono a letto, mi scolo una mezza bottiglia di vino rosso, fumo e mi pregusto la faccia di Karl quando arriverò domani.
Non sarà granché più intelligente di quella del vecchio consigliere di giustizia Schreinert, che ho incontrato alla stazione di Anhalt.
“Buon giorno, dottore,” mi ha chiamato quando mi ha visto, “dove viaggia di bello?”
“A Salisburgo,” ho risposto.
“Salisburgo? Bella città - beato Lei! E dove pernotterà?”
“A Bad Reichenhall!”
Il brav’uomo già non ha un viso molto furbo, ma in questo momento mi ricordò fortemente una pecora con tanto di occhiali.
Visitare il teatro in Austria, dormire e mangiare in Germania: queste ferie si ripromettono interessanti! Il mio vecchio atlante scolastico mi ha confermato che Bad Reichenhall e Salisburgo distano meno di mezz’ora di treno, e la ferrovia circola regolarmente tra una città e l’altra. Il passaporto è a posto, quindi posso configurare personalmente il mio piccolo traffico di confine.
Il buffo è che a Bad Reichenhall potrò vivere da gran signore, mentre a Salisburgo sarò uno spiantato; e ogni giorno sarò sia l’una sia l’altra cosa. Che situazione da vera commedia! E dire che i nostri signori poeti hanno timore che in conseguenza del continuo progresso il nostro bel pianeta potrebbe finire per purgarsi di misteri, avventure e romanticismo! Io non ci vedo nessun problema finché la maggior parte dei paesi hanno le loro leggi riguardo alle valute estere.
La bottiglia è vuota - buona notte allora.

~ continua ~



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Edited by Delari - 9/6/2016, 11:21
 
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Piccolo traffico di confine (parte 2)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


Il piccolo traffico di confine ha inizio

Bad Reichenhall, 20° agosto
Sono appena tornato da Salisburgo. Mezzanotte è passata e mi trovo al bar dell’albergo intento a bermi il celebre “Charlottenburger Pilsener”, come gli intenditori hanno battezzato questo energetico miscuglio di spumante e birra.
Sono già stato a Salisburgo una volta, sei anni fa. Eppure oggi, mentre Karl e io eravamo seduti nel giardino dello Stieglbräu, davanti alla fabbrica di birra, intenti a guardare dall’alto la città degli arcivescovi bisbetici e amanti dell’arte, mi sono nuovamente sentito sopraffatto. Anche la bellezza può essere sconvolgente.
Questa vista è unica a nord delle Alpi: mezza dozzina di palazzi connessi tra loro tramite portali, colonnati e portici, in più le multiformi torrette e tettoie, che replicano la complessa pianta della struttura con una logica chiara e vivace. Il che non stupisce, dato che i funzionari religiosi che fondarono Salisburgo desideravano - e ottennero - una residenza italiana.
La composizione dei diversi colori e delle sfumature, tutti di tipo allegro, completa ciò che a dire il vero non ha bisogno di essere completato. I tetti luccicano in verde, grigio ardesia e rosso carminio. Il tutto è sovrastato dalle torri di marmo bianco del Duomo, dal tetto grigio scuro, rosso vino e chiazzato di bianco della Chiesa dei Francescani, dalle torri in rosa antico della Chiesa del Collegio con le statue di santi in bianco, dalla torre grigio-verde del carillon e da diverse altre cupole e tettoie di torri in rosso ruggine e verde ossido. Una sinfonia irresistibile.
Karl mi raccontò che Wolf Dietrich di Raitenau, che era un Medici da parte di madre, uno dei principi del Rinascimento che tanto amavano blasoni ornati da armi e armi ornate da blasoni, fece abbattere il vecchio monastero intorno all’anno 1600, per far costruire sul sito un nuovo Duomo. Per questo compito nominò uno studente del Palladio, che posò le fondamenta. Dopodiché l’intento si arenò per qualche tempo, perché l’incauto Wolf Dietrich si era fatto coinvolgere in una tenzone con la Baviera e finì rinchiuso nell’Hohensalzburg, la rocca che lui stesso aveva fatto erigere, fino alla morte.
Markus Sittikus di Hohenems, suo cugino e successore, nominò un altro costruttore, sempre italiano. Questo fece estrarre da terra le fondamenta e ricominciò daccapo. Il Duomo fu finito solo durante la reggenza del conte Paris Lodron, il prossimo arcivescovo.
Questo accadde nell’anno 1628, cioè durante la Guerra dei Trent’Anni, cui Salisburgo miracolosamente scampò. Il motto della città: “Hic habitat felicitas!”
Questi tre regnanti assoluti vollero che la loro residenza diventasse un luogo di perfezione architettonica. Ai loro successori, funzionari religiosi del Barocco e del Rococò, rimase solo il compito di allargare spazialmente la perfezione già raggiunta, con castelli situati oltre gli attuali confini della città (costruiti per le loro favorite), e inoltre parchi e giardini ambientati da animali fantastici e figure mitologiche, tutti in pietra.
Mentre Salisburgo adempieva il proprio destino architettonico, gli arcivescovi facevano arrivare dall’Italia anche altre arti: musica e teatro. Il padre di Mozart arrivò solo al rango di secondo direttore d’orchestra, poiché il primo doveva assolutamente essere un italiano.
Karl mi vuole mostrare, urgentemente e il più presto possibile, il Teatro di Pietra, che Marx Sittich fece costruire a Hellbrunn, sulla montagna dietro al Piccolo Castello di un Mese. Sembra che in questo teatro di roccia, che si trova nel mezzo di un bosco (in effetti una vecchia cava di pietra) furono eseguite le prime opere italiane sul terreno tedesco.
Salisburgo è proprio destinata a essere lo scenario per le rappresentazioni teatrali! Non è un caso che adesso, nel 20° secolo, il Festival di Salisburgo porti fama internazionale alla città. Secoli fa nel Teatro di Pietra venivano rappresentate le prime opere europee, mentre oggi davanti al Duomo e nel Maneggio di Rocca si ammirano quelle di Hofmannsthal e di Goethe; comunque sia, la città è destinata alla recitazione.
Vicino a noi, allo stesso tavolo dello Stieglbräu erano sedute alcune persone del posto. Parlavano di teatro come di una parte di se stessi, comunque fossero panettieri, calzolai o sarti. Paragonavano i diversi protagonisti del “Jedermann” degli ultimi anni e dibattevano come critici esperti. Alla fine si misero d’accordo: lo “Jedermann” che aveva presentato la morte più di gran lunga toccante sarebbe stato l’attore “M”.

Bad Reichenhall, 20° agosto, notte fonda
Alla fine il bar era così deserto che ho preferito ritirarmi in camera mia in compagnia di due bottiglie di Pilsener.
Sono a letto e studio uno dei quotidiani di Salisburgo. La redazione ci informa che durante questo Festival più di 60.000 persone sono arrivate a Salisburgo e che questi stranieri sono arrivati con circa 15.000 macchine. Calcolando che ogni macchina ospita circa tre o quattro passeggeri non c’è alcun rimasuglio di dubbio: devo essere l’unico viaggiatore venuto senza macchina.
Ho deciso di prendere l’autobus. Si ferma a Bad Reichenhall davanti al mio hotel e nonostante due controlli di passaporto arriva meno di mezz’ora dopo alla Piazza della Residenza di Salisburgo.
Quanto ai dieci marchi che potevo spendere oltre il confine… li ho già sperperati. La noncuranza mi aveva nella sua morsa: ho comprato tutto ciò che mi arrivava davanti al portafogli. Cioccolatini di Mozart, cartoline, brezeln. Anche caramelle di gomma inglesi! Da domani sarò alla mercé di Karl, anche se si tratterà solo di ordinare un caffè con la panna.
Siccome domani andremo a vedere il 'Faust' ho già contrabbandato il mio smoking oltre il confine e l’ho affidato alle sue cure. Abita al Höllbräu, una costruzione tanto sontuosa quanto antica. Per arrivare alla sua stanzetta bisogna salire molte scalette sottili e scalcagnate. Adesso il mio smoking si trova in Austria. Chissà se soffre di nostalgia.
Domani incontrerò Karl al caffè “Glockenspiel”. Non avendo più denaro a disposizione, mi porterò dietro un pranzo al sacco principesco: questo non è proibito. Karl vuole passare la mattinata a disegnare al giardino di Mirabell. Produce acquerelli, disegni a china e a matita e lavora come un forsennato. E’ cronicamente allegro - deve essere il risultato della bellezza della città.
Alle undici di sera, mentre il mio autobus partiva dalla Piazza della Residenza, era ancora in piedi davanti all’ufficio delle poste intento a disegnare la fontana, capolavoro italiano in fatto di fontane: i quattro cavalli di pietra con pinne e squame e con criniere che somigliano alle parrucche allonge, i getti d’acqua che emergono dalle narici dei cavalli acquatici e producono una schiuma che alla luce artificiale notturna assume un colore argentato. Sullo sfondo s’intravede il silenzioso Duomo e di fronte la Residenza, ancora più raccolta - uno scenario magnifico.
Buona notte, signor pittore!


~ continua ~



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Piccolo traffico di confine (parte 3)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo



Il grande avvenimento

Bad Reichenhall, 21° agosto
Il mattino si preannuncia, e io non riesco a dormire. Ho già camminato per le strade notturne e deserte come morso dalla tarantola; poi sono andato fino a Bayrisch-Gmain e indietro; dopo, alla stazione; quindi verso la strada maestra che conduce a Salisburgo e ancora indietro. Sono riuscito a stare al bar per soli dieci minuti. Dopo sono tornato fuori e mi sono seduto sul basso recinto di una villetta…
Ma come mi è potuto accadere?
Sono innamorato! Va bene, talvolta ci si innamora un po’, ma così? Magari innamorato come uno studente, ma come un’intera studentesca? Se penso alla ragazza mi si mozza il fiato. E la penso continuamente. Mi sento soffocare. Mai saputo che uno potesse sentirsi bene in maniera così terrificante!
Quando sono arrivato a Salisburgo a mezzogiorno, Karl ancora non si trovava al caffè. Il mio portafogli se ne stava bravo a Bad Reichenhall, ed io, come dettato dalla legge, non avevo un centesimo con me. Per prima cosa entrai nella Chiesa di San Michele (minuscola e inoltre circondata da edifici su tre lati), dove contemplai le candele e i biglietti di ringraziamento che erano stati offerti a San Taddeo da persone guarite da mali ai piedi. In entrata trovai il bossolo sopra al quale si trova la scritta “Cassa di Risparmio per l’Eternità”, e i preavvisi per i “pellegrinaggi in autobus”, alcuni dei quali richiedono un passaporto. Mi chiesi se anche i Crociati, quando andavano in Terrasanta, avevano bisogno del passaporto…
Quando uscii dalla chiesa pioveva a dirotto. Corsi difilato al caffè “Glockenspiel”, ordinai un caffè, lessi un giornale dopo l’altro e aspettai l’arrivo di Karl.
Stavo sulle spine: il caffè ormai era bevuto e il cameriere sembrava strusciarmi intorno come un sicario. Che cosa fare, se l’imbrattatele non si faceva vedere? L’orario stabilito per il nostro incontro era passato da un’ora intera, non faceva senso attendere oltre. Non c’era altra soluzione: dovevo chiedere a uno degli altri ospiti di offrirmi il caffè! Bella situazione in cui mi ero cacciato - altro che il romanticismo che avevo così favorevolmente immaginato!
Tentai di giudicare gli altri ospiti riguardo a quale di loro sarebbe più probabilmente stato disposto a offrire a uno straniero una tazza di caffè già consumato. E in quel momento vidi lei!
Si chiama Konstanze. Ha i capelli castani e gli occhi azzurri - ma anche se fosse al contrario, sarebbe la perfezione incarnata.
Probabilmente aveva notato la preoccupazione con cui stavo aspettando l’arrivo di qualcuno, e ora mi guardava divertita. Se non avesse sorriso nel farlo, allora forse - ma così…!
Mi alzai, la raggiunsi, le confessai il pasticcio in cui mi trovavo e le chiesi di avere compassione.
Lei scoppiò a ridere - come se non avessi già saputo che Salisburgo è una città melodiosa! Insomma, rise e mi disse di sedermi al suo tavolo. Pagò il caffè e mi invitò a berne un’altra tazza insieme con lei. Ricordo che non lo accettai, ma non ricordo nient’altro di ciò che abbiamo parlato insieme. (Indubbiamente, l’innamoramento è una sorta di acuta malattia mentale. L’infezione dell’animo altera il ragionamento e la forza di volontà dell’ammalato fino a renderlo irriconoscibile.)
Alla fine lei si accinse a lasciare il “Glockenspiel”. Naturalmente la accompagnai, e così sbrigammo insieme alcune commissioni. Prima andammo a fare spesa sul variopinto mercato che si trova davanti alla Chiesa del Collegio, poi nei negozi dei medievali “Varchi”, che portano alla Viuzza dei Grani. In un negozietto che fabbrica candele a mano acquistò due pezzi di panpepato decorati con cuoricini di zucchero rosso, che mangiammo insieme in strada. Io portavo la sua spesa, lei il mio pranzo al sacco. Al fiume, presso il molo lei si accommiatò da me. Mi promise di ritornare al caffè “Glockenspiel” domani.
Io non resistetti - dovetti proprio darle un bacio! Davanti a chissà quante persone, mentre i linguaggi di tutti i paesi immaginabili ci ronzavano intorno. La conoscevo appena e la stavo baciando; non potevo farne a meno. Mi sentivo come se stessi dando il bacio alla Provvidenza che me l’aveva fatta incontrare.
Un attimo prima lei aveva ancora sorriso. Adesso si fece seria. Come me.

Karl l’ho ritrovato nella sua cameretta all’Höllbräu. Mi aveva aspettato al caffè “Tomaselli”; ci eravamo fraintesi, tutto lì. Indossai il mio smoking, ancora tutto assorto.
Dopo la rappresentazione, al Bräustübl, consumai quello che mi avevano preparato in Germania: uova sode, panini imbottiti, uva e pesche. La cameriera ci portò, senza che domandassimo, piatti e posate. Contadini, autisti, visitatori di teatro sono tutti seduti qui, davanti a tavoli ruvidi e non apparecchiati, e mangiano la merenda che si sono portati. Karl ha pagato la mia birra; non mi ha chiesto niente del mio pomeriggio.
Sarà stato per via del mio stato d’animo che la rappresentazione del ‘Faust’ non mi impressionò molto. Il maneggio del 1700, con le arcate scavate nella pietra in fila una sopra l’altra, era stato adattato a teatro all’aperto. I riflettori illuminavano ora questa, ora quell’altra scena. La distanza tra i diversi scenari è a volte considerevole, e tutte le volte che sul palcoscenico si faceva buio mi veniva la disincantata idea che ora probabilmente gli interpreti stavano correndo di gran carriera per arrivare in tempo nella cantina di Auerbach o nelle prigioni.
Chissà perché viene sempre messo in scena il ‘Faust’ di Goethe, che viene definito quello classico, invece del suo ‘Faust’ originale, oppure l’antico testo del ‘Faust’. Una conversazione sentita per caso durante la pausa forse spiega cosa intendo: nella confusione di pellicce di visone e zibellino, maragià, marsine, brillanti e uniformi si incontrarono due americani e scambiarono le loro impressioni.
Lei: “Do you understand a word?”
Lui: “No”.
Dopo la pausa cominciò a piovere. L’auditorio venne coperto da un tendone, e mentre la pioggia vi picchiettava sopra divenne impossibile comprendere Faust, questa volta per motivi acustici. Dal mio posto mi sembrava che Faust aprisse e chiudesse la bocca come uno schiaccianoci; Gretchen e Mephisto si bagnavano e non potevano neppure aprire un ombrello.
Dopo la rappresentazione mi cambiai nella stanza di Karl e feci appena in tempo a salire sull’ultimo autobus per Bad Reichenhall.

Adesso tento di dormire, anche se ho il cuore che mi va a mille. Si chiama Konstanze, e domani la rivedrò. Ha l’aspetto di una principessa ereditaria, e - fa la cameriera! Davvero. In un castelletto a metà strada per Hellbrunn. Il castello appartiene a una famiglia di conti che è in viaggio ed ha affittato tutta la casa, insieme al personale, a una famiglia di ricchi americani per la durata del Festival.
Altro che cameriera, piuttosto mi ricorda una damigella proveniente da un’opera di Mozart! Le ho confessato che non posso restituirle il denaro per il caffè e il panpepato.
Ha riso. Possiede un libretto di risparmio, mi ha detto.


~ continua ~



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Piccolo traffico di confine (parte 4)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


Salisburgo, 22° agosto, mezzogiorno
Oggi Karl ed io siamo saliti a vedere la rocca di Hohensalzburg: volevamo ammirare da vicino le torrette, i portoni, i valli e i bastioni che visti dalla valle danno l’impressione di un’enorme fortezza di montagna. La salita offriva parecchie viste sulla bella città e il suo piacevole entroterra. Una volta arrivati in cima abbiamo fatto un giro esteso dell’imponente costruzione. Karl mi mostrò i punti più importanti del panorama: Hellbrunn, il Gaisberg, il Nockberg (anche chiamato il suo fratellino), e il santuario bianco dal nome Maria Plain.
Infine ci sedemmo nel giardino dell’osteria del castello, sotto a uno degli enormi ombrelli da sole multicolori. Karl ordinò uno stinco di maiale con contorno: è sua consuetudine prevenire alla fame mettendosi a mangiare prima che questa si faccia sentire. Io mangiavo la merenda portata da Bad Reichenhall, nonostante le sue obiezioni.
“Devo chiederti di anticiparmi un po’ di denaro,” spiegai.
“Cosa vuoi fare, comprarti un pantalone di cuoio locale?” mi chiese. “O magari hai trovato un libro interessante riguardo al congiuntivo tedesco?”
“Oggi pomeriggio devo pagare due tazze di caffè e due fette di dolce.”
“Da quando in qua mangi due fette di dolce?” Scosse il capo, ma bontà sua, posò sul tavolo una moneta da cinque scellini a mia disposizione.
Non riuscii a rispondere subito perché per le uova sode mi avevano per sbaglio incartato zucchero invece di sale: mi rimase in bocca un saporaccio. Quando mi tornò la voce risposi: “Intanto non lo mangerò io il dolce, e non voglio che tu mi dia del denaro: potrebbe mettermi nei guai con il regolamento. Devo chiederti di venire con me al “Glockenspiel” e di anticipare al cameriere il totale per due tazze di caffè, due fette di dolce e una mancia decente. Sono uno spiantato e ho intenzione di rimanere tale.”
“E non appena avrò pagato il cameriere, tu naturalmente non mi tratterrai.”
“So che vuoi disegnare i nanetti di pietra al giardino di Mirabell. Non voglio ostacolare l’arte.”
“Adesso capisco perché ti sei portato dietro un mazzo di ciclamini da Bad Reichenhall!” commentò il signor artista.
“Non volevo che tu mi pagassi anche quelli,” risposi.
Fu la prima volta che parlammo insieme di Konstanze.

Bad Reichenhall, 22° agosto, notte
Quando Konstanze entrò al caffè e mi sorrise, dimenticai subito tutte le inquietudini delle ultime ventiquattr’ore. I sentimenti che si agitarono in me dopo erano di ben altra natura. Mentre lei mi si avvicinava sentivo che questa volta la felicità non avrà scampo: dovrà buttarsi tra le nostre braccia.
Fu molto contenta dei ciclamini, e il cameriere li dispose in un vaso. Dopo la mia spiegazione riguardo all’inventiva dimostrata da me per poterla invitare dimostrò la sua approvazione finendo di mangiare il dolce di entrambi i piatti. Non mi ero mai sentito così orgoglioso, quando avevo invitato donne o amici a mangiare, come del caffè e dolce offerto da Karl. Sembrava che fosse Natale ad agosto.
Mi sorprese ancora quanto fosse poco importante di cosa avessimo parlato: probabilmente è sempre così quando si ha ancora tutto da raccontare. Non si può parlare più profondamente dell’umanismo che noi, in questo caso, di pasta sfoglia e raccordi di autobus. Dopodiché Konstanze mi raccontò alcuni aneddoti della sua vita professionale: un castello rinascimentale austriaco affittato da ricchi americani secondo lei dovrebbe essere lo spunto ideale per un commediografo.
Nel suo ambito, Konstanze è molto colta: è stata a una scuola di commercio, e mentre io le raccontavo della nuova stenografia che stavo appunto sviluppando, mi ascoltò con grande competenza. Scoppiò a ridere quando le raccontai della mia partecipazione all’ultimo concorso di stenografia a Berlino: come avevo consegnato ogni dettato come primo e senza fallo, come la giuria non era stata in grado di leggere una sola sillaba poiché si trattava del mio sistema personale non ancora pubblicato - e come alla fine, quando mi esortarono a leggere io stesso il dettato, non ero stato in grado di decifrare i miei propri stenogrammi.

Il tempo non si fermò per noi. Dato che Konstanze aveva ancora un’ora di tempo e questa volta non doveva sbrigare commissioni, decidemmo di sorprendere Karl al giardino di Mirabell. Ma eravamo appena scesi in strada che, neanche a dirlo, cominciò a piovere. Facemmo una corsa fino al portale della Residenza e ci aggregammo a una visita guidata degli sfarzosi saloni storici.
Le visite guidate hanno sempre qualcosa di comico. Non ci si può aspettare che gli ex gendarmi che le tengono offrano spiegazioni riguardo ad arte e storia culturale mentre persone di ogni lingua e stato sociale gli trotterellano dietro; e giacché devono ripetere a memoria lo stesso testo almeno una dozzina di volte al giorno, la loro stoica apatia non sorprende nessuno.
Purtroppo Konstanze si mise a ridacchiare già nel primo salone. Il bravo vecchiardo interruppe le sue illuminanti spiegazioni riguardo agli arazzi antichi di tre secoli e, prima di entrare nel prossimo salone, ci lanciò un’occhiataccia così sprezzante che decidemmo di finire il giro per conto nostro. Piantammo in asso lui e il suo devoto gruppetto e camminammo, mano nella mano, soli e senza parlare da un salone all’altro come se si trattasse di un castello delle favole.
Poi Konstanze si fece baldanzosa: interpretò il ruolo di una Donna americana che mi aveva scambiato per la guida e richiese le informazioni più strambe riguardo a quadri, tappeti, orologi pregiati e quant’altro le passò sotto gli occhi. Io mi presentai a lei come il direttore di museo, Consigliere Segreto di nome Galimathias, e risposi alle sue domande con corbellerie ancora più assurde. Colloredo - colui che aveva così tartassato il povero Mozart - ci guardava dalla sua cornice dorata, con viso contratto, anemico e privo di ogni senso dell’umorismo. (Konstanze parla un inglese impeccabile. Cosa non si impara in una scuola di commercio! Sarei dovuto andarci anch’io.)
Nella più antica ala della Residenza, e più precisamente nella stanza da letto degli arcivescovi, incontrammo nuovamente il nostro gruppo. Il bravo vecchiardo aprì una porta, e naturalmente ci aspettavamo di doverci sciroppare un altro maestoso salone.
Invece, davanti a noi si apriva l'interno della della Chiesa dei Francescani! Facemmo un passo avanti e ci trovammo su di un balcone dal quale gli arcivescovi per secoli erano stati soliti assistere alla messa.
Quattro immense colonne grigie arrivavano fino al semibuio sotto il tetto della chiesa, come alberi di foresta vergine impietriti. Sotto a noi si trovava l’altare di marmo, carico d’oro, decorato da una Madonna di Pacher dall’aspetto fanciullesco. Intorno a lei e a Gesù Bambino fluttuava un girotondo di allegri e floridi angioletti: sembrava un asilo con le ali. E ai fianchi dell’altare si erigevano due pompose plastiche di legno, magnificamente pitturate, raffiguranti San Giorgio e San Floriano; entrambi con corazze luccicanti, alti stivali con i lacci, lance da torneo ed elmi sui quali danzavano pennacchi - due antichi eroi da opera barocca.

La visita guidata era giunta al termine, e anche la pioggia aveva smesso. Entrammo ancora una volta nella Chiesa dei Francescani, questa volta per il portone principale. Ammirammo di nuovo le rotonde, gigantesche colonne e l’allegro altare variopinto. Quindi visitammo la parte più antica della chiesa, che è più bassa del resto, e passammo davanti ai confessionali in punta di piedi. Attaccato a uno di questi si trovava un pezzo di cartone con sopra scritto: “English spoken”. Attaccato a un altro invece c’era scritto: “On parle français.” Trovammo bruttissimi i cartoni e concordammo che se si vuole offrire agli stranieri l’opportunità di aprire il loro animo con il Signore, non si potrebbe farlo in maniera più dignitosa?
Domani Konstanze non ha tempo; però il giorno dopo ha la sua giornata libera! Abbiamo deciso di trascorrerla insieme. Mi ha chiesto di portarmi un costume da bagno. Spero solo che non ci sia da pagare. Il lato finanziario di questa “giornata libera” mi preoccupa: non posso portarmi dietro Karl come portafogli ambulante. No, piuttosto arrivo da Bad Reichenhall armato di sei termos e tre zaini! Le proposi di venire, invece, a trovarmi in Germania, ma disse che preferiva di no. Probabilmente vuole rimanere nella sfera a lei conosciuta.
Ci congedammo nell’Haffnerstraße. “A dopodomani, Konstanze!” dissi.
Lei mi sorrise, diede un bacio al suo mazzo di ciclamini e rispose allegra: “Dio ti benedica, Georg!” Quindi sparì nella folla.

Quella sera Karl ed io assistemmo al concerto al Duomo. Suonavano i “Canti di Petrarca” di Cornelius e la messa in C maggiore opus 86 di Beethoven. Nelle file piene zeppe si trovavano monaci, signore eleganti, rappresentanti della stampa estera, preti, viaggiatori di ogni parte del mondo, contadini, studenti, vecchiette, poeti e ufficiali, tutti in immensurabile silenzio. Le persone pie erano silenziose insieme, e noialtri eravamo silenziosi ciascuno per sé.
Hermann Bahr ha definito questa chiesa il più bel duomo italiano su suolo tedesco. Questa sera aveva ragione. Quando la cappella, il coro, l’organo e i solisti si unirono per la poderosa confessione liturgica sonora di Beethoven, alcuni pipistrelli, disturbati nel sonno, si staccarono dalla volta e svolazzarono di qua e di là sopra le nostre teste, silenziosi nella chiesa rimbombante. Scrissi su un bigliettino che diedi da leggere a Karl: “Qui anche i pipistrelli hanno le ali d’angelo.” Lui annuì, quindi sprofondò di nuovo nell’ascolto.
“Dio ti benedica, Georg!” mi ha detto…


~ continua ~



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Piccolo traffico di confine (parte 5)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


Salisburgo, 23° agosto, pomeriggio
Al confine mi riconoscono già per il povero viaggiatore che sono. Oggi il doganiere mi ha chiesto il portafogli: gli ho risposto fedelmente che si trova nella portineria dell’hotel Axelmannstein. Mi chiese cosa avessi intenzione di fare se mi veniva sete mentre mi trovavo in Austria, ed io gli descrissi alla meglio il mio benefico amico Karl.
Karl mi attendeva a Mülln, davanti al locale “Augustinerkeller”. Ci mettemmo in cammino verso il centro città; attraverso il portone di Klausen nel quartiere di Gstätten, le cui casupole si arrancano in parte sulle rocce del Monte dei Monaci, scolpite nella pietra. Attraverso alcuni portali aperti si riconoscono volte basse e, sullo sfondo, perfino soggiorni con i muri di roccia.
Abitare qui non è del tutto esente da pericoli: le costruzioni sono protette dai cosiddetti “tetti a fossato”, ma per esempio nel 1669 ci fu una caduta di sassi che distrusse due chiese e un’intera fila di case.

Passammo davanti alla Chiesa delle Orsoline costruite da Fischer von Erlach ed entrammo nel Museo Cittadino, dove per un’ora guardammo tanti tesori accatastati da farci venire male agli occhi. Quello che a me piacque di più fu il “Forno delle Beffe”: ogni mattonella raffigura il dorso di libro, e ciascuno vanta una scritta erudita. Il risultato dà l’impressione di una montagna di libri il cui contenuto latino e teologico viene messo a fuoco. Ad altezza d’uomo dalle mattonelle a forma di libro spunta un piccolo predicatore, che gesticola agitato. Non si capisce bene se stia facendo la predica o se sia arrabbiato perché dietro alla sua schiena lo arrostiscono con combustibile scientifico.
Un’altra parte dei tesori di Salisburgo si trova nel Castello di un Mese vicino a Hellbrunn. Karl vuole andarci nei prossimi giorni, armato del suo blocco da disegno. (Questo castello deve la sua esistenza a un’idea dell’arcivescovo Marx Sittich von Hohenems, che nel 1615 lo fece erigere in fretta e in furia durante un solo mese. Il motivo? Voleva sorprendere un visitatore altolocato che era già stato a Salisburgo. Altri tempi, altre iniziative.)
Pranzammo sul Monte dei Monaci. Mi lasciai invitare da Karl e gli comunicai la lieta notizia che oggi non avrebbe dovuto pagare nessun dolce, al massimo una tazza di caffè. Domani invece, gli annunciai, non avrei potuto vederlo. E’ bello quando gli amici non sono curiosi; ma si può anche interpretare come mancanza di interessamento! Lui taceva.
Seguii con lo sguardo un falcone che era schizzato da una roccia e si lanciava verso le torri della città.
“Se non hai nulla in contrario, dopodomani vorrei farti conoscere Konstanze. E’ una ragazza meravigliosa. Ha gli occhi azzurri e i capelli castani, e…”
“Sì,” fece lui. “E’ incantevole.”
“Allora ci hai visti?”
“Sì, ieri. E cammina da far girare la testa. La maggior parte delle donne non sa camminare. Hanno solo delle gambe e non si sa bene perché.”
“Mi ha lasciato detto di ringraziarti per il caffè e il dolce.”
“Non c’è di che.”
“Domani avrà la sua giornata libera.”
“Cos’è che avrà domani…?”
“La sua giornata libera,” ripetei. “Fa la cameriera.”
Karl si buttò indietro sulla sua sedia e rise così forte che gli altri ospiti si spaventarono e ci guardarono contrariati.
Credo di essere arrossito. “Cosa ti viene in mente di ridere di una cosa simile!” borbottai.
Quando Karl riuscì finalmente a sopprimere il suo snervante scoppio di risate, disse: “Ma che dici - figuriamoci se questa signorina sarebbe una cameriera!”
“Eccome se lo è,” risposi. “Inoltre è stata a una scuola di commercio, sa la stenografia e parla l’inglese meglio di noi due insieme.”
“E va bene”, rispose lui facendo spallucce. “Magari te la puoi portare a Berlino per spolverare i mobili.”
A volte Karl mi infastidisce davvero.

Bad Reichenhall, 23° agosto, pomeriggio
L’entrata di poc’anzi l’ho scritta al “Tomaselli”, il caffè più antico di Salisburgo; potrebbe essere stato fondato insieme all’usanza di consumare il caffè in Europa. Prima eravamo seduti al giardino di Mirabell, tra aiuole variopinte e statue di marmo - leoni, unicorni, semidei e le loro accompagnatrici dalle generose forme barocche.
Al ritorno ci sorprese un acquazzone con i fiocchi. Facemmo una corsa per attraversare il ponte, passammo davanti al vezzoso municipio in stile rococò e alla fontana di San Floriano, per trovare il caffè strapieno di gente. Infine trovammo due sedie libere al primo piano, anche se, a dire il vero, si trovavano davanti a una tavola da biliardo, che uno dei camerieri aveva prontamente coperto con una tovaglia.
E proprio oggi avevamo i biglietti per la rappresentazione del “Jedermann” sulla piazza del Duomo! La pioggia scrosciava beffarda contro i vetri delle finestre. Karl mi lesse il testo sul retro dei biglietti, che diceva: “Per le rappresentazioni del ‘Jedermann’ ogni diritto al rimborso, anche parziale, del costo del biglietto si estingue in caso di sospensione causa maltempo se la rappresentazione è stata eseguita fino alla scena del banchetto.”
Gli dissi: “Se non avessimo i biglietti in omaggio, adesso potremmo farci rifondere i soldi.”
“Da quando non hai denaro sei diventato un vero spilorcio,” costatò Karl, corrucciato. “E poi la rappresentazione avviene comunque, al Teatro del Festival.”
Dal tavolo vicino - o più precisamente, la tavola da biliardo vicina - si immischiò un visitatore scontento: “Il Festival è quasi finito, e non è stata eseguita neppure una rappresentazione davanti al Duomo! Tutte le volte pioveva a dirotto.”
“A Salisburgo”, rifletté Karl, “piove sempre più che altrove, ma non piove mai tanto quanto in agosto.”
“Certo - perché c’è il Festival!” Il nostro vicino aveva perso la fede nella giustizia universale.
Il vicino del vicino, a sua volta, disse: “Gli stranieri vengono, anche se piove tutti i giorni. E’ un cambiamento. Probabilmente, piove per riempire i salotti da caffè.” Quindi infilò il naso nel Nuovo Giornale di Vienna.
Sospirai e, pensando a Konstanze, dissi: “Bisognerebbe fare il pasticciere a Salisburgo!”
Karl mi guardava di sbieco come un medico che in sala osservazione ha incontrato un caso nuovo e sconosciuto.

Più tardi, nella sua cameretta ci buttammo addosso in fretta i nostri smoking, e corremmo, braccati dalla pioggia, fino al Teatro del Festival. Gli abitanti di Salisburgo vi stavano intorno come un muro nonostante il tempaccio, e ammiravano come ogni sera lo spettacolo che vi si svolgeva davanti: l’arrivo delle macchine, la discesa delle signore avvolte in pellicce, il comportamento ossequioso dei signori, il trasporto degli scenari, e le altre cose che si offrivano da vedere.
Questa sera la rappresentazione fu onorata dalla principessa ereditaria d’Italia, il duca e la duchessa di Windsor, la moglie del presidente Roosevelt, il baritono americano Lawrence Tibett, il maragià di Kapurthala, il signor Metro-Goldwyn-Mayer e l’attrice Marlene Dietrich; per non parlare di Karl e di me.
Il ‘Jedermann’ di Hofmannsthal, secondo me l’opera teatrale dal contesto sacro più riuscita, riuscì nuovamente a sconvolgermi. Contrariamente al ‘Faust’ di Goethe qui si compie un dramma che coinvolge e commuove chiunque, che venga dagli Stati Uniti, dalla Cina o dalle Isole Figi. L’intreccio, lo sviluppo del protagonista, il soggetto di peccato e perdono sono tutti tratteggiati in maniera vivida, e avvincono anche chi del testo non capisce una sillaba.

E domani sarà la giornata libera di Konstanze. Non l’ho vista per ventiquattr’ore e mi sento come un bambino alle prese con la prima eclisse solare.
Il portiere dell’albergo mi ha imprestato uno zaino abbastanza grande da contenere un pianoforte, ed io l’ho fatto riempire di salami, pane, burro, formaggio, cioccolato, vino rosso, frutta e posate al punto che domani probabilmente crollerò dopo mezz’ora e rimarrò per terra come il Gallo Morente.
Non ho più fatto camminate estese dai tempi di scuola. Speriamo bene! L’essere umano è la vittima delle proprie passioni.


~ continua ~



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Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo


La giornata libera

Hellbrunn, 25° agosto, mattina
Ora è passata, la giornata libera di Konstanze! E’ andata a fare parte del passato, dei giorni che, siano stati felici o infelici, non ritornano più.
Mi trovo da solo in un viale antichissimo. E’ ancora mattina presto, e il sole mattutino risplende sul castello di Hellbrunn allo sbocco crepuscolare degli alberi. In un altro castello non lontano da qui, uno più piccolo, Konstanze starà portando agli ospiti vassoi di colazione tenendosi in equilibrio su una scala in stile barocco, pensando a me mentre lo fa. Speriamo che non lasci cadere niente! La porcellana vecchia è pregiata. Chissà se indossa un vestito nero, un minuscolo grembiule e una cuffietta adornata di volant sul capo, come le altre cameriere? Devo chiederglielo la prossima volta che ci vediamo.
Ieri mattina non mi venne a vedere in guisa di cameriera ma piuttosto di amazzone. La attendevo sulla Piazza della Residenza, e il mio zaino era tanto pesante da farmi temere di cadere lungo disteso sulla schiena. In quella una piccola macchina sportiva prese la curva dell’angolo; qualcuno mi fece un segno di riconoscimento; la macchina si fermò; al volante era seduta una giovane donna che mi disse, “Servus, Georg!”
Non credevo ai miei occhi. Era proprio lei! Per la sorpresa mi dimenticai di darle la mano.
“Prima di partire il vecchio conte mi ha dato il permesso di utilizzare la macchina in caso di necessità. E la mia giornata libera è una gran necessità, non ti pare?”
“Questo è vero.”
“Allora!”
“Ma… la benzina?” (Accidentaccio, bisogna sempre pensare al denaro quando non se ne ha!)
“Non ti preoccupare, ricordati del mio libretto di risparmio.”
“E la patente, anche quella l’hai fatta alla scuola di commercio?”
“No, di quella avevo bisogno perché a volte porto a spasso la sorella del conte. Su, adesso sali prima che lo zaino ti schiacci!”
Stivai lo zaino, mi sedetti accanto a lei e le diedi la mano. Lei pigiò sull’acceleratore, e partimmo. Almeno mi ero risparmiato la temuta camminata.

Nei giardini dei villaggi le dalie e le amelie erano in fiore, e nei prati brucavano mucche e cavalli. La giornata si fece calda. Gli occhi di Konstanze scintillavano. Teneva la bocca un po’ aperta e canticchiava. Quando vedeva che la stavo guardando sorrideva, ma non si lasciava distrarre. A volte mi diceva il nome di un villaggio che attraversavamo; poi riprendeva a canticchiare. Alla fine mi associai, e quando scendemmo dalla macchina in cima al Gaisberg affermai di avere sostenuto perfettamente la seconda voce. Ma quella era una pura impertinenza da parte mia.
Ci sedemmo su una roccia, guardammo il panorama di monti e valli e ci sentimmo contenti di essere parte di questo bel mondo. Un aliante fluttuava sopra i boschi, silenzioso come un enorme e misterioso uccello, e mise in fuga uno stormo di cornacchie.
La comprensione per il tempo è una cosa che si sente solo quando si desidera che si fermi, che smetta totalmente di esistere.
Ma finalmente abbandonammo la montagna e proseguimmo fino al Salzkammergut, dove passammo davanti all’azzurro Fuschlsee e arrivammo al Wolfgangssee. Superato St. Gilgen, Konstanze parcheggiò la macchina su una stradina a fianco di un prato. Dopo una nuotata nel lago ci stendemmo nell’erba calda ad asciugarci, e guardammo il cielo ammiccando al sole. A volte dal lago ci facevano cenni di saluto i turisti che passavano con i battelli a vapore; ma oltre a loro, eravamo completamente soli sul nostro prato fiorito e profumato.
A volte chiacchieravamo. A volte frugavamo nelle imperscrutabili profondità del mio zaino e mangiavamo qualcosa. A volte ci baciavamo mentre grilli e api ci accompagnavano come un concerto domestico. Il Paradiso deve essere stato simile (anche se Adamo ed Eva non si comportavano bene come noi). Konstanze mi raccontò una storia della sua infanzia: di come, quando era piccola, i suoi genitori parlassero della chiesa come della “Casa del Signore”. Così lei si abituò a immaginare che Dio abitasse nella casa del signore così come lei con i genitori in casa sua. Una domenica finalmente la madre le permise di accompagnarla in chiesa, dove vide per la prima volta sedie intagliate, altari, candelabri e pulpito. Dopo avere debitamente ammirato la Casa del Signore dall’interno, rimase ferma, sopraffatta, strinse la mano della madre, sospirò un poco e le disse: “Certo che Dio ha dei mobili bellissimi!”
Se verso sera non si fosse annunciato un temporale, penso che saremmo ancora lì. Ma come stavano le cose, ci toccò abbandonare il Paradiso insieme. Così si ripete la storia. Il cielo si dipinse di rosso sangue, e sopra al Monte delle Pecore e lo Sperber si vedeva scintillare la spada dell’Arcangelo. Il temporale scoppiò un attimo dopo che avevamo fissato il tettuccio di tela catramata. La pioggia ci scrosciava addosso come una valanga invisibile, e il tuono rintronava come se qualcuno facesse cadere dei pesanti mortai.

Quella sera visitammo un concerto di Mozart; il direttore era Dr. Bernhard Paumgartner, che ha tanto fatto per Salisburgo e il suo più celebre figlio. I biglietti li aveva regalati a Konstanze l’americano che ha preso in affitto il castello fino alla fine del mese. Questo americano è un milionario di nome Namarra; gli appartengono delle fabbriche, dove vengono prodotti dei sacchettini di cellophane - per le mandorle salate, le noci, le rosine, i colletti, le caramelle, i fazzoletti, lo zucchero a cubetti, le bretelle e chissà quant’altro. Inoltre gli appartiene una fabbrica di stampa, dove i nomi delle ditte e gli slogan pubblicitari vengono stampati sugli involucri di cellophane. Mi viene una rabbia, pensando come certa gente si arricchisce mentre altri, per esempio proprio Mozart, rimangono poveri nonostante i loro grandi talenti!
Il concerto serale fu magnifico. Suonarono due opere che Mozart aveva composto prima ancora di avere compiuto vent’anni: una sinfonia in A maggiore e un concerto per il violino, quest’ultimo suonato da un virtuoso italiano. Una cantante francese ci incantò con alcune arie; e per finire ci fu la “Sinfonia di Linz”. Peccato che il salone non fosse molto frequentato. In cambio, tra gli spettatori non si trovava nessuno di quegli ignoranti che alla cassa serale domandano se il ‘Jedermann’ venga diretto dal maestro Toscanini. No, questa volta artisti e spettatori si tenevano buona compagnia; e il direttore Paumgartner mi fu molto simpatico.

Quando tornammo alla Piazza della Residenza scoprimmo che l’ultimo autobus per Bad Reichenhall era partito da un pezzo.
Al Höllbräu domandammo di Karl; ma lui non c’era. Decisi di aspettarlo in strada. Konstanze protestò energicamente e offrì di pagarmi il pernottamento in un albergo, offerta che io, altrettanto candidamente, declinai.
Dopo un’animata discussione, lei disse: “Rimane solo una cosa da fare: passerai la notte al castello.”
“E dove?”
“Nella mia camera si trova un divano.”
“Se lo viene a sapere qualcuno perderai il posto!”
“Non lo deve sapere nessuno, sempre che tu non canti nel sonno o ti metti a chiamare aiuto.”
“Ma Konstanze, perché dovrei mettermi a chiamare aiuto dalla tua stanza?”
“Comportati bene, Faustino!” mi rispose. (Forse avrei fatto meglio a non rivelarle il mio nomignolo.) “E domani ti farò uscire di soppiatto, la mattina prestissimo. Vieni!”
Rientrammo in macchina.

Dieci minuti dopo sgaiattolavamo sulla scala secondaria del castello del conte H. come due topi d’appartamento. Era buio pesto, e Konstanze mi conduceva con molta attenzione, tenendomi per mano. Infine aprì una porta, la chiuse con un chiavistello senza far rumore, e accese la luce.
Ci trovavamo in una camera accogliente, arredata nello stile del Biedermeier. Alle pareti erano appesi ritratti di famiglia e silhouettes incorniciate. Konstanze mi indicò un comodo divano di legno di betulla e mi sorrise un po’ timidamente. Quindi si avvicinò alla finestra aperta e chiuse le tende. Sul tavolo scoprii un vaso con i ciclamini che le avevo portato da Bad Reichenhall.
Lei ritornò vicino a me in punta di piedi e sussurrò: “Adesso spegni la luce e riaccendila solo quando lo dico io. Non prima! Altrimenti mi arrabbio.”
Annuii devotamente, spensi la luce e mi ritrovai nuovamente al buio. Sentivo un lieve sfrusciare: Konstanze si stava spogliando. Quindi avvertii il cigolio del letto.
“Georg!” mi sussurrò.
“Sì?”
“Adesso puoi riaccendere.”
Proprio in quel momento sentimmo dei passi nel corridoio, che si fermarono proprio davanti alla porta.
“Konstanze?” fece una voce sommessa. “Stai già dormendo?”
“Non ancora, Franzl,” rispose lei, e la sua voce vacillò un poco. “Ma ho appena spento. Dormi bene!”
“Anche tu,” rispose lo sconosciuto. I suoi passi si allontanarono lentamente. Rimanemmo in silenzio fino a quando non si sentirono più.
“Georg?”
“Sì.”
“Forse è meglio se non accendi più la luce.”
“Va bene,” dissi. “Ma dove diavolo si trova il divano, adesso?”
Lei ridacchiò. Aveva un bel ridere, mentre io mi trovavo nel buio più completo circondato da mobili sconosciuti e non osavo muovermi.
“Georg,” sussurrò.
“Sì?”
“Fai due passi in avanti.”
Seguii il suo consiglio.
“Adesso, fai tre passi di traverso a sinistra.”
“Agli ordini.”
“E adesso un gran passo a sinistra.”
Completai il gran passo a sinistra e urtai con il ginocchio contro un pezzo di legno. Ma qualcosa non quadrava. O avevo scambiato la sinistra con la destra, o Konstanze si era sbagliata con le sue istruzioni.
Non mi trovavo davanti al divano ma davanti al suo letto.

Bad Reichenhall, 25° agosto, notte
Konstanze mi aveva detto che sperava di potermi vedere un attimo al parco di Hellbrunn questo pomeriggio, così mi rimaneva tutto il tempo di ammirare questa residenza estiva degli arcivescovi di Salisburgo. Il castello stesso è una seriosa costruzione rinascimentale…
…ma quello che lo circonda sembra un romantico negozio di giocattoli! Ai fianchi di sottili corsi d’acqua si trovano gruppi di figure meccaniche che vengono messe in moto grazie al movimento dell’acqua; scenette popolane e mitologiche si alternano. Ci sono grotte in cui si sentono voci di animali e uccelli, anch’esse messe in funzione dall’acqua. Dalle corna e le narici di alcuni cervi di pietra fuoriescono getti d’acqua a fontana. Il tutto è coronato da un teatro meccanico raffigurante una scenetta davanti al Duomo, accompagnata da musiche di organo e da più di cento figure in movimento sincronizzato.
In un altro angolo del parco una tavola accompagnata da panche di pietra mi divertì molto, perché dai sedili di quando in quando si sprigionano innumerevoli getti d’acqua verso l’alto. Qui probabilmente un tempo si sedevano gli allegri ospiti dei vecchi arcivescovi, senza nulla sospettare, insieme alle loro damigelle, intenti a bere il caffè o magari a discutere con loro del celibato. Chissà se indossavano abiti sontuosi o se erano solo leggermente vestiti: quando il signor arcivescovo era di buonumore, doveva solo fare un cenno alla servitù e dalle panche su cui erano seduti gli ospiti si sprigionava l’acqua, e addio ai costosi vestiti di seta.
Si vede che a quei tempi a Salisburgo anche i nobili giocavano a teatro. Ma i cittadini e i contadini non erano da meno: non possedevano sedili muniti di fontane, ma durante il Carnevale si dilettavano nei Perchtenspiele - indossavano maschere che farebbero invidia agli abitanti dei Mari del Sud, mettevano sulle teste cercine alte almeno un metro, allacciavano trampoli ai piedi e passeggiavano per i villaggi in veste di strambi giganti. Il buffone Hanswurst, tipo intramontabile, è nato proprio dalla tradizione di Salisburgo e dintorni. Lipperl, un tipo simile, fu ribattezzato Leporello dal salisburghese Mozart. Sia lui che l’altro famoso buffone, Papageno, riuscirono a fiondarsi dalla tradizione popolana nell’ambito dell’arte più raffinata.
Sulla collina che sovrasta il parco di Hellbrunn, nel Castello di un Mese, ammirai la collezione folclorica che vanta molti begli esempi della tradizione gioconda della regione. Per combinazione vi incontrai Karl: approntava degli schizzi, con tre matite colorate in mano e due tra i denti.
“Non dimenticare che stasera andiamo a vedere ‘Il cavaliere della rosa’!” gli dissi.
Lui alzò lo sguardo dal suo blocco di disegni. “Ah, il dottor Faustino! Sei ancora vivo o già ammogliato?”
Gli innamorati tendono ad avere poco senso dell’umorismo, anche se ne avevano molto prima di finire nel suddetto stato d’animo.
“Spero di poter accomunare le due cose,” gli risposi piccato. “Non farti disturbare nella tua estenuante attività!”
Karl sorrise. “Se adesso mi chiedi anche perché non fotografo invece di disegnare perché ci impiegherei meno tempo, ti butto dalle scale. A buon rendere!”
Gli artisti sono suscettibili. Anche gli innamorati lo sono. Quindi mi ritrassi.

Konstanze fu puntuale: ci avevamo dato appuntamento presso i tritoni. Arrossì mentre mi diede la mano e mi disse che aveva mezz’ora di tempo. Quindi mi prese a braccetto e camminammo in riva al laghetto del castello. La condussi al vialone semibuio e la feci sedere vicino a me su una panca.
“Ero seduto qui stamattina,” le dissi. “Konstanze, ti amo. Ti amo da sentire male alle costole. Vuoi essere mia moglie?”
Lei chiuse un attimo gli occhi. Quindi si appoggiò alla mia spalla e sussurrò: “Certo, Faustino!” Sorrise. “Anche io sento male alle costole!”

Dovette tornare in fretta al castello; non la rivedrò prima di domani pomeriggio. Dobbiamo parlare di molte cose. Il primo settembre tornerà a casa la famiglia del conte, e Konstanze progetta di rimanere finché non avranno trovato una nuova cameriera. Dopodiché traslocherà a Berlino. Fare lo sposo non è uno stato d’animo, è uno stato d’eccezione.
Quella sera Karl, io e il mio smoking andammo a vedere ‘Il cavaliere della rosa’. Che strano, questa mattina avevo abbandonato in punta di piedi un castello austriaco, e qui quando si aprì il sipario si vide una donna nascondere il suo amante in un castello simile. Una signora maresciallo e una cameriera naturalmente non sono la stessa cosa. (La signora Lehmann cantò da far spezzare i cuori!) Ma nell’opera di Strauss appare anche una cameriera; seppure bisogni ammettere che in questo caso si tratta di un uomo travestito. Meno male che questo calice mi è stato risparmiato. Grande e grosso come sono, infilarmi negli abiti di Konstanze!
La mia commedia salisburghese personale si dischiuse come un alito di vento nell’atmosfera austriaca dell’opera e della sua musica. Fisicamente, ero seduto in platea; ma lo spirito del signor Rentenmeister si accingeva e cantava sul palcoscenico insieme agli altri. I miei ricordi personali e l’arte si unirono in un’esperienza che mi tenne completamente avvinto. Non si trattava di godimento oggettivo dell’arte, ma di una sensazione completamente nuova che non dimenticherò tanto presto.
Adesso andrò al bar, ordinerò una bottiglia di spumante e festeggerò il mio fidanzamento. Senza la sposa. Cin cin - sperando che porti fortuna!

P.S. La mia segretaria mi ha spedito la posta da Berlino. Dall’ufficio di valute estere, neppure l’ombra di una risposta.


~ continua ~



Traduzione: giugno 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 28/7/2016, 16:45
 
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Piccolo traffico di confine o Georg e gli imprevisti (parte 7)
Estratti dal diario del signor Georg Rentenmeister di Berlino

Anno: estate 1937
Ambientazione: tra Bad Reichenhall e Salisburgo



Fulmine a ciel sereno

Bad Reichenhall, 26° agosto, mezzogiorno
No, no e no! Ho compiuto trentacinque anni senza mai pensare a sposarmi; ieri, vecchio asino che sono, mi sono fidanzato. E oggi ogni illusione è giunta al termine.
Andai a Salisburgo la mattina presto con il primo autobus. Ma dopo un’ora e mezza ritornai, totalmente confuso, a Bad Reichenhall e mi buttai a capofitto nella piscina riservata agli ospiti dell’hotel. L’acqua era gelida e mi fece tornare un po’ in me.
E adesso eccomi qui, lungo e disteso sul prato. I due maestri di ballo che lavorano all’hotel, l’allenatore di tennis, sua moglie e altri giovani nuotano, giocano a palla vicino a me, sono contenti e ottimisti. Mi sento come se fossi il loro nonno. E’ da qualche ora che mi sento così. Ho voglia di mettermi a piagnucolare come un cane - un cane in misura del duomo di Colonia!
Ma torniamo agli avvenimenti, uno dopo l’altro. Zeno, il fondatore della Stoa, come terapia consigliava alle persone afflitte di ricapitolare per iscritto le loro dolorose vicissitudini.

Insomma, andai a Salisburgo e mi presentai a Karl in veste di persona rispettabilissima, in quanto futuro marito. Lui mi congratulò. I suoi auguri mi sembrarono un po’ freddi, ma questo lo notai soltanto più tardi.
Mi invitò alla Cantina di San Pietro e offrì una bottiglia di vino del Prelato. Mentre lo consumavamo mi raccontò degli abati medievali del convento di San Pietro, dell’antichissimo chiostro maschile, dei primi vescovi, di Rupert, Virgilio, Pilgrim von Puchheim, della colera e di altre epidemie, e quindi mi trascinò ad ammirare lo stravecchio cimitero di San Pietro. Qui improvvisò un discorso sull’allestimento artistico delle pietre tombali, mi mostrò le catacombe e la piccola cappella che si appoggia a una roccia. Alla fine persi la pazienza.
“Perché mi devi portare qui proprio oggi?” gli domandai, stizzito. “Perché mi racconti di conventi, martiri ed epidemie? Forse che dovrei farmi prete? Sono felice, imbecille!”
“La felicità è una zoccola,” mi rispose sollevando le sue fitte sopracciglia. Ci trovavamo davanti alle croci nere il cui significato non è stato scoperto fino ai giorni nostri. Karl mi appoggiò una pesante mano sulla spalla.
“Caro il mio Georg, tu lo sai che di solito non sono proprio amico del gioco della roulette. Ma ieri per fare un cambiamento sono stato al Casinò di Mirabell e ho perso duecento scellini. Per venti minuti non mi si era annunciata neppure la prima dozzina.”
“Allora?” gli chiesi. “Mi hai portato fino a qua per confessarmi che hai dato in pegno il mio smoking?”
“No, non l’ho dato in pegno,” mi rispose. “Se i due giovani vicino a me non avessero seguitato a vincere, non li avrei notati. Ma vincevano come principianti, senza esserlo. Insomma, gli ho dato un’occhiata più da vicino.”
“Se il tuo racconto non finisce in una battuta ti taglio le orecchie,” lo avvertii esasperato.
“Si trattava di una signorina e un signorino. Lei era in abito da sera, lui in frac.”
“Non avrebbe fatto molto senso viceversa.”
Karl rimase di ferro. “Il croupier chiamava la signorina ‘contessina’ e il signorino ‘signor contino’.”
“E sarebbe questa la battuta?”
“Sì, è questa. La contessina chiamava il suo accompagnatore Franzl, e lui la chiamava - lo immagini già forse?”
Mi si fermò il cuore. Lo guardai perplesso. “Konstanze?”
“Konstanze.”
Lo presi per un braccio. “Karl, sei sicuro che fosse lei?”
“Sicurissimo,” rispose. “Quando partirono li seguii e la riconobbi dall’andatura. Davanti al Casinò salirono su una piccola macchina sportiva. Lei si sedette al volante, e partirono insieme.”
“Che colore aveva la macchina?”
“Era una biposto, nera e con le armature di nickel.”
Annuii. Quindi mi girai e abbandonai il camposanto di corsa. Davanti alla Piazza della Residenza stava un autobus per Bad Reichenhall che sembrava aspettarmi.

E adesso io, o distinto ospite d’hotel, sono disteso sul prato davanti alla piscina e penso a farmi monaco. Ma non posso perché alle quattro ho appuntamento sul campo da tennis con l’allenatore. Zeno aveva torto: ho messo per iscritto quel che l’accaduto ma non mi sento per niente meglio.
La mia sposa, la cameriera, è in verità una contessa! Anche questo si inserisce nello scenario salisburghese della mia commedia austrica. “Il signor Rentenmeister ha interpretato il ruolo del beota in maniera particolarmente autentica.”
L’autentico beota se ne torna a casa stasera con il primo treno!



~ continua ~



Traduzione: luglio 2016
Disclaimer: eseguita senza fini commerciali, solo per uso privato.


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Edited by Delari - 28/7/2016, 16:52
 
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