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Luce's fanfiction gallery

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view post Posted on 26/9/2023, 11:29     +2   +1   -1
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Professore della Girella

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UNA NUOVA VITA

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Immaginiamo che nessuno voglia che Venusia diventi una pilotessa dello spazio… nessuno, tranne il principe caduto dalle stelle.
Un racconto che si presenta come l’esatto contrario rispetto ai fatti accaduti durante la serie, ma con un finale identico. E ciò che farà cambiare idea alla ragazza del ranch, sarà una frase mal digerita e piuttosto infelice di Alcor, captata per un caso fortuito.



Precipitare nel vuoto, vedere la fine, quando due enormi mani di green ti afferrano, ti depongono sulla jeep e il pilota che ti ha donato il suo sangue loda con calore il tuo grande coraggio, poi se ne va per concludere la battaglia finale.

Alcor è stremato, non ce la fa ad affrontare il mostro, ma tu sei nel suo disco e ben decisa a batterti. Non puoi permettere che il tuo amato venga ucciso. E’ il coraggio della disperazione, ma anche quella forza che hai sempre avuto dentro e con grande fermezza usi le armi e fai centro.
Qualche tempo dopo, addirittura prendi il Goldrake 2 e ti lanci nello spazio senza paura. E’ la prima volta e sei sola, ma niente può fermarti, hai una forza che smuove le montagne, riesci ad agganciarti a Goldrake e il nemico è subito sconfitto.

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La primavera era esplosa in tutto il suo splendore. In un frizzante e limpido mattino di aprile, Venusia si era messa in testa di domare il cavallo più ombroso e indomito della fattoria. Tirandolo con fermezza per le briglie, gli ripeteva di stare fermo con voce dolce ma decisa.
Alla fine, quell’enorme e robusto purosangue si era arreso, lei era montata in groppa a lui e si era lanciata in aperta campagna.
Suo padre tentava di fermarla, aveva bisogno per i lavori alla fattoria, ma la ragazza non lo aveva ascoltato.
In una strada sterrata, aveva incontrato Actarus mentre portava Silver a fare una corsa. Le si era subito affiancato, e dopo un poco aveva iniziato a farle un certo discorso prendendo l’argomento alla lontana.

“Sei molto brava e coraggiosa, hai una forza incredibile Venusia!”
“Cero! E non ho paura di niente io.”
“Lo so da sempre, anche se in questi ultimi tempi mi hai davvero sorpreso.”
“Davvero? E quando?” chiese lei stupita, mentre rallentava la corsa.
“Beh, sei stata ferita da un minidisco, ti sei ripresa in fretta e sei riuscita a ingannare i veghiani che erano scesi al Centro.”
“Grazie alla trasfusione del tuo sangue… se non fosse stato per te, io…” mormorò abbassando gli occhi.
“Hai rischiato seriamente la vita, e non solo quella volta.”
“Non posso certo stare a guardare quando qualcuno è in pericolo. Per molto tempo non ho saputo che tu sei il difensore della Terra, e quando con Alcor avete deciso una linea di difesa mirata e potente, io mi sentivo inutile e forse anche in colpa, dato che l’unica cosa che facevo era stare ad aspettare.”
“Non è esattamente così. Molto spesso le tue parole sono state decisive per me. Quella volta che non sapevo come affrontare il mostro Zari, tu facesti il paragone con quell’uccellino che avevo salvato. Grazie alle tue parole, sei stata la chiave per trovare il suo punto debole. E quando la diga stava crollando e io ero ormai privo di sensi, sei corsa verso di me gridando… allora ho avuto la forza di rialzarmi e combattere.”
“E vero. Io ci sarò sempre, ogni volta che ci sarà bisogno, io…” disse con piglio deciso la ragazza.
“Venusia…”
“Sì?” chiese lei alzando gli occhi come trasognata.
“Non puoi rischiare in questo modo, lo sai.”
“Ma come? Hai appena detto che ti sono stata di aiuto e adesso…” mormorò stupefatta.
“Infatti ho detto questo, ma non voglio che le tue lotte siano improvvisate e senza un’adeguata preparazione; è troppo pericoloso, riesci a comprendere?”
“No, cosa stai cercando di dirmi?”

Una folata di vento li avvolse per alcuni istanti; con sé portava il profumo di tutti i fiori del mondo, muoveva le foglie sugli alberi in una lieve e magica danza. Odore di giovinezza, pensieri audaci e timorosi ad un tempo, fugaci ricordi d’infanzia, voglia d’indipendenza e cose nuove, la magia della vita e il mistero della morte, profumo di cose proibite.

“Dico che tutti noi in combattimento rischiamo ogni volta, ma una cosa è agire a bordo di un mezzo progettato scientificamente e pilotato dopo una lunga e adeguata preparazione, un’altra è buttarsi contro il nemico al momento del bisogno senza armi o quasi. E comunque senza una giusta protezione, capisci cara?”
Lei annuì lievemente. Non sapeva però dove Actarus volesse andare a parare.

“Più avanti c’è un ruscello, cosa dici se lo attraversiamo a cavallo? Non è un ostacolo troppo grande e dalla parte opposta c’è un prato immenso coperto da millefiori. Te la senti?”
Venusia non disse nulla e lo seguì, ma aveva paura. Al momento di attraversare tirò con forza le redini dell’animale e non si mosse.

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“Vuoi che Venusia impari a pilotare una macchina da guerra?” domandò perplesso Procton al figlio adottivo, mentre aspirava con lentezza una lunga boccata di fumo fissando il soffitto.
“Non è una cosa improvvisa, ci penso da molto tempo ormai. Da quando Hydargos è venuto qui in persona, ti ha torturato e preso in ostaggio, lei non ha esitato un attimo a pensare come ingannare i veghiani e c’è riuscita. Ha rischiato molto, e non solo quella volta…”
Il ragazzo chiuse gli occhi mentre rivedeva quelle tremende scene che si erano svolte mentre lui volava in cielo col suo disco. Gliele aveva mostrate il dottore: Venusia a bordo di una macchina scoperta, mentre i minidischi le lanciavano raggi e lei li schivava zigzagando. Terribile! No, non doveva più ripetersi una cosa simile.
Aveva alcune armi a bordo, e alla fine era stato solo merito suo se il Centro Ricerche esisteva ancora. Sapeva che se ci fosse stato bisogno, lei non avrebbe esitato a correre in aiuto, ma non poteva continuare in quel modo.

“Lei è d’accordo?” gli chiese l’uomo.
“Non le ho detto questo in modo diretto, ho preso l’argomento alla lontana, anche perchè volevo prima parlarne con te, e soprattutto sapere cosa ne pensa suo padre.”



“Non se ne parla proprio! Non posso badare da solo al ranch, gli animali, la casa e tutto il resto!” sbraitò Rigel alquanto nervoso e tutto intento a spostare con insolita energia mucchi di fieno col rastrello.
Prese il contenitore del latte e si avviò verso le stalle. Aveva parlato senza guardare Procton e Actarus che si erano recati apposta da lui per discutere se fosse d’accordo a far entrare Venusia nel gruppo per seguire un adeguato addestramento.
“Mizar va a scuola e deve studiare, vieni qui solo quando può, se mia figlia non potesse aiutarmi, sarei costretto a cercarmi qualcuno, e non voglio estranei in casa mia!” continuò il ranchero a voce alta. Era ancora arrabbiato e offeso da quando aveva appreso che era Actarus il pilota di Goldrake. Tutti sapevano e lui no. Si era sentito molto escluso e messo da parte.
“Non le è bastato cambiare look all’improvviso indossando minigonne indecenti, no! Anche la pilotessa! E non è che qui ci stia poi tanto: gare e allenamenti di ginnastica, corse a cavallo, visite ai negozi di Tokio… e sono ancora tutto sporco di latte. Correva come una matta con quel purosangue invece di venirmi incontro; come non bastasse, mi ha anche fatto cadere i bidoni, accidentaccio!”
Rigel era davvero furioso: parlava forte e aveva l’aria di non ammettere repliche. Venusia invece, stava sola e in silenzio dall’altra parte dello steccato.

I due si allontanarono con discrezione, ma intanto Alcor aveva sentito tutto nascosto dietro un muro. Era rimasto sorpreso e contrariato. Per carità, quella ragazza era davvero in gamba e fuori dal comune, su questo non c’erano questioni. Era anche vero che senza i suoi preziosissimi aiuti contro gli attacchi veghiani, era meglio non pensare come sarebbe finita per tutti loro, però…

Senza dire niente a nessuno, Venusia si diresse a piedi verso il Centro del dottor Procton.
Entrò in sala comandi e, come sperava vide che c’era anche Actarus.
“Benvenuta!” le disse cordialmente Procton, mentre i suoi collaboratori le sorridevano cordialmente.
Il ragazzo la guardava serio, ma aveva gli occhi pieni di luce, speranza e fiducia.

“Io… io… volevo solo spiegarmi, anche se non so da dove cominciare”, mormorò la ragazza torcendosi le mani con nervosismo.
Hayashi le portò una sedia, poi si diresse nell’altra stanza con discrezione.
“Ho sentito prima quello che avete detto a mio padre. Non dovete credere che se io non me la sento di entrare in combattimento sia un fatto puramente egoistico, è solo che…”
Tirò un lungo sospiro, si accasciò sulla sedia come priva di forze e abbassò lo sguardo.
“Sento dentro di me che non ne sarei davvero capace. Io mi sento forte quando non c’è niente di programmato, come l’altro giorno in cui Alcor stava male, ho guidato il suo disco senza timore e sono riuscita nell’impresa. Ma se dovessi sottopormi ad allenamenti, so che le mie capacità verrebbero annullate.”

I due uomini avevano ascoltato in silenzio e comprendevano bene il senso del discorso della ragazza. Non aveva ancora abbastanza fiducia in sé stessa e l’idea di una responsabilità così grande la spaventava.
“Non deve decidere subito Venusia, prenditi tutto il tempo che ti occorre. Sappi che qualunque sarà la tua scelta, noi l’approveremo e saremo sempre dalla tua parte”, le rispose il dottore.
“Grazie, ora devo andare.”
“Ti accompagno Venusia, ho la macchina qui fuori” disse Actarus.

Dopo che i due giovani furono usciti, Alcor fece la sua comparsa. Era molto allegro e baldanzoso, esordì dicendo che era molto felice della scelta di Venusia, l’approvava in pieno.
Procton lo guardò alquanto sorpreso e gliene chiese il motivo.

“Niente di particolare s’intende, solo che una ragazza deve fare le cose che più le si addicono: lavori domestici, gare di ginnastica, discoteca, uscite con le amiche.”
“Davvero?” mormorò il dottore mentre si accendeva la pipa.
“Quando stavi con Sayaka e insieme avete molto combattuto, non sembravi pensarla in questo modo.”
Il ragazzo, al quel ricordo si piegò in due dalle risate, poi sbottò: “Ma cosa dice? Quella la si può forse definire una donna? Nooo, è tutto all’infuori di una ragazza, un vero mostro e tanto altro.”

Nel frattempo, Venusia ricordò di avere dimenticato la sua borsa al Centro, quindi tornò indietro. Si arrestò di colpo sulla porta; aveva sentito la voce di Alcor così alta e dal tono piuttosto volgare. Sembrava un estraneo, e le parole che udì la bloccarono.

“Vede Procton, lei è uno scienziato e certe cose le conosce molto bene: le ragazze hanno spesso i loro momenti no, nell’arco di un mese non sono sempre in forma, scendere in battaglia in quelle condizioni non lo trovo prudente.”
Il dottore gli lanciò una lunga occhiata impenetrabile, mentre la ragazza era corsa fuori verso la macchina.
“Actarus, adesso ho le idee chiare! Vieni, torniamo dentro per favore!”
Venusia spalancò la porta con decisione e si piazzò in mezzo alla stanza con le braccia incrociate.
“Ho deciso. Voglio allenarmi ed essere capace di pilotare un disco. So che posso farcela, io voglio farcela, darò tutta me stessa e anche di più.”

Tutti le rivolsero un grande sorriso, mentre Alcor, confuso e imbarazzato stava in un angolo. Lei gli si avvicinò, lo fissò bene negli occhi e disse con voce alta e sicura:
“Non posso lasciare tutto a te, sarei molto egoista, non credi? Se un giorno ti facessi male o ammalassi, chi combatterebbe insieme a Goldrake?”
“Ehm… sì… in effetti…”

“Allora è deciso, Venusia farà parte del Gruppo ed entrerà nella leggenda. Guarda che terzetto” esclamò Rigel apparso magicamente e con un sorriso fino alle orecchie.



FINE



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Edited by .Luce. - 28/9/2023, 11:48
 
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L’ETA’ DELL’INNOCENZA

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I giardini, i fiori, i campi, le foreste del pianeta Agena sembravano particolarmente rigogliosi in quel pomeriggio di inizio estate; il mormorio del fiume e dei ruscelli si fondeva al fremito degli insetti dispersi nell’aria, le fronde degli alberi si muovevano ogni poco come una danza incitati dalla brezza e l’odore dei fiori denunciava con prepotenza la loro recente nascita.

Due giovani poco più che adolescenti si tenevano per mano, camminando lentamente, il sole negli occhi, ogni poco si sussurravano parole all’orecchio con sguardi complici; la ragazza pareva divorare con lo sguardo il giovane accanto a lei, la sua mano non allentava la presa con quella di lui, anzi, ogni poco la stringeva maggiormente con evidente possesso.
Ad un tratto lei si fermò e fissò lo sguardo negli occhi del ragazzo.

«Alex, io…»
«Sì Elena, cosa c’è?»
«Tu starai sempre con me, vero? Mi ami veramente?»
«Perché mi chiedi queste cose? Lo sai che ti voglio bene, te ne ho sempre voluto, siamo cresciuti insieme…»
«Lo so, ma a volte mi prende un’ansia, una paura terribile che tu possa abbandonarmi: succede sempre quando non siamo insieme, è sempre peggio, a volte la notte mi sveglio all’improvviso a causa di un incubo, tu non ci sei e ti credo perduto per sempre.»
«Sono solo brutti sogni Elena, non pensarci, capita a tutti, hai provato con la tisana di millefiori? È ottima sai, un vero portento per assicurarsi sogni d’oro e senza incubi» le rispose lui guardandola intensamente e portando una mano di lei alle proprie labbra. La frase rassicurante, quasi superficiale, era in netto contrasto con la gravità con cui era stata pronunciata.
«Senti, cosa ne dici se ci tuffiamo nel torrente e a nuoto arriviamo dall’altra parte della vallata?»
Nel farle l’invito, lui le aveva messo la mano sotto i capelli, vicino alla tempia, una carezza delicata e intensa al contempo.
La ragazza non rispose, ma i suoi occhi si strinsero in due fessure senza espressione, lo sguardo lontano e proseguì il cammino come un automa.

In prossimità del palazzo reale c’era una spiaggetta privata con tanta sabbia e accanto una pozza d’acqua: il posto preferito dei bambini, qui potevano giocare a volontà e gli adulti li lasciavano liberi, dato che pericoli non ce n’erano.
Quel pomeriggio, una Arianna prossima erede al trono di cinque anni, si avviava sprizzando energia da tutti i pori verso quella specie di paradiso terrestre, armata di secchiello, paletta e stampini di tutte le forme.
Scendeva correndo dalle scale esterne del palazzo: il suo prendisole giallo svolazzava nel vento e le ciabattine di gomma con la margherita di plastica come ornamento sembravano ali.
«Questo è il mio palazzo, qui ci sto io e il mio fidanzato, nella sala grande ci sposiamo e facciamo il ricevimento…» mormorava tra sé la bambina, mentre si apprestava a costruire una torre di sabbia.
All’improvviso sentì due piccole mani coprirle gli occhi: sorrise dentro di sé, si voltò indietro di scatto e riconobbe il suo “futuro sposo”.
«Rocco! Finalmente eccoti, sono ore che ti aspetto!»
«Sono riuscito a liberarmi solo ora, sai, come futuro re, ho tanti impegni» le rispose il bambino assumendo un tono da adulto e di superiorità.
«A che punto sono i preparativi per le nozze?»
«Ancora non ci siamo, l’abito non mi piace, poi la lista degli invitati è ancora lunga, non so quali regali scegliere, il menù un vero rompicapo, mi aiuti?»
«Sicuro! Ho qui una lista lunga così, l’ho presa dalla cucina di nascosto, ogni settimana ne compilano una nuova… vediamo… ma… non si legge bene, sono tutti scarabocchi.»
«Lascia stare, dammi piuttosto una mano con questa torre, vai a riempire il secchiello d’acqua, poi buttalo dentro questo buco, dopo altri e altri ancora, finché te lo dirò io.»
Poco contento di venire comandato da quella mocciosa, Rocco ubbidì, meditando tra sé come rifarsi in un secondo tempo con quel generale in gonnella… però tanto carina e simpatica alla fine.

Dalle persiane socchiuse entrava una lama di luce del tardo pomeriggio e si posava sul pavimento di legno, illuminando un poco i due giovani distesi sul letto, mentre una nuvoletta di fumo azzurrognolo saliva verso il soffitto.
Elena si alzò per prima, vestita del solo lenzuolo di cotone che poco prima aveva accolto il suo lungo corpo sinuoso, giovane e provocante: sentiva in tutto il suo essere una pesantezza estrema, come se tutta l’umidità dell’aria le fosse piombata improvvisamente addosso. I movimenti erano lenti e faticosi, si sentiva stanca, vuota, debole e infelice, totalmente inconsapevole della sua avvenenza, ma non sarebbe riuscita a tradurre in parole questo suo stato d’animo, anche perché non c’erano fatti reali a provocarle questo. Lo specchio dell’ingresso rifletteva il suo viso stanco in una luce fioca e opaca, nella penombra si guardò senza vedersi, i suoi occhi erano spenti e tristi, come la sua anima, come il suo essere.
Meccanicamente sistemò un ciuffo ribelle con le mani a mo’ di pettine, afferrò gli abiti posati a terra e si vestì per inerzia, come fosse reduce da una lunga malattia, alle soglie di una convalescenza che tardava a manifestarsi, e si trascinò verso l’uscita. Con uno scatto improvviso, fulmineo ed energico, si girò verso il ragazzo, i suoi occhi disperati chiedevano conferme, certezze, era lo sguardo di chi ha il terrore di venire abbandonato all’improvviso e per sempre.
Aveva passato molte ore con Alex in quella stanza, in quel letto, erano stati bene come tutte le altre volte; come al solito non si erano fatti mancare niente, anzi, in teoria sarebbero dovuti rientrare a casa da tempo, ma in realtà facevano sempre tardi, perché le ore passate insieme parevano non bastare mai.
Lui si alzò e le andò vicino abbracciandola da dietro, le disse alcune frasi piacevoli all’orecchio, assieme alla promessa di rivedersi al più presto.
«A domani allora, come sempre. Vorrei andare in quella spiaggia che conosciamo solo noi…»
«Lo voglio anch’io Elena, non vedo l’ora, a domani» le rispose sfiorandole le labbra con un bacio, mentre le sistemava meglio la spallina dell’abito che stava scendendo.

Entrambi tornarono verso casa prendendo due direzioni diverse e, mentre il principe si dirigeva verso il suo palazzo, già da lontano gli arrivò alle narici un noto odore pieno di reconditi significati.
Era il profumo di tante cose, una mescolanza di tutto: dell’infanzia, dei giochi, degli studi, dei doveri, delle confidenze, del passato, presente e futuro, in una linea continua senza tempo e spazio.
Quell’odore noto era il risultato di un piatto particolare che soleva preparargli la madre per loro due, quando dovevano affrontare cose nuove e importanti, decisioni delicate, ma anche segreti condivisi e complici. L’argomento di base non era un mistero per nessuno, come ad esempio quando si era trattato di decidere dove andare a studiare quell’anno, dove festeggiare la tale ricorrenza, cosa regalare ad Arianna per il suo compleanno, ma era la modalità della decisione, lo svolgersi delle cose che era segreto e inviolabile: un sussurro di parole nella cucina, di solito regno dei domestici, ma in quelle occasioni veniva occupata solo dai due congiunti, i quali, nella suddetta ricorrenza, avevano dismessi i panni regali e si comportavano come persone comuni.
La sensibilità d’animo del principe, unita a quella dell’olfatto, gli fece intendere che la lieve sfumatura di differenza del profumo preannunciava obblighi regali non da poco, del resto cosa doveva aspettarsi, era ormai nell’età adulta e il suo rango lo costringeva alle vere responsabilità man mano che il tempo avanzava.

La reggia era situata sopra una piccola collina, il grande portone era di legno intarsiato con marmo, mentre ai lati due grandi portefinestre con lievi tende bianche lasciavano intravedere il vasto salone.
Il giardiniere stava sistemando l’erba appena tagliata, l’aria era satura del suo odore insieme a quello dei fiori. All’interno Lahariat, la domestica che da sempre era a servizio nel palazzo, si accingeva a pulire, come ogni settimana, i cristalli e tutta l’argenteria; il pavimento era stato appena lucidato con cera d’api. C’erano candelabri in vari punti della stanza, il loro uso era solo di carattere estetico, appartenevano alle antiche generazioni, la luce delle lampade moderne e funzionali illuminava con prepotenza tutto l’edificio.
Appena entrò il principe, la donna, dopo un breve e cordiale inchino, si congedò e corse verso la dispensa e la cantina per un rapido inventario.
Il principe ereditario Alessandro d’Agentalia aveva circa ventun anni, la figura alta e longilinea, lineamenti fini, nobili e fieri, un incarnato avorio, lo sguardo blu intenso e tutta la sua persona tradiva la buona discendenza, la cultura, le origini regali, la classe, senza sforzo alcuno.
Per molti anni aveva studiato presso altri pianeti, aveva fatto addestramento militare, studi scientifici particolari e mirati per utilizzare le materie prime del sottosuolo, impiegandole a fini redditizi per tutta la popolazione. Durante gli studi passava solo alcuni mesi fuori, tornava sovente a casa: nostalgia, ma anche doveri e obblighi verso la famiglia e i suoi ruoli.
Sua sorella Arianna, di soli cinque anni, gli somigliava molto fisicamente, ma era sempre allegra e spensierata; il suo sorriso e la sua allegria erano una certezza come la luce del mattino e non c’era niente che potesse spegnerle anche per un solo attimo l’argento vivo che l’animava tutta.

Da circa un’ora Alex si era ritirato nelle sue stanze e ripensava allo strano svolgersi di quella cena: con la solita premura, la madre aveva cucinato e servito le portate e, solo al termine, si era messa a conversare col figlio, prendendo il discorso alla lontana e senza arrivare a un finale preciso.
«…quando avevo circa la tua età frequentavo un giovane molto attraente, eravamo presi da una forte passione, non potevamo stare un momento lontani e, quando non potevamo vederci, il pensiero era sempre rivolto all’altro. Era impensabile un matrimonio tra noi, eravamo di ceto completamente diverso, quindi prima meditammo la fuga, la ribellione aperta, addirittura il suicidio, poi furono gli eventi a decidere per noi e, dopo i primi mesi di smarrimento, dolore, incredulità, mi trovai sposata con quello che poi divenne tuo padre e la vita che ho avuto con lui, in passato, nel presente e nel futuro, non la cambierei in nessun modo, anzi, non saprei immaginare una vita diversa.»
Così aveva detto sorridendo la madre, poi erano usciti un momento in giardino, mentre Arianna tornava verso casa accompagnata dal padre.
«Io mi sposo!» aveva esordito la bambina, piena di incontenibile eccitazione, poi era corsa dentro, aveva preso una bianca tovaglia leggera posta sul tavolo del giardino e se l’era messa come un velo.
Tutti avevano riso, l’avevano assecondata con domande opportune, rassicurata sullo sfarzo della cerimonia ed erano andati avanti per un bel pezzo, visto che lei dalla gioia non mostrava segni di stanchezza.

…Elena Rivas, la sua famiglia…
“Quella ragazza è strana, parecchio strana, fin da quando era bambina avevo notato certe anomalie in lei, volevo credere che si stemperassero fino a scomparire con gli anni, invece sono cresciute: ha un qualcosa in fondo al suo sguardo che non mi piace, qualcosa di pericoloso, di veramente troppo pericoloso”, così pensava con apprensione la regina, la quale, insieme al marito, si rendeva perfettamente conto della passione divorante che legava Elena ad Alex. Speravano che il tempo ammortizzasse questa cosa, macché, era sempre peggio, solo che proibire non sarebbe servito a nulla, anzi li avrebbe legati ancora di più.
«È sempre stata di carattere possessivo in modo anomalo, da bambina voleva impossessarsi degli oggetti, ma soprattutto delle persone in modo morboso; a volte fissava con intensità qualcuno in lontananza, pareva meditare come farlo cadere nella sua rete per non lasciarlo più.»
«Lo so bene, ma ora la faccenda si complica tantissimo, da molto tempo sospettavo, ora ho invece la certezza che re Albali vuole invadere Agena, quindi sto pensando di proporgli il matrimonio tra sua figlia Regalia e Alessandro» rispondeva il re alle sue spalle, apparso improvvisamente dal nulla, posando una mano su quella della consorte.
Lei si volse appena e il suo sguardo era tutto un’apprensione, un punto interrogativo: come faremo? Era la sua muta domanda. Come si può fare senza far soffrire nessuno e salvare al contempo il nostro pianeta?
«Il fatto è comunque» disse la donna «che, anche se non ci fosse di mezzo nessun re Albali e Regalia o chi per loro, un’unione tra nostro figlio ed Elena è impensabile per mille e mille motivi.
Accantoniamo per un momento il fatto che lei non sia una principessa, questo da solo non è un buon motivo per ostacolare un matrimonio; i veri motivi sono quelli che già sappiamo e abbiamo discusso altre volte. Solo che loro due più sentono ostilità da parte nostra, più sono attratti l’un l’altro. So molto bene che si vedono più spesso e a lungo di quanto vogliono farci credere.
Prima, a cena, ho improvvisato una conversazione, prendendo l’argomento molto, molto alla lontana, poi mi sono fermata, perché non sapevo più dove andare a parare.»
«Va bene così, infatti, cos’altro potevi fare? L’unico modo che vedo possibile è metterlo davanti al fatto compiuto, sì, invitare qui la principessa e fidanzarli… Ora però si è fatto tardi, andiamo.»
I due sovrani si avviarono verso la loro camera con il cuore oppresso da tanti pensieri, preoccupazioni, paure, responsabilità più grandi di loro.

Elena era rientrata: salutò appena i genitori, poi si diresse verso le sue stanze.
La sua villa dava sul mare, era una costruzione di solide fondamenta di granito rosso.
Non era troppo grande, ma estremamente luminosa; c’erano due cuochi, una cameriera, altre persone che aiutavano nei lavori saltuariamente, quindi non erano presenti ogni giorno.

Era una famiglia di antiche nobili origini; il patrimonio di famiglia, con gli anni, si era notevolmente assottigliato, però continuavano a dare l’impressione di ricchezza. I gioielli di famiglia, i quadri, l’argenteria erano rimasti intatti, uniti al buon gusto nel vestire e ai modi nobili dei suoi abitanti.
Al pianterreno c’erano la sala, la cucina, il salotto buono, al piano superiore tutte le camere da letto; quella di Elena era in fondo ad un lungo corridoio, un’ampia finestra lasciava intravedere la fine sabbia bagnata dal mare.
«Elena, la cena è pronta» le disse subito la madre.
«Ah, scusa mamma, ho mal di capo e sono stanca, vado a riposare.»
«Come vuoi, più tardi desideri qualcosa in camera?»
«No, va bene così, a domani, ciao» le rispose sforzandosi di essere gentile e defilandosi in fretta.
La ragazza entrò nella sua stanza, si chiuse bene a chiave e, presa dallo sconforto totale, si addossò al muro, lasciandosi scivolare lentamente a terra; teneva la testa tra le mani e ricominciò il lungo e inconcludente soliloquio, misto a pensieri tumultuosi e informi, che mai la abbandonavano.
Ad un tratto aprì il mobiletto alla sua destra e, con atti febbrili, aprì un astuccio, riversando tutto il contenuto sul pavimento: con la mano cercò l’oggetto desiderato, un piccolo temperino con lama bene affilata. Con sguardo e gesti nervosi, l’afferrò e si provocò numerosi piccoli tagli superficiali sulle mani e sulle dita. Le gocce di sangue che sgorgavano la riempivano di eccitazione mista a paura, dolore e sgomento: dopo qualche attimo smise, mentre lacrime copiose le scesero dai grandi occhi tristi, lavando le ferite. Alla fine si lasciò cadere esausta e piombò in un sonno pesante e senza sogni fino all’alba seguente.


“Disturbo bipolare maniacale cronico”: questa era stata la diagnosi dei medici dopo aver visitato per alcune settimane la signora Belinda Rivas, zia paterna di Elena.
Altri illustri scienziati avevano parlato anche di personalità “borderline”, quindi la giovane aveva passato qualche mese in una clinica lontana dalla sua città, perché all’esterno non doveva trapelare nulla, dato che le formalità erano importantissime. Questa nobile famiglia era sempre attenta a mantenere l’aspetto e il decoro; comunque nel loro ambiente si vociferava sulle stranezze di quella giovane donna, che passava il suo tempo alla finestra fissando il vuoto, gli occhi chiarissimi erano spenti e vitrei, parevano non vedere nulla.
Parlava pochissimo, alternava momenti di tristezza e apatia ad altri di euforia eccessiva, però, nell’arco dei suoi vent’anni, i momenti di normalità erano piuttosto frequenti; poi, col passare del tempo, era andata peggiorando lentamente e inesorabilmente.
Una mattina la domestica l’aveva trovata mentre si tagliava i capelli a piccole ciocche, la lunga chioma che ricordava il grano maturo era finita sul pavimento della ricca sala, altri capelli volavano fuori dalla finestra aperta.
I genitori erano corsi tentando di fermarla, lei li aveva minacciati con le forbici, poi, con le stesse, si era procurata dei tagli alle mani, minacciando di arrivare alle vene se solo l’avessero sfiorata.
A quel punto un ricovero in clinica specializzata non poteva più essere rimandato, quindi era partita lontano, in un luogo dove sorgeva un grande edificio tutto bianco in mezzo ad un fazzoletto di terra. Era presieduto dai migliori medici del pianeta a quanto si diceva, molto costoso anche, quindi la famiglia aveva dato fondo a tutti i risparmi.
Dopo circa un anno, durante il quale Belinda non era né migliorata né peggiorata, era stata trovata una mattina dall’infermiera con le vene dei polsi tagliate e per lei non c’era stato niente da fare.
Aveva usato il cannello della flebo, visto che non aveva a disposizione nessun oggetto tagliente.
Per tutti era morta di un male incurabile, così avevano fatto passare la sua scomparsa; col tempo la famiglia si era rassegnata a questa perdita, lo capivano che era una gran pena per lei vivere.
Elena… sua nipote… le somigliava fisicamente, aveva i suoi stessi colori, ma al contempo era tutt’altra persona, perché non era passiva di fronte alla vita, ma la divorava, aveva fame di tutto; molto passionale, aveva una sensualità inconsapevole e con un fondo di infantile ingenuità che la facevano ancora più affascinante. Gli occhi erano chiari e grandi come quelli di sua zia, ma quelli di Elena erano vivaci e svegli, osservavano tutto, prendevano tutto: la sua figura alta e longilinea non era un accessorio ingombrante da portarsi appresso, ma sprizzava energia, calore, giovinezza.
I suoi coetanei le facevano una corte serrata, la invitavano a uscire, ma, ogni volta, dopo due o tre incontri, sparivano. La sua passionalità, mescolata alla smania di possesso, la sua ricerca continua di conferme, i suoi tediosi monologhi, allontanavano ben presto quei ragazzi che solo pochi giorni prima avrebbero fatto carte false per assicurarsi la sua compagnia.
Questo non era avvenuto col principe ereditario, anzi, dopo un’infanzia passata nei giochi e negli svaghi, appena adolescenti, avevano fatto coppia fissa come un fatto logico e naturale.
Ben presto la personalità di Elena si era manifestata nella sua doppiezza.
C’erano giorni in cui si alzava presto, piena di vita e voglia di divertirsi, curava la sua persona, usciva con qualche amica, si occupava anche delle incombenze domestiche.
In altri momenti subentrava un’apatia, un’insicurezza di tutto, della sua bellezza, del suo essere, del suo compagno; a fine giornata questo sforzo si trasformava in una forte depressione, poi, così come era arrivato, così repentinamente, la lasciava e tornava la ragazza allegra ed esuberante di sempre, ma anche gelosa, possessiva, oltremodo insicura.

La regina Agata era sul terrazzino dello studio, lo sguardo perso in un punto lontano, tra i giardini, gli alberi, i ruscelli, mentre il suo consorte la notiziava sugli ultimi eventi.
«Poche ore fa, ho saputo, in via strettamente confidenziale, la notizia che il re Albali ha appena invaso la stella Zari, pare abbia usato delle armi davvero micidiali, su quel pianeta ci sono dei minerali molto particolari e unici, poi un sottosuolo davvero fertile…»
Si passò una mano sugli occhi, tentando di raccogliere i pensieri.
«Tutti quei minerali, uniti alla nostra segreta scienza e tecnologia, sono troppo preziosi perché un essere avido e senza scrupoli come quello possa restarvi indifferente.»
Lei lo guardò con sguardo rassegnato e triste, sapeva già il destino che si preparava loro.
«Ho preso contatti con lui invitandolo da noi assieme alla figlia, la ragazza deve avere sì e no vent’anni e, nel colloquio, ho lasciato velatamente intendere di non avere nulla in contrario ad un possibile matrimonio tra lei e Alessandro. Tra pochi giorni saranno qui… il resto si vedrà!»
Concluse la frase con un lungo respiro, poi entrambi scesero al piano terra.
La tovaglia della sala da pranzo era bianca e finemente ricamata, Lahariat serviva il brodo con crostini in piatti di porcellana. Arianna aveva impugnato il cucchiaio con forza, alla maniera dei bambini, atteggiamento ancora ben lontano dalle basilari regole del galateo e, mentre affondava la posata dentro la scodella, entrambi i genitori si schiarirono la voce e, esitando un momento, informarono i rispettivi figli che per i giorni a venire ci sarebbero stati degli ospiti.
«…quindi siete pregati di riceverli cordialmente. Indosserete sempre gli abiti migliori e, siccome il loro sarà un soggiorno piuttosto lungo, dovranno svagarsi piacevolmente e non farete mai mancare la vostra compagnia, d’accordo?»
«Sì mamma, come vuoi… però volevo sapere…»
«Dimmi Alex, cosa c’è?»
«No, niente, però… no, niente, abbiamo capito bene tutto, non faremo mancare loro nulla.»
«Grazie, lo sapevo che potevo contare su di te.»
Il sorriso pieno di gratitudine della madre sottintendeva molta apprensione, Alex lo vedeva bene, decise quindi dentro di sé di comportarsi come il suo ruolo richiedeva.

Il sole stava già scomparendo all’orizzonte, quando alcuni servi annunciarono l’arrivo della principessa. Il suo velivolo era rimasto di parecchie miglia lontano dal palazzo reale, quindi fece il suo ingresso a corte su di una nave guarnita d’oro e su un podio. Stava dentro una specie di gabbia coperta di veli leggeri, che lasciavano indovinare l’ombra della ragazza; la giovane guardava tutto con inquietudine.
Quando la barca fu ormeggiata, due servi sollevarono i veli e una ragazza dall’aspetto fragile e delicato si alzò; con gli occhi bassi, ma decisamente sicura di sé, Regalia salì i gradini fino al terrazzo, dove i due sovrani e i loro rispettivi eredi l’aspettavano.
L’una e gli altri dissero qualcosa in segno di saluto e, superati i primi momenti piuttosto formali, l’atmosfera si distese e si parlarono come amici di lunga data.
La ragazza aveva lineamenti nobili, leggermente alteri, una lunga chioma castano ramato e occhi grigi, grandi, a volte freddi e impenetrabili.
Il giorno successivo Regalia incontrò quello che doveva forse essere il suo futuro sposo da sola, andarono in giro per i giardini poco distanti dal palazzo, conversando in modo educato. Nascosta dietro alcune siepi, Elena li osservava non vista, nulla sfuggiva al suo sguardo stretto in due fessure, mentre un pericoloso febbrile luccichio le infiammava la vista e la mente.
Il re e la regina osservavano tutto da lontano, la preoccupazione era una costante nei loro pensieri, ma erano anche sollevati dal fatto che la figlia di Albali soggiornava presso di loro, quindi mai lui si sarebbe sognato di attaccarli in qualche modo, era logicamente impossibile, quindi ogni tanto si concedevano delle parentesi di cauto ottimismo.
Alessandro aveva mostrato a Regalia il palazzo reale, i luoghi vicini, le aveva chiesto se voleva fare un giro in barca o nuotare, ma lei non amava affatto il mare, preferiva l’ombra delle siepi.
Una settimana dopo il suo arrivo, la principessa, chiusa nella sua camera con letto a baldacchino, si mise in contatto col padre tramite il computer.
«Questo luogo mi piace davvero moltissimo e anche le persone, cioè in particolare una persona; sono disposta fin da ora a fidanzarmi con lui, quindi…»
«No! Non è questo, non puoi assolutamente!»
«Ma… ma come?! Io per quale motivo sono qui? Mi avevi fatto intendere che lo scopo era questo, cioè dovrei diventare la futura regina del pianeta Agena…» mormorò la ragazza piuttosto sconvolta.
«Quel pianeta sarà sicuramente nostro, non c’è dubbio, ma dei suoi abitanti non ne rimarrà vivo uno solo!»
Ancora più sconcertata, Regalia chiese il significato di questo.
«Non te ne posso parlare ora, tu continua a fare l’ospite e ad essere gentile con tutti, al resto penso io.»
«No, non posso, io amo quel ragazzo, mi piace e…»
«Ti ho detto che non è possibile, anzi, per favore, non cercarmi più, sarò io a mettermi in contatto con te al momento giusto, intesi?»
La fanciulla spense il contatto, totalmente avvilita e priva di energia, mentre lacrime di dolore e incredulità le pungevano gli occhi; tuttavia, essendo di nobile stirpe, era addestrata a nascondere i sentimenti più intimi davanti alla gente, quindi uscì dalla camera e andò nel giardino con la compagnia di un libro.
Alessandro, quel giorno, si era recato all’Accademia militare per aggiornamenti, poi all’università a ritirare dei volumi dalla ricca biblioteca, infine si era trattenuto lì per studiare e approfondire certe materie scientifiche. Verso il tramonto si decise a rientrare, scese le scale del palazzo e, nell’atrio, vide la lunga figura di Elena che lo stava aspettando.
Sapeva che in quel periodo non doveva frequentarla, però nemmeno poteva ignorarla; lei lo fermò subito e, con fare piuttosto alterato, gli chiese il perché della sua prolungata assenza.
«Ho saputo che stasera c’è un ricevimento a casa tua… io non sono stata invitata…»
«Un momento Elena, non è che tu non sei invitata, piuttosto abbiamo alcuni ospiti di un certo riguardo, non conoscono nessuno qui, è per quello che…»
«No! C’è una sola ospite, e che genere di ospite! Ho visto come ti guardava, eravate sempre insieme, chi è? Dimmelo, voglio sapere tutto!»
«È la principessa ereditaria di…»
«Vi siete fidanzati, vero? Dimmelo, voglio saperlo, tu vuoi lasciarmi, lo sapevo che sarebbe finita così, me lo sentivo, ma stavi sempre a ripetermi che erano solo fantasie, fissazioni… Tu e la tua famiglia avete deciso di farmi passare per pazza come mia zia, vero? Lo so quello che pensate su di me, mi evitate come un’appestata!» lo aggrediva lei con ansia e ferocia mal trattenute, mentre, nella foga, le unghie si conficcavano dentro la mano di lui.
«Non è vero e lo sai, ora devo andare, comunque stasera sei invitata anche tu, d’accordo?» mormorò Alex con uno sguardo triste, poi si avviò velocemente verso casa.
Nella sua giovane vita, Alex aveva condiviso i suoi studi con alcuni coetanei, erano diventati buoni amici, i contatti non si erano mai interrotti, nonostante la lontananza; gli svaghi, i divertimenti, i progressi nelle ricerche li accomunavano da anni, insieme avevano frequentato le ragazze del luogo, ma in Alex c’era sempre l’ombra invasiva e onnipresente di Elena. Anche se in quel momento era lontanissima fisicamente, lui sapeva bene che, per un misterioso motivo, lei era sempre lì ad osservarlo possessivamente, controllare ogni sua mossa e forse ogni suo sentimento.
Allontanò questi pensieri, sostituendoli con altri che, per il momento, stentavano a prendere forma e significato.

Al palazzo reale, Lahariat e altre due persone di servizio apparecchiavano la tavola della sala grande centrale con cura, tiravano a lucido il pavimento e i cristalli dei lampadari.
Le finestre erano tutte spalancate, c’era odore di sole, segreti, misteri, doveri e altro.
Alex salì in fretta le scale, scartando l’ascensore; sul ballatoio scorse entrambi i genitori: erano in abiti smessi, c’era ancora tempo per prepararsi, lo guardarono in modo intenso, quindi entrarono tutti e tre nello studio chiudendosi bene dentro.
Il tavolo di marmo era pieno di carte ordinate, fogli vuoti, pennarelli, inchiostro, cartelle.
Fu il padre a parlare per primo: «Ecco… io e tua madre siamo qui per comunicarti che questa sera… sì, la festa che ci sarà tra qualche ora sancisce il tuo fidanzamento ufficiale con la principessa… Non te ne abbiamo parlato prima, però è così.»
«Lo immaginavo… solo che non capisco perché non siete stati chiari da subito, mi state dicendo che, già prima che Regalia venisse in visita da noi, questo era già stato deciso?»
«Sì e no… cioè non è una cosa semplice. Il fatto è che siamo praticamente certi che il re Albali non è in buona fede con noi. Ho avuto le prove che ha deciso di attaccarci col suo esercito militare come ha già fatto da poco con un altro pianeta, quindi, sperando che il piano funzioni, gli ho proposto il matrimonio tra te e la figlia. Non ha detto di sì apertamente, ma il fatto che l’abbia mandata qui è già qualcosa. Di sicuro non possiamo abbassare la guardia, dobbiamo essere cauti in ogni mossa.»
Alex aveva lo sguardo fisso sul pavimento verde brillante: gli era sempre piaciuto fin da bambino, sembrava fatto di perle, ora assumeva un aspetto diverso. L’infanzia e la giovinezza erano finite davvero per sempre, questo era chiaro.
Alzò lo sguardo limpido verso i genitori, rassicurandoli, in silenzio si avviarono per i preparativi; come un quadro, dal rettangolo della finestra, il sole arancio si appoggiava sul mare cobalto.
La cena al piano terra si svolgeva con rapida eleganza; le portate si susseguivano veloci, quindi, una quindicina di ospiti in tutto, si alzarono per iniziare le danze.
Elena era arrivata dopo cena, accompagnata da una sua cugina più giovane di lei di qualche anno, una ragazza scialba al suo confronto; entrambe avevano una coroncina di fiori tra i capelli e un abito di seta in tinta pastello.

I quattro componenti della famiglia reale erano eleganti senza forzatura alcuna, la regina portava un vezzo di perle, l’abito oro antico, il marito e il figlio completi di nero lucido.
La piccola Arianna era un tripudio di pizzi e trine rosa, i capelli lievemente cotonati, sembrava un concentrato di vivacità e gioia di vivere.
L’eleganza e la bellezza di Regalia sovrastavano con prepotenza su tutti i presenti.
I lunghi capelli lievemente ramati brillavano di luce propria, erano fermati da una coroncina di brillantini, i riccioli si posavano sulla fronte e sulle spalle, mentre un lungo e ricco abito di seta blu l’avvolgeva come una nuvola.
L’incarnato luminoso la rendeva irresistibile, mentre altera e lievemente sdegnosa attraversava la sala in direzione del suo futuro sposo.
Per tutta la durata della cena, Arianna aveva parlato fitto fitto con lei, le ispirava una simpatia innata e, con complicità femminile, le aveva sussurrato di essere anche lei fidanzata e prossima alle nozze.
Regalia la sopportava con cortese educazione, mentre i suoi occhi tradivano tutta la sua insofferenza e antipatia per quella mocciosa ciarliera e inopportuna.
Con un lieve ed elegante baciamano, Alex invitò la principessa al ballo e subito le altre coppie li imitarono.
Elena stava in un angolo della sala e fissava quella giovane e bellissima coppia, che volteggiava con grazia e senza sforzo; la gelosia la rodeva dentro come un parassita, nervosamente toccava le pietre della sua collana di turchesi, mentre un sudore freddo la ricopriva tutta.
Nell’attimo in cui Alex uscì fuori, lei lo seguì veloce, come un felino che attende la preda, e senza parlare lo agguantò con forza, baciandolo con tutta la passione, la rabbia e il dolore repressi da troppi giorni. In risposta lui non fu capace di sottrarsi, anzi si accorse con stupore che desiderava la stessa cosa senza saperlo; restarono molti minuti avvinghiati l’uno all’altra, mentre la passione che da sempre li accomunava pareva rifiorire fino a travolgerli completamente.
«No, non posso, devo rientrare, lo sai Elena che non possiamo…»
Lo sguardo di lei faceva paura e pena al tempo stesso.
«Vediamoci domani, ti aspetto al solito posto.»
Lui acconsentì con un cenno del capo, quindi rientrò nella sala e con cortese educazione intratteneva gli ospiti senza trascurarne nessuno.
Il re e la regina conversavano con la principessa, il loro sguardo lievemente apprensivo era in contrasto con le frasi leggere e amichevoli che le rivolgevano.
Verso mezzanotte gli ospiti si ritirarono a gruppi, contenti della bella serata trascorsa, e, poco dopo, gli abitanti del palazzo, in silenzio, raggiungevano la propria camera.

Il sole del nuovo giorno faceva capolino tra le fronde degli alberi, quando Regalia si svegliò con un lieve cerchio alla testa, tuttavia volle comunicare col padre: da troppi giorni ormai non si faceva più sentire, quindi si mise in contatto con lui.
«Da ieri sera sono ufficialmente fidanzata, quindi sposarmi sarà inevitabile…»
Il padre la scrutò a lungo in silenzio, poi interruppe la comunicazione.
Piuttosto perplessa, la ragazza rimase alcuni minuti senza muoversi, poi si vestì lentamente e scese al pianterreno, dove l’attendeva una solitaria colazione posta su un piccolo tavolo di marmo vicino alla cucina. La cameriera le spiegò che i componenti della famiglia si erano dovuti assentare, ma prima di mezzogiorno sarebbero tornati di sicuro.
«…la pregano di scusarli se non l’hanno avvertita, ma lei dormiva ancora, non se la sono sentita di svegliarla; in giardino c’è una bella ombra, ci sono delle riviste…»
«Grazie, non importa, vado a fare due passi, mi farà bene» mormorò la ragazza, bevendo l’ultimo sorso di caffè.
Si sentiva strana e non solo per aver dormito male, l’ambiente era sfuggente, il padre le era parso indecifrabile, la famiglia reale… Quale mistero c’era?
A piccoli passi raggiunse la piccola spiaggia privata, decise di camminare scalza e, mentre respirava a pieni polmoni l’aria marina, l’umore cominciò a giovarne e il mal di testa allontanarsi.
Dopo circa un’ora prese la via del ritorno, Arianna da lontano l’aveva già notata e le corse incontro con le braccia spalancate.
«Ciao! Da quanto non ci vediamo, mi sei mancata tanto!»
La salutò la bambina, buttandosi addosso alla ragazza, fino a farla quasi cadere.
«Arianna, non essere sgarbata» le disse la madre.
«Torniamo dentro, il sole scotta a quest’ora; tutto bene
Regalia?»
«Sì, grazie, tutto bene.»
Alex rientrò con mezz’ora di ritardo, scusandosi: per la via aveva incontrato un amico che non vedeva da tempo, si erano fermati a parlare e il tempo era volato.
Regalia lo scrutò a lungo. Ansimava, era sudato, gli occhi inquieti e sfuggenti.
Si sentì ancora più sola e confusa: cosa c’era sotto tutti questi velati misteri?
Le sembrava di affondare nelle sabbie mobili, decise quindi di far conto di nulla con tutti, ma tenere gli occhi bene aperti.
Il pomeriggio lo trascorse quasi interamente con Alex; lui la portò a visitare la città, i musei, le scuole, i teatri, le parlò delle sue scoperte scientifiche, degli studi, gli svaghi, le amicizie e lei fece lo stesso.
Le parve che la loro intimità ne giovasse e, quando venne l’ora di rientrare, lasciò che lui andasse da solo a contattare uno studio di professionisti piuttosto lontano dal centro.
«Ci vediamo dopo a casa, ciao.»
Così lo salutò, mentre invece percorse un’altra via per seguirlo non vista.
Aveva il dono dell’invisibilità, o meglio, era in grado di mimetizzarsi, una dote abbastanza comune tra quelli della sua gente, oltre ad essere in grado di correre molto velocemente.
Vide che Alex si guardava intorno come per accertarsi di non essere visto; il suo percorso non fu lontano dalla città, ma a pochi isolati dal suo palazzo, dove sorgevano fontane, siepi, giardini, sentieri e alberi centenari.

La ragazza che era al ballo la sera del loro fidanzamento uscì da un tronco cavo di un albero, Alex la vide subito ed entrambi si baciarono con passione e trasporto; era inequivocabile che il loro rapporto era di lunga, lunghissima data. La confidenza, la complicità, gli sguardi tra i due erano evidentissimi: la loro passione doveva avere la forza di un tornado, anche se avessero voluto fermarla era impossibile, questo era chiaro come il sole; lei era solo un vuoto a perdere e nient’altro.
Tenendosi per mano si allontanarono chissà dove, quindi
Regalia concluse di aver visto abbastanza; come un automa prese la via del ritorno, senza farsi vedere salì nella sua camera e contattò casa sua.
La voce rotta dall’emozione e dal pianto, rivelò al Comandante Supremo delle Guardie, con parole succinte ma chiare, la tresca che si svolgeva alle sue spalle.
Era mortalmente avvilita, ma anche decisa ad una vendetta atroce.
«Torno a casa subito, ho la navetta, quindi parto: da domani all’alba avete il via libera per attaccare questo schifoso pianeta e quelli che lo abitano.»

La guerra, il fuoco, le morti, i cieli incendiati erano davanti ai due giovani seduti in un prato in una sera limpida e piena di stelle, in una fattoria alla periferia di Zacatecas, in Messico.
Alex, due anni dopo la distruzione del suo pianeta e della sua gente, aveva trovato asilo sulla Terra, presso una famiglia di agricoltori, i cui antenati erano stati dei famosi latifondisti del Sud.
Carmen, la giovane che stava raccogliendo la sua confessione, era stata fin da subito la sua più grande amica e confidente. Aveva aspettato pazientemente che lui si decidesse a quello sfogo, che si liberasse da quel rimorso che mai lo abbandonava, e ora nei suoi occhi scuri e profondi, che fissavano l’enormità dello spazio infinito, erano visibili tutti gli orrori, il sangue, le tragedie che erano avvenute mentre lei, ingenua adolescente, in quei momenti, di sicuro si divideva tra la scuola, il lavoro, la casa e non sapeva nulla di quanto potesse succedere al di là della sua fattoria negli infiniti spazi siderali.
All’improvvisò si sentì grande, molto più grande dei suoi vent’anni e, in quegli istanti, capì che l’infatuazione adolescenziale che provava per Alex cedeva repentinamente il posto al bene vero, dall’innamoramento all’amore, ora sì che era veramente adulta, grande e consapevole!
Lo prese per mano e lo fissò dritta negli occhi: quelli neri di lei si fusero nel blu di quello che le sarebbe stato per sempre accanto, a condividere tutto. Non c’erano più segreti, paure, rimorsi, solo la vita con le sue inevitabili fatiche; ma divise in due, non facevano più paura a nessuno.
Si alzarono dal prato e, nell’istante in cui entravano in casa, una stella cadente illuminava la notte.


FINE
 
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view post Posted on 2/10/2023, 09:11     +2   +1   -1
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IL LUNGO VIAGGIO

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Izar, una stella binaria nella costellazione di Bootes.
Su questa stella, approdò il principe di Fleed circa sei mesi prima di stabilirsi sulla Terra.
Un pianeta abitato e piuttosto ricco di vegetazione e miniere ricche di carbon fossile, acciaio, metalli. Quasi certamente ignorato dai veghiani, i quali avevano ben altre mire quando decidevano di conquistare o depredare un pianeta: i loro interessi dominanti erano la tecnologia avanzata e il vegatron.
Duke Fleed parcheggiò il suo disco all’interno di una caverna che si trovava a lato di una radura semi pianeggiante, circondata da ruscelli e laghetti.
I primi giorni li passò visitando la Capitale e la vastissima periferia. Di solito, nel tardo pomeriggio, passeggiava tra campi, alberi e laghetti.

Una mattina si sentì chiamare da una voce femminile. Si voltò di scatto, e vide di fronte a lui una giovane, il cui aspetto gli era in qualche modo familiare.
“Duke Fleed…”
“Si? Chi sei tu?” le domandò sorpreso.
“Io sono Kyra. Alcuni anni fa sono stata ospite nel tuo palazzo, durante una festa che riuniva famiglie blasonate. C’erano molti invitati, erano così tanti che gran parte di loro hanno pranzato in giardino. Noi due ci siamo scambiati poche parole; qualcosa o qualcuno si metteva sempre in mezzo, oppure arrivavano nuovi ospiti ed eri costretto a fare gli onori di casa.”
“Sì, qualcosa ricordo” le disse pensoso, ma la ragazza che lui vagamente ricordava, aveva, in mezzo ai capelli scuri, molte ciocche color lavanda e anche i suoi occhi erano quasi viola, mentre ora erano bruni come i capelli.
“So cosa stai pensando” lo anticipò lei.
“Ho smesso di tingermi i capelli e i riflessi di questo pianeta hanno modificato il colore degli occhi.”
“Ah…” le sorrise sollevato.
La guardò meglio e notò che il suo viso era pallido e sofferente. Lo sguardo era a tratti sfuggente e circospetto; sembrava stesse fuggendo da qualcosa o da qualcuno, benchè lei cercasse di mostrarsi disinvolta.

“Ora devo andare” gli disse con una nota di rimpianto nella voce.
“Teniamoci in contatto, vuoi? Sono qui da pochi giorni e…”
“Sì, io non ho nessuno, come penso anche tu. Abitavo nella parte ovest di Fleed, molto distante dal tuo palazzo, dunque. Ma anch’io, come te, ho perso tutto. Re Vega non ha risparmiato nessun punto della nostra magnifica stella quando ha lanciato la seconda potentissima bomba al vegatron”, mormorò abbassando gli occhi velati di lacrime.
“A presto, Kyra” le disse mentre si allontanava velocemente da lei. Il ricordo di quanto era avvenuto, gli aveva riaperto la ferita dentro il cuore.
“Arrivederci Daisuke. So bene che non è il tuo nome, ma sento che ti appartiene… o ti apparterrà un giorno. Spero non ti dispiaccia se ti chiamo così” gli disse con un sorriso misterioso.
Si allontanò svelta, voltandosi per un ultimo cenno di saluto con la mano.

Non erano passati tre giorni, che il principe di Fleed vide una chiamata sul suo disco. Era lei.
“Ciao… mi trovo alla stazione delle navette, sud est della città. Puoi venire a prendermi? Sono appena uscita dall’ospedale.”
“Vengo subito.”
La voce di Kyra era debole e celava sofferenza, benchè si sforzasse di essere forte.
Era appena uscita dall’ospedale? Cosa le era successo? Quando l’aveva incontrata aveva notato infatti qualcosa di strano in lei, qualcosa di stanco e malato.
Neanche mezz’ora dopo si incontrarono. Lei si alzò lentamente dalla sedia che occupava la sala d’aspetto e gli andò incontro. Lui le prese la mano e la guidò fuori, dove aveva affittato un piccolo veicolo di trasporto.
Durante tutto il tragitto non parlarono. Era ormai sera inoltrata, lei gli indicò la strada da percorrere per arrivare al suo alloggio.
“Resta con me questa notte. Sto male e ho paura” disse in un sussurro.
“Ma certo, cara.”

Entrarono in un edificio alto e stretto. Salirono per una scala ripida, non c’era illuminazione nei corridoi, l’unica luce che entrava dalle vetrate era quella di un grosso lampione su quel vicolo stretto e tortuoso.
Lei aprì la porta di un piccolo appartamento e accese la luce. Un bilocale munito di angolo cottura. Kyra si buttò sul letto esausta con le mani sopra la testa, poi iniziò a raccontare.

“Sono reduce da uno scontro terroristico, avvenuto qualche settimana prima di incontrarti. Un gruppo di giovani, certamente inviati da Vega, hanno sparato e buttato bombe. Alcuni sono periti, mentre i superstiti sono fuggiti. Io sono rimasta ferita: un colpo alla testa e qualcosa mi ha perforato l’addome. Nel giro di poche ore mi sono sentita meglio, e mi sono illusa che tutto fosse finito lì. Ma poi i dolori sono tornati sempre più intensi, così mi sono recata in ospedale. Una lieve commozione cerebrale, ma la cosa più seria è stata l’altra ferita. Mi hanno ricucito una parte dello stomaco, tolto la milza, più qualche escoriazione non grave su tutto il corpo.
Sono ancora molto debole, perché qui, dato che i posti letto negli ospedali sono limitati, appena uno è in grado di stare in piedi, viene rispedito a casa, insieme ad una serie di farmaci da assumere per un certo periodo.”

I danni fisici da lei riportati, uniti al fatto di aver vissuto per mesi in un ambiente inquinato e pieno di gas tossici, quasi certamente l’hanno resa sterile. Deve assumere questi farmaci per un paio di mesi. Tuttavia, grazie alla sua forte tempra e giovinezza, può considerarsi guarita e condurre una vita normale.

Questo il referto medico al momento del congedo.

Duke Fleed aveva ascoltato in silenzio, tenendole sempre la mano. Un sospetto si era insinuato nella sua mente quando lei aveva parlato dell’attentato. Aveva la quasi certezza che non erano venuti lì per invadere il pianeta o procurarsi materie prime, ma sterminare buona parte della popolazione, in quanto, essendo tutti liberi e certamente armati, sarebbero stati in grado di correre in soccorso ad altre popolazioni vicine, quelle che Vega voleva assoggettare a sè.

Kyra era finita lì per errore, su questo non c’erano dubbi, e ora doveva solo pensare a tornare in forze.
Dalla grande borsa estrasse una lunga serie di scatole e le pose sopra il comodino: erano le medicine che doveva assumere per guarire.
Gli sorrise, benchè non ci fosse gioia nel suo viso, ma dolore fisico, stanchezza e spavento. Lei temeva in una possibile ritorsione da parte di quella gente.
“Chiudi bene a chiave la porta, Daisuke. Non ho la camera per gli ospiti, ma c’è posto per entrambi”, gli disse indicando il suo letto.
Lei si tolse il vestito, lui la camicia. Sotto l’abito, Kyra portava una maglietta da pelle chiara, molto scollata e con spalline sottili. La parte sopra era di pizzo trasparente. Seduta sul letto, gli cinse la vita con le braccia fissandolo dal basso verso l’alto con occhi grandi e un’ombra di desiderio, nonostante fosse stremata e febbricitante.
“Cara… ora ti devi riposare” le suggerì posandole una mano sulla guancia smunta.
Si misero a letto e per alcuni minuti conversarono circa le invasioni veghiane, le ultime notizie, brevi frammenti della loro vita prima e dopo la guerra, poi scivolarono lentamente nel sonno tenendosi per mano.
Si svegliarono quando il sole era già alto nel cielo. Lui preparò la colazione e lei ingoiò subito alcune pastiglie insieme ad un cucchiaio di liquido scuro.
“Come ti senti oggi?”
“Meglio di ieri” gli sorrise accomodandosi a tavola.

Passò una settimana. Kyra migliorava giorno per giorno; verso il tramonto uscivano per qualche breve passeggiata, a volte mangiavano fuori, oppure prendevano la navetta e si avventuravano in un piccolo viaggio tra le stelle. Stavano bene insieme, non si annoiavano mai e quando la giovane si sentì rimessa completamente in forze, gli parlò di un suo progetto.
“A sud-est di questa stella, c’è una grande fattoria ormai abbandonata da decenni. Non appartiene a nessuno, a me piace molto e in questo periodo ho fatto in modo che alcuni contadini si occupassero dei lavori essenziali, ma ora intendo andarci e sistemarla come si deve, soprattutto la casa. Dal tablet gli mostrò il luogo e l’ubicazione.

“E’ molto grande, il terreno sembra fertile e adattissimo per allevare gli animali, specie i cavalli. Spazi verdi e ruscelli” mormorò il ragazzo turbato, perché quel luogo, gli ricordava in modo vago qualcosa del suo pianeta distrutto dai sicari di Vega.
“Voglio partire prestissimo, e quando sarà tutto pronto, verrai a trovarmi, vero?” gli chiese con tono quasi supplichevole, poi gli cinse il collo con le braccia e posò le labbra sulle sue.
Quella notte la passarono abbracciati.

All’alba del giorno dopo, Kyra si vestì con cura e decise di recarsi subito alla fattoria.
“Sei sicura? Non è troppo presto?” le chiese il ragazzo. Da un lato capiva e approvava la sua voglia di reagire e guardare avanti, dall’altro temeva non fosse ancora pronta; e l’idea di starle lontano lo rattristava.
A giudicare dal suo aspetto, la salute era decisamente migliorata: l’incarnato luminoso, gli occhi vivi e gioiosi, la sua figura era colma di giovinezza e di vita, sprizzava di energia e impazienza da ogni poro.
“E’ il momento di andare, lo sento” gli disse “e so che presto ci rivedremo.”
Dall’armadio tolse i vestiti e mise i suoi effetti personali dentro una grande valigia Sulla soglia, diede un’ultima occhiata alla stanza, poi scese la lunga scala e si diresse verso il suo velivolo.
Duke Fleed prese il bagaglio e l’accompagnò fino alla navetta.
“Non vuoi che ti accompagni?” le domandò premuroso.
Lei scosse il capo in senso di diniego e gli fece capire che quell’avventura la doveva vivere da sola.
“Voglio che tu venga a trovarmi quando la fattoria sarà a posto; i miei uomini lavorano sodo, ma deve diventare come voglio io. Il tocco femminile è fondamentale. Ah, dimenticavo una cosa: se vuoi, puoi usare il mio appartamento” gli disse con un sorriso gentile e partì.

Passò una settimana. Il giovane rimase nella casa di Kyra e, durante quel periodo, visitò la stella da nord a sud. Una sera, trovò un messaggio della ragazza.

Daisuke, ti attendo al più presto per ammirare questo luogo d’incanti.
Kyra


Il mattino dopo, Duke Fleed era in viaggio. Non aveva fretta di arrivare, perché il panorama mutava ogni poco, ed era sempre più spettacolare. Dopo aver attraversato una vasta pianura di un verde a tratti mutevole, ecco apparire una montagna innevata, poi una cascata, ruscelli e laghetti. Un altro spazio pianeggiante ricoperto di fiori coloratissimi e piante mai visti prima. Ecco una stretta spiaggia, poi il mare, palme, conifere. In nessun luogo dell’universo aveva ammirato tanta bellezza.

Arrivò alla casa di Kyra nel tardo pomeriggio. La trovò in giardino. Indossava una maglietta chiara e un paio di jeans. Curava l’orto, raccoglieva fiori, mentre il giardiniere strappava erbacce, rastrellava, e più lontano, altri addetti ai lavori finivano di imbiancare l’edificio e sistemare il tetto.
Lei riconobbe subito il suo disco, sorrise, gli fece cenno di saluto con la mano e gli corse incontro.
“Ben arrivato!” gridò festosa. “Puoi parcheggiare in questo lato, che è molto vasto e pianeggiante.”
Si abbracciarono felici, poi lui la osservò con attenzione. Era bella, abbronzata, la sua giovinezza e la buona salute, avevano decisamente prevalso sulla recente malattia; era evidente che in quel posto stava bene e si sentiva realizzata.
“Vieni dentro, ti mostro la casa” gli disse, prendendolo per mano.

Il pianterreno era composto da una sala di medie dimensioni, con un pavimento di granito rosso: dalla porta accanto si entrava in una cucina ampia, luminosa e tutta chiara. Lo spazio era semivuoto, mancava ancora molto per arredarla completamente, ma non mancava dell’essenziale.
Salirono pochi gradini: sulla destra del pianerottolo c’era la camera da letto, sulla sinistra i servizi.
In fondo, una stanza in disordine e piena di mobili: alcuni da restaurare, altri ancora imballati e pezzi di legno tarlato.
“Vorrai certamente lavarti e cambiarti dopo il viaggio: questo è il bagno, qui ci sono gli asciugamani, saponi e bagnoschiuma. Io intanto preparo la cena, tu fai pure con comodo” gli suggerì la ragazza spingendolo dentro una stanza rettangolare con piastrelle bianche per terra e azzurre alle pareti.

Più tardi, stavano entrambi seduti uno di fronte all’altra in un piccolo tavolo quadrato della cucina.
Duke Fleed indossava una camicia azzurro chiaro e pantaloni blu. Kira era bellissima e provocante. Si era leggermente truccata, le labbra carnose erano un invito al bacio, la pelle olivastra emanava vita, calore, sensualità.
Tutti i suoi modi erano provocanti, ma al contempo innocenti: come serviva le portate, il modo di porgere, quando si alzava per prendere qualcosa, dentro quell’abito leggero e senza maniche che faceva indovinare la sua splendida figura.
Entrambi assaggiarono appena le pietanze: senza dirselo, agognavano il momento in cui si sarebbero ritirati nella stanza da letto.
“… vedrai, quello che ti darò stasera, sarà ben diverso di quella notte che abbiamo condiviso quando ero appena uscita dall’ospedale…” disse lei ammiccando con un sorriso malizioso e carico di sottintesi. Nel dirlo, aveva allungato la sua splendida figura sulla sedia, in modo che lui potesse ammirarla meglio, voleva essere irresistibile.
Finita la cena, Kyra chiese alla moglie di uno degli operai di rigovernare, poi con Duke Fleed, uscì un momento nel grande cortile per augurare la buona notte a tutti e ringraziarli di quella lunga giornata di lavoro che avevano condiviso.
I suoi aiutanti abitavano in un’altra ala della casa, con un ingresso indipendente.


Lunghi capelli corvini, ondulati e lucenti, la pelle tesa e scura. I grandi occhi a mandorla mandavano bagliori incandescenti. Tutta la sua figura, il suo essere, emanavano erotismo e sensualità.
Aveva un corpo elegante: serpentino, quasi fragile, ma tuttavia era compiutamente donna.
Di fronte a lei, nella stanza da letto di quella grande tenuta in mezzo alla campagna, Duke Fleed non si stancava di guardarla.
Dalla finestra aperta, la notte stellata di luna piena entrava ed estasiata ammirava quei due giovani che ansimavano, ed erano travolti da un’evidente passione che presto sarebbe esplosa.
Con un gesto quasi impercettibile, Kyra aprì la cerniera laterale del suo vestito, che in un attimo scivolò a terra. La sua nudità era parzialmente occultata da un minuscolo slip di seta e tulle bianco.
Solo il colore era simbolo di innocenza, poichè nulla era lasciato all’immaginazione. Decisamente trasparente sul davanti, anche la seta dietro si era spostata, lasciando coperti solo pochi centimetri di pelle. Ciò si intuiva anche quando era ancora vestita. L’abito di seta rosso a piccoli fiori si adagiava sulla figura, e quell’unico indumento intimo si intravedeva ad ogni movimento durante quella cena carica di sottintesi.
Sensualità, malizia e innocenza di alternavano in un continuo gioco di lucie ombre, in un crescendo sempre più esaltante.
Kyra era semplicemente irresistibile; quando poco prima aveva preparato la tavola, versato il cibo sui piatti, le sue movenze erano eleganti, caste e sensuali ad un tempo.
Aveva piccoli seni rotondi, i suoi capezzoli scuri erano divenuti turgidi e duri come sassolini per l’eccitazione.
Il ragazzo la fissava con occhi dilatati per lo stupore e il desiderio. Aveva buttato sul tavolo la sua camicia azzurra e aperto il bottone dei pantaloni. Si avvicinò a lei lentamente, ma, la sua indole nobile, lo fece abbassare per raccogliere il vestito e posarlo con garbo sulla sedia.
La stanza era illuminata da una decina di grosse candele raggruppate in un angolo sopra ad un tavolo di legno.
Si avvicinarono l’uno all’altra e si baciarono con passione, per poi scivolare nel grande letto e continuare ad amarsi come non ci fosse un domani. La sensualità, la passione dell’una, erano una cosa sola con l’altro. Non erano più due esseri distinti, un uomo e una donna, ma uno solo. Non sapevano più dove iniziava il corpo di lei e le braccia maschili che l’avvolgevano dalla testa ai piedi.
Si sentiva dominata, ma non oppressa da quel giovane che la stava amando senza riserve. Continuarono così per quasi tutta la notte, finchè le palpebre divennero pesanti e il sonno li condusse in un luogo magico, dove il fondersi dei corpi, amarsi, il piacere, non avevano mai fine.

Il sole del mattino inondava la stanza. Appena alzata, Kyra aveva fatto una veloce toilette, poi si era recata in cucina per la colazione. Seduto sul letto, Duke Fleed abbracciava con lo sguardo tutta la scena.
La raggiunse e l’attrasse a sè, mentre posava le labbra sulla nuca di lei, su quei folti capelli ancora spettinati.
“Ohh, ben alzato!” gli disse voltandosi e ricambiando il bacio.
“Sei bella…” sussurrò osservandola con occhi languidi e malinconici.
Lui indossava una camicia chiara e dei pantaloni blu; Kyra una camicetta bianca a fiori, un paio di vecchi jeans strappati e scoloriti.
Mangiarono in fretta, poi si recarono verso le stalle, e salirono a cavallo. Volevano visitare la tenuta e il territorio circostante. Il clima era mite, soffiava una lieve brezza e con sé portava una folata di mille profumi.
Dopo oltre un’ora di viaggio, si fermarono presso un ruscello per far abbeverare gli animali e riposare.
Nelle loro iridi si specchiava l’intero panorama, insieme alla passione bruciante che avevano consumato la notte prima e che ancora faceva loro tremare le vene.

Restarono in silenzio per qualche minuto, poi lui le prese la mano, la fissò negli occhi e le disse: “Kyra… ormai siamo rimasti soli al mondo… vuoi dividere la tua vita con me?”
Lei sentiva il calore e la forza di quella mano maschile, il suo animo ferito dalle tragedie della guerra, ebbe un attimo di sollievo. Guardò lontano, oltre le colline, poi gli rispose dopo un lungo sospiro abbassando un poco lo sguardo.
“Daisuke, sai bene quello che mi è accaduto. Io non posso avere figli, e tu hai tutto il diritto ad un erede. Ora credi sia tutto perduto, ma so molto bene che, nella vita, prima o poi il cerchio si chiude e tutto torna al punto di partenza, e anche ciò che appariva impossibile, col tempo diventa realtà.”
La guardò sorpreso. Non capiva bene il senso del suo discorso, ma lei lo prevenne.

“Quando avevo circa dieci anni, una notte venni svegliata da una luce irreale. La seguii e mi portò dentro la stanza di mia nonna, che stava morendo. Lei mi aspettava, io mi sedetti sulla sponda del letto e aspettai trattenendo il respiro".

Kyra, io sto andando in un’altra dimensione, quindi dò a te il dono della chiaroveggenza.


Dal cassetto del comodino prese un foglio ingiallito dal tempo, dove c’erano disegni mai visti e parole strane. Le leggemmo insieme, mi disse di tenere quel foglio per tre notti sotto il guanciale, e alla prima notte di luna piena, buttarlo nel lago dove andavo sempre a giocare e nuotare con le mie amiche. Poi chiuse gli occhi per sempre.
Mi rendevo conto che tutto ciò era insolito e misterioso, ma lo vivevo come un fatto quasi normale.
Continuai la mia vita di sempre, a volte facevo sogni premonitori, in altri momenti brevi flash di qualcosa che sarebbe avvenuto. Se ero sola, sentivo chiara e distinta una voce che presto spariva, ma non sempre capivo tutte le parole.
Questo dono è cresciuto nel tempo, man mano che diventavo donna.
Non l’ho amato né disprezzato, non ho fatto niente per svilupparlo, so che fa parte di me, è un’estensione della mia personalità. Mai ne ho fatto cenno ai genitori, né mi sono confidata con un’amica. Tu sei il primo al quale dico questo, e se lo faccio, è perché so che è mio dovere. Mi hai appena fatto una proposta alla quale fatico molto a resistere, vorrei restare sempre con te, ma so molto bene che non è questo il nostro destino. Io vedo che, fra non molto, tu non sarai più un pellegrino tra stelle e pianeti. Ti fermerai in un luogo molto bello, con tanto blu, e incontrerai persone amiche, dall’animo buono e generoso. Non sarà per te semplice arrivarci, ma lì inizierai una nuova vita.”

Kyra tacque e fissò Duke Fleed negli occhi. Non poteva dirgli che, dopo un periodo relativamente lungo di tranquillità, la guerra con Vega sarebbe ricominciata. Sapeva bene che lui non lo avrebbe accettato. E come dargli torto? Ma vedeva anche che, dopo la lunga ed estenuante lotta, il tiranno sarebbe stato sconfitto per sempre e il loro pianeta di origine tornare in vita in modo sorprendente e inaspettato.

E per lei, cosa vedeva? Un uomo dalle tempie grigie, che avrebbe compensato la mancanza di passione e sensualità appena vissuta con quel principe in esilio, con una grande nobiltà d’animo, generosità verso il prossimo, e rispetto per lei. I ricordi dei momenti di passione l’avrebbero accompagnata sempre, calmato in parte la sua innata vivacità, e, nel buio della notte, al posto di quell’uomo pacato, colto e riservato, avrebbe immaginato l’altro.
Avrebbero vissuto per molti anni in quella grande casa, viaggiato, condiviso interessi; e un tardo pomeriggio di fine estate, quando i colori della natura diventano dolci e languidi, lo spirito di lui sarebbe volato in cielo, mentre stava seduto sulla poltrona davanti al camino acceso con un libro letto solo a metà, scivolato lentamente a terra.
Sapeva che quel luogo sarebbe divenuto un punto d’incontro per molti turisti; era pieno di stanze da affittare, non avrebbe sofferto di noia e tristezza nel secondo capitolo della sua vita.

“Ma sei sicura? Può essere che anch’io sia nelle tue stesse condizioni circa la sterilità. Per mesi ho combattuto su Fleed, ho respirato vegatron, sono stato gravemente ferito…” le disse prendendole entrambe le mani. “E io conosco te, stiamo bene insieme.”
“Ora torniamo a casa. E’ quasi ora di cena. Resterai qui ancora per alcuni giorni, e voglio rivivere notti di passione con te” gli disse appoggiandosi a lui. Già fremeva di desiderio.
Sì, lo desiderava con tutta sé stessa, perché sapeva che quei momenti non sarebbero tornati mai più, e lei voleva ricordarli, riviverli con gli occhi della mente per sempre, rievocarli nel tempo, arricchirli di particolari immaginari.
La vita le aveva fatto un regalo meraviglioso.

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“Raggio Antigravità’!”
Il getto di luce multicolore gettato da Goldrake contro il Dragosauro, spinse con forza il mostro marino, ormai pesantemente ferito, addosso alla lama ciclonica lanciata da Alcor con precisione e sincronia perfetta.
Un mostro dalle enormi dimensioni, ovale, una bocca grande quasi come il suo corpo e con lunghi denti aguzzi. Ai suoi lati, aveva due draghi che sputavano fuoco.

“Raggio Super Getta!”

La formula di quest’arma era stata inviata dal dottor Saotome, quando aveva saputo dell’arrivo di quel mostro, e ora, dallo schermo, osservava l’estenuante duello.
“Alcor, tieniti pronto con la coppia di missili da lanciare in attesa dell’arrivo di Venusia. Con questo orrendo e potentissimo mostro marino, temo che la battaglia si risolverà nel suo elemento” disse Procton dal Centro di Ricerche. “Tu Actarus, nel frattempo usa la Spada Diabolica che ci ha mandato il Dottor Kabuto.”

Stavano combattendo da oltre un’ora. Era un misterioso animale preistorico, sopravvissuto non si sa come negli abissi degli oceani. Da giorni stava seminando panico divorando enormi quantità di petrolio in giro per il pianeta, finché non si era diretto verso Tokyo.
Kabuto, Saotome e altri scienziati del Giappone, appena saputo della cosa, non avevano esitato a dare armi, preziosi consigli, aiuti di ogni genere. Ora stavano incollati sullo schermo, ed erano in apprensione, dato che non avevano potuto inviare in soccorso nessuno dei loro piloti: alcuni erano lontano e non rintracciabili, altri non si trovavano in condizioni di combattere: sia per il loro stato fisico, sia la precarietà dei loro robot, i quali avevano bisogno di molti aggiornamenti e manutenzioni circa le armi difensive.

Il Delfino Spaziale era sotto le mani esperte dei tecnici di Procton: aveva qualche problema in termini di velocità, inoltre andava rinforzato con armi nuove e distruttive.
Finalmente il velivolo fu pronto e, senza esitazione, Venusia si lanciò nello spazio.
“Eccomi!” gridò la ragazza appena vide Goldrake e Goldrake2 sopra l’oceano.
“Venusia! Preparati per la manovra di aggancio! Dobbiamo spingerlo sott’acqua” le disse Actarus.
“Sono pronta!”
“Alcor! Lancia una tripla coppia di missili sulla testa del mostro, dobbiamo fare in modo di affondarlo.”
I missili gli perforarono gli occhi e squarciarono la fronte. Il Dragosauro affondò negli abissi.
Il Delfino era già agganciato a Goldrake, quindi lo seguirono sott’acqua.
“Non lo vedo più” disse la ragazza.
“Lancia la lama ciclonica verso quel gruppo di alghe.”
Il mostro si era nascosto lì, infatti: la lama quasi gli troncò la testa, ma era molto grossa e lui non dava veri segni di cedimento.
“Venusia, lancia i missili per due volte di seguito, poi Actarus lo colpirà con l’Alabarda Spaziale e dopo tu ancora la lama ciclonica nello stesso punto dove ha colpito adesso” disse Procton.
“Bene! Missili ciclonici!”
“Alabarda spaziale!”
L’enorme mostro marino venne quasi tagliato in due, mentre il secondo intervento di Venusia gli troncò la testa definitivamente.
“L’abbiamo distrutto! Alcor! Ci sei?” chiese Actarus.
“Sì, siete stati grandi!!
Durante quell’operazione, Alcor era rimasto sospeso in cielo e a tratti era riuscito a vedere qualcosa del combattimento.
Quella parte di oceano, era un’enorme distesa di liquido rosso e verde; i resti del Dragosauro riemersero lentamente dal fondale marino.

Procton e i collaboratori erano visibili sul grande schermo. Anche se ormai il pericolo era passato, sui loro visi era evidente la grande preoccupazione vissuta durante quella lunga battaglia.
Anche Kabuto e Saotome, dalle loro basi, avevano seguito tutto, ed ora erano esultanti e felici.

“Torniamo a casa” disse Alcor.
“Noi passiamo dalla parte opposta, dobbiamo finire il giro di perlustrazione” disse Actarus, mentre il Delfino Spaziale si sganciava dal robot.
“A dopo, allora.”

I due giovani volarono nel cielo limpido senza parlare, poi atterrarono su una pianura in prossimità di una grotta. Scesero dai velivoli, ed entrarono per osservarla. Era in tutto e per tutto molto simile ad un’altra grotta, quella in cui Venusia aveva saputo che Actarus era un alieno, l’aveva conosciuto per ciò che era e, benchè nessuno l’obbligasse a farlo, aveva deciso di restare sulla Terra per difenderla anche a costo della sua stessa vita.
“Potevi andare dove avresti voluto col tuo mezzo: l’universo è pieno di stelle pacifiche e senza guerre, ma sei rimasto qui. Sei rimasto con me. Con noi. Te ne sono infinitamente grata”, gli disse Venusia fissandolo negli occhi tremanti di commozione.
Lui le prese entrambe le mani e le baciò con devozione e rispetto.
“Tu hai sempre capito tutto, mi sei sempre stata vicino, anche nei momenti più difficili, mai ti sei tirata indietro di fronte al pericolo. Venusia, tu sei la persona più importante della mia vita” le disse con calore, fissandola negli occhi.
E infine, fu naturale per loro conoscersi fino in fondo. Senza dirselo chiaramente, da tempo avevano progettato la loro prima notte d’amore in una stanza del Centro Ricerche, dato che spesso, per paura di un improvviso attacco veghiano, Venusia si fermava lì.
Ma i grandi avvenimenti della vita, specie quelli amorosi, sono molto più belli e sentiti se improvvisati, o meglio, lasciati nelle mani del fato, del destino, dallo svolgersi degli eventi.
La voce alta e minacciosa di Rigel che non voleva la figlia frequentasse quel ranchero, era da tempo immemore, un eco sempre più lontana e indistinta.
Anche suo padre aveva fatto un enorme passo di evoluzione dentro di sé, ed era stato fondamentale nell’insistere che la figlia partecipasse alla guerra contro Vega. La stimava molto e teneva alla sua realizzazione. Così era stato per Mizar, anche se in modo più impercettibile; lui era sempre stato molto più maturo per un ragazzino della sua età, e lo aveva dimostrato in varie circostanze.

Il giorno in cui Venusia aveva conosciuto la vera identità del ragazzo che amava, senza che lei lo sapesse davvero, era stata fondamentale perché lui in quel frangente riprendesse i sensi, si rialzasse dall’acqua, attaccasse il mostro per distruggerlo definitivamente. L’acqua: il punto debole di Goldrake.
Procton aveva visto giusto nel progettare il velivolo per Venusia: agganciandosi al robot, insieme potevano scendere negli abissi più profondi e attaccare il nemico senza paura.
E poi c’era la ferita mortale al braccio: ad ogni attacco, il giovane peggiorava sempre di più e lei lo sapeva. Taceva e soffriva in silenzio. Una notte, dopo una battaglia terribile contro un mostro veghiano, lei era rimasta al Centro. Actarus si era buttato sul divano quasi privo di sensi, lei si era messa di fianco a lui e aveva posato le sue fresche e giovani labbra sopra quella ferita febbricitante. Se il suo amore avesse potuto guarirlo… pensava. Non era forse così, quando da bambini si cadeva facendosi male? Il bacio della mamma sulla parte ferita guariva dolore e paura.

Il sole stava tramontando dietro una collina, e i suoi raggi, caldi come olio e dolci come l’infanzia, abbracciarono i due giovani che si accingevano a partire.
I loro occhi riflettevano ogni momento appena vissuto, si guardavano senza parlare.
Tornavano al ranch, al centro ricerche, alla loro casa, dai familiari, dagli amici. Sapevano bene, dentro il loro cuore, che niente e nessuno li avrebbe mai più divisi.


FINE
 
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view post Posted on 15/10/2023, 09:18     +1   +1   -1
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GUERRA E PACE

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Questa fanfiction prende i dialoghi dal terzo Film di Montaggio: “Goldrake addio”.
Si nota che in molto punti, i personaggi hanno un ruolo ben diverso dalla serie originale, di conseguenza anche la trama è stravolta.



La Comandante Rubina è a bordo della sua astronave. Sta volando verso Skarmoon con la testa piena di sogni romantici, cuoricini, frasi romantiche appena sussurrate sotto cieli stellati; ha appena saputo che il suo amore adolescenziale non è perito nella guerra interplanetaria come lei ha creduto per tanti anni, ma è vivo e vegeto.
Il ruggito di Re Vega via radio, la fa scendere di botto dalla nuvoletta rosa.
“Comandante Rubina! A che punto è la tua missione?”
“Sto arrivando alla base, mio sire” rispose lei con piglio sicuro.

Vega, con preoccupazione si confidò con Zuril: “No, non è possibile… quella donna è ancora innamorata di Goldrake!”
“Dopo otto anni, l’ama ancora?” chiese interdetto lo scienziato.
“E’ così, purtroppo. Zuril, se voi riuscirete ad uccidere Goldrake, Rubina sarà vostra.”
“Come dite, sire?” balbettò lui incredulo che gli fosse capitata una simile fortuna.
“Parola d’onore. E’ stata per lungo tempo la mia amante, ora è giusto che abbiate un’adeguata ricompensa se riuscirete nella missione.”
“I…io… v… vi… vi ringrazio Maestà” balbettò lui con voce tremula e occhi porcini.

“Eccola, sta arrivando! Vedo che ha appena parcheggiato la pantera cosmica.”
Il Re l’aveva vista dall’ampia vetrata del salone. Dovettero comunque aspettare una mezz’ora buona, dato che era andata a cambiarsi d’abito, pettinarsi e ornarsi di corona regale. Una Comandante non si presenta davanti al suo sovrano in tuta spaziale, che diamine! Le formalità sono importanti!

“Bene arrivata Comandante Rubina, com’è andato il viaggio?” le chiese il Re.
“Molto bene, grazie. Durante il lungo volo ho riflettuto, e alla fine ho capito perché è scoppiata questa guerra intergalattica con milioni di morti, pianeti distrutti, popoli in via di estinzione.”

(?)

“Sì, io e Goldrake eravamo amici, andrò subito a cercarlo per stabilire con lui una pace onorevole. La guerra è scoppiata a causa di malintesi, non sarebbe successo niente sennò.”
“Malintesi?” chiesero in coro Re Vega e Zuril alquanto sbigottiti.
“Tutta colpa del traduttore automatico che non funzionava bene!” rispose la donna con sicurezza estrema.
“Ora devo partire subito verso la Terra per parlare con lui, scusate.”

La Comandante, dopo un breve e corretto inchino, si avviò per il lungo corridoio che conduceva verso l’uscita. Si era cambiata in fretta e furia: il ricco abito principesco giaceva per terra in un angolo della sala.

Zuril le faceva la posta e, quando la vide, la bloccò sul portone centrale.
“Lasciami passare Zuril, ho una missione da compiere.”
“No… ti amo, ti ho sempre amata Rubina. Goldrake è cattivo perché da poco ha ucciso Marcus, il suo più caro amico. Ricorda che è anche nemico di Re Vega, quindi…”
Lei, per nulla intimorita tirò fuori una pistola, puntandola diritta a quell’essere disgustoso.
“Sei un vigliacco, spostati! Devo andare!”
La ragazza balzò sulla navetta e accese i motori al massimo.
Zuril e Gandal corsero dal sovrano per notiziarlo circa il colloquio appena avuto con la Comandante.
“Va tutto come previsto, maestà. Ora Rubina ha dei grossi dubbi su Goldrake, quindi non c’è da allarmarsi.”

La ragazza stava volando puntando dritta verso la Terra, quando incrociò l’astronave di Goldrake.
Appena lo intravide dal vetro, gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Actarus! Sono Rubina, non mi riconosci?”
Lui si avvicinò per guardare meglio e si ricordò di lei.
“Rubina! Quanto tempo è passato; eravamo sul pianeta Bez!”


Otto anni prima in vacanza su Bez


Rubina: “Sai, Actarus, stavo pensando a quante stelle ci possono essere nell’universo intero.”
Actarus: “Tante, ma nessuna è bella come i tuoi occhi.”
Rubina: “Ho passato con te i più bei giorni della mia vita.”
Actarus: “Che peccato che domani dobbiamo partire.”
Rubina: “Noi dobbiamo rivederci! Ci troveremo qui il prossimo anno.”
Actarus: “Sì Rubina, te lo prometto, non posso vivere senza di te.”
Rubina: “Oh Actarus, adesso dimmi che mi vuoi bene.”
Actarus: “Sì, sì.”


Il pianeta Bez era una stella non troppo grande, pacifica, poco abitata, circondata dal mare, vaste spiagge, l’entroterra con laghi, fiumi, ruscelli, clima costante, niente inquinamento.
Questa piccola stella, nella parte esterna verso sud, vantava un grande edificio tutto bianco e verde a ridosso di una vasta spiaggia, dove la sabbia era quasi impalpabile, luogo ideale per ospitare giovani benestanti, che per la prima volta avevano il permesso di andare in vacanza da soli.
La struttura comprendeva personale preparato e responsabile, in grado di sorvegliare adeguatamente i teenagers, intrattenerli, coinvolgerli in attività di gruppo, farli divertire e tanto altro.
In un luminoso mattino di inizio luglio, atterrarono su Bez un ragazzo e una ragazza, che, a giudicare dal loro aspetto, sembravano aver appena varcato la soglia dell’adolescenza; appena le rispettive astronavi, guidate dai loro precettori, toccarono il suolo, si congedarono velocemente dagli stessi con un saluto rapidissimo. Corsero alla reception, dove subito ebbero la conferma della loro prenotazione, chiave della camera, un libretto con la piantina del luogo, gli orari dei pasti, degli svaghi, numeri di telefono per ogni necessità, la raccomandazione di divertirsi e usare il loro tempo al meglio, di fare tutto il possibile perché questo soggiorno fosse per ognuno di loro indimenticabile.
Un ascensore imbottito come scrigno li accolse, salì al terzo piano e si aprì su un corridoio di marmo bianco.
I due ragazzi, rispettivamente Actarus e Rubina, tenevano ben stretta in mano la chiave della loro stanza e già la mente febbrile si popolava di fantasie su cosa avrebbero fatto più tardi, domani, dopodomani: una voglia pazzesca di non stare mai fermi.
“Ciao, mi chiamo Rubina e sono veghiana, tu invece?” chiese la fanciulla tendendo la mano paffuta al ragazzo che le stava a fianco.
“Io sono Actarus e vengo da Fleed, piacere di fare la tua conoscenza” le rispose stringendo la mano di lei, con una presa forte e virile.
“Ci vediamo più tardi.”
“A dopo” gli rispose con un sorriso civettuolo sulle labbra e la testa inclinata di lato.
Rubina entrò nella camera avvolta nella penombra e subito sorrise. Aveva preteso un letto a baldacchino tutto rosa, poltroncine di raso e velluto, la specchiera come lei aveva desiderato, cioè la riproduzione esatta della casa della Barbie che a lei piaceva tanto.
“Mi metto subito il costume, secchiello, paletta, formine, salvagente a forma di cigno e rimango in spiaggia fino al tramonto!”
Uscì dalla camera col due pezzi a fiori pieno di frappe e volants, zoccoletti ai piedi. Actarus la raggiunse subito e insieme scesero diretti verso il mare.
“Ehi, Rubina, ma dove vai con quel coso, guarda che non si nuota mica così!”
“E come allora? Io senza salvagente non mi bagno nemmeno i piedi.”
Actarus le rivolse un sorriso gentile e di rimando: “Ma se usi sempre quello non imparerai mai, prova dove si tocca, ti aiuto io, vedrai che è facile.”
“Ho paura, no, no, ti prego…” gli rispose con voce petulante e piagnucolosa.
“Dai, vieni con me.”

La prese per mano e la guidò verso il mare, dove da un lato c’era una corda per tenersi.
Molti bambini e ragazzi si tenevano in equilibrio con una mano alla rete, con l’altra abbozzavano qualche movimento circolare nell’acqua.
“Ecco, fai come loro: poco alla volta acquisterai più sicurezza e starai a galla senza paura.”
Rubina era titubante, tuttavia si mise d’impegno nell’impresa.
Dopo qualche minuto ci prese gusto e cominciò a divertirsi: emetteva gridolini di paura, rideva e coi piedi batteva forte nell’acqua, provocando spruzzi chilometrici assieme ad altre sue coetanee.
Da lontano ammirava Actarus, il quale, insieme ad altri giovani si spingevano al largo nuotando in un perfetto e sincronizzato stile libero.
Era prossimo mezzogiorno, quando l’altoparlante avvertiva gli ospiti del resort di prepararsi in tempo per l’ora di pranzo.
Rubina posò i piedi sul fondale marino e subito un granchio, decisamente affamato, le addentò l’alluce.
Urla di terrore e dolore tagliarono l’aria, quindi il bagnino corse prontamente verso la fanciulla gocciolante col granchio in bella vista, che non si decideva a mollare il dito; la prese tra le sue forti braccia e corse in infermeria.
Una giovane e gentile dottoressa, evidentemente abituata a quel genere di incidenti, con ferma sicurezza tranquillizzò Rubina; uno spray antidolorifico calmò il dolore all’istante e un cerotto rosa glitterato consolò abbondantemente la spaventata ragazzina.
Fuori, nel bianco corridoio, Actarus l’attendeva con un sorriso rassicurante.
“Come stai? È passato il male? Ti senti di mangiare qualcosa, vero?”
Ancora lievemente sotto shock, Rubina gli sorrise di rimando e, aggrappandosi al braccio di lui, un tantino zoppicante, si decise a seguirlo in sala da pranzo.
Il cameriere si avvicinò al piccolo tavolo rotondo, dove i due giovani si erano appena seduti, e porse loro la lista del menù del giorno.
Si avvicinò alla ragazza e le suggerì piano, ammiccando con fare scherzoso, ma al tempo stesso, mantenendo un tono serio e professionale: “Desidera un bel risotto al granchio, signorina? Quello che lei ha pescato poco fa era bello grosso, succoso e saporito. Ora che gli abbiamo fatto passare la voglia di attaccarsi alle sue estremità, l’unico modo per vendicarsi è ripagarlo con la stessa moneta. Che ne dice?”
Rubina impallidì e, sconvolta, negò violentemente col capo.
“No, no e poi no! Quel brutto mostro non voglio vederlo nemmeno dipinto, la prego! Mi porti una pastina in brodo” rispose la ragazza, con voce decisamente tremante e spaventata.
Il cameriere trattenne a malapena un sorriso divertito, fece un lieve inchino e si avviò spedito in cucina con le ordinazioni.

I due ragazzi avevano fatto amicizia fin da quel primo giorno di vacanza, si erano sentiti subito in sintonia, quindi, dopo qualche ora di riposo pomeridiano, decisero di fare una passeggiata all’ombra della pineta.
Entrati ben presto in confidenza, raccontarono di sé, dei lori rispettivi pianeti, della loro vita, gli studi intrapresi, le loro famiglie, gli svaghi, le passioni, le conoscenze, gli usi e costumi della loro terra.
“Tra poche ore inizia la musica nella sala da ballo con dei corsi per principianti, perché non ci andiamo?” chiese Rubina al principe di Fleed.
“Molto volentieri.”
Verso l’imbrunire, la fanciulla cercò nel suo guardaroba il completino pieno di strass coi pompon, i nastri e le farfalle. I sandali rosa fuxia, coi brillantini e tacco cinque, la facevano audace.
Aveva ancora un fisico molto infantile: un accenno di seno, ma il punto vita inesistente. Così vestita, era piuttosto buffa.
Entrò nella sala piena di bambini, i quali, al ritmo della musica, tentavano di seguire il maestro ballerino nei primi rudimenti del ballo.
Actarus la osservava da lontano con sguardi di incoraggiamento, poi Rubina si staccò dal gruppo e gli chiese di accompagnarla al bar.
“Tutto questo movimento mi ha messo una gran sete, andiamo a prendere una gazzosa?”
“Sicuro, vieni!”
Nel piano bar, brillavano per la loro presenza i più nobili e ricchi ereditieri delle vicine galassie.
Non facevano nulla, tranne osservare con noncuranza le ragazze più belle, tenere il bicchiere di liquore sempre in mano, scambiarsi notizie e novità sui pettegolezzi del loro ambiente.
“Niente male quella, cosa dici se…” chiese il principe ereditario di Galar al duca di Zari.
“Ma non vedi che è una bamboccia, guarda come si veste! Perdi solo il tuo tempo a starle dietro, credimi, per noi ci vuole ben altro! Una come quella che sta passando adesso!” gli rispose di rimando, indicando con lo sguardo una ragazza vestita in una maniera che lasciava ben poco all’immaginazione e tutta la sua persona era un implicito invito ai ragazzi a farsi avanti senza troppe formalità.
“Per questo mi piace! Cosa scommetti che riesco a sedurla? È così stupida e ingenua che mi cascherà tra le braccia come una pera cotta! Poi, lo stile Lolita mi è sempre piaciuto.”
“Contento te. Vada per la scommessa, io dico che ti manda al diavolo, invece!”
“Una gazzosa, per favore… anzi no, meglio un’aranciata!” ordinò Rubina al cameriere, ma il principe di Galar la prevenne con un: “Ciao, piacere di conoscerti, mi chiamo Gex. Aspetta, ti offro io da bere.”
“No, ma io…” balbettò Rubina confusa.
“Due doppi cognac, subito!”
Il giovane era alquanto sicuro di sé, scrutava la ragazza con occhio pieno di malizia, tutta la sua persona tradiva la buona discendenza, ma lasciava al contempo trapelare che, a dispetto della sua giovane età, aveva già alle spalle una vita vissuta, vizi malsani, quella prepotenza mal dissimulata di chi è abituato a comandare, farsi ubbidire, ottenere tutto e subito: dai subordinati, dalle donne, dalla vita.
Sul bancone fecero la comparsa i due bicchieri ordinati: Rubina ne assaggiò un piccolo sorso e tutta la sua espressione fu terribilmente disgustata, mai aveva assaggiato qualcosa di tanto orribile.
Con decisione allungò la mano verso la zuccheriera e, senza esitare, prese il barattolo e versò lo zucchero senza parsimonia dentro il cognac, mescolando bene col cucchiaino.
Gex rimase letteralmente basito, ma subito un sorriso gli allargò la bocca e il cuore.
“Versa pure e bevilo tutto in un fiato. Questa sera ho fatto tombola!” pensò malignamente soddisfatto.
Prima che Rubina portasse alle labbra quella bevanda micidiale, una mano calda la prese per il gomito e la portò lontana da quel posto infernale.
“Ma… Actarus, che ci fai… finalmente, ti avevo perso di vista.”
Lui la guardava preoccupato e sollevato ad un tempo. Meno male! Era arrivato per un soffio.
Le porse subito un bicchiere colmo di acqua frizzante aromatizzata, poi, senza parlare, la guidò più avanti, in una sala dove c’era una musica dai toni bassi e una penombra lasciava intravedere coppie che si lasciavano trasportare dalle note.
Anche i due giovani si unirono al gruppo e insieme provarono il primo ballo lento della loro vita, quello che non si dimentica più, quello che con un salto ti porta avanti all’improvviso, tra gli adulti; ti senti grande, diverso, soprattutto quando c’è già sintonia nella coppia.
Fuori, l’aurora faceva capolino in fondo al mare.

Così passavano le settimane e la vacanza era ormai agli sgoccioli.
E arrivò anche il giorno dell’episodio della barchetta sopra citato.


“E poi scoppiò questa maledetta guerra!” pensò Actarus mentre rivedeva Rubina dopo otto lunghi anni.
Ricordò anche che, il giorno stabilito per la partenza, una notizia totalmente inaspettata, sconvolse tutti gli ospiti della vacanza del pianeta Bez.
Re Vega aveva attaccato Fleed di sorpresa e voleva sottomettere tutta la nebulosa.
Ci fu un improvviso fuggi fuggi, nervosismo, notizie contradditorie e confuse sentite di sfuggita via radio si materializzarono in quel luogo ameno.
Rubina e Actarus si salutarono di corsa: dovevano tornare a casa, capire cos’era successo, fare qualcosa.
“Noi siamo amici Actarus, sono certa che tutto ciò che è accaduto sia dovuto solo a malintesi…”
“Sì Rubina, ma ora dobbiamo lasciarci, addio!”

E ora? Prima che il pilota di Goldrake potesse finire di ricordare il passato, un raggio dell’astronave guidata da Zuril lo colpì in pieno, intrappolando il suo disco in una tela di ragno.
Actarus provò in tutti i modi a liberarsi, ma era inutile.
“Rubina, mi hai tradito!”
“No, non è vero, te lo giuro!” gridò lei disperatissima.
La Comandante, quando vide che un raggio mortale stava per colpire Goldrake, si mise in mezzo come scudo. Venne colpita in pieno e non riuscì più a tenere i comandi.
La mano di Goldrake impedì al velivolo di precipitare, intanto Zuril godeva perfidamente vedendo il suo storico nemico ormai alla fine.
“Non pensare a me, salvati!” gridò lei.
“Non posso Rubina, non potrei più vivere dopo.”
Per fortuna, le astronavi guidate da Alcor, Venusia e Maria, arrivarono in soccorso; la nave madre prese fuoco e venne distrutta.

Tutti scesero dai rispettivi velivoli; Actarus portava Rubina moribonda in braccio e la deponeva sulla tenera erba primaverile.
“Actarus…” disse Maria in lacrime, facendo l’atto di andare verso il fratello.
“No, Rubina sta morendo”, la fermò Alcor.
Lei aprì gli occhi e, benchè sofferente, sorrise.
“Non sapevo che volevano ucciderti.”
“Perdonami, ti prego. Vorrei morire per aver dubitato di te, devi credermi” si scusò lui, prendendole entrambe le mani.
Lei sollevò il capo con evidente sforzo.
“No, sta ferma, non ti affaticare.”
“Actarus, ti porto una buona notizia: il pianeta Fleed sta rinascendo.”
“Ci torneremo insieme, Rubina.”
“Fammi una promessa. Il primo fiore che sboccerà su Fleed, lo chiamerai col mio nome?”
“Sì, te lo prometto.”
“Ho tanto freddo… stai tranquillo, non morirò, diventerò un fiore rosso e starò sempre vicina a te.”
“Rubina… Rubina…”
Venusia si appoggiò al Delfino Spaziale e non potè trattenere un singhiozzo.
Intanto, Zuril moribondo, arrancava puntando la pistola verso Actarus.
“Morirete insieme, vigliacchi!”
Alcor, avendo dei riflessi molto pronti, sparò a Zuril appena in tempo. Rubina spirò insieme a lui.

In mezzo a questa strage e disperazione collettiva della durata di alcuni minuti, alla fine, in cima al monte Yastugatake, Actarus giurò: “Vega, io ti ucciderò, vivrò solo per questo!”


FINE

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view post Posted on 28/11/2023, 14:09     +1   +1   -1
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DESTINO DI UN MINIDISCO

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“Con questo mezzo appena collaudato, arriverai a tempo di record ad Athena”, disse con un largo sorriso il dott. Procton al giovane che si accingeva a partire. “Fai attenzione, tanti auguri e congratulazioni!”
“Grazie infinite dottore: a Lei e tutti i suoi collaboratori. Non so come avrei fatto senza il vostro aiuto”, gli rispose il ragazzo stringendogli la mano con calore e riconoscenza.
Agor salì svelto sul disco giallo e blu dalla forma lunga e stretta, accese i motori, mentre spegneva ogni contatto per non essere intercettato durante il viaggio.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Athena era una stella non troppo grande e poco abitata. Molto pacifica e poteva vantare infiniti paesaggi meravigliosi, quasi fiabeschi.
Catene montuose, laghi, fiumi, ruscelli, sterminate praterie con fiori, piante, e animali di tutte le razze.
La Capitale era verso il centro-sud, e la periferia immensa.
Se questa stella poteva fregiarsi di essere una delle più belle della nebulosa, non certo si poteva dire che fosse ricca di risorse.
La maggior parte della popolazione viveva dei prodotti ricavati dalla campagna, altri erano pescatori, molti sbarcavano il lunario adeguandosi ai lavori più disparati e spesso mal retribuiti.

Non era raro che alcuni giovani decidessero di fare esperienze presso altri pianeti, sia di studio che di lavoro. Solitamente, nell’arco di un anno, lavorando fuori, riuscivano a mettere da parte un bel gruzzolo e permettere una certa stabilità economica alla famiglia, oppure decidere di farsi una casa propria e sposarsi. Altri, non avendo nessuno, decidevano di vivere per sempre all’estero.

Agor aveva quasi ventisei anni, una figura alta e slanciata, i tratti del viso marcati, gli occhi fondi e scuri, nei quali si indovinava innocenza, onestà e determinazione ad un tempo. Era il primo di cinque figli. Fidanzato dai tempi della scuola con una ragazza di qualche anno più giovane di lui, erano ormai giunti alla conclusione che anche per loro era tempo di mettere su famiglia.

“… ma non abbiamo una casa nostra, né i mezzi per costruirla…” mormorò Shira in un assolato pomeriggio di settembre mentre discutevano animatamente dei loro progetti.
Camminavano nella campagna, uno di fianco all’altra tenendosi per mano, e pensavano al loro futuro incerto con lo sguardo fisso a terra.
Stanchi e accaldati, sedettero all’ombra di una grande quercia. Lui arrotolò nell’indice una lunga ciocca dei biondi capelli della giovane, poi le disse che per caso, proprio il giorno prima, aveva saputo che sul pianeta Vega, cercavano operai addetti alla costruzione di minidischi.
“Che cosa sono i minidischi?” gli chiese stupita.
“Mezzi di trasporto volanti di piccole dimensioni… da quanto ho letto, ne usano moltissimi. E’ un lavoro molto ben retribuito, nell’arco di un paio di mesi diventerò ricco”, concluse sorridendo.
“Ricco è una parola grossa, ma da quanto ho capito riceverai una bella somma, che sarà a noi preziosa. Hai già preso contatti?” gli chiese con un sorriso.
“Finora ho solo chiesto informazioni, ma non mi sono impegnato, volevo prima parlarne con te.”
“Due mesi passano veloci, io dico che devi andare; ma sei sicuro che quel lavoro sia fattibile e alla tua portata?” chiese pensosa, mentre un velo di malinconia offuscava il suo sguardo azzurro perso in un punto lontano.
“Sì, con i miei studi e la pratica che ho fatto, so di potermela cavare; comunque prima c’è un addestramento della durata di sette giorni.”

In capo ad una settimana, Agor era in mezzo ai tanti addetti della catena di montaggio per la fabbricazione di minidischi. In tuta da lavoro lavorava alacremente, era uno dei più veloci, e spesso rimaneva anche quando il suo turno era finito. Voleva tornare a casa presto e guadagnare il più possibile.
Era giunto su Vega con una nave pubblica, il mezzo più economico, quindi il viaggio era stato piuttosto lungo, pieno di soste e stancante. Gente di ogni età stipata dappertutto e con molti bagagli.

Hydargos compariva nel reparto una volta al giorno, di solito a metà mattina. Faceva il suo giro, controllava tutto, poi riferiva a Gandal ogni cosa nel dettaglio.

Nell’enorme magazzino dove si producevano mostri, il disco alato Bun Bun era appena stato ultimato.
Era giunto il momento di farlo scendere su Tokio per eliminare Goldrake. Anche il numero di minidischi era perfetto: dovevano precederlo in tutte le formazioni. Si trattava solo di assegnare il pilota a ciascun UFO.
Lady Gandal si recò di persona dentro la fabbrica, e decise che Agor avrebbe fatto parte della seconda formazione.

“All’alba di domani il nuovo mostro attaccherà i terrestri, e questo sarà il disco che guiderai.”
Il giovane rimase per molti secondi senza parole. Ma come? Lui era venuto lì come operaio, e una volta terminato il lavoro, sarebbe tornato a casa. Aveva letto bene il contratto: lo aveva firmato e ricevuto il primo mese di salario.
Nelle settimane in cui aveva sostato presso la catena di montaggio, sentendo i discorsi dei compagni, sapeva che i mini ufo venivano sistematicamente distrutti da Goldrake. Pilotarli, era andare incontro a morte certa.
Tentò di spiegare qualcosa a quella strana minuscola creatura dalla voce stridula e dai modi imperiosi, ma lei lo zittì subito e ordinò a Hydargos di insegnarli ad usare i comandi.
“Chi non segue gli ordini di Vega, viene giustiziato”, così lo liquidò mentre scompariva dentro il cranio turchino del consorte.

Agor si mise il capo tra le mani e iniziò a pensare. Non voleva avvertire la sua famiglia e farli preoccupare, però doveva assolutamente trovare il modo per salvarsi, e in fretta.
La sera prima aveva parlato a lungo con Shira, ma non aveva accennato al prossimo combattimento, lei gli aveva chiesto quando sarebbe tornato a casa, perché aveva una cosa molto importante da dirgli.

Ogni minidisco possedeva un piccolo pulsante, il quale sparava nebbia per mimetizzarsi.
“Mentre sono in volo, prima di arrivare verso la Terra, potrei tentare di fuggire… ma poi i veghiani sarebbero in grado di localizzarmi…” pensò il giovane in preda allo sconforto più totale.

Suonò l’allarme: era il segnale che la Nave Madre sarebbe decollata entro pochi minuti, quindi il mostro e gli ufo dovevano entrare e scendere in combattimento appena giunti in prossimità della Terra.
Il ragazzo infilò la tuta spaziale, il casco ed entrò nel disco. Sapeva di avere un po’ di tempo a disposizione, dato che lui faceva parte della seconda formazione, quindi, appena gli altri ufo uscirono, con mani tremanti, staccò il contatto che permetteva ai Comandanti di rintracciarlo.
Una volta uscito dalla Nave, seguì gli altri, ma in prossimità dell’atmosfera terrestre, sparse molta nebbia per confondere le tracce, e cambiò rotta.

Ad un certo punto, l’ufo iniziò a perdere quota, Agor capì che non obbediva più ai suoi comandi, senza dubbio era difettoso, oppure durante il viaggio aveva subito danni: un odore acre e fumoso si sparse nell’abitacolo, fece quindi in modo di allontanarsi in fretta e riuscì ad atterrare malamente in un campo deserto.
L’atterraggio fu piuttosto brusco, il ragazzo quasi perse i sensi, poi, riavutosi, comprese che doveva subito allontanarsi perché il disco sarebbe esploso da un momento all’altro.
Camminava in fretta, ma spesso inciampava, aveva contusioni e ferite, doveva chiedere aiuto, ma non sapeva come.


“Mizar, smettila di mangiare fragole, o non ce ne saranno più da portare a casa per la torta.”
“Ma sono buonissime, mai viste così grandi e succose”, rispose il ragazzino a Venusia con la bocca piena.
In fretta riempirono due panieri, poi montarono a cavallo per rientrare alla fattoria.
Ad un tratto, in un punto lontano, videro in mezzo ad un prato una sagoma stesa a terra che non si muoveva. Si avvicinarono cauti, e subito capirono che si trattava di un giovane ferito e privo di sensi.
Venusia contattò Procton, il quale partì col furgone insieme ad Actarus e Alcor.
Lo portarono in infermeria e fecero venire un dottore; non era grave, ma non si svegliava e di tanto in tanto mormorava frasi spezzate, sembrava agitato e in preda a delirio.
Alcune ore dopo aprì lentamente gli occhi: era molto debole anche per stupirsi. La stanza era tutta bianca, davanti a lui c’era un uomo che lo fissava.
“Buongiorno. Sono il dottor Procton. Come si sente?”
“Dove sono? Che ci faccio qui?” chiese Agor con voce spezzata.
“Si trovava ferito e privo di sensi in un campo non molto distante da questo centro.”
“Ah… ora ricordo…” mormorò chiudendo le palpebre pesanti.

Passarono alcuni giorni, e il ragazzo si riprese in fretta. Si alzò in piedi e fece qualche passo senza aiuto, gli tornò l’appetito e l’entusiasmo. Nella sua mente, i ricordi degli eventi di quell’ultimo periodo formarono un quadro ben chiaro, ora sapeva cosa doveva fare.

Procton aveva ascoltato la sua vicenda e spiegato che lui stesso si occupava di Astronomia, sapeva molto bene della ferocia di Vega e aveva il supporto dei suoi collaboratori per prevenire gli attacchi. Actarus e Alcor vennero presentati il primo come suo figlio che si occupava a tempo pieno della fattoria e fidanzato con Venusia, il secondo un amico venuto dall’America, che si trovava lì come ospite. Non accennò niente di Goldrake e del suo pilota, né del TFO.

Un giorno, Agor chiese se poteva essere messo in contatto con la sua famiglia, e Hayashi si offrì subito di aiutarlo. La linea era disturbata, ma dopo un’ora, sul grande schermo vide i suoi genitori e parlò con loro. Ne furono tutti molto felici, poi apparvero i fratelli.
“Shira è lì con voi?” chiese.
“In questo momento non è in casa, ma domani a questa ora ha promesso che sarà qui, e vi vedrete.”
“Che sollievo! A presto, allora.”

I tecnici del Centro avevano quasi ultimato una navetta per permettere al ragazzo di navigare nello spazio e fare ritorno al suo pianeta.
Nemmeno 24 ore dopo, nello studio del dottore ci fu il collegamento con Athena. La prima che vide fu la sorella minore, che lo fissava in modo strano, tra il divertito e l’impaziente. E subito dopo vide una cosa che emozionò tutti i presenti, e che per poco non fece prendere un colpo ad Agor.
Avanzava lentamente una figura di giovane donna che teneva tra le braccia un minuscolo fagotto di lana celeste dalla quale emerse una piccolissima testa di bambino dal viso rubizzo e rugoso, gli occhi semichiusi e la bocca spalancata in un enorme sbadiglio.
Shira era raggiante, la felicità fatta donna, un sorriso dolcissimo le illuminava il viso.
“Ciao!” poi prese la mano del piccolo, la mosse in segno di saluto, e disse: “fai ciao a papà.”
Agor era senza parole, lei sapeva che gli doveva molte spiegazioni.
“Bè, che sei sorpreso è dir poco, ma il fatto è che ha avuto una gran fretta di venire al mondo.”
“Ho… ho capito… io…. io… non sapevo niente… ma perché?”
Lei rise col viso, gli occhi, la bocca, rovesciò la testa indietro, poi lo fissò con quel suo sguardo azzurro che brillava di amore e di vita.
“Quando decidesti di partire per lavoro, questo piccolino era già da alcuni mesi dentro di me, e se non te ne ho parlato è stato per via della nostra situazione economica incerta. E’ nato prematuro di almeno otto settimane, ma ora scoppia di vita e salute. Non vediamo l’ora di abbracciarti.”

Shira vide che il giovane aveva il viso stanco e provato, segnato da profonde occhiaie, di certo non aveva passato bei momenti, ma sapeva che il peggio era passato.
E nemmeno lui avrebbe mai saputo che per lunghi giorni e interminabili notti, lei e il suo piccolino erano stati in pericolo di vita.
Non aveva senso parlare di cose brutte, quando ormai sono passate e sai che non torneranno più. La vita era un dono meraviglioso, anche se fossero rimasti poveri; erano talmente ricchi dentro, da poter dispensare i loro doni a tutto il pianeta.


FINE

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NATALE IN COMPAGNIA

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Da questa bellissima immagine di Handesigner, io metto la storia

Tetsuya riflette, pensa, e decide di abbandonare per sempre l’atteggiamento a tratti da duro con Jun, e le promette un futuro tutto rosa, complicità, collaborazione, comprensione e compagnia.
Lei, dopo qualche titubanza dimostra di credergli, almeno vuole, visto che nel passato si era illusa così tante volte: bè ora che la tiene tra le braccia in quel modo e con quello sguardo, può anche crederci. “Ad ogni modo, per sicurezza, eviterò di fare allenamenti in palestra insieme a lui, non si sa mai, le recidive sono sempre dietro l’angolo, ma ora voglio godermi questi istanti a tutto tondo”.
La ragazza pensa a questo, ma non può fare a meno di commuoversi ammirando il dono che lui le fa fatto: una scatola rossa a forma di cuore, con dentro un bellissimo ciondolo in oro.

Maria è tornata con la memoria a tutti quegli anni in cui passava le feste col suo nonno adottivo, quello che l’aveva salvata e portata via da Fleed in fiamme: i suoi gesti, l’innocenza, la vivacità, i nastri di seta coi quali legava le trecce, sono di quei tempi ancora spensierati in cui non ricordava niente del suo pianeta, dei genitori periti tragicamente durante l’attacco di Vega. Lei così piccola, sola e sperduta in quella sua patria ormai divenuta incandescente.
“Questo è il più bel regalo della mia vita, anche se non so ancora il contenuto, sento che si tratta di una sorpresa esplosiva!”
Così pensa la giovane, mentre sente dentro il cuore una grande voglia di ricominciare e godere ogni istante della vita.

Venusia sta assaporando lentamente un piatto tutto nuovo per lei: l’ha preparato Actarus in persona, si tratta di una ricetta molto, molto speciale, glielo cucinava personalmente sempre sua madre in occasioni particolari. Il sapore buono veniva proprio dalla cura, dall’amore, dalla disposizione d’animo che metteva e lui ha voluto ripetere il gesto per Venusia e solo per lei, si è alzato di notte in segreto per cucinarlo.
“Vorrei che questo piatto non finisse mai, questi istanti, i piccoli segreti tra noi, sono i momenti più belli della mia vita.”
Lui la osserva con uno sguardo serio e profondo: i loro occhi si incrociano e senza bisogno di parole, si dicono tutto.

Miwa ha preparato da sola un cartoccio con qualcosa di veloce da mangiare, anche in questi istanti non dimentica di essere il personal trainer di Hiroshi, anzi, d’ora in poi gli allenamenti saranno ancora più duri, la sua espressione lascia intendere molto bene questi pensieri.
“Voglio chiedere a Miwa di venire ad abitare con me, ora o mai più! Sicuro, anno nuovo, vita nuova, sarà come sarà, ma ora desidero questo con tutte le mie forze!”.

Tutti, tranne Maria, devono ancora scartare i pacchetti a loro destinati: sentono che possono ancora aspettare, perché il loro cuore in questi momenti è già colmo di regali, i più belli e magici che possono immaginare. Essere in un periodo di pace e insieme agli amici più cari, condividere ricordi ed emozioni, trovare sempre qualcosa di bello nelle cose più semplici, ma per questo ancora più preziose che la vita regala.


FINE


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Ho partecipato ad un Contest a tema natalizio, e di come è diversa la tradizione giapponese dalla nostra. Non c’è nessun tema religioso, ma è più una specie di San Valentino.
Sono arrivata seconda classificata.



Titolo: "Milleluci"

Autore: Luce.


Protagonisti: Maya e Masumi

Breve Descrizione: Romantica e passionale

Numero di Capitoli: Uno


Contiene Spoiler: No

Contenuti Erotici: Sì



luce

Questa storia si svolge nello spazio temporale del volume 49 del manga


Quel 24 Dicembre era particolarmente freddo rispetto agli anni passati. La città di Tokio era coperta da uno spesso strato di candida neve caduta durante la notte e parte del mattino.
Nel primo pomeriggio il cielo si era a tratti rischiarato e le strade decorate e illuminate a festa, erano piene di gente. Molte le giovani coppie, gruppi di adolescenti, intere famiglie, rare le persone sole.

Maya Kitajima e Masumi Hayami passeggiavano per le vie del centro tenendosi per mano.
Le vetrine dei negozi traboccavano di ogni genere di articoli e di clienti, ed erano riccamente addobbate.
Entrambi tenevano in mano un pacco: era il regalo che si erano fatti e avrebbero poi aperto una volta a casa, davanti all’albero natalizio e al caminetto acceso.
Avevano deciso di cenare in casa soli, non in un locale come facevano in molti seguendo la tradizione, ma non si erano fatti mancare le specialità tipiche di quella ricorrenza. Il pollo fritto e il dolce natalizio giapponese, leggero e spugnoso con ripieno di panna montata e glassa, condita con fragole di un colore rosso intenso e tagliate alla perfezione.

Dopo gli acquisti erano stati ad ammirare Tokyo Disneyland, ispirato ai libri delle fiabe con i divertenti amici della Disney. L’evento offriva agli ospiti un felice e fantastico Natale con fuochi d’artificio, mercanzie speciali, caramelle omaggio e menu di Natale speciali e deliziosi.
Erano rimasti lì per circa mezz’ora, poi videro che il cielo si oscurava, quindi presero un taxi che li portò in un grande palazzo, dove un magnifico attico li attendeva.
L’ascensore imbottito come uno scrigno li condusse all’ultimo piano. La porta si aprì come per magia, e una immensa sala dal pavimento di marmo adornato di ricchi tappeti li accolse.
Quadri alle pareti e addobbi natalizi luccicanti adornavano l’ambiente con sobrietà e buon gusto.
Un ricco e imponente lampadario di cristallo troneggiava in mezzo al soffitto della stanza illuminandola a giorno.
Il caminetto acceso scoppiettava allegramente, rendendo ancora più intima e suggestiva l’atmosfera natalizia. Lì accanto c’era un abete decorato con luci rosse, origami, lanterne di carta e piccoli ventagli.

Decisero di aprire i pacchetti prima di cena. Maya gli aveva regalato una sciarpa in pura seta molto elegante, insieme ad una piccola bottiglia di profumo. Nel biglietto aveva scritto:

Al nostro primo Natale insieme. Auguri. La tua Maya.

“E’ un regalo meraviglioso, devo dire che conosci molto bene i miei gusti, cara. E non sarà certo l’unico Natale con te, ma il primo di una serie infinita” le disse con calore.
“Ora tocca a te vedere cosa c’è in quel pacco”, aggiunse con un enigmatico sorriso.

Con mani tremanti, la ragazza tolse la carta colorata da una scatola rettangolare. Ciò che vide e poi lesse, la lasciò di stucco.
Una preziosa scultura in ceramica riproduceva in modo mirabile e a grandezza naturale un vistoso mazzo di rose scarlatte, le stesse che tante volte si era vista recapitare da un ammiratore segreto.
Vedendo la sua espressione lui sorrise, ma ancora di più quando con voce rotta, lesse il biglietto.

Dal tuo ammiratore segreto. Sei semplicemente meravigliosa, ragazzina.


“Eri tu… sei sempre stato tu che… quel giorno l’avevo capito, ma solo ora me lo dici.”
“Te l’ho detto in un modo alquanto originale, non trovi? Ho voluto che fosse scritto sulla carta, così queste parole non svaniranno mai.”
Lei non fu più in grado di rispondere, ma un leggero colpo alla porta la tolse dall’imbarazzo.
Era la cameriera, la quale chiedeva se poteva servire la cena.
“Fra una quindicina di minuti, se non le dispiace. Dopo può andare a casa per festeggiare anche lei, signora”, le rispose Masumi con deferenza.


Più tardi, stavano entrambi seduti uno di fronte all’altra nel tavolo rotondo della sala da pranzo che era stato apparecchiato con grande cura in ogni dettaglio. Tovaglia candida di broccato, piatti di porcellana finissima, posate in argento, calici in puro cristallo. Un candelabro in oro reggeva sei candele di colore rosso.

Masumi era elegantissimo nel suo abito a giacca scuro e si muoveva con disinvoltura estrema.
Maya era impacciata con lo guardo fisso a terra, appariva restia, intimorita e indifesa, e proprio per questo, tutta la sua persona emanava fascino, sensualità e desiderio, rendendola irresistibile agli occhi dell’uomo che aveva di fronte.
Assaporarono lentamente le portate, poi alzarono i calici e brindarono. I loro occhi brillavano come le stelle del firmamento.
Si alzarono da tavola e si avviarono per un lungo corridoio debolmente illuminato.

--------------------------------------------------------------------------------------------

Maya aveva sciolto con lentezza i lunghi capelli castani, la sua pelle era tutta percorsa da un brivido incontrollabile, che stava tra la paura e il desiderio.
Di fronte a lei, in quella stanza dalle pareti color avorio, troneggiava nel mezzo, un imponente letto matrimoniale. Masumi non si stancava di guardarla, era come ipnotizzato dalla sua grazia e bellezza.

Aveva smesso di nevicare, e dalla finestra si poteva ammirare la luna piena e un diluvio di stelle che esaltavano il bianco accecante della neve formando piccolissime luci, regalando un’atmosfera da fiaba molto suggestiva.
Con un gesto quasi impercettibile, Masumi aprì la cerniera laterale del suo vestito di seta rossa, che in un attimo scivolò a terra. La sua nudità era parzialmente occultata da una piccola combinazione in seta e tulle bianco semitrasparente.
Sensualità e innocenza di alternavano in un continuo gioco di luci e ombre, in un crescendo sempre più esaltante. Maya aveva piccoli seni rotondi, alti e sodi che lei tentava di coprire con la mano, dato che i suoi capezzoli scuri erano divenuti turgidi e duri come sassolini per l’eccitazione.

Masumi la fissava con occhi dilatati per lo stupore e il desiderio.
Si era tolto la giacca e la camicia, poi aveva aperto il bottone dei pantaloni. Si avvicinò a lei lentamente, la prese tra le braccia con forza e delicatezza ad un tempo, pose le labbra che bruciavano su quelle della giovane, e si baciarono con passione, per poi scivolare nel grande letto e continuare ad amarsi come non ci fosse un domani.
La sensualità, la passione dell’una, erano una cosa sola con l’altro. Non erano più due esseri distinti, un uomo e una donna, ma uno solo. Non sapevano più dove iniziava il corpo di lei e finiva quello di lui, mentre due braccia virili l’avvolgevano dalla testa ai piedi.
Si sentiva dominata, ma non oppressa da quell’uomo che la stava amando senza riserve.
Masumi, con infinita pazienza, la accarezzò con perseveranza finchè lei non smise di tremare e la vide arresa, disposta a consegnarsi a lui e a riceverlo in totale pienezza. La condusse in una dimensione misteriosa e inspiegabile, dove l’amore e la morte di assomigliano e il tempo non esiste.
Continuarono così per quasi tutta la notte, finchè le palpebre divennero pesanti e il sonno li condusse in un luogo magico e pieno di sogni, dove il fondersi dei corpi, amarsi, il piacere, non avevano mai fine.

Il sole abbagliante del mattino accarezzò i loro corpi addormentati: lentamente aprirono gli occhi, si fissarono con un sorriso malizioso e complice.

Il tempo dell’attesa era finito, ora iniziava un nuovo capitolo della loro vita, ma prima di arrivare a questo, infiniti erano stati gli ostacoli da superare: sacrifici, rivalità, malintesi, lacrime, disillusioni, incomprensioni, lotte.


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Circa sei mesi prima, presso lo Shuttlo X, l'area in cui si sarebbe tenuta la rappresentazione prova della Dea Scarlatta, c’era stata una Conferenza Stampa delle due compagnie rivali.
La signora Chigusa Tsukikage aveva preteso come luogo, l’area di una vecchia stazione abbandonata, dove il palcoscenico principale doveva essere il binario in demolizione e, attorno a quello, ci sarebbe stato il pubblico.
Ayumi e Maya erano state intervistate dai giornalisti; la prima era stata piuttosto vaga nel rispondere, dato che, avendo problemi alla vista, non sapeva cosa dire. Maya invece si era dichiarata totalmente entusiasta e a suo agio in quell’ambiente.
Anche il signor Kuronuma, a quelle domande, aveva usato la stessa spensieratezza di Maya: ad entrambi, quella situazione ricordava i giochi che facevano da bambini.
Il signor Onodera invece, pensava che la signora Tsukikage avesse scelto quella struttura per sfidarli e mettere quindi alla prova il loro talento.

Alla fine della Conferenza Stampa, il Presentatore aveva chiesto alle due sfidanti per il ruolo della Dea Scarlatta, Maya e Ayumi, come rappresentanti dei due gruppi, di raggiungere il centro e promettere di fare del proprio meglio durante la recita.

Il signor Kuronuma rifletteva seriamente su quali potessero essere le reali intenzioni della Tsukikage. “Niente scenografia, illuminazione ridotta ai minimi termini, niente che possa aiutare a dare il meglio per la rappresentazione teatrale. Ma come si fa?” pensava con apprensione.”
“Maya, tu da piccola amavi fare giochi di imitazione sul marciapiede, vero?”
“Certo! Io userei tutto questo per inscenare un bosco, un villaggio, un palazzo, e tanto altro ancora!”

Sakurakoji invece, nella sua immaginazione, vedeva le rotaie e il cavalcavia che vi stava sopra come un ruscello, una strada o dei cespugli, e il passaggio che si vedeva poteva essere un nascondiglio sotto la roccia, o il passaggio che conduceva al mondo degli spiriti.

“Sicuro! Il marciapiede dei binari rappresenta il mondo degli umani, la parte opposta quella degli spiriti, mentre il cavalcavia collega le due dimensioni!” aveva detto Maya come colta da improvvisa illuminazione.


A tarda sera, a villa Hayami, in mezzo a grande disordine mentale e materiale, Masumi era in piena disperazione per la situazione in cui si trovava a causa di Shiori.
Quella donna era in preda ad una vera e propria psicosi verso le rose scarlatte, lui sapeva di non poter rompere il fidanzamento con lei per senso del dovere, non poteva nemmeno pensare alle disastrose conseguenze di una eventuale rottura con lei.

Shiori rifiutava il cibo, da tanto era indebolita era arrivata al punto di non riconoscere le persone. Ricoverata in clinica, perennemente attaccata ad una flebo per essere alimentata, non sapeva altro che delirare circa le rose e il suo odio per esse. Era arrivata a tagliare quei fiori con un paio di forbici appuntite, gridando come una pazza, ed erano dovuti intervenire, dato che rischiava di ferirsi seriamente.

Un giorno, mentre alcune cameriere di casa Takamiya sfogliavano una rivista in cui si parlava della rappresentazione della Dea Scarlatta con le foto delle due candidate, Shiori aveva strappato dalle loro mani il giornale e, con sguardo perso nel vuoto e aria omicida, fatta a pezzi l'immagine che ritraeva Maya, poi aveva dato fuoco a quelle pagine insieme a petali di rose scarlatte. In seguito aveva delirato senza posa frasi sconnesse, diceva di aver appena celebrato un funerale.

Masumi era costantemente oppresso dai sensi di colpa, e non vedeva una via d’uscita alla drammatica situazione, benchè si rendesse conto che non poteva nel modo più assoluto sposarsi con lei, nemmeno fosse l’unica donna rimasta sulla Terra. Si sentiva in un vicolo cieco, senza via d’uscita.

A casa Takamiya era giunto anche il vecchio Eisuke Hayami per chiedere notizie dell'incidente accaduto a Shiori, ed era stato tranquillizzato dal nonno della giovane, il quale poi aveva supplicato Masumi di sposare la nipote.
“E appena celebrate le nozze, ti nominerò mio successore alla guida del gruppo Takamiya, poi ti cederò tutto il mio patrimonio.”

Il pensiero di Masumi era sempre e solo per Maya; quella ricca proposta che gli era stata fatta, valeva per lui meno di zero. Ma quando una notte Shiori si era buttata in acqua, e si era salvata per miracolo, capiva che le cose si stavano mettendo davvero male, quindi aveva promesso al nonno di lei che l’avrebbe sposata.

Molti mesi prima, durante le prove a teatro in cui Maya era presente, era accaduto un fatto al quale nessuno aveva dato troppa importanza, tranne una certa persona che si era recata in platea tutta impellicciata, truccata, profumata e fresca di parrucchiere. E forse era stato proprio in concomitanza di quell’episodio che i suoi nervi avevano cominciato a cedere in modo grave e irreversibile.

Ryuzo Kuronuma aveva deciso che la ragazza doveva provare una scena d’amore, che si sarebbe conclusa con un lungo e appassionato bacio. Il giovane attore che doveva fare coppia con lei era raffreddato e febbricitante, ma il regista non poteva rimandare. Dietro le quinte, seminascosto dall’oscurità, c’era Masumi, quindi non esitò un istante ad invitarlo per provare quella scena.
Lui non se lo fece ripetere due volte, e corse sul palco, dove una Maya piena di soggezione, aspettava timorosa e tremante.
Le battute non erano molte, e per quelle bastarono un paio di prove, ma la scena del bacio aveva sempre qualcosa che non andava, secondo l’incontentabile Kuronuma.
“Metteteci più passione, state più vicini! Questo è un bacio vero, lo volete capire? Il pubblico deve sentirlo e vederlo! Siete freddi e distanti, non va bene affatto!” sbraitava l’uomo.
Alla fine, Masumi prese Maya tra le braccia e se la fece aderire tutta al suo corpo, la fissò negli occhi, poi il bacio lungo e appassionato ebbe inizio… e sembrava non finire mai.
“Va bene, bravi, ora potete andare”, concluse il regista sospirando di sollievo.

Ma fu Shiori la prima ad andarsene in preda ad un’ira furibonda. Uscita dalla platea iniziò a gridare come una pazza, a inveire contro tutto e tutti, si strappava i capelli, aveva buttato a terra la pelliccia, e prima che uscisse in strada in quello stato, come per magia era apparso Karato, il quale l’aveva presa per un braccio e con fermezza fatta salire sulla sua auto. L’aveva accompagnata a casa e le aveva parlato gentilmente, cercando di farla ragionare.

“Il teatro, il cinema… sono tutte finzioni, non c’è niente di vero, lo sappiamo tutti. La bravura degli attori sta nel fatto di essere credibili al pubblico e, in questo caso, se ci sono volute così tante prove per un bacio, significa che i due non provano niente l’uno per l’altra. E’ molto chiaro, non credi?”
“Lo so… lo so… però… io…” mormorava lei torcendosi le mani per la disperazione “ma perché con il mio fidanzato e non con un altro, ha fatto le prove?”
“Pare che l’attore designato non fosse in perfette condizioni fisiche, forse non è potuto venire. Non ci sono altri motivi che io sappia.”
Sembrava che la donna si fosse convinta, ma non era così, perché nelle settimane e nei mesi a venire, aveva iniziato a manifestare segni di squilibrio mentale sempre più grave.



Ayumi era sempre molto preoccupata per le condizioni in cui doveva recitare nello spazio dello ShuttleX, a causa dei suoi problemi alla vista che non voleva rivelare a nessuno.
Recandosi sul luogo per provare da sola, aveva incontrato Peter Hamil, il quale si era reso disponibile ad aiutarla, rassicurandola che l’avrebbe sempre assistita durante le prove.

Kuronuma aveva annunciato al proprio gruppo di attori che, durante le prove generali allo Shuttle X, avrebbero dovuto fare dei giochi d'imitazione, e di questa cosa solo Maya ne era entusiasta.
In quello stesso giorno, per puro caso, l’attrice aveva sentito parlare altre due ragazze sul fatto che il signor Masumi Hayami avrebbe preso il posto del presidente Takamiya non appena si sarebbe sposato.
Maya era totalmente incredula, ma le due giovani le avevano confermato tutto ciò.

La ragazza non ci credeva ancora, quindi aveva chiesto al signor Hayami le spiegazioni su quello che le aveva detto sulla nave e lui le aveva risposto in modo vago, che era stato un modo come un altro per ingannare la noia. L’aveva trattata con freddezza, indifferenza e disprezzo, poi se ne era andato quasi correndo.

Mizuki aveva sentito ogni cosa ed era rimasta ad osservare la disperazione della giovane, non poteva credere che il signor Hayami le avesse mentito.
Più tardi, la segretaria del signor Hayami aveva riaccompagnato Maya al Kid's Studio, Kuronuma stava aspettando preoccupato la sua pupilla per le prove.

Sakurakoji aveva ascoltato i commenti delle sue compagne e aveva deciso di andare a trovare Masumi all'uscita dal lavoro alla Daito per congratularsi con lui, cioè sul fatto che sarebbe subentrato come capo del gruppo Takamiya, ma Masumi aveva tagliato corto, dato che la cosa non era ancora ufficiale.

“Vi ho visti come vi siete abbracciati una volta scesi dalla nave, ne sono rimasto molto colpito. Non ha nessun diritto di prendere in giro Maya, lei ha l’obbligo di comportarsi da uomo maturo e responsabile.”


Allo Shuttle X Ayumi continuava a memorizzare lo spazio che la circondava contando i passi che la dividevano da questo o da quel pilastro, sempre sotto l'occhio vigile di Hamil.

Al Kid's Studio invece, Maya faticava molto a riprendere le prove.
“Esci a prendere una boccata d’aria fresca, e torna qui solo quando sarai in grado di recitare, sono stato chiaro?”
L’aveva ripresa Kuronuma, mentre la ragazza rifletteva su come ora la storia di Akoya le sembrasse appartenere a un mondo lontano, non sentiva l'amore della Dea Scarlatta, l'amore per la sua anima gemella, era convinta prima che il signor Hayami fosse il suo Isshin, ma si sbagliava! Ma non è lui l'ammiratore delle rose scarlatte?!

Alla fine aveva deciso di contattare Hijiri, perchè voleva assolutamente incontrare il suo ammiratore segreto, non poteva più aspettare.
“Chiunque esso sia, io lo amo!” aveva mormorato Maya tra le lacrime abbracciata a Hijiri.

A casa Takamiya, Masumi aveva incontrato il vecchio Presidente, il quale subito gli aveva parlato delle nozze imminenti.
“La cerimonia nuziale sarà riservata solo ai parenti più stretti, non ci sarà alcun banchetto, almeno fino a quando Shiori si sarà rimessa completamente. Nessuno deve vederla nello stato in cui si trova.”

Masumi si era poi recato alla Daito per comunicare a Mizuki che, dopo il matrimonio si sarebbe trasferito a casa Takamiya per qualche tempo.
“Che intenzioni ha con Maya?” aveva domandato l’arguta segretaria osservandolo attentamente.
“Se la sua fidanzata ha tentato il suicidio, è proprio dovuto al suo odio per le rose scarlatte, che nella sua mente sono collegate a Maya.”
“Io sarò solo interessato al mio lavoro d’ora in poi, e sappia bene, che l’ammiratore delle rose scarlatte non esiste più! E forse non è mai esistito” concluse con un tono che non ammetteva repliche.

Maya non la smetteva di tormentarsi: ripensava alle battute delle anime gemelle de La Dea Scarlatta, era sempre più convinta che la vera identità del signor Hayami fosse quella dell'ammiratore segreto che l'aveva sempre sostenuta e salvata, ma in quel momento sentiva solo una grande confusione nella sua mente, le sembrava di non capire più nulla.
L'unica che poteva aiutarla a comprendere era la signora Tsukikage, ed era proprio con lei che Maya aveva deciso di confidarsi.

“Signora, qual’è il vero senso delle anime gemelle? Io sento d'aver smarrito il senso dell'amore per Akoya e Isshin.”
La donna ascoltò in silenzio il lungo e doloroso sfogo di Maya. Notò che era cresciuta e maturata moltissimo in quel periodo, e nel suo cuore provò una grande stima e ammirazione per lei.

“Certamente, l'uomo tu pensavi fosse la tua anima gemella, probabilmente ti avrà detto delle parole crudeli che ti hanno ferita e questo ti ha insinuato il dubbio su cosa ci sia veramente nel suo cuore.”

Maya era rimasta sorpresa dall'intuito della vecchia signora, e le aveva risposto con sicurezza, che lo considerava la sua anima gemella.
“Allora, se lui è veramente la tua anima gemella, sicuramente prova le tue stesse identiche emozioni, quindi il suo atteggiamento ostile deve avere una qualche giustificazione.”

In quel preciso momento, Masumi si trovava alla casa sulla scogliera insieme a Hijiri e gli aveva detto di non avere alcuna intenzione di rivelarsi a Maya come l'ammiratore delle rose scarlatte, anzi da quel momento in poi, non doveva più inviare rose alla ragazza.

“E’ davvero intenzionato a sposarsi con Shiori Takamiya?”
“Ormai è deciso così.”
“Quindi Maya non è niente per lei. Meno male, ero convinto che amasse profondamente quella ragazza” rispose tirando un grosso sospiro di sollievo.

Davanti ad un Masumi esterrefatto, Hijiri gli aveva confidato che si era sentito sempre più attratto dall'animo schietto e semplice di Maya e capiva cosa lui poteva aver provato per lei.
“Ora sono libero di non deve più reprimere questo sentimento per Maya, quindi sarà mia. Mi basterà presentarmi come l'ammiratore delle rose scarlatte, e lei cadrà ai miei piedi.”

Era proprio quello che ci voleva per far reagire Masumi e rivelarsi.

“Non puoi fare questo, non farlo, sennò ti ammazzo”, gli gridò con rabbia.
Si riprese quasi subito e si scusò col giovane.
“Ma non posso lasciarti fare quello che hai detto, perché potrei anche ucciderti.”
“Finalmente si è deciso a rivelare i suoi veri sentimenti! Se sposerà Shiori solamente perchè spinto dai sensi di colpa non farà felice nessuno, non può voler vivere tutta la vita nel rimorso e nell'angoscia.
Si presenti a Maya onestamente come il suo ammiratore, il resto verrà da sé” concluse con un sorriso.


La signora Tsukikage aveva invitato Maya a riflettere sulle anime gemelle: un'unica anima divisa in due. Se la ragazza baderà solo alla superficie delle parole, non potrà comprendere nel profondo la verità.
“Se l'uomo di cui sei innamorata è davvero la tua anima gemella, allora anche lui sa quello che provi: come tu lo desideri, anche lui non smette mai di desiderarti, quando tu lo pensi, anche lui pensa a te, e se ti ha ferita, è solo perchè lui è ferito ancora di più. Solo quando si incontra l'anima gemella, l'altra parte di sé si sente appagata dal vero amore: è questo l'amore tra Akoya e Isshin.”

Il giorno delle prove generali per il gruppo di Kuronuma, il regista aveva invitato gli attori della sua compagnia a esplorare liberamente lo spazio dello Shuttle X.
“Il marciapiede a destra delle rotaie sarà il mondo degli spiriti, quello a sinistra il mondo degli umani, ognuno di questi è interdetto all'altro; il passaggio sovrastante collega i due mondi e solo alcuni spiriti lo possono usare; mentre le rotaie sottostanti rappresentano i fiumi, i campi, le strade e a volte anche il mondo dell'inferno dove si dimenano le anime dannate.”
Queste erano le uniche regole imposte dal regista, dopo di che gli attori erano liberi di scegliere da soli come muoversi e gli altri spazi in cui interpretare il proprio ruolo.

Maya ripensava al suo ammiratore delle rose scarlatte ed era convinta che essendo la sua anima gemella, doveva avere fiducia in lui.
Indossando un velo sulla testa, la ragazza si muoveva per la scena impersonando la Dea, mentre pensava che lei era Akoya, la reincarnazione della Dea Scarlatta, lo spirito che governa la natura. Tutti la guardavano colpiti per la profondità della sua immedesimazione.


Masumi aveva comunicato al padre di voler lasciare per un po’ la loro casa, e dover recuperare il tempo perso a causa di Shiori a discapito del lavoro.

Non tornerò più in questa casa; fin da piccolo sono stato un inferiore a Eisuke Hayami, sono suo figlio solo perchè sancito da un pezzo di carta scritto all'anagrafe, ma senza quel documento non avrà più senso. Da adesso Masumi ha deciso di smettere di recitare la parte del figlio di Eisuke e si riprenderà la sua vita!


“Maya! Maya!” gridava Hijiri rincorrendola.
“L'ammiratore delle rose scarlatte ha finalmente deciso di incontrarti e lo farà in un luogo lontano, cioè Izu.”
Maya non poteva credere alle sue orecchie, perchè a Izu c'era la villa del signor Hayami, allora finalmente lui l’avrebbe incontrata!

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“E ti vidi da lontano, eri vicino al cancello. Non mi dicesti niente, ma siamo volati l’una nelle braccia dell’altro”, disse Maya in quella tarda mattina del 25 dicembre appena alzata con gli occhi ancora assonnati, ma pieni di amore.
“Tenevo le rose vicino a me, però non con le parole volevo farti capire che l’ammiratore ero sempre stato io, ma coi gesti, soprattutto col cuore. E solo ieri sera l’hai letto su quel biglietto.
Buon Natale cara” le disse baciandole i capelli.
“Ora sei una donna, ma ho già tanta nostalgia di quando eri una ragazzina.”

Aveva ripreso a nevicare, le due anime gemelle ritrovate fissavano il cielo dalla grande vetrata. Ogni fiocco di neve caduto a terra emetteva una piccola scintilla di luce che poi spariva, ma subito se ne formava un’altra e ognuna aveva un colore diverso. I colori dell’iride.

Lei cinse le braccia al collo di lui alzandosi sulla punta dei piedi. Con un lungo bacio appassionato, gli fece capire che la notte di fuoco appena passata, presto avrebbe avuto un seguito.


FINE
 
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view post Posted on 26/3/2024, 14:49     +2   +1   -1
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NOUVELLE CUISINE

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Nel finale dell’episodio 27 di Goldrake, assistiamo alla tragica morte di Hydargos.
Subito dopo spunta Zuril, ma non come subordinato a Gandal e signora, bensì al loro pari, se non un gradino più su. La cosa non piace affatto ai due, ma davanti al loro sovrano devono far buon viso a cattivo gioco. I due non si danno per vinti, specie la controparte femminile, quindi…



Alla base lunare Skarmoon, Gandal apparve col volto fasciato, in quanto sfigurato dalle fiamme accese nella Nave Madre attaccata da Goldrake.
“Maledetto Goldrake, ti distruggerò con le mie stesse mani!” gridò il Comandante in preda alla rabbia e al dolore.
Re Vega apparve sul grande schermo, con sollievo notò che le ferite stavano guarendo rapidamente e glielo fece notare.

“Ora che Hydargos è morto, da oggi sarai tu a guidare l'attacco alla Terra.”
“Grazie della fiducia, sire. Le prometto che stavolta non fallirò.”
In quel preciso istante apparve Lady Gandal con volto completamente nuovo, raffinato ed elegante, ma un tutt’uno col coniuge. Sparita per sempre la minuscola figura vestita di rosso che, con voce stridula apriva con forza il cranio di Gandal e dettava ordini. Ora aveva un viso femminile e il corpo in comune con l’uomo; la sua voce aveva una tonalità più bassa e quasi sensuale, ma non per questo meno agguerrita e combattiva del solito.

“Sire, ora siamo stati degradati a Comandanti Forze d’Attacco?” domandò la signora turbata.
“No, voi siete sempre Comandante Supremo, ma da oggi avrete un collaboratore: il Ministro delle Scienze Zuril, proveniente dalla stella Zuul”, precisò Re Vega.
La donna non potè trattenere un moto di sorpresa, e anche Gandal.
“Sarà dunque nostro subalterno?”
“No, mia signora. I vostri incarichi sono aumentati, occorre subito un collaboratore, e di alto livello.”
“Un collaboratore? Allora avrà il nostro stesso grado! Ohhh!!!” mormorò lei soffocando a malapena un grido.

Nel frattempo, alla base Skarmoon atterrò un veicolo verde guidato da Zuril.
Gandal gli andò incontro, lo osservò con attenzione, chiedendosi chi fosse in realtà.
Egli aveva un incarnato verdognolo, indossava una corta tunica gialla, e una benda all'occhio.
“Sei tu il Ministro Delle Scienze?” domandò il Comandante masticando amaro.

Zuril non rispose e si avvicinò al video, dove appariva un'immagine del pianeta blu.
“La Terra è davvero meravigliosa e noi dobbiamo impadronircene ad ogni costo. Il Giappone è la base ideale da cui far partire i nostri attacchi. La prima cosa da fare è costruire una base nascosta, possibilmente vicino al Centro Ricerche.
“Questo lo sappiamo tutti, ma per riuscire bisogna eliminare quel maledetto Duke Fleed. Senza Goldrake tra i piedi, sarebbe uno scherzo installare una base”, concluse Gandal spazientito.
“E' solo questione di individuare la giusta strategia: poi riusciremo a costruire una base segreta, così getteremo nel panico i nostri nemici.”
“Mi sembra un piano interessante. Ma in che modo pensi di raggiungere la Terra senza farti scoprire?” I terrestri non sono certo degli sprovveduti”, intervenne la donna.

“Usando queste piccole creature aliene provenienti dal pianeta Bell. Oggetti di dimensioni così piccoli come questi non sono rilevati dai radar. Per farvi capire il mio piano, vi racconterò la storia del leone e delle formiche guerriere. Sulla Terra, il leone è considerato il re degli animali. Ma persino le insignificanti formiche, in massa, possono sconfiggerlo.”
La benda di Zuril si aprì mostrando il suo computer interno, che iniziò a parlare con voce meccanica.

Il punto più adatto per l'operazione è una zona scarsamente popolata vicino all'area metropolitana, cioè...

Sotto consenso di Vega, l’operazione venne avviata, ma sebbene con qualche difficoltà iniziale, grazie ad uno stratagemma, Goldrake riuscì a sconfiggere tutti i minuscoli esseri del pianeta Bell.

“Zuril, ora ti sarai reso conto di quale sia la potenza di Goldrake!” gridò Gandal.
L’altro non si scompose per nulla e con voce calma, affermò: “Non importa, questa è stata solo una prova generale. Ma giuro che la prossima volta distruggerò quel maledetto!”

Re Vega non si fece più sentire per quel giorno, quindi i due coniugi stanchi e provati dagli avvenimenti di quella lunga giornata, si ritirarono nei loro appartamenti.
Al nuovo scienziato era stata destinata la parte più grande e moderna della base, che si trovava nell’ala ovest: aveva a disposizione un grande studio molto luminoso, due computer ultimo modello, lampade in quantità, un ampio tavolo con annessa una comoda poltrona.

Passò la notte, spuntò il giorno.
Gandal, tranquillo e beato leggeva le ultime notizie sul giornale, mentre la sua metà taceva e pensava. Era più forte di lei: Zuril non le andava a genio, non voleva uno scienziato brillante e intelligente, ma un sottoposto.
“Ti vedo pensierosa, mia cara. Non hai riposato bene?”, le domandò il coniuge distrattamente.
Lei si morse il labbro, poi si decise a parlare.
“Ho dormito malissimo, perché non ho fatto altro che pensare. Ecco, io mi sentivo molto più realizzata prima, quando c’era Hydargos. Era sotto al nostro livello, avevamo il dovere di comandare, con Zuril no, e questo non lo mando giù!” rispose con voce tremante mentre si torceva le mani.
Lui la fissò per alcuni istanti senza replicare: in fondo quello che lei provava, erano i suoi stessi sentimenti. Almeno fino al giorno prima. In un secondo tempo aveva accettato il nuovo arrivato in modo filosofico; la lotta contro i terrestri diventava ogni giorno più dura, e un Hydargos poco intelligente, alcolizzato e traboccante di rabbia autodistruttiva, li avrebbe solo ostacolati verso il traguardo che si erano prefissi.
“Mettiti il cuore in pace, mia cara. Ciò che conta è conquistare la Terra e distruggere Goldrake!”
La donna non rispose e continuò a pensare.

Rimasta sola, pensò di dedicare le ore del primo pomeriggio a cercare notizie di Zuril e, attraverso queste, un sistema per annientarlo, o perlomeno renderlo innocuo.
Accese il computer, e ben presto apparvero diverse sue immagini, con sotto la descrizione di un’infinità di diplomi e lauree conseguite.
Spesso era fotografato esibendo un premio, in altre era a fianco di donne giovani e bellissime che si stringevano a lui e lo fissavano con occhi a cuore e sguardo sognante.
Dalla postura, dallo sguardo, era oltremodo palese che l’uomo fosse ben conscio del suo fascino, non metteva mai in dubbio che qualcuna potesse dirgli di no. Parimenti, zero incertezze circa del suo acume, la sua intelligenza, la sua cultura che non si stancava di esibire in modi più o meno diretti.

Vecchio pavone

Sotto ad una di queste immagini, notò una scritta che la incuriosì: tombeur de femmes, il cui significato letterale era: tombeur 〈tõbö′õr [derivato di tomber «cadere», anche «far cadere»]. – Chi fa cadere; specie nel significato di «stroncatore» e nella locuzione tombeur de femmes «grande conquistatore [...] di donne, dongiovanni, playboy»

Lady Gandal soffocò una risatina: tale aggettivo, mai sarebbe stato attribuito a suo marito, di questo ne era certa.
“Però, che strana lingua è questa, voglio vederci più chiaro.”
Era il francese, usato sul pianeta Terra in una regione molto lontana dal Giappone, la quale vantava una moda squisita e raffinata, turismo da far invidia, nonché produttrice di piatti elaborati e ricercati. La sua curiosità si fermò a lungo su quelle strane e superbe ricette francesi.


Zuppa di cipolle: viene servita nella classica cocotte di ceramica e che emana da subito un odore molto gustoso.
Foie gras: è un altro simbolo della cucina francese: per godere al meglio questa specialità francese non c’è altro che una buona fetta di pane con il burro caldo.
La tartare: manzo crudo è un must della cucina francese che, spesso, viene servita con olio, senape, cipolla e, a scelta, con o senza uovo crudo sulla sommità.
Le escargot (lumache) sono sicuramente in alto nella classifica dei piatti della cucina francesi più amati e scelti durante un pranzo o una cena in un ristorante parigino. Le escargot vi conquisteranno col loro brodo, cremina di burro e prezzemolo che le rendono davvero gustose: spesso sono servite come antipasto per poi procedere a piatti ancora più delicati e ricchi di sapore.
La galette bretone è un altro piatto tipico che potete trovare nelle crêperies. Questo tipo di crêpe è salata e preparata con farina di grano saraceno: la “classica” è con prosciutto cotto, o meglio lo jambon, formaggio e uovo.
Raclette e fonduta savoiarda: due piatti a base di formaggio che rappresentano, assieme, una specialità della cucina francese. Al ristorante, per la raclette, avrete a disposizione delle ciotole dove vi verrà servito il formaggio, accompagnato dalla charcuterie ovvero i salumi e anche delle patate lesse. La fondue savoyarde, invece, è costituita da un pentolone dove viene riscaldato il formaggio, in questo caso a tavola vi porteranno dei pezzettini di pane che dovrete intingere nella fondue.
La quiche lorraine: è una torta salata preparate con la pasta brisée, con un ripieno di uova, pancetta e crème fraîche, la tipica panna da cucina francese dal gusto un po’ acido.
Le boeuf bourguignon: uno stufato di carne di manzo rosolata in una casseruola coperta di vino rosso, con erbe aromatiche e pancetta. La carne è di solito molto tenera e vi verrà servito con verdure stufate, carote e cipolline.
La Ratatouille: un “mix” di verdure dal gusto molto delicato. Viene proposto come accompagnamento a pietanze di cane o pesce.
Hachis Parmentier: è una specialità composta da una base di carne macinata ricoperta da uno strato di purè di patate.
Il coq au vin: pollo marinato nel vino per 36-48 ore prima di procedere alla cottura, poi viene infarinato e brasato nel vino che rende la carne una tenera e sugosa.
Croque Monsieur: besciamella, prosciutto cotto, formaggio e il pane “toast”.
Confit de canard: le cosce di anatra sono una prelibatezza, cotta nel proprio grasso, dal gusto molto raffinato.
Bouillabaisse: una zuppa di pesce piccante tipica della regione di Marsiglia. Il piatto è costituito di diverse varietà di pesce, molluschi, pomodori, spezie del sud, senape e tuorlo d’uovo e anche al ristorante viene servita con pane e patate.
Omelette: l’ingrediente primo è il burro, che viene aggiunto a metà cottura, così l’omelette si friggerà ancora meglio per un gusto davvero saporito. Superba se accompagnata da patate fritte in olio abbondante.
Crêpes: farina, uova e latte. Alla parisienne, sono quelle con besciamella e prosciutto cotto, ma potrete trovare tante varianti una più gustosa dell’altra!
Choucroute: fa parte delle specialità della gastronomia francese. Chiamata anche “choucroute d’Alsace” è un piatto molto saporito a base di cavolo fermentato, e carne di maiale: un mix di lardo, pancetta, salsicce o altri insaccati simili al cotechino.
Moules et frites: sono un’altra specialità imperdibile. Le “cozze e patatine” sono gustosissime e solitamente vengono servite con la crème fraiche, ovvero la panna acida oppure con cremine al formaggio, soprattutto il roquefort che ne esalta ancora di più il sapore.


Scaricò il file e lo nascose nel desktop: sentiva che in un modo o nell’altro, quelle grasse ricette le sarebbero state utili, anche se per il momento non riusciva a focalizzare in quale maniera.
L’inconfondibile suono dell’allarme che rimbombava per tutta la base, la fece uscire di corsa dalla sua stanza e correre verso il grande schermo dove re Vega stava per impartire nuovi ordini.
Zuril fu il primo ad arrivare: braccia conserte, sguardo attento, ben dritto e impettito.
“Dovete controllare meglio il reparto dove si fabbricano i minidischi. Quelli del turno di notte spesso si addormentano, la macchina si inceppa, e molto materiale costoso è da buttare” disse il sovrano con voce tuonante.
“Mio sire” si fece avanti il Ministro delle Scienze “posso far io di guardia, già a partire da questa notte.”
Il sovrano lo guardò ammirato, poi chiuse la comunicazione.

Gandal non seppe se essere contento oppure no. Stare svegli di notte e controllare un intero reparto non era cosa da poco, ma che il nuovo arrivato si facesse avanti per farsi bello non gli andava giù.
La sua metà invece, approfittò della cosa per studiare meglio il personaggio. Un giorno, dato che la stanza di Zuril era aperta, lo aveva visto fare ginnastica, alzare dei pesi, corsa sul posto davanti ad uno specchio. Poi si era ammirato sorridendo compiaciuto davanti e di profilo: di certo sapeva di avere una figura invidiabile.
Si era anche accorta che era molto attento al cibo: mangiava poco e chiedeva al cuoco di non aggiungere grassi nelle pietanze. Un giorno alla settimana praticava un digiuno controllato. Questi accorgimenti, oltre a regalargli un fisico da fare invidia, avevano anche il vantaggio di rendergli la mente sempre attenta e lucida.
Lady Gandal sapeva bene infatti, che Hydargos di certo non era mai stato un’aquila, ma causa del vizio di ingoiare superalcolici come fossero acqua fresca, il suo cervello era stato danneggiato.

“Già…”

Alla base lunare c’era una teca dove si potevano ammirare alcune salamandre. Un giorno, una di queste era scoppiata in seguito ad una indigestione.

Dopo queste riflessioni, la signora si ritirò nella sua stanza, accese il computer e studiò molto bene tutte le ricette francesi, specie quelle più grasse e saporite, come i voul au vent. Pieni di grasso, se poi cucinati ripieni, ti saluto!
Aveva capito che Zuril amava la buona tavola e un giorno aveva sentito dire al cameriere di non portargli mai cibi che potevano metterlo in tentazione. Patate fritte grondanti olio, uova dal doppio tuorlo, fegatini, panna, pollo fritto, gelati. Erano questi i suoi preferiti.
Il mattino seguente, la donna si alzò prima dell’alba, senza tanti complimenti fece sloggiare il cuoco dalla cucina e si mise ai fornelli.
“La tua fine comincia con questa prima colazione”, sussurrò ghignando.
Prese un grande vassoio sul quale aveva adagiato un’enorme quantità di cibi. Pane fritto e croccante, crema dolce, cioccolata in tazza con panna, frutta mista anch’essa con panna e zucchero. Caffè forte molto zuccherato e corretto con grappa.
Bussò alla porta di Zuril, il quale era appena rientrato dal turno di sorveglianza, e pose sul tavolo quell’enorme colazione.
“Che cos’è questa roba? Porta via tutto, e subito!”
“Suuu, non fare così, devi essere bene in forze. Avrai di certo passato una nottataccia in mezzo a quei mangia pane a tradimento. Sei un bell’uomo e non devi apparire sciupato”, cinguettò lei.
Lui sorrise e iniziò a mangiare. Era facile adularlo; nemmeno lo sfiorava il pensiero che fosse una falsità.

Zuril mangiava. Colazioni, pranzi e cene. Merenda al pomeriggio e uno spuntino a tarda sera mentre studiava. Spesso Lady Gandal, quando lo serviva personalmente, aggiungeva qualche goccia di ansiolitico nelle bevande. Il grande scienziato si accasciava nella poltrona e non poteva essere presente alle riunioni più importanti.
Poco alla volta la sua linea asciutta sparì. Gli comparve il doppio mento. Un ventre tremolante. Il respiro si fece più corto, i movimenti lenti e incerti. Non poteva più correre da un punto all’altro della base per controllare soldati e operai ogni volta che gli saltava il ticchio. Si limitava a disegnare mostri bellici nella speranza che venissero approvati.

“Rubina, cara, come stai? Non è che ti rimane il tempo per venire da me qualche ora?”
“Certo papino. Stavo giusto per uscire… devo fare alcune compere. Faccio un salto da te.”
Poche ore dopo, la principessa atterrò nel piazzale di Skarmoon, parcheggiò la sua Quenn Panther, e si diresse verso l’ingresso principale. Nella penombra vide avanzare una figura grande e flaccida color verde marcio. Indossava una tunica gialla cortissima, decisamente scandalosa e gli stava strettissima. Retrocesse di qualche passo spaventata, mentre quell’essere le andava incontro e le sorrideva in modo quasi osceno; allora lei corse fuori tutta tremante, salì sul velivolo e in meno di mezz’ora fu di nuovo su Rubi.

Un giorno Zuril chiese a re Vega se poteva assentarsi per qualche settimana. Era deciso a recarsi in una clinica del benessere, quei posti dove ti rimettono in sesto col peso e la salute.
Lady Gandal non battè ciglio; sapeva che, una volta tornato a Skarmoon, lei avrebbe ricominciato a rimpinzarlo. Cibo e psicofarmaci, quelli che rallentano il pensiero, azzerano l’inventiva e mantengono calma la mente.
Adesso stava seguendo un interessantissimo corso di cucina italiana. I piatti parevano squisiti. Ma che strano! Com’era possibile che quella microscopica penisola a forma di stivale, potesse vantare menù di ogni sorta! E tutti favolosi. Lei naturalmente sceglieva i più grassi e saporiti.


Non era stata la vita a fare di Zuril un essere obeso. Era stata Lady Gandal, col preciso intento di vendicarsi e non avere rivali, né superiori, tranne il suo sovrano.
Era lei che aveva sempre visto giusto in tante situazioni. E se l’avessero ascoltata quando aveva capito che continuare la guerra era solo un suicidio, molte cose sarebbero andate diversamente.


FINE


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Professore della Girella

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4 APRILE 1978

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Non c’è bisogno di raccontare cosa fu per noi quella data e le conseguenze nel corso dei mesi e degli anni che seguirono.
Voglio piuttosto narrare il pathos dei nostri eroi, i quali, benchè in patria avessero debuttato il 5 Ottobre 1975 (un fiasco, rispetto ai primi due Mazinghi), erano oltremodo nervosi.
L’Italia fece da apripista, i doppiatori considerati i migliori del mondo… e il pubblico… non solo infantile (anche se nessuno lo immaginava), quindi critico ed esigente. Terrestri e non, erano agitatissimi.


“Pant, pant… è tutto il giorno che corro, non ne posso più. Mancano solo cinque ore al debutto ora italiana 18,45 – Rete 2 – dicono sia importante. Nessuno mi aiuta: Venusia è nelle nuvole, Alcor non è ancora arrivato, Procton fuma la pipa serafico guardando il cielo, e Mizar non la smette di mirare il puledrino insieme ad Actarus. Qui finisce male, lo dico io. Già prevedo un coro di fischi così forte che lo sentiremo dall’Italia al Sol Levante”, mormorò Rigel quasi disperato, mentre con fatica portava un secchio d’acqua nelle stalle.

Su Vega non è che se la passassero meglio: erano agitati e coi nervi a fior di pelle, volevano a tutti i costi fare bella figura, speravano di avere un bel primo piano, doppiatori con voci chiare, possenti e da tenore.
“Come si vede lo schermo in Italia?” domandò Gandal.
“E che ne so! Credo abbiano già la TV a colori, ma solo un’esigua minoranza la possiede”, ripose aspra Lady Gandal.
“Cooosaaaa??!!! Niente colore? E io come faccio?” gridò Re Vega al colmo della delusione, pensando al suo guardaroba variopinto che sarebbe apparso in uno scialbo bianco e nero.
“Sentite, la cosa grave è che il primo ad apparire sarà Hydargos. Portategli via tutte le bottiglie, anzi, al posto del liquore mettete tè amaro e succo di ananas. Che sia sobrio, ben lucidato e in grado di comandare i soldati”, ordinò Gandal piuttosto deluso di non essere lui il primo veghiano ad essere visto dai telespettatori italiani.

“Papà! Che ci fai nelle stalle? Vai subito sulla torretta avvista UFO!”
“Ma come, Venusia, mi rimproveri sempre di passare tutto il mio tempo lassù, di non aiutarti nei lavori, e adesso…”
“Adesso andiamo in onda, lo vuoi capire?!! Fai presto. C’è ancora un po’ di tempo, io e Actarus andiamo a lavarci e pettinarci.”
“E perché?” domandò Rigel sospettoso.
“E’ dall’alba che lavoriamo, siamo sporchi, sudati, e non dico altro.”
“Certo, ma in televisione la puzza non si sente, è una scusa perché vuoi stare sola con Actarus, ma io non lo permetto, non lo permetto. Venusiaaaa! Torna indietro!”
E Rigel cadde dalla scala della torre prima ancora di essere arrivato in cima.

“Alcor! Alcor!”
“La sento dottore, mi dica.”
“Dove sei? Non riusciamo a collocare la tua posizione. Hai lucidato il TFO? Tu e il disco sarete i primi ad apparire, dovete bruciare lo schermo! Chi ben comincia…”
“Tranquillo Procton, ho pensato a tutto. Ho una certa esperienza in materia.”


Sul pianeta Vega, si stabilivano dei piani. La prima puntata era molto importante, di solito decisiva. Se aveva successo, il pubblico avrebbe seguito tutta la serie, in caso contrario, no.
Dunque, appariva solo Hydargos con uno o due soldati. Personaggi bruttini e insignificanti. Per far colpo ci voleva una Naida, una Rubina, la tragica Mineo, una Shira bella e glaciale… ma loro sarebbero arrivate tardi, però si poteva provare a contattarle, giusto per farle apparire qualche istante.
Vega si collegò al pianeta Rubi, e solo dopo un’ora, qualcuno si decise a rispondere.
“La signorina non c’è” disse una cameriera mentre lucidava uno specchio.
“Non ha detto dove andava? E quando sarebbe tornata?” domandò il re impaziente a quella cretina dallo sguardo poco sveglio.
“La Comandante Mineo che fine ha fatto?”
“Sono settimane che non la vedo, penso sia andata ad addestrarsi non so dove…” rispose di malavoglia con la scopa in mano.
Stava per chiudere la comunicazione, quando apparve Rubina.
“Carissima! Lo sai che giorno è oggi, vero?”
“Certo che lo so: stasera c’è il gran Ballo di Primavera e io non ci potrò andare. Sono in piena tempesta ormonale, ho la faccia zeppa di brufoli e punti neri. Sono stata dall’estetista che mi ha conciata per le feste, ora sono inguardabile”, mormorò la ragazza fissando il pavimento con gli occhi gonfi di lacrime, mentre esibiva un viso coperto di crema biancastra, i capelli unti, appiccicati e raccolti in una retina.

“Niente da fare! Un momento, Naida è nostra prigioniera, possiamo farla vedere.”
Un soldato portò la ragazza davanti al sovrano. Non c’era quasi niente di lei che ricordasse la bellissima giovane dell’episodio 25. Occhi pesti, colorito verdastro, capelli che non vedevano lo shampoo da mesi, l’espressione funerea.
“Riportatela indietro, e ditele di farsi un bagno! Smettete di torturarla e datele da mangiare.”
Shira non era in casa, disse suo fratello, e da giorni non aveva notizie di lei.
Zuril si presentava benissimo, ma chissà dov’era in quel momento.
Haruck era meglio lasciarlo tra i suoi piccioni, mentre Markus aveva perso la memoria. Kein doveva apparire al momento giusto, adesso non andava bene.
“E io non sono la primadonna” pensò il sire sconsolato. “Pazienza! Ci rifaremo più avanti.”

Da una stanza vicino, si sentivano le urla dei coniugi Gandal.
“Io non voglio quella voce stridula, è brutta! Come si chiama quella doppiatrice?” gridava lei, mentre usciva dal cranio con tale impeto che rischiava ogni volta di sfondarlo.
“Mia signora, abbiate pazienza per 25 puntate, dopo sarete un’altra, guardate qui.”
“Aaaarrghhhh! Una bella signora con il corpo di quello là! E che manacce! Che unghie terribili!”
“Oh! Piano con le offese. Ho fatto anni di culturismo” precisò Gandal battendosi il petto con orgoglio.

Hydargos, pieno d’ansia, tracannò una bottiglietta di gin che teneva nascosta in fondo al cassetto, poi si spruzzò in bocca un liquido che sapeva di menta fresca.


Il dottor Procton si era ritirato nelle sue stanze per cambiarsi, mentre i suoi tre collaboratori erano pronti ai loro tavoli, ben vestiti e pettinati.
“Venusia! Sei pronta?”
“Ancora un momento papà, devo decidere la gonna da indossare. Pensavo di anticipare la divisa della puntata 37.”
“Non se ne parla nemmeno! Scendi subito così come sei, se vedo quella minigonna indecente la brucio”, gridò suo padre furibondo.
“Mizar! Vieni, che si è fatta l’ora anche per noi” disse Actarus.
“Sono pronto, e anche il puledro è lustro a dovere.”
“Ragazzi, manca pochissimo, ho paura…” mormorò Venusia angosciata torcendosi le mani.
“Fai finta di niente, disinvolta, come non ci fosse nessuno” le disse Rigel più nervoso di lei.
“Ecco, è partita la sigla. C’è una biondina che presenta: “Buona sera con… Superman e Atlas Ufo Robot.”
“Noi ci siamo tra un po’ allora, riprendiamo fiato un attimo, ragazzi.”
Mizar puntò il dito, e con occhi dilatati, fece notare a tutti i presenti: “Guardate! Hanno scritto Atlas come fosse il titolo della nostra serie, ma invece significa manuale di istruzioni! E’ sbagliato!”
“E’ vero” confermò Procton lisciandosi i baffi.

Tutti risero di cuore, e da quel momento non ebbero più alcun timore, ma furono ben felici di essere i protagonisti indimenticabili e indimenticati di quella serata di primavera, ormai passata alla storia.


FINE


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