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Luce's fanfiction gallery

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view post Posted on 22/4/2023, 16:10     +2   +1   -1
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Professore della Girella

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ESPERIMENTI

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Un nuovo mostro da combattimento è stato creato alla base lunare Skarmoon.
Una sorta di ape gigantesca a bande gialle e nere, con nascosto all’interno della stessa un potentissimo pungiglione in grado di disintegrare all’istante l’odiato Goldrake, i veicoli ausiliari, la base di Procton, il Giappone, il pianeta Terra…

“Un momento”, commentò re Vega alquanto seccato “Cosa significa distruggere la Terra, siete scemi? Cosa ce ne facciamo se viene distrutta?”
Lady Gandal uscì velocissima prendendo la parola.
“No, maestà, volevamo dire che la Terra sarà nostra, solo gli abitanti saranno distrutti, è logico.”

Il sovrano rispettava molto quella donna, perché in un certo senso si somigliavano, quindi la sua espressione si distese e posò lo sguardo sul disegno del mostro: tempo pochi secondi, e la bocca si piegò disgustata.
“Cos’è, un carro di Carnevale? Avete voglia di scherzare, vero?”
“Assolutamente no, sire!” Stavolta fu più svelto Gandal a rispondere, intanto tra sé sogghignava contento di aver battuto sul tempo la sua metà: non si rendeva conto che, furbescamente, lei l’aveva lasciato parlare nel momento più difficile.
“Si tratta di un modello pensato apposta per confondere le idee… sì… cioè, sono colori che accecano l’avversario, e batterlo sarà un gioco da ragazzi!”

Dantus stava in un angolo osservando bene la scena. Era stato estromesso nella creazione di questo nuovo mostro, la sua mente pronta e vivace faceva congetture sui come e perché: sul momento non gli veniva in mente nulla, ma era ben deciso a scoprire questo mistero.
Di certo Gandal voleva il merito tutto per sé, che avesse copiato di nascosto qualche sua formula?
Decise che, durante la notte, sarebbe entrato di nascosto nella sala dov’era parcheggiata quell’ape gigantesca e, a costo di smontarla pezzo per pezzo, doveva per forza capire di quali armi era stata fatta; se per caso fosse risultata qualche copiatura dai suoi calcoli scientifici, li avrebbe fatti pentire amaramente, eccome!
“E dopo che avrò sistemato la situazione, mostrerò al sire il mio più grande gioiello di mostro che mai si sia visto prima: l’invincibile King Goli!” disse ad alta voce, battendosi il petto.

Era notte inoltrata quando Dantus entrò nella sala dove giaceva il mostro da combattimento: il silenzio regnava sovrano, quindi cominciò a sezionare il robot e, dopo un attento esame, decise che l’avrebbe reso innocuo estraendo l’enorme pungiglione che stava al suo interno. Di sicuro avevano agito alle sue spalle, volevano prendersi tutto il merito coinvolgendo anche Zuril, il quale, da alcuni giorni, si dava un mucchio di arie, era molto evidente che l’eminenza grigia della situazione era lui.

In capo a poche ore era riuscito nel suo intento, e già la sua mente era visitata dalle immagini del mostro che lottava coi terrestri, i quali in men che non si dica l’avrebbero distrutto in polvere cosmica, quindi Gandal e Zuril… beh, nessuno avrebbe desiderato essere al loro posto.

“Io invece avrò un posto di prim’ordine!” dichiarò ad alta voce Dantus battendosi un pugno sul petto con fierezza.
“Quest’ultimo mese passato a studiare senza tregua, ha dato ottimi risultati, glielo farò vedere io di cosa sono capace!”

Era ormai prossimo mezzogiorno, quando fece il suo ingresso nella sala dove il suo sovrano l’attendeva per parlargli.
Sul tavolo c’erano alcune tazze di caffè, bottiglie di aperitivo, crostini: mentre conversavano del più e del meno, re Vega uscì con una frase ad effetto doccia fredda.
“Poiché ho verificato dopo svariate indagini e pedinamenti, che Zuril e Gandal stanno cercando di prendersi il merito della creazione tecnologica dei loro nuovi mostri copiando di nascosto le vostre scoperte scientifiche, ho deciso di mettere solo il vostro nome, sì, solo la vostra firma comparirà a lato di quel gigantesco essere alato che mi ricorda tanto un cartone animato di molti anni fa… non ne ricordo il nome, ma non importa”, mormorò il re.
“Non sopporto i bugiardi e quelli che vogliono prendersi dei meriti usando la scienza e le fatiche altrui, ecco! E non ammetto essere preso in giro da nessuno, ecco!”
Per dare maggiore enfasi alla sua frase, il re battè con forza il pugno sul tavolo dopo ogni esclamazione, facendo tintinnare i bicchieri.
“Ma maestà, quando intendete lanciare il mostro? Non oggi, vero?”
“E perché no? E’ già pronto, che senso avrebbe aspettare? Ho appena dato l’ordine di farlo partire… guardate!”
Dalla vetrata, videro la nave madre già decollata, mentre filava dritta come un fuso verso il Giappone.

A Dantus non restò altro che desiderare di sprofondare e maledire il giorno in cui aveva pensato di rendere innocuo quell’orrendo animale.


FINE
 
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VITA D'ARTISTA

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“All’alba viiinnnceerooooooooò!!!”
Così intonava l’aria della famosa opera lirica di Puccini, Zuril una mattina appena sveglio, mentre allo specchio della sua camera da letto rimirava la sua immagine.

Da quella sera di aprile in cui aveva debuttato come spettatore al teatro di Tokio, l’arte gli era entrata nelle vene come una malattia; di nascosto seguiva musica classica su internet, le biografie dei compositori, canticchiava da solo, gli sembrava di avere una voce da tenore, quasi come il famoso Mario del Monaco di cui aveva scoperto l’esistenza navigando senza sosta nel web durante la notte, anzi, ancora qualche esercizio e lo avrebbe superato in decibel, sicuro, poi il suo aspetto fisico era da premio Nobel, Strega, Campiello… poi… tutti gli altri per quanti ce ne stanno, altrochè!
“Chi è il più bello del reame? Ma io, che discorsi! Chi mi resiste? Nessuna, è ovvio!” ripeteva ad alta voce, mentre lucidava il computer oculare e le sue ali da pipistrello venivano rimesse a nuovo con un gel ultima generazione.

La memoria lo riportava a quella sera famosa in cui, appena uscito da teatro, lo sguardo fisso a terra sulla strada bagnata dal recente acquazzone primaverile, la mente nello sconcerto più totale, mentre continuava a chiedersi: “Che ci faccio qui, si può sapere? Ma che c’azzecca questa roba con gli attacchi terroristici? “Però, che bella serata, ce ne fosse un’altra, magari…” In quel groviglio di sentimenti contrastanti, una mano delicata si era fermata sulla sua spalla e, girandosi di scatto, aveva visto una fanciulla davvero niente male che lo invitava per gli spettacoli futuri.
“L’altra sera sono venuta qui col mio fidanzato, rappresentavano l’Aida, una cosa unica, perché nelle scene entrano gli animali veri, sì, i cavalli, gli elefanti, una cosa da mozzare il fiato.
Lui, beh, lui non faceva che dormire, una figura pessima mi ha fatto fare. Del resto, anch’io non facevo altro che sbadigliare quando lo seguivo nelle sue gare di pallacanestro, per cui, lasciarci, è stato l’inevitabile epilogo di una storia che ormai si trascinava da anni e resisteva solo per abitudine.”
Erano usciti a cena… e poi… “Non si dice, non sta bene, ad ogni modo, il meglio di tutti sono io!”

L’epilogo di tutto ciò su Skarmoon era stato da dimenticare. Che terribile figura!
Gli avevano riso tutti dietro, Rubina in primis; quanto era diventata antipatica in quel periodo!
“Davvero odiosa e insopportabile! Mi controllavano in ogni mossa, ho fatto davvero la figura dell’idiota irrecuperabile… però, sotto sotto…”
Con inguaribile ottimismo e sicurezza estrema, pensava: “Primo: il mio posto non l’ho perso, ma solo migliorato, tiè! Secondo: sono diventato ancora più bello, lo specchio non dice mai bugie, ancora tiè! Terzo: il più furbo sono sempre io! Vado sulla Terra, terrestre en travesti, butto bombe a destra e a manca, attentati a profusione. Ma prima, una bella overdose di teatro, minimo dieci ore in dolce compagnia s’intende, eh, mica son scemo, che diamine! Ma la cosa più bella è che da Skarmoon non possono più controllarmi, neanche per idea, ho capito il trucco è un gioco da ragazzi, così faccio quello che mi pare e piace. Tiè, tiè e per chi non ha capito, ancora tiè! Ora vado!”

Si ammirò ancora allo specchio emettendo un poderoso do di petto mentre intonava un brano del “Trovatore”, quindi uscì fuori fiero, gonfio e tronfio come un tacchino, con l’aria di chi non riesce a trattenere un: “Fate largo, donne chi mi resiste, arrivoooooooo…”

Sul suo disco aveva già riposto l’abito da sera ben piegato e sistemato, poi le bombe e le armi c’erano tutte, tutto a posto, quindi poteva partire.
Atterrò su una vasta pianura ai margini della grande città e rapido organizzò il susseguirsi degli eventi mediante un calcolo e inventario.
“Dunque, le armi ci sono, la piantina, il monitor è a posto… questa bomba la devo piazzare dentro quel palazzo in centro, l’altra...” Un sorriso lo illuminò tutto: “Questi sono i biglietti per tre spettacoli, uno di seguito all’altro, molto bene.”
Mentre guidava in picchiata verso la Terra, senza sosta emetteva gorgheggi e frammenti di arie prese qua e là da opere, operette e musica leggera.
Con gli occhi della mente vedeva lo svolgersi della serata, poi i ricordi tornavano alle ultime ore passate alla base lunare, alla sua camera, con tutta quell’arte sparsa in ogni angolo.
“Che nessuno debba mai vedere quella roba, per carità! Potrei considerarmi solo un uomo morto.”
Sicuro più che mai di sé rideva, cantava e parlava ad alta voce; all’improvviso ricordò che nella giornata sarebbero dovuti entrare nella sua camera Gandal con la sua gentile metà e anche Hydargos a ritirare dei fascicoli nuovi.
“Nooooo! Non è possibile! Appena entreranno vedranno tutto, non ho nascosto i dvd, gli spartiti, gli oggetti ricordo!” gridò disperatissimo. “Come faccio? Sono già atterrato, tornare indietro? No, troppo tardi… un momento, c’è Hydargos, proprio lui: gli dirò di entrare per primo e far sparire il tutto.”
Tentò invano di contattare il suo sottoposto, ma niente, non dava segni di vita.

Improvvisamente, dal monitor gli apparve l’immagine di Rubina.
“Toh, qual buon vento? Sua Altezza desidera?” l’apostrofò Zuril con malcelata ironia.
La risposta silenziosa fu un gigantesco pallone di gomma da masticare rosa esploso.
“Però, che educazione”, pensò Zuril. “A occhio e croce, deve averne ingollate almeno cinque, viste le dimensioni! E che eleganza, che debba partecipare ad un concorso?”
Rubina aveva i capelli raccolti in due trecce e sulla sommità del capo un grosso bigodino, mentre un altro arrotolava la frangia. Una tuta da ginnastica grigia e informe la paludava tutta.
“Io non desidero proprio niente, ho solo visto il segnale lampeggiare e sono venuta a vedere.”
L’aria annoiata e assente era ben stampata su tutto il viso.
“Per favore, puoi mandarmi Hydargos? Devo parlargli un momento.”
“Non c’è”, rispose lei con un sospiro.
“Come? Ma quando torna?”
“Non torna. È nelle miniere infernali di Giove per tutto il mese. Lo sai pure, non ricordi?”
Zuril ricordò, e la sua ansia crebbe.
“Se non c’è altro, io vado.”
“Noooooo, Rubina aspetta un momento, non andartene.”
“Cosa devo fare, ti decidi? Ho da fare, spicciati!”
Decise di chiedere la sua collaborazione, ormai non aveva scelta.
“Dovresti… no, non posso…”
“Dovrei? Cooosaaaa? Ti decidi a parlare?”
“Vai nella mia camera, poi ti dò le istruzioni io: prima di entrare chiudi gli occhi, non devi vedere niente.”
Rubina aprì due volte la bocca prima di riuscire ad articolare una sillaba, quando ebbe recuperata la favella gli disse: “Zuril, ma ci fai o ci seiiiiii???” Con la mano gli faceva il gesto per indicargli che stava vaneggiando.
“No, è che… sono cose riservate, molto intime.”
“Sai quanto interessa a me delle tue conquiste! Ci sono le foto delle tue donne, e allora?
Non sono gelosa né mi scandalizzo, quindi dimmi cosa devo far sparire, così quando arriverà la tua nuova fiamma prima di te, non scoprirà nulla” disse lei con tono tra l’annoiato e il saccente.
“Non si tratta di questo, è ben altro”, sospirò lui.
“O ti decidi a parlare chiaro, o interrompo la comunicazione subito. Non ne posso più!”
“Va bene, la porta è solo accostata, entra pure.”
Rubina entrò masticando gomme e caramelle; davanti allo specchio sistemò meglio i due bigodini e gli elastici alle trecce.
“Ci sono. Cosa devo mettere sotto sequestro?” domandò al limite della pazienza.
“Ecco, sul tavolo ci sono dei dvd, degli spartiti, dei libri, dei souvenir; nascondi tutto nell’armadio e chiudi a chiave.”
“Tutto qui? Bella roba! C’era bisogno di fare tutte queste scene?”
Rubina impilò i libri, in fretta buttò i dvd in una scatola in modo sgarbato; la sua attenzione fu improvvisamente catturata da uno scialle nero, sembrava una mantiglia spagnola e da un paio di nacchere di legno. Il prezioso indumento di pizzo se lo sistemò sulle spalle, poi prese a rigirarsi davanti allo specchio, e intanto cercava di infilarsi tra le dita quegli strani strumenti facendoli suonare.
Ad un tratto cominciò a ridere a più non posso, Zuril tentò di fermarla, ma lei niente, non sentiva.
“Vedo che quando sei solo, ti conci davvero bene! Il grande illustre scienziato non la smette mai di stupirci!”
“Chiudi tutto ed esci subito, sparisci! Ah, intanto che ci sono, se mi permetti un consiglio Rubina, ti puoi iscrivere ai concorsi di: Miss Eleganza, Miss Simpatia e Miss Educazione, ti garantisco che li vinci tutti e tre senza meno! Sicuro! Dammi retta, prima classificata!”
“Va bene, ciao, personaggio illustrissimo!”
La ragazza uscì dalla camera e tornò al suo tapis roulant.

Zuril, un tantino più sollevato, era arrivato nei pressi del teatro di Tokio: da lontano, Kaori, gli faceva segno di saluto sventolando i biglietti per l’ingresso.
“Eccoti finalmente, entriamo subito, tra dieci minuti inizia.”
Lui le sorrise contento prendendola per mano. Sul portone principale si arrestarono increduli, quando lessero in un cartello:
“Spettacoli sospesi”
Ma come? E perché? Nessuno li aveva avvertiti.
Entrarono da una piccola porta laterale e subito si imbatterono nel custode.
“Scusi, come mai è tutto annullato?” domandò Kaori, elegantissima nel suo abito di seta verde.
“Mah, un fatto improvviso. Il tenore ha avuto un attacco di tracheite, broncopolmonite e annessi, quindi non ha più voce: il sostituto è dovuto partire per impegni improrogabili, quindi siamo davvero nei guai, perché stasera ci sono degli ospiti di riguardo venuti apposta, ora come facciamo? Va bene non portare in scena tutti e tre gli spettacoli previsti, ma almeno uno bisogna farlo. Che figura ci facciamo, altrimenti?”
Il direttore d’orchestra apparve all’improvviso. Era un uomo alto e imponente, sempre sicuro di sé, ma in quella circostanza pareva rimpicciolito, totalmente smarrito e incredulo.
Zuril e Kaori si guardarono, poi lei ebbe un’idea fulminea.
“Si può fare!” disse con un sorriso.
“Cosa, si può fare?” domandò il maestro.
“Lo spettacolo, sì, dico davvero. Questo signore che vedete, ha una voce prodigiosa unita ad una discreta esperienza nel campo; se rimandate la messa in scena di un’ora, e nel frattempo gli fate fare delle prove, vi sorprenderà.”
Zuril, dopo un attimo di sorpresa, si gonfiò tutto e diede la sua totale disponibilità.

Sul palco, la soprano provava una famosa romanza della Boheme.
Il direttore intanto, dava delle dritte a Zuril, testando la sua voce.
“Devo dire niente male, del resto non portiamo tutta l’opera, ma solo delle suite, quindi tenga sempre l’occhio puntato verso il suggeritore, segua me per andare a tempo e il gobbo, dove sono scritte le parole. Se la sente?”
“Sicuro, prima devo fare delle telefonate urgenti, scusatemi”. Con passo celere si avviò nel camerino e prese contatto con Hydargos, il quale stava semi incarcerato nelle miniere infernali di Giove.
“Non posso muovermi di qui, sono ordini.”
“Adesso gli ordini te li dò io, chiaro? Devi subito scendere sulla Terra e disporre le bombe alla base del Centro Ricerche, poi tra alcune ore ti raggiungo, capito?”
“No, non capisco… ma poi, quello non era compito tuo?”
“Ho da fare: appena sono libero ti raggiungo, non discutere e spicciati!”
Chiuse la comunicazione e subito bussò alla porta il sarto per la prova costume.

La scaletta appesa in ogni camerino riportava l’elenco in esatto ordine cronologico di tutti i brani artistici.

Nabucco: coristi in “Va pensiero”
La Traviata – “Coro delle zingarelle” – parte cantata e ballata.
Zuril – tenore e Aika – soprano in: “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimì”
Turandot – coristi
Cavalleria Rusticana – coristi
Madama Butterfly-Aika – soprano in: “Un bel dì vedremo”


Le luci si offuscarono al terzo e ultimo squillo del campanello, quindi tutti gli artisti furono pronti dietro le quinte.
Aika strinse forte le mani a Zuril con un: “In bocca al lupo, forza!”
“Cosa significa?”
“Devi rispondere crepa, no?”
“Cosaaa? E perché mai dovrei augurarti di crepare?”
“Ma nooo! Oh, ma di dove sei, di un altro pianeta?”
“Mah, quasi quasi.”
“Ssst, silenzio!” ordinò una voce nell’oscurità.

Finito il primo pezzo ci fu un lungo battimani, poi entrarono le zingarelle cantando e ballando una danza che Zuril ricordava molto bene durante una certa “vacanza romana”, in cui lo spagnolo Miguel, aveva mostrato a lui e Hydargos certi balli andalusi, poi aveva concluso con: “…ho avuto modo di conoscere la bravissima e bellissima ballerina di flamenco Lucero Tena… ho studiato con lei un certo periodo, vedete? Lei aveva inventato un suono unico con le nacchere e me l’ha insegnato…”
Che esperienza meravigliosa era stata quella! Del resto, lui non aveva accantonato quella passione che nascondeva gelosamente nel segreto della sua camera… segreta fino ad un certo punto. Poche ore prima, Rubina aveva visto quegli oggetti e si era burlata di lui… beh, ma in fondo chissenefrega, vah!
Dietro le quinte non riusciva a stare fermo, muoveva anche lui i piedi a passo di danza, finchè un’occhiataccia della maschera lo fermò.

Terzo quadro: Aika e Zuril entrarono. Lui, nella parte di Rodolfo, uno squattrinato pittore bohemien, aveva fatto entrare in casa la sua vicina e ora intonava una dolce melodia.
Il suggeritore era ben piazzato in mezzo al palcoscenico dentro un buco e teneva in vista le parole dell’opera.
Il tenore iniziò per primo.
Ricordiamo che, per l’occasione, Zuril aveva cambiato il colore dell’epidermide da verde in color carne terrestre e l’occhio mancante dal computer oculare era stato sostituito da un occhio finto. Il risultato era che non vedeva più come prima, quindi iniziò bene nel gestire il suo pezzo, poi lo sguardo finì nella parte di lei, quindi cominciò a saltare di palo in frasca.
Aika, gli diede di gomito sussurrandogli: “Quella è la mia parte, sono io che devo cantare mi chiamano Mimì.”
Di rimando, Zuril le sussurrò: “Ma il tuo nome, non è Lucia?”
“Idiota! Non è il momento di fare battute, riprendi il filo piuttosto, sei fuori tempo!”
Nonostante svariati incidenti, il pezzo terminò e il pubblico, pur confuso, applaudì.

Dietro le quinte, Aika lanciò una fila di improperi all’indirizzo del collega: lui incassò il tutto con eleganza, poi le consigliò: “E’ meglio che ti spicci col cambio d’abito, tra poco devi cantare “Un bel dì vedremo”, se la scaletta non m’inganna.”
“Non lo canto, faccio harakiri, che razza di figura mi hai fatto fare! Io in scena non ci tornerò mai più, almeno fino a quando non troverò il chirurgo più bravo del mondo che mi cambi i connotati, perché il coraggio di presentarmi alla gente non ce l’ho né adesso, né maiiiii!” urlò la soprano al colmo di una crisi di nervi.
Zuril osservò meglio la donna e ne dedusse che era davvero bella, quindi la mano, anzi, la zampaccia verde come la chiamava Rubina, (divenuta color carne terrestre per l’occasione), sfiorò il generoso decolletè che la soprano esibiva.
La prassi vuole che, dopo un simile contatto, cinque dita della signora offesa si stampino sulla faccia del maleducato di turno, e così avvenne anche in quell’occasione, abbinato all’altrettanto stra usato epiteto: “Porco!”
Il grande scienziato accusò il colpo con classe estrema (tanto aveva la pelle dura, eh, che sarà mai?), poi, visto che le esibizioni erano finite, uscì con tutti gli artisti sul palco per gli inchini di ringraziamento.

Il pubblico pareva soddisfatto, quindi Zuril, tutto gasato per il successo ottenuto e col pensiero rivolto al prossimo successo delle bombe che sarebbero esplose al Centro Ricerche, si pose in mezzo al palco ed emise un poderoso: “All’albaaa viiineceerooooooò” che ci stava come i cavoli a merenda, ma ottenne comunque un ulteriore scroscio di applausi.

Uscì svelto dalla porta laterale e contattò Hydargos, il quale rispose subito ed era al settimo cielo.
“Ce l’abbiamo fatta! Anzi, IO ce l’ho fatta! Sì, ho fatto saltare in aria tutto, il Centro, la fattoria, Goldrake, i veicoli, tutto!” disse gasato al massimo.
“Un momento, spiegami bene… ma… sei sicuro? Voglio controllare.”

Venti minuti dopo si incontrarono. Hydargos mostrò a Zuril le foto con i risultati delle bombe esplose.
Lo scienziato si soffermò a lungo ad osservare le immagini, poi decise di recarsi sul luogo del delitto per accertamenti. Confrontò le fotografie coi luoghi; strano, non c’erano tracce di esplosioni. Riguardò meglio, poi il suo sguardo interrogativo si posò sul suo sottoposto.
“Qui sembra tutto in ordine. Cosa hai fatto coi tasti? Mostrami bene.”
Hydargos spiegò bene nei dettagli tutta l’operazione e alla fine di quel resoconto, una lampadina si accese nella testa di Zuril.
“Nooooo!!! Non è possibile!”
“Cosa, non è possibile?”
“Hai usato il generatore di miraggi! Sì, quella toppata che si rivelò poi un vero fallimento!
Ci siamo dimenticati di far sparire quel sistema. Tu hai creduto di piazzare delle bombe da Procton, perché si era innestato un miraggio… invece sono esplose nel vuoto!”
“Nooooo, non ci credoooo! E adesso cosa facciamo?”

Zuril ebbe un’idea fulminea.
“Ho trovato! Torniamo alla base lunare di corsa, e sempre correndo, dopo aver preso il necessario, torniamo sulla Terra per finire questa dannata missione, ecco!”

Velocissimi raggiunsero Skarmoon. Silenzio e deserto ovunque: in punta di piedi entrarono nella sala di comando buia e deserta.
Il novello tenore intonò un’aria della Boheme adeguata alla situazione: “… al buio non si trova… ma per fortuna, è una notte di luna… e qui la luna l’abbiamo vicino.”
“Veramente ci siamo sopra”, rettificò Hydargos.
A tentoni cercarono l’interruttore. Un attimo prima di premere il tasto, illuminata a giorno, la stanza apparve ai loro occhi… solo che non era vuota.

Re Vega, Gandal e signora sullo sfondo; dalla porta laterale usciva Rubina con in mano le armi funzionanti e, mentre le sventolava sotto i loro occhi increduli con indosso la mantiglia spagnola e un abito folkloristico accennando sensuali passi di danza, intonava questa melodia:


Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai?
bella Hawaiana attaccate a sta banana …
’ndo vai se la banana non ce l’hai?
Vieni con me te la farò vedé vengo con te
me la farai vedé




FINE

Edited by .Luce. - 28/4/2023, 10:48
 
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ALIENI, SOGNI, RICORDI

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L’inizio di un nuovo giorno come tanti e tanti altri al ranch Makiba.
Mizar si occupava del puledro e intanto tentava di fabbricare un aquilone, Actarus e Venusia sistemavano il fieno, tagliavano tronchi di legno, mungevano le capre. Naturalmente, Rigel stava appollaiato sopra la torretta avvista UFO col cannocchiale ben puntato e la speranza ossessiva di contattare entro sera, almeno un alieno.

“Papà, vieni ad aiutarci, smettila con quelle sciocchezze, vieni giù subito!” gli urlò Venusia per l’ennesima volta.
“Ma no, dai, lascialo divertire, qui ci sarebbe d’intralcio” le mormorò Actarus comprensivo.
“Dici? Mah!” rispose Venusia perplessa e poco convinta.

Poco dopo, arrivarono Hara e Banta per chiedere un forcone in prestito e anche in quell’occasione, Banta ce la mise davvero tutta per catturare l’attenzione di Venusia e farle la corte.
Quel giorno, Rigel era molto distratto e non si avvide di nulla: si impegnava al massimo per mettere a fuoco il cannocchiale; in una giornata così limpida la visuale era ottima e tale occasione non andava sprecata per nessun motivo.
Qualche minuto dopo, infatti: “Eccolo, un UFO, lo sapevo, è arrivato, ero sicuro che oggi sarebbe stato qui! Vieni, sono il tuo grande amico Rigel, è tanto che ti aspetto!”
Nello sporgersi dall’osservatorio, Rigel perse l’equilibrio e cadde a terra, come del resto capitava un giorno sì e l’altro pure.

Si alzò quasi subito e, strabuzzando gli occhi, corse verso il suo “amico”, ma con sorpresa fu l’altro ad andargli incontro per primo, salutandolo con calore e simpatia come fossero amici da una vita e si ritrovassero dopo tanto tempo.
Il personaggio alieno aveva una testa enorme a forma di pera, un fisico decisamente asciutto che si caratterizzava per l'assenza di metacarpi e metatarsi.
Le mani e i piedi erano provvisti di un unico grosso dito: pollice alluce, la pelle color rosa e non indossava altro capo d'abbigliamento se non un paio di pantaloncini con due tasche insospettabilmente capienti e capaci di tirar fuori l’impossibile.
Caratterizzato da un enorme naso e degli sparuti capelli in testa, gli occhi molto grossi e ravvicinati gli conferivano un aspetto gioviale e allegro.

“Pciao, Rigel, da quanto ptempo non ci si pvedeva!”
“Ciao, Eta Beta!!! Finalmente sei quiii!” gli disse Rigel correndogli incontro a braccia spalancate e sorriso a trentadue carati.
“Eh, psì, psono appena ptornato dal pianeta Petropolis, prima psono pstato ptanti plunghissimi anni pnella pcaverna psottoterra!
Psono anni che aspetto di incontrarti, a proposito lo psai che da pdove pvengo io, psiamo pgià nel 2000? Da te pche anno è?”
“Come? Qui? Ah, siamo nel 1975… e com’è il 2000?”
“Pvieni sul mio pdisco, ti pmostro ptutto, andiamo!”


Eta Beta aprì la sua navetta bianca e nera, Rigel salì con un balzo tutto eccitato all’idea di poter viaggiare negli spazi infiniti e senza limitazioni. Quando avrebbe raccontato tutto ciò ai figli e a quelli del Centro Ricerche, avrebbero smesso per sempre di ridergli dietro, eccome!
Dopo un’ora di volo, atterrarono sul pianeta popolato dagli Emuloidi, piccoli alieni gialli in grado di mutare le loro sembianze. Li trovarono tutti indaffarati nelle scoperte scientifiche, altri nelle miniere di rari fossili, molti decollavano nello spazio.
Rigel era senza parole, fissava tutto come in trance; nemmeno nelle sue più audaci fantasie aveva immaginato di poter assistere a visioni così suggestive.
Ogni cosa di quel pianeta comprendeva tutti i colori dell’iride, ma in un modo così nitido, trasparente e suggestivo, che non c’erano parole per descriverlo.

“Rigel, pcosa ne pdici se pmangiamo pqualcosa?”

“Molto bene, non ci vedo più dalla fame.”
Dalle tasche, Eta Beta tirò fuori cubetti di ghiaccio, piume di piccione e mandarini cinesi sottaceto; con una tavola apparsa dal nulla, invitò l’amico a quello strano banchetto.
Rigel, benchè terrestre, apprezzò moltissimo quelle specialità e ne avrebbe desiderate ancora, se all’improvviso non fosse apparsa una strana creatura.
Si trattava di Neema, una vecchia fiamma di Eta Beta: la loro storia era finita quasi prima di cominciare, quindi lui diede chiari segni di nervosismo e convinse Rigel a salire di nuovo sul disco per lanciarsi in nuove ed eccitanti esplorazioni spaziali.

Dopo un’altra ora, atterrarono sul limitare di una stella, dove si vedeva un grande fiume.
Eta Beta estrasse dalla piccola tasca due canne da pesca a motore, una la porse a Rigel.
“Ptieni, qui pci psono dei pesci pftantastici, portali a pterra, pvedrai pche pgrigliata pverrà pfuori.”
Rigel lanciò con entusiasmo l’amo nell’acqua e subito un pesce enorme abboccò, ma tanto era pesante che trascinò anche il terrestre sott’acqua.
“Aiuto! Aiutatemi, affogo, aiutooooo!”
“Pniente paura, arrivo io!”
Eta Beta, sempre dalle tasche estrasse un elicottero, e con quello salvò l’amico dall’acqua profonda.
“Pvisto, che è andato ptutto pbene?”
“Sì, ma che paura! Però è bellissimo, e che tecnologia avanzata, nemmeno il laboratorio di Procton è così, glielo dirò appena tornati sulla Terra, poi tutti quanti dovranno convincersi a venire qui a toccare con mano tutto quello che sto vedendo coi miei stessi occhi!”
“Adesso andiamo pdalla parte opposta pdella pvia plattea, pvieni!”
“Sì! Che bello, corriamo subito! Non si può andare più veloce? Forza, ho fretta di arrivare, motori al massimo! Via, finalmente si corre!”
Contento come una pasqua, Rigel non stava fermo un attimo, saltava sul seggiolino, guardava gli spazi, le stelle, le costellazioni, gli occhi da soli non gli bastavano per ammirare tutto.


“Cosa dice dottore, le sembra che si stia riprendendo?”
“Credo di sì, il polso è quasi normale, tra poco dovrebbe svegliarsi.”
“C’è pericolo di una commozione cerebrale?”
“Non credo, ad ogni modo non desta preoccupazioni, suo padre ha la testa molto dura.”
Venusia assentì col capo, niente di nuovo per lei, nelle parole del medico; da diverse ore stava su una sedia dura e scomoda dell’ospedale, dove il padre era stato ricoverato dopo la famosa caduta mattutina dalla torre.
Disteso sul letto e fasciato da capo a piedi, Rigel era in preda al delirio.
“Voglio vederne ancora, ancora!!! Guido io l’astronave adesso, sono un vero campione!” continuò a sillabare strane frasi sconnesse, poi lentamente aprì un occhio, subito dopo, l’altro.
Vedeva tutto appannato, ma poco alla volta, mise a fuoco la stanza tutta bianca, il letto…
“Ma… Venusia… che ci fai qui? E io, cosa ci faccio qui? Ero sulla Via Lattea poco fa, perché mi avete portato via?”
“Ma papà, cosa dici? Sei caduto, non ricordi? Siamo stati tutti in pena per te, sei rimasto svenuto per otto ore!”
“Venusia? Ma… hai bevuto per caso? Perché sono arrivato qui, la direzione era la stella Altair” diceva Rigel biascicando le parole, ancora tutto intontito.

Tornò il dottore per provargli la pressione.
“Tutto regolare, i valori sono a posto… però… non vorrei spaventarla, ma…”
“Dica pure dottore, cosa c’è? Non mi faccia stare in ansia, la prego.”
“Posso parlare chiaro?”
“E’ ciò che le chiedo”, disse Venusia alzandosi dalla sedia fissandolo negli occhi, ormai pronta a tutto.
“Ecco, vede, le frasi che suo padre dice… mmm… no, non mi convincono: la mia paura è che il forte impatto che ha avuto cadendo, lo abbiano portato… nulla di sicuro comunque, ci vogliono degli accertamenti, ma non vorrei fosse affetto da una demenza precoce, cioè forse una parte del cervello è rimasta colpita in modo irreversibile, quindi potrebbe non tornare più quello di sempre. Però, ripeto, non è detto, non si spaventi, magari è solo una fase transitoria.”

Venusia lo fissò negli occhi e trasse un gran respiro di sollievo.
“No, guardi, è tutto a posto. Lui è sempre così, sarei preoccupata del contrario invece”, gli rispose sorridendo.

Sotto gli occhi sbalorditi del dottore, Venusia corse a cercare un telefono per comunicare a tutti gli abitanti della fattoria che Rigel era finalmente tornato in sé, e molto presto avrebbero fatto ritorno a casa.


FINE
 
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CONDIZIONAMENTI

1_254

Era trascorso più di un anno da quando Vega aveva iniziato il suo tentativo di conquista sulla Terra.
In quell’arco di tempo c’era stato tutto un susseguirsi di: sempre nuovi mostri da combattimento che piombavano sul pianeta azzurro, ricatti, veghiani travestiti da terrestri per agire indisturbati, plagio sui più giovani, condizionamenti sulle onde cerebrali delle persone allo scopo di pilotarli a piacimento e altro.
Decine e decine di studi, esperimenti messi in atto: era tempo di fare ordine, pensò tra sé, il pragmatico Ministro delle Scienze. Era tra l’altro un lavoro che nessuno aveva mai voglia di fare perché, oltre che noioso, era alquanto deprimente, visto che avevano collezionato solo sconfitte. Ma per uno scienziato di larghe vedute come lui, era un incentivo a fare meglio: riordinando ogni cosa sarebbe stato più facile capire l’errore e non ricaderci più.

Di buon mattino si mise al computer per sistemare e catalogare ogni cosa, mettendo in ordine alfabetico i nomi dei mostri utilizzati, le date dei combattimenti, come il mostro era stato sconfitto, i condizionamenti. Su questi ultimi, il computer oculare di Zuril si fermò a lungo come ipnotizzato.
“Vediamo… la prima volta è stata condizionata Stella, poi Alcor… poi Naida, eccola qui.”
Osservò bene e a lungo le immagini delle vittime, il decorso dello stato ipnotico, il finale.
Allineò in ordine le date dell’ideazione del sistema sul pianeta Vega, l’impatto terrestre, il nome della vittima prescelta, il sistema di controllo usato, da chi era stato ideato, messo in atto, non si lasciò sfuggire nemmeno un particolare.
Dopo circa due ore, aveva chiara e distinta la mappa di questo sistema e doveva ammettere che se non fosse stato scoperto in un qualche modo dai terrestri, aveva funzionato molto bene!
“Quindi, ci sono!”
Un sorriso lo illuminò per la genialissima idea che stava prendendo forma nel suo cervello.

“Mai avuto il minimo ostacolo per conquistare una donna, mai! Solo con Rubina non ci sono ancora riuscito, accidenti! Per una questione di principio, di dignità e di rivincita devo farcela, e anche perché lei mi piace moltissimo, ovvio!” pensava Zuril, mentre un pericoloso e febbrile luccichio nello sguardo lo portava quasi alle soglie del delirio e intanto si sfregava le mani tutto soddisfatto.
“Condizionamento! Ecco cosa ci vuole per riuscire nell’impresa senza ombra di dubbio!”
Come agire?
“Allora, ho saputo che la principessa sosterà alla base lunare per almeno due settimane: benissimo, del tempo ce ne è d’avanzo!”

Mentre formulava questi pensieri, la Quenn Panther di Rubina atterrò.
“Eccola, è lei! Sta arrivando. Non voglio infastidirla, quindi non le corro incontro, la vedrò più tardi e solo “casualmente”, ora devo mettermi all’opera.”
Meditò tra sé che, durante il sonno notturno della fanciulla, la sua mente indifesa e libera da ogni controllo razionale, avrebbe assorbito come una spugna tutti i suoi condizionamenti amorosi che le avrebbe inflitto senza sosta ogni notte e per tutto il suo soggiorno su Skarmoon.
“Alla fine, mi cadrà ai piedi come una pera cotta”, pensò ad alta voce ridendo sguaiatamente.
Si divertì ad immaginarla col lungo abito regale a brandelli, la corona persa lungo la folle corsa in cui lei lo implorava a mani giunte di amarla, che lo voleva a tutti i costi, che sarebbe morta… la vedeva strapparsi i capelli disperata e in lacrime.
“Intanto sistemo il tutto, poi penserò a divertirmi, e con gli interessi! Se ne pentirà alla grande di avermi snobbato e preso in giro come un idiota!”

Zuril entrò di soppiatto negli appartamenti della principessa, installò un apparecchio invisibile agli occhi di chiunque. Tale marchingegno, si sarebbe attivato in modo autonomo nel cuore della notte, ripetendole per ore e ore che lei amava quell’uomo, lo desiderava con tutte le forze e, oltre a questo, sulla parete sarebbero apparse per delle frazioni di secondo le immagini di lui in tutto il suo splendore, messaggi subliminali continui e martellanti, ma al tempo stesso inafferrabili.
“Tempo una settimana e sarà mia! Chissà che faccia faranno tutti e che invidia avrà Gandal!”


“Ben arrivata Rubina, entra”, le disse con insolita premura re Vega indicandole la poltrona del suo studio perché si accomodasse.
“Scusami se ti ho fatta venire fin qui, so bene che su Rubi hai tanto da fare, però ho bisogno della tua presenza da noi per alcune settimane, non potevo farne a meno, lo capirai tu stessa.”
“Per me va bene, spero solo che la faccenda non sia lunga. Di che si tratta?”
“Ho bisogno che tu dia una dritta ai nostri soldati. Vedi, da qualche tempo li vedo svogliati, coi riflessi lenti, mah, è come si fossero presi delle ferie senza il mio consenso. Sei molto brava a farti intendere senza tanti giri di parole, quindi vorrei che esercitassi la tua bravura anche qui: una volta che saranno tornati a rigare dritto come sempre, sarai libera. Te la senti? Non ti chiedo troppo, vero?”
“Ho capito, per me va bene e credo di farcela in pochi giorni. Se non ti dispiace, vorrei mettermi in contatto coi miei sudditi, Ci vediamo più tardi, all’ora di cena.”
Re Vega sorrise soddisfatto: sua figlia gli somigliava sempre di più!

Rubina entrò nei suoi appartamenti: nel salottino adiacente la stanza da letto, sistemò il computer.
In capo a due ore aveva già impartito gli ordini su Rubi ai suoi sottoposti, stroncata una rivolta sul nascere, individuato un nuovo pianeta da sottomettere, beccato un sorvegliante che intascava dei preziosi e subito incarcerato in attesa di processo, imbastita la bozza di un genocidio, qualche schizzo di un mostro molto carino e simpatico che le era venuto in mente durante il viaggio. Alla fine, ammirò soddisfatta il suo lavoro. Sbadigliò a lungo stiracchiandosi, poi si diresse verso la sala da pranzo.
Gandal e consorte la salutarono con la solita deferenza, Zuril apparve dalla direzione opposta e le fece un lieve inchino senza leziosità alcuna.
“L’hanno capita finalmente, sanno che devono rispettarmi: non permettere nessuna confidenza dà i suoi risultati”, pensò soddisfatta la principessa.

Verso le undici tutti si ritirano, e alla base lunare piombò il silenzio.
Su Skarmoon, anche nelle ore di totale inattività, regnava sempre un persistente e monotono rumore di sottofondo dovuto all’atmosfera e al tipo di costruzione fatta dai veghiani.
Tutti si erano ormai abituati e non lo sentivano più, Rubina invece non lo sopportava, quindi per essere certa di riposare perfettamente si turò le orecchie con due formidabili tappi a prova di bomba e una mascherina nera sugli occhi, dato che la luna sopra la quale erano adagiati, mai li lasciava totalmente al buio.

Il nuovo giorno, vide una ragazza perfettamente riposata e oltremodo soddisfatta: aveva fatto un lunghissimo sonno senza interruzioni di sorta e privo di sogni.
Premette un pulsante e dal muro uscì il vassoio della colazione, quindi andò dritta filata al suo lavoro di sorveglianza delle guardie.

A metà giornata, Zuril iniziò ad osservarla di nascosto. Cercava degli indizi nell’espressione del viso, nella luce degli occhi, sperava di vederla tormentata e senza pace, in cerca di qualcosa.
“Sta uscendo, allora passo davanti a lei come per caso, vediamo che reazione ha!”
Rubina camminava dritta e fiera, intravide lo scienziato e lo salutò con un lieve cenno del capo, fredda e glaciale.
“E’ ancora presto, solo una notte è passata, ancora un poco di pazienza. Vado a controllare se la sua porta è aperta, così rincaro la dose dei messaggi.”
Fu fortunato, quindi mise sotto al cuscino un piccolo oggetto, lo stesso che era stato impiantato nel cervello di Naida. Al suo interno, un microregistratore ripeteva all’infinito e senza sosta: “Tu ami Zuril, non puoi stare senza di lui, è l’uomo per te, lo ami, lo ami, lo ami…”

Il mattino successivo, Rubina si alzò poco prima dell’alba per prendere contatti coi suoi sudditi. Si fece mandare tutti i resoconti della situazione su Rubi, impartì nuovi ordini, poi tutta soddisfatta andò nello studio del padre.
“Qui tutto sta filando liscio, credo di riuscire a cavarmela in meno di quindici giorni. I tuoi soldati avevano bisogno soltanto di una nuova impronta logistica, tutto qui.”
Vega la fissò soddisfatto, tuttavia non voleva lasciarla partire così in fretta, stavano così poco insieme, quindi la convinse a fermarsi ancora qualche giorno.
“Fai un giro per tutta la base, osserva bene ogni cosa, fai sentire la tua presenza!”

Nel frattempo, Zuril non stava più nella pelle: la sua fantasia si andava popolando di immagini tragicomiche. Rubina ai suoi piedi, non mangiava e non dormiva più, malata d’amore per lui… alla fine, in un gesto di magnanimità, lui la sollevava da terra e insieme fuggivano nello spazio uniti per sempre…
“Sì, per sempre felici e contenti. Dove l’ho sentita questa frase? Boh, l’avrò sognata.”
Però, non era un sogno la ragazza altera e sprezzante che gli passava davanti senza chiedere nemmeno permesso e non lo degnava di uno sguardo che non fosse saccente e spregevole.
“Com’è che ancora non funziona? Eppure l’apparecchio è attivo, l’ho sentito tante volte, le immagini scorrono sul muro, quindi? Forse si vergogna della sua debolezza e sta lottando con sé stessa, ma non può durare a lungo.”

Sulla porta d’ingresso centrale, si materializzò all’improvviso una figura di donna dai lunghissimi capelli scuri. Aveva un’aria minacciosa e per nulla amichevole; ma chi era? E cosa voleva?
Rubina le andò incontro sicura, la donna la scostò sgarbatamente e si fiondò diretta verso Zuril che aveva intravisto sul fondo del corridoio. Lo investì con parole aggressive e minacciose.
“Dove ti eri cacciato? Sono giorni che ti aspetto! Avevamo appuntamento, non sei venuto e nemmeno mi hai chiamata per avvertirmi!”
La donna l’aveva preso per la giacca e lo teneva sollevato da terra con una forza incredibile.
Lui tremava e non trovava parole; tutto preso dalla messa in atto di quel piano demenziale per conquistare Rubina, aveva completamente dimenticato quella sua relazione.
“Credevi di essere riuscito a nasconderti bene, vero? Invece ti ho trovato, ho messo a soqquadro mezzo universo e ce l’ho fatta, non mi fai fessa, cosa credi?”
Lo investiva con parole taglienti e rimbombanti che facevano tremare tutta la base.
Ad un tratto, posò lo sguardo sprezzante sulla principessa.
“E questa chi è? Il tuo passatempo quando io non ci sono?”
Finalmente, Zuril riuscì a sillabare qualche parola.
“No, no, lei…. lei è… è… ma stava andando via…”
Un urlo disumano tagliò l’aria.
“Quindi mi trovo in una casa per appuntamenti, vero? Quindi hai creduto che io sia di quel genere, vero? Quindi mi hai usata, vero? Non sono una schifosa sciacquetta come questa io!” urlò indicandola col dito.
“Hai davvero un pessimo gusto, puà!” Sottolineò la frase con un’orribile espressione di disgusto.

Rubina era rimasta senza favella: aveva aperto due volte la bocca, ma nessun suono era uscito.
La donna lasciò improvvisamente la presa su Zuril e questi cadde pesantemente a terra, mentre lei usciva da dove era entrata urlando e gesticolando, lanciando improperi e minacce in tutte le lingue.

Re Vega e Gandal si materializzarono sullo sfondo del corridoio.
“Che succede? Abbiamo sentito un trambusto, tutto a posto?”
“No, niente di grave”, articolò Rubina con sforzo estremo e ancora sotto shock.
“Io devo tornare su Rubi, mi cercano”, disse lentamente con occhi fissi e inespressivi.
Dentro di sé mormorava: “Meglio allontanarsi da questo manicomio prima che sia troppo tardi.”
Partì in silenzio e quasi senza saluti.

Un’altra notte era sopraggiunta su Skarmoon.
Il sovrano piuttosto stanco, si congedò per primo.
“Maestà, non andate a riposare?” chiese gentilmente lady Gandal. “La sua stanza è dalla parte opposta.”
“Lo so, ma stanotte voglio dormire in quella di Rubina. Già sento la sua mancanza, poi è più fresca e silenziosa.”
“Buonanotte, Maestà.”
Un lieve “buonanotte” uscì anche dalla bocca di Zuril, poi decise di uscire per prendere un po' d’aria.
Era ancora traumatizzato dai fatti della giornata: continuava a chiedersi come mai Rubina era sempre la stessa, perché non era pazza di lui? Il piano era perfetto, infallibile.
“Vado a controllare quegli strumenti.”
Dopo un attimo, realizzò che Vega stava dormendo nella camera della figlia e tutti i dispositivi di condizionamento era ancora super attivi.
“Noooooooo!!!!! E adesso come faccio? Se per la principessa quel sistema non ha funzionato, non significa che…”
Non volle a pensare al seguito, ma gli occhi della mente gli mostrarono in tutta la sua tragedia, la conseguenza che quei dannati marchingegni avrebbero potuto compiere nella testa del suo sovrano.
“E adesso? Troppo tardi per entrare e smontare il tutto”, pensò in preda al panico e nella disperazione totale.
Nonostante si imponesse di non immaginarsi la scena, dei flash gli balenavano davanti agli occhi come lampi: un re che lo rincorreva pazzo d’amore per lui e tutta la corte assisteva alla scena.
“No, è troppo, davvero troppo, me ne vado: voglio disperdermi nello spazio, in qualunque luogo, ma non tollerare questa cosa! Accidenti al giorno che ho deciso di condizionare Rubina!”

Zuril balzò sulla prima navetta disponibile e puntò dritto verso una galassia lontana.



FINE
 
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F.B.I. OPERAZIONE UFO

1_19

“Buongiorno, bene alzato, complimenti! Già di buon’ora il super alcolico, continua pure così, vedrai che la mente ci gode e com'è bella sveglia ora che devi progettare un attacco coi controfiocchi senza sbagliare! Continua pure a collezionare insuccessi, il nostro sire è felicissimo, al settimo cielo! L’alcol è tutta salute per il fisico, la mente e il tuo ruolo, non c'è dubbio!”
Così Lady Gandal pungolava con ironia e perfidia sopraffina Hydargos, il quale, coi nervi a fior di pelle per i continui insuccessi si macerava negli alcolici e, fissando il fondo del calice, sperava inutilmente di trovare idee brillanti per distruggere una volta per tutte l'odiato Goldrake.
Con sforzo eroico ce la mise tutta per non spaccare ciò che aveva davanti e mantenersi freddo davanti a quell'essere pieno di sadismo e cattiveria gratuita; ogni suo insuccesso era per lei un'occasione magnifica per ridurlo a pezzetti.
Anche Gandal non era tanto benevolo, però lei era crudeltà pura, studiata, come ci godeva ad esaltare i suoi errori, li ripeteva, ingigantiva, ridicolizzava davanti a tutti e quando pareva aver esaurito il repertorio, tornava all'attacco con un'altra scarica di offese ancora più pesanti e in grado di distruggere chiunque.
Intanto Hydargos ripassava mentalmente tutte le idee poco brillanti di lei e consorte, ma sapeva bene che era inutile, perchè i loro sbagli non erano mai da considerarsi tali, solo incidenti di percorso che potevano capitare a tutti, figuriamoci! Se il mostro di turno finiva disintegrato dal tuono spaziale, non era loro la colpa, ma dei tecnici, del pilota incapace e, soprattutto, di lui, Hydargos, perchè non aveva diretto bene l'attacco, non era stato preciso, non aveva previsto, non aveva revisionato, era solo un essere inetto, ecco perchè!
Strinse forte la mascella imponendosi una calma che non provava affatto, ma sapeva molto bene che se avesse reagito alla provocazione, tutto ciò sarebbe finito solo a suo danno e di guai ne aveva già troppi messi insieme, non era davvero il caso di aggiungerne altri.

“Va bene, vado a darmi una sistemata, questa mattina sono in ritardo. A più tardi.”
Dopo queste parole, Lady Gandal si decise finalmente a lasciare la stanza, era ora!
“Fai bene a darti una sistemata, ne hai davvero bisogno, anche di una ristrutturazione totale: se hai un compagno è solo perchè siete due teste in un corpo solo, altrimenti, ti saluto!
Chi vuoi che ti voglia, palla al piede rompiscatole?” sibilò a denti stretti Hydargos malignando con soddisfazione.
Si decise quindi a mettersi con impegno e tanta buona volontà alla progettazione di un piano d'attacco infallibile.

Dopo circa venti minuti, comparve il segnale di chiamata; senza dubbio era quella iena che si era ricordata di qualche offesa non ancora elargita e voleva rifarsi, non era certo la prima volta che succedeva.
“Stavolta mi sente, non ne posso più.”
Accese la comunicazione e, senza preamboli, urlò digrignando i denti con voce rabbiosa.
“Delinquente!”
Pochi secondi dopo, sul monitor si materializzò l'immagine arcigna e per nulla benevola del suo sovrano.
“A che punto sei col progetto, si può sapere?” ruggì provocando uno spostamento d'aria.
Hydargos cadde dalla sedia, sia per lo spavento, che per il doppio liquore tracannato a digiuno.
Si alzò subito, poi cercò disperatamente di sistemare i fogli caduti dalla scrivania.
“Ti degni di rispondermi? Sto aspettando!”
Altro tuono, altra zaffata che provocò la caduta della bottiglia di cognac.
“Tutto a posto sire, ci sono” gli rispose tremando e balbettando.
“Pensavo di scendere adesso sulla Terra per attuare il progetto.”
“Allora che ci fai ancora lì? Sparisci!”
Senza farselo ripetere, Hydargos si dileguò velocissimo e per la fretta si trascinò dietro la tovaglia, quindi con gran fracasso, finirono a terra la scrivania, due sedie e una lampada.

“L’estate è quasi finita e io non ho ancora parlato nemmeno con un ufo, come faccio?” borbottava tra sé Rigel sconsolato e depresso. Il malumore se lo teneva tutto dentro, sapeva molto bene che in famiglia lo scherzavano per questa sua passione stravagante.
Decise di sistemare il fieno per non pensare troppo, e quando entrò nella stalla, vide qualcuno che finora era stato presente solo nei suoi sogni, quindi per ben due volte chiuse gli occhi e poi li riaprì, sicuro di non vaneggiare.
Un piccolo essere alto come lui e tutto verde stava lì, quasi lo aspettasse.
“Ma… ma… tu, cioè… voglio dire… che ci fai qui?”
Poi, con un sorriso a trentadue denti realizzò: “Allora avete ricevuto i miei messaggi, le mie chiamate sono state ascoltate, evviva!”
Rigel non stava più nella pelle, saltellava, lo toccava con cautela per essere certo che fosse vero. L’altro non diceva nulla, si muoveva poco e dava l’idea di non sapere dove si trovasse.
Dopo una mezz’ora di felicitazioni, monologhi ininterrotti, Rigel decise che l’avrebbe tenuto lì nascosto per un certo periodo, cioè fino a quando non l’avrebbe conosciuto bene, quindi presentarlo a tutti e lasciarli con un palmo di naso.

Su Skarmoon intanto, Hydargos era interrogato da Gandal circa la sua ultima spedizione.
“Questa spia che hai inviato, sei ben sicuro che sappia il fatto suo? E’ in grado di arrivare alla base, ma soprattutto infiltrarsi e scoprire una dannatissima volta per tutte lo stramaledetto nascondiglio di quello schifoso, super dannato robot? Ad ogni modo lo sapremo presto, perché dal monitor siamo collegati… hai messo la micro spia sopra quell’essere, dico bene?”
Il Comandante lo aggrediva verbalmente, gli puntava l’indice contro, scandiva bene le parole per essere certo di essere capito e che tutti i dispositivi fossero stati messi a regola d’arte.
Hydargos aveva la faccia di Gandal sopra la sua, avrebbe voluto farsi indietro, ma rischiava di cadere dalla sedia; l’ultimo sorso di grappa bevuto in fretta e di nascosto lo faceva vedere doppio.
Che nervi! Gli stava addosso, non si fidava per niente, poi si aspettava che da un momento all’altro la sua dolce metà comparisse all’improvviso per regalargli altri insulti gratuiti, studiati apposta per lui durante la notte.
“Ho studiato tutto molto bene, potete fidarvi di me Comandante, niente è stato lasciato al caso” riuscì ad articolare Hydargos con voce che solo una dose esagerata di buona volontà, dava parvenza di sottomissione.
“Lo vedremo” rispose Gandal poco convinto.

E aveva ragione; il suo sottoposto infatti, tra la sbornia, i rimproveri mal digeriti, la fretta, l’ansia di fare tutto subito e senza errori, aveva commesso una fondamentale dimenticanza.
Il piccolo essere verde, XZY, era stato spedito in fretta e furia sulla Terra senza microchip, né telecamere strategiche, quindi si trovava là allo sbaraglio senza sapere come muoversi, cosa fare, dove andare e con chi comunicare. Stava infatti sempre in mezzo ai cavalli nella stalla, attendeva notizie dalla base, voleva contattarli e non poteva, era praticamente un essere inutile sotto ogni punto di vista.

A dire il vero, Rigel comunicava con lui tutti i giorni e più volte nell’arco della giornata; doveva ancora convincersi che era vero e non un’allucinazione. Tutto contento, non vedeva l’ora di fare le dovute presentazioni, Procton in primis.
“Ancora qualche giorno e ti farò conoscere i miei amici, vedrai come andrete d’accordo!
Però anche tu devi dire qualcosa, mi raccomando, non farmi fare brutta figura!” gli raccomandava Rigel con voce carezzevole, mentre gli portava i migliori piatti che uscivano dalla cucina.

Alla base lunare, Gandal in persona si decise a cercare un contatto con quell’essere spedito in Giappone, per sapere se finalmente aveva qualcosa di concreto in mano.
Niente. Silenzio. Vuoto totale, nessun segnale.
Prima di chiedere un rendiconto a quel buono a nulla di Hydargos, ebbe la brillante idea di segnalare il fatto a Zuril, il quale doveva trovarsi nei pressi del Giappone ad improntare una nuova base nascosta.

“Novità?” chiese subito l’illustre scienziato.
Gandal spiegò brevemente la situazione, l’altro afferrò tutto al volo e partì come un razzo verso il ranch Betulla Bianca.
Sapeva bene che quell’alieno, essendo un prodotto delle sue ricerche scientifiche, anche se non aveva addosso alcun strumento per mettersi in contatto, dalla Terra dove entrambi si trovavano ed essendo quindi così vicini, dei segnali della sua presenza comunque gli sarebbero arrivati.
Così avvenne. Zuril avvertì delle luci intermittenti, quindi si nascose dietro una fitta siepe che costeggiava tutto il ranch e attese.
Neanche mezz’ora dopo, vide XZY nel cortile, tenuto per mano da un bizzarro personaggio che gli diceva: “Aspettami qui, vado a chiamare tutti, non muoverti mi raccomando.”
Zuril si materializzò all’improvviso e con la sua pistola a laser, disintegrò in pochi istanti quell’inutile vuoto a perdere.

Su Skarmoon lo attendevano le sospirate lodi di re Vega e il compito di relegare in qualche abisso siderale quell’alcolizzato di Hydargos, buono solo a fallire, perdere tempo e armi in missioni deleterie partorite dalla sua mente atrofizzata.

Rimasto solo nei suoi appartamenti, Zuril tirò un gran sospirone di sollievo.
“Che fortuna ho avuto oggi, meno male! Se solo penso che Gandal poteva cercarmi più tardi, mi avrebbe sorpreso mentre parlavo col maestro di musica. Mi stava aspettando, avevamo appuntamento… eh sì, dice che ho talento, mi ha accettato a prendere lezioni di opera lirica, ho una gran voce, prometto molto bene… posso fare carriera…
A quanto pare, ho preso due piccioni con una fava: aumento di gradi e stima quassù, grande e futuro artista laggiù. Oggi la mia buona stella è più splendente che mai!” si disse lo scienziato con un gran sorriso, mentre dava fondo alla bottiglia di cognac sottratta a Hydargos.


FINE
 
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ALTA SOCIETA’

1_20

A partire da questo dialogo, preso dal doppiaggio del film “Goldrake addio”, decisamente stravolto rispetto all’episodio originale (Rivoluzione nello spazio), ho avuto l’idea di scrivere una storia ancora più assurda, ancora più fuori dalla realtà dell’anime: qui davvero ci ho messo molta fantasia.

Scena e dialoghi della barchetta sul lago.

Rubina: “Sai, Actarus, stavo pensando a quante stelle ci possono essere nell’universo intero.”
Actarus: “Tante, ma nessuna è bella come i tuoi occhi.”
Rubina: “Ho passato con te i più bei giorni della mia vita.”
Actarus: “Che peccato che domani dobbiamo partire.”
Rubina: “Noi dobbiamo rivederci! Ci troveremo qui il prossimo anno.”
Actarus: “Sì Rubina, te lo prometto, non posso vivere senza di te.”
Rubina: “Oh Actarus, adesso dimmi che mi vuoi bene.”
Actarus: “Sì, sì.”


Questo dialogo avvenne alla fine di una vacanza della durata di tre settimane, quindi prima ci furono svariati eventi, incontri, colpi di scena.

Il pianeta Bez era una stella non troppo grande, pacifica, poco abitata, circondata dal mare, vaste spiagge, l’entroterra con laghi, fiumi, ruscelli, una vegetazione lussureggiante, clima costante, niente inquinamento.
Questa piccola stella, nella parte esterna verso sud, vantava un grande edificio tutto bianco e verde a ridosso di una vasta spiaggia, dove la sabbia era quasi impalpabile, luogo ideale per ospitare giovani benestanti, che per la prima volta avevano il permesso di andare in vacanza da soli: prima tappa verso l’indipendenza, finalmente lontani da genitori apprensivi e sempre pronti a vietare tutto.
La struttura comprendeva personale preparato e responsabile, in grado di sorvegliare adeguatamente i teenagers, intrattenerli, coinvolgerli in attività di gruppo, farli divertire e tanto altro.

In un luminoso mattino di inizio luglio, atterrarono su Bez un ragazzo e una ragazza, che, a giudicare dal loro aspetto, sembravano aver appena varcato la soglia della pre-adolescenza; appena le rispettive astronavi, guidate dai loro precettori, toccarono il suolo, si congedarono velocemente dagli stessi con un saluto rapidissimo, senza la minima ombra di rimpianto o nostalgia e con un sorriso che arrivava alle orecchie. Corsero alla reception, dove subito ebbero la conferma della loro prenotazione, chiave della camera, un libretto con la piantina del luogo, gli orari dei pasti, degli svaghi, numeri di telefono per ogni necessità, la raccomandazione di divertirsi e usare il loro tempo al meglio, di fare tutto il possibile perché questo soggiorno fosse per ognuno di loro indimenticabile.
Un ascensore imbottito come scrigno li accolse, salì al terzo piano e si aprì su un corridoio di marmo bianco.
In fondo, una vetrata alta fino al soffitto faceva da cornice ad una pineta e sulla destra si intravedeva uno scorcio di laghetto, dove alcune vele navigavano, lasciandosi trasportare dalla brezza.
I due ragazzi, rispettivamente Actarus e Rubina, tenevano ben stretta in mano la chiave della loro stanza e già la mente febbrile si popolava di fantasie su cosa avrebbero fatto più tardi, domani, dopodomani: una voglia pazzesca di non stare mai fermi.
“Ciao, mi chiamo Rubina e sono veghiana, tu invece?” chiese la fanciulla tendendo la mano paffuta al ragazzo che le stava a fianco.
“Io sono Actarus e vengo da Fleed, piacere di fare la tua conoscenza” le rispose stringendo la mano di lei, con una presa forte e virile.
“Ci vediamo più tardi.”
“A dopo” gli rispose con un sorriso civettuolo sulle labbra e la testa inclinata di lato.
Rubina entrò nella camera avvolta nella penombra e subito sorrise. Era come l’aveva vista sul monitor quando era ancora su Vega; aveva chiesto un letto a baldacchino tutto rosa, poltroncine di raso e velluto, la specchiera come lei aveva desiderato, cioè la riproduzione esatta della casa della Barbie che a lei piaceva tanto e con la quale giocava sempre.
“Mi metto subito il costume, secchiello, paletta, formine, salvagente a forma di cigno e rimango in spiaggia fino al tramonto!”
Uscì dalla camera col due pezzi a fiori pieno di frappe e volants, zoccoletti ai piedi, Actarus la raggiunse subito e insieme scesero diretti verso il mare.
In quell’ora c’era il pieno di gente: ragazzi del luogo, villeggianti con famiglie al completo, convalescenti, rampolli provenienti da altre galassie e piuttosto spocchiosi, che non davano confidenza a nessuno, bambini e anziani.
“Ehi, Rubina, ma dove vai con quel coso, guarda che non si nuota mica così!”
“E come allora? Io senza salvagente non mi bagno nemmeno i piedi.”
Actarus le rivolse un sorriso gentile e di rimando: «Ma se usi sempre quello non imparerai mai, prova dove si tocca, ti aiuto io, vedrai che è facile.”
“Ho paura, no, no, ti prego…” gli rispose con voce petulante e piagnucolosa.
“Dai, vieni con me.”
La prese per mano e la guidò verso il mare, dove da un lato c’era una corda per tenersi.
Molti bambini e ragazzi si tenevano in equilibrio con una mano alla rete, con l’altra abbozzavano qualche movimento circolare nell’acqua.
“Ecco, fai come loro: poco alla volta acquisterai più sicurezza e starai a galla senza paura.”
Rubina era titubante, tuttavia si mise d’impegno nell’impresa.
Dopo qualche minuto ci prese gusto e cominciò a divertirsi: emetteva gridolini di paura, rideva e coi piedi batteva forte nell’acqua, provocando spruzzi chilometrici assieme ad altre sue coetanee.
Da lontano ammirava Actarus, che con altri giovani si spingevano al largo nuotando in un perfetto e sincronizzato stile libero.
Era prossimo mezzogiorno, quando l’altoparlante avvertiva gli ospiti del resort di prepararsi in tempo per l’ora di pranzo.
Rubina posò i piedi sul fondale marino e subito un granchio, decisamente affamato, le addentò l’alluce.
Urla di terrore e dolore tagliarono l’aria, quindi il bagnino corse prontamente verso la fanciulla gocciolante col granchio in bella vista, che non si decideva a mollare il dito; la prese tra le sue forti braccia e corse in infermeria.
Una giovane e gentile dottoressa, evidentemente abituata a quel genere di incidenti, con ferma sicurezza tranquillizzò Rubina; uno spray antidolorifico calmò il dolore all’istante e un cerotto rosa di Hello Kitty consolò abbondantemente la spaventata ragazzina.
Fuori, nel bianco corridoio, Actarus l’attendeva con un sorriso rassicurante.
“Come stai? È passato il male? Ti senti di mangiare qualcosa, vero?”
Ancora lievemente sotto shock, Rubina gli sorrise di rimando e, aggrappandosi al braccio di lui, un tantino zoppicante, si decise a seguirlo in sala da pranzo.
Il cameriere si avvicinò al piccolo tavolo rotondo, dove i due giovani si erano appena seduti, e porse loro la lista del menù del giorno.
Si avvicinò alla ragazza e le suggerì piano, ammiccando con fare scherzoso, ma al tempo stesso, mantenendo un tono serio e professionale: “Desidera un bel risotto al granchio, signorina? Quello che lei ha pescato poco fa era bello grosso, succoso e saporito. Ora che gli abbiamo fatto passare la voglia di attaccarsi alle sue estremità, l’unico modo per vendicarsi è ripagarlo con la stessa moneta. Che ne dice?”
Rubina impallidì e, sconvolta, negò violentemente col capo.
“No, no e poi no! Quel brutto mostro non voglio vederlo nemmeno dipinto, la prego! Mi porti una pastina in brodo, grazie” rispose la ragazza, con voce decisamente tremante e spaventata.
Il cameriere trattenne a malapena un sorriso divertito, fece un lieve inchino e si avviò spedito in cucina con le ordinazioni.
I due ragazzi avevano fatto amicizia fin da quel primo giorno di vacanza, si erano sentiti subito in sintonia, quindi, dopo qualche ora di riposo pomeridiano, decisero di fare una passeggiata all’ombra della pineta, in compagnia di qualche rivista e un buon libro.
Entrati in confidenza, raccontarono di sé, dei lori rispettivi pianeti, della loro vita, gli studi intrapresi, le loro famiglie, gli svaghi, le passioni, le conoscenze, gli usi e costumi della loro terra.
“Tra poche ore inizia la musica nella sala da ballo, ho visto che c’è un corso di “baby dance”, perché non ci andiamo?” chiese Rubina al principe di Fleed.
“Volentieri, ho visto che c’è più di una sala da ballo e con diversi tipi di musica, quindi possiamo dedicarci a svariate danze.”
Verso l’imbrunire, Rubina cercò nel suo guardaroba il completino pieno di strass coi pompon, i nastri e le farfalle. I sandali rosa fuxia, coi brillantini e tacco cinque, la facevano audace.
Entrò nella sala piena di bambini, i quali, al ritmo della musica, tentavano di seguire il maestro ballerino nei primi rudimenti del ballo.
Actarus la osservava da lontano con sguardi di incoraggiamento, poi Rubina si staccò dal gruppo e gli chiese di accompagnarla al bar.
“Tutto questo movimento mi ha messo una gran sete, andiamo a prendere una gazzosa?”
“Sicuro, vieni!”
Nel piano bar, brillavano per la loro presenza i più nobili e ricchi ereditieri delle vicine galassie.
Non facevano nulla, tranne osservare con noncuranza le ragazze più belle, tenere il bicchiere di liquore sempre in mano per darsi un tono, scambiarsi notizie e novità sui succosi pettegolezzi del loro ambiente.
“Niente male quella, cosa dici se…” chiese il principe ereditario di Galar al duca di Zari.
“Ma non vedi che è una bamboccia, guarda come si veste! Perdi solo il tuo tempo a starle dietro, credimi, per noi ci vuole ben altro! Una come quella che sta passando adesso!” gli rispose di rimando, indicando con lo sguardo una ragazza vestita in una maniera che lasciava ben poco all’immaginazione e tutta la sua persona era un implicito invito ai ragazzi a farsi avanti senza troppe formalità.
“Per questo mi piace! Cosa scommetti che riesco a sedurla? È così stupida e ingenua che mi cascherà tra le braccia come una pera cotta! Poi, lo stile Lolita mi è sempre piaciuto.”
“Contento te. Vada per la scommessa, io dico che ti manda al diavolo, invece!”
“Una gazzosa, per favore… anzi no, meglio un’aranciata!” ordinò Rubina al cameriere, ma il principe di Galar la prevenne con un: “Ciao, piacere di conoscerti, mi chiamo Gex, aspetta, ti offro io da bere.” “No, ma io…” balbettò Rubina confusa.
“Due doppi cognac, subito!”
“Ma…”
Il giovane era alquanto sicuro di sé, scrutava la ragazza con occhio pieno di malizia, tutta la sua persona tradiva la buona discendenza, ma lasciava al contempo trapelare che, a dispetto della sua giovane età, aveva già alle spalle una vita vissuta, vizi malsani, quella prepotenza mal dissimulata di chi è abituato a comandare, farsi ubbidire, ottenere tutto e subito: dai subordinati, dalle donne, dalla vita.
Sul bancone fecero la comparsa i due bicchieri ordinati: Rubina ne assaggiò un piccolo sorso e tutta la sua espressione fu terribilmente disgustata, mai aveva assaggiato qualcosa di tanto orribile.
Con decisione allungò la mano verso la zuccheriera e, senza esitare, prese il barattolo e versò lo zucchero senza parsimonia dentro il cognac, mescolando bene col cucchiaino.
Gex rimase letteralmente basito, ma subito un sorriso gli allargò la bocca e il cuore.
“Versa pure e bevilo tutto in un fiato. Questa sera ho fatto tombola!” pensò malignamente soddisfatto.
Prima che Rubina portasse alle labbra quella bevanda micidiale, una mano calda la prese per il gomito e la portò lontana da quel posto infernale.
“Ma… Actarus, che ci fai… finalmente, ti avevo perso di vista.”
Lui la guardava preoccupato e sollevato ad un tempo. Meno male! Era arrivato per un soffio.
Le porse subito un bicchiere colmo di acqua frizzante aromatizzata, poi, senza parlare, la guidò più avanti, in una sala dove c’era una musica dai toni bassi e una penombra lasciava intravedere coppie che si lasciavano trasportare dalle note.
Anche i due giovani si unirono al gruppo e insieme provarono il primo ballo lento della loro vita, quello che non si dimentica più, quello che con un salto ti porta avanti all’improvviso, tra gli adulti; ti senti grande, diverso, soprattutto quando c’è già sintonia nella coppia.
Fuori, l’aurora faceva capolino in fondo al mare.
Così passavano i giorni e la vacanza era ormai agli sgoccioli.
Durante quelle settimane, Rubina aveva finalmente imparato a nuotare, lasciato perdere la “baby dance” assieme ai cerotti Hello Kitty, i lecca lecca, le gare a chi faceva i palloni più grossi con le gomme da masticare, relegato in fondo alla valigia l’orsacchiotto di peluche, il salvagente, i lustrini, il gusto kitsch.
In cambio aveva acquisito buon gusto e maniere raffinate, modi più adulti, una certa scaltrezza da usare all’occorrenza e questo soprattutto era avvenuto per la vicinanza di un ragazzo davvero speciale, che l’aveva fatta sentire unica.
E fu così che arrivò il giorno dell’episodio della barchetta citato in prima pagina.


E poi scoppiò questa maledetta guerra!

Il giorno stabilito per la partenza, una notizia totalmente inaspettata, un fulmine a ciel sereno sconvolse tutti gli ospiti della vacanza del pianeta Bez.
Re Vega aveva attaccato Fleed di sorpresa e voleva sottomettere tutta la nebulosa.
Ci fu un improvviso fuggi fuggi, nervosismo, notizie contradditorie e confuse sentite di sfuggita via radio si materializzarono in quel luogo ameno.
Rubina e Actarus si salutarono di corsa: dovevano tornare a casa, capire cos’era successo, fare qualcosa.
“Noi siamo amici Actarus, sono certa che tutto ciò che è accaduto sia dovuto solo a malintesi…”
“Sì Rubina, ma ora dobbiamo lasciarci, addio!” E di corsa il principe salì sulla navetta.
“Arrivederci, scrivimi e ricordati di telefonarmi appena arrivi a casa, dammi subito tue notizie, non farmi stare in pensiero!” gli gridava lei dalla spiaggia, salutando nervosamente con la mano, mentre il ragazzo era già volato in alto con l’astronave guidata da un suo suddito e diretta verso Fleed.


FINE
 
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RELAZIONI PERICOLOSE E PERICOLANTI

1_256

“Oggi decido tutto io, chiaro? Sono stanca, stanca, ancora mille volte stanca di non avere voce in capitolo su niente. Non posso mai dire la mia opinione, il mio parere su quel certo mostro, su quel piano d'attacco che, guarda caso, ogni volta finisce in un clamoroso fallimento, mai che mi venga concesso di fare una critica al più infimo dei soldati, niente, non ne posso più!”
Una mattina di un giorno qualsiasi, Lady Gandal seconda maniera aveva con forza attaccato il consorte, arrabbiatissima; il viso di lei era l'unico visibile e aveva tutte le intenzioni di farsi ammirare per molte ore e soprattutto farsi sentire da tutti.
“Oggi tutti vedranno solo la mia faccia e sentiranno solo la mia voce, tu devi sparire, non ti sopporto più, ti disprezzo, sei insopportabile, odioso, ignorante, supponente, menefreghista... poi, che altro? Ci devo pensare, ma di epiteti me ne verranno ancora fuori tanti, stanne certo”.
Gandal era stupefatto e senza parole: nulla che fosse successo negli ultimi tempi poteva fargli presagire una simile sfuriata.
Non erano solo le parole dure e taglienti, ma, essendo entrambi in un corpo solo, poteva sentire tutta la rabbia repressa di lei; si stava sfogando è vero, però era ancora piena di veleno, almeno l'80% doveva ancora rompere gli argini. Sentiva anche un certo mal di gola, perchè gridava tanto usando male la voce e sforzava le corde vocali senza risparmio.
Voleva dirle qualcosa, ma sembrava avesse messo una serratura a doppia mandata, perchè lui non poteva uscire.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, lo investì con una raffica di accuse.
“Stai male lì dentro, vero? Ti senti in galera? Bene, benissimo, è quello che volevo farti provare da non so nemmeno io quanto tempo, quindi adesso mi ascolti fino alla fine, che tu lo voglia o no.
Quando ci fu l'incendio dentro la nave madre, che poi andò distrutta, io stavo per bruciare e soffocare come in un forno crematorio, lo sai? No, non me l'hai mai chiesto, però per te stesso eri preoccupato, eccome.
Quando sei stato operato, non si sapeva se saresti tornato come prima, quindi tutti avevano cura di te sia fisicamente che moralmente e in più non eri mai solo.
Adesso parlo e dico tutto per filo e per segno e voglio che alla fine tu ti senta un lurido verme schifoso ed egoista. Hai la pur minima vaga idea, di cosa significhi essere dentro un forno incandescente?
Tu bussi per farti aprire, ma nessuno ti ascolta, nessuno ti apre la porta, né ha la compassione di allungarti un goccio d'acqua, un po' di ghiaccio, un refolo d'aria fresca, nulla.
Dopo un tempo che a me sembrò eterno, persi conoscenza e non ho mai saputo quanto sia durato questo periodo, nessuno si è preoccupato di dirmelo, ma nemmeno di chiedermi come stavo, se avevo degli incubi per il trauma subìto, niente.
Tutti stavano lì ad osservare solo i tuoi progressi e, quando videro che l'operazione era riuscita, nemmeno allora qualcuno pensò a me, no, niente.
Solo parecchi giorni dopo, quando venne qui il ministro Zuril e solo perchè ero necessaria, mi fu concessa udienza. USATA! Questa è la parola giusta, usata, usata e ancora usata, ignoranti e ottusi che non siete altro!
Come non bastasse, era normale che io stessi bene, tanto normale che nessuno mi ha nemmeno posto la domanda di circostanza, niente! La decenza di salvare vagamente le apparenze non ce l'ha nessuno su questa base lunare, vero?
E tutto questo disastro dell'incendio si sarebbe potuto evitare se solo mi aveste interpellata, ma no, niente! Avete fatto una cretineria delle più demenziali della vostra carriera, caro Gandal e mai rimpianto Hydargos! Scemi, dementi e imbecilli! E sono ancora buona!
Uno era ancora attaccato alla bottiglia dell'alcol durante l’attacco e tu non dicevi e facevi niente, un ebete, un infermo mentale, un invalido, e che altro?
Dato che era finita in niente l'occupazione al centro ricerche, sarebbe stato intelligente ritirarsi e studiare poi con calma un nuovo piano un tantino più intelligente, invece no! Noi sconfitti?
Quando mai? L'altro imbecille ha deciso bene di schiantarsi contro quel dannato robot, poi da vero cretino con tasso alcolemico al di sopra di ogni immaginazione, mica ha pensato di non essere il solo passeggero, ma quando mai? Mi schianto, quindi vittoria piena e sicura, evviva!
Se poteva agire così, era perché, pur essendo un tuo suddito, aveva carta bianca, dico bene?”

Un sorriso amaro e ironico accompagnava lo sfogo interminabile della donna, assieme ad una forza fisica oltre la sua reale resistenza, perchè era attinta dalla rabbia e dal senso di impotenza a lungo repressi.
“Se hai qualcosa da dire, ti ascolto” disse poi lei con voce dalla calma imposta, mentre un tremito interno la scuoteva facendola tremare, la mente sveglia e pronta alla ricerca di nuove accuse da puntare come arma diretta e mortale.

La spenta e inespressiva faccia di Gandal apparve interamente per alcuni istanti, poi sparì di nuovo.
“Bene, allora vado avanti col mio discorso.”

In quel momento, il segnale rosso lampeggiante indicava che re Vega voleva subito incontrarli.
“Arriviamo sire.”
“Buongiorno... ma... suo marito dov'è?”
Un'altra furibonda ondata di livore montò dentro Lady Gandal, come un fiume che ha rotto gli argini.
“Ecco, è sempre così. Tutte le volte appare lui e mai che il re ci faccia caso, chieda dove sono io, come sto, eccetera. Nemmeno mi dice un educato buongiorno, chieda se sto bene, figurati!
Oggi che lui è celato, subito nota la stranezza del fatto, se io sparisco per intere settimane tutto normale... Ma mi vendicherò molto presto, me la pagheranno, non ne posso più di questa cosa, è ora di finirla.”
Così la donna macinava con odio queste parole nel suo animo, mentre con un sorriso tutto miele rispondeva a Vega che il suo adorato consorte non stava tanto bene, forse perchè la sera prima aveva lavorato troppo, aveva studiato troppi mostri insieme all'eminenza grigia che è Zuril, si era stancato, si era applicato.
“La prega tanto di scusarla, ma tra poche ore sarà da lei mio sovrano, puntuale e inappuntabile come sempre” gli rispose con tutta l'ipocrisia e la faccia tosta di cui era capace. Teneva tutta la rabbia sotto ghiaccio, sostenuta solo dalla forza che le dava il pensiero del piano diabolico e vendicativo che prendeva corpo e forma sempre meglio definita nella sua mente.
Lasciò la stanza rapidamente, permise che il consorte fosse libero di rivelare la sua faccia e non recriminò più.
Gandal sospirò.
“Tutto passato, tanto rumore per nulla. A volte bisogna lasciarla sfogare, poi, se si evita di darle corda, si smonta. La conosco bene, come no, sono fuochi di paglia che si spengono subito; ora prendo il video da far vedere al sovrano, così sarà tutto contento.
Sono rimasto fino a notte fonda a montarlo con Zuril, ora le nostre fatiche saranno premiate.”
Decise di essere gentile con la consorte, quindi le chiese con cortesia estrema: “Cara, andiamo di là a mostrare il bel lavoro da noi svolto a re Vega?”
“Va bene, posso guardare anch'io?”
“Sicuro! Tu sei la mia coscienza, la luce dei miei occhi, cosa farei se non ci fossi tu?”
“Non faresti la brutta fine che stai per fare e che ti meriti, allocco!” pensò tra sé la donna, poi ad alta voce con rinnovata e disgustosa gentilezza: “Quello che io non potrei mai fare senza di te, caro! Ti voglio bene, è tutto passato adesso, andiamo, sai, forse ho dormito male, oppure mi è rimasta indigesta la cena di ieri sera.”
Mielosa, falsa e sottomessa si adattò al volere della sua metà.
“Maestà, ecco il video che rappresenta la simulazione del prossimo attacco; abbiamo pensato che non basta fare i progetti solo sulla carta, si vedono meglio in diretta, quindi, cosa dice se facciamo buio in sala e lo guardiamo?”
“Sì, ma dov'è Zuril?”
“Eccomi!”
Tutto verde brillante, apparve come per magia l’illustre scienziato.
“Allora ci siamo tutti, possiamo cominciare.”

Sul muro apparve subito un fotogramma, dove si vedevano molto chiaramente Gandal e Zuril mentre pugnalavano Dantus a tradimento, schiacciavano col piede i comandi del King Goli rendendolo inoffensivo, proprio quando, al massimo della sua potenza, stava per ridurre in polvere Goldrake e Goldrake2 pilotato da Alcor.

“... il ministro Dantus ha incontrato una morte onorevole sul campo... si è battuto con coraggio...”
Queste erano state le parole pronunciate a re Vega dai suoi fidatissimi e onestissimi collaboratori, proprio il giorno di quella battaglia finita male.

Alcuni giorni dopo…

La rivista di alta moda giaceva spiegazzata e in stato di abbandono sul tavolo della camera dei coniugi Gandal.
Sul tavolo della toeletta c’erano un rossetto quasi consumato, limette per le unghie, lacca per i capelli, un pettine, smalti multicolori, forbicine, gel, strass e sul pavimento qualche paio di scarpe col tacco a spillo spaiate e disordinate.
Un lungo abito di seta era buttato sulla poltrona di velluto come uno straccio vecchio e inutile.
La calma apparente denunciava una lotta appena combattuta e senza esclusione di colpi, dove, come sempre avviene questi casi, non ci sono mai vincitori né vinti, ma solo risentimento, dolore, orgoglio ferito, sentimenti di vendetta e rivalsa che aspettano solo l'occasione propizia per farsi strada ed esplodere ad altissima violenza.

Dopo che Lady Gandal aveva pensato bene di farla pagare a tutti, esibendo il video che dimostrava il tradimento di Gandal e Zuril nei confronti del loro re e la bugia era stata scoperta, un silenzio pesante e irreale era sceso per molte ore sulla base lunare.
Una notte insonne aveva oppresso il cuore e la mente di tutti e, alle prime luci dell'alba, Vega era voluto rimanere solo con la donna per un lungo colloquio.


“Dimmi perchè non vuoi, del resto, per tutti questi anni sono io che mi sono adattata a te, ora non possiamo fare un giorno per uno?”
Gandal non disse niente.
“Ascoltami, mi sono sempre adattata ad apparire ogni tanto e solo per pochi istanti, ad accettare abiti maschili e restare nell'ombra, essere usata solo al momento del bisogno e senza un ringraziamento da parte di nessuno, ho lasciato credere che molte delle mie buone idee fossero le tue, non mi sono lamentata della solitudine, della tristezza, dell'ingratitudine...”
Tacque alcuni istanti vinta dalla stanchezza, poi riprese.
“Perchè adesso non ricominciamo tutto daccapo come niente fosse avvenuto e ci riprendiamo i nostri spazi e ruoli ben distinti.
Non possiamo separarci, andare dove uno vuole, questo lo sappiamo bene tutti e due, quindi cerchiamo di venirci incontro. Nei giorni pari ci sarai tu e solo tu, in quelli dispari tutti vedranno solo me, potrò vestirmi e pettinarmi come meglio credo.
Perchè non si può fare, cosa c'è di tanto assurdo in questo?”

Lunghi minuti di pesante silenzio scesero nella camera come una condanna muta e improrogabile.
“Io... io ho cambiato totalmente aspetto fisico, tu no” disse la donna in un sussurro.
“Hai mai pensato come vivo questa cosa? Come mi sento? Certamente no, perchè né tu, né altri avete mai pensato di chiedermelo. Devo ancora abituarmi alla nuova immagine e non ci riesco.”
Tacque, sopraffatta ancora una volta dal senso di impotenza che quella lotta solitaria e inutile le procurava, intanto la memoria le riportava con precisione estrema, come in un film, tutto il dialogo avuto con Vega.
Le parole le ferivano ancora l'anima come lame affilate, facendola sanguinare.
“... avete fatto questo solo per voi, non per onestà verso il vostro re. In tutti questi mesi siete stata complice di quei due e ora, per una personale vendetta, fate finta di essere dalla mia parte, vi siete decisa a parlare, o meglio, con quel filmato avete detto tutto.
Immagino che la vostra fantasia si sia popolata con vivide immagini della mia riconoscenza, la gratitudine per voi, i due traditori buttati fuori...
NO! Non è questo il modo di combattere e vincere la guerra!” gridò il re, battendo un pugno sul tavolo.
“Non avete capito niente, nessuno qui ha capito niente!”
Dopo alcuni istanti di silenzio, riprese con voce bassa, ma molto grave.
“Qui dentro tutti siete indispensabili, ora più che mai!
Non abbiamo più il nostro pianeta, i mostri da combattimento sono pochi e messi male, e cosa ancora più grave, a perdita d'occhio si vanno esaurendo tutte le materie prime; per questo la conquista della Terra è indispensabile e deve avvenire a tempo di record, sennò è la fine. Solo restando uniti possiamo evitare la catastrofe.”
Lady Gandal era accasciata sulla poltrona di pelle nera e non replicava: grosse lacrime le scendevano dagli occhi senza posa.
Erano lacrime dovute ad un profondo e radicato senso di inutilità, sapeva che ogni discorso sarebbe stato vano, ma intuiva con chiarezza lucida e chiaroveggente che insistere con la lotta li avrebbe portati sempre più in fondo al baratro dentro al quale erano già precipitati senza via d'uscita.
Ricordava con precisione dolorosa il giorno in cui si erano recati dal quel famoso scienziato: aveva intravisto un barlume di comprensione per il suo stato, era la prima volta che qualcuno si preoccupava di lei come persona e come donna, del suo cambiamento fisico e di come la sua psiche ne fosse coinvolta. Una volta a casa, aveva letto subito e avidamente quel bellissimo libro: L’arte di amare.
Secondo il dottore era sottinteso che andava letto e commentato insieme, anche per lui, la sua metà, ma con stupore doloroso, una mattina, aveva scoperto che faceva solo finta per accontentarla, la copertina del libro nascondeva in realtà tutt'altro volume, quello delle formule chimiche.
Certo, aveva pensato con un sorriso amaro, la competizione!
Vuole competere con Zuril, diventare meglio, saperne più di lui; poteva finire anche lì come con Dantus, tutto era possibile ormai.

Man mano che i giorni passavano, la consapevolezza che continuare la guerra sarebbe stata solo la fine per i veghiani diventava certezza, ma non poteva dirlo con nessuno, l'avrebbero presa per pazza e tolto anche quel briciolo di voce in capitolo che le restava.
“Io voglio la pace, abitare sulla Terra, essere ospitata dai terrestri e finire così la mia vita, non c'è altra soluzione, ma non posso. Parlarne con qualcuno nemmeno per scherzo, andarmene da sola è impossibile. Sono in prigione, un'ergastolana che nemmeno può ipotizzare l'evasione, quindi una persona inutile, che non può agire come vuole, né andare dove le piacerebbe. Non ne posso più!”
Questo stato morboso mai l’abbandonava, era diventato una costante nella sua testa, ma non lo subiva passivamente, nonostante tutto, perché c’era sempre una parte di lei che cercava una via di fuga, un mezzo per ottenere l’indipendenza.
In un momento di maggiore sconforto aveva accarezzato l’idea di dividersi da lui usando un coltello, una lama, qualcosa: erano istanti febbrili, terribili e pericolosi.
Decise di mostrarsi sottomessa con tutti, faceva finta di approvare i nuovi piani d’attacco e intanto studiava il mezzo per liberarsi da tutto ciò, fino al giorno in cui la soluzione vincente le apparve davanti agli occhi della mente con lucidità perfetta e razionale.
“Renderò Gandal innocuo per alcune ore… so bene come fare… non potrà uscire né fermarmi…avrò così tutto il tempo per uccidere re Vega se oserà ostacolarmi.
Quando rimarrò sola, sarò finalmente libera. Libera da tutti e per sempre!”


FINE
 
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ESTATE TRA LE STELLE

1_257

Re Vega e Rubina

Il sole mattutino di giugno splendeva sulla spiaggia lambita dal mare liscio e calmo appartenente al pianeta Vega.
Quel giorno il sovrano aveva deciso di accompagnare lui stesso la figlioletta di appena cinque anni a divertirsi con la sabbia, nuotare, cercare granchi.
Aveva dato un giorno di libertà alla balia e intanto pensava al modo di indirizzare la mente della figlia verso fantasie di conquista più che ambiziose; per questo genere di cose non era mai troppo presto, anzi, meglio subito che poi, perché, se si prendono brutti vizi, quali il desiderio di pace e tranquillità, col tempo tendono a degenerare in deviazioni della personalità molto gravi alquanto subdole, e questo andava evitato come la peste.
Ad esempio, quel costume intero a pois rossi tutto frappe e fronzoli così esagerati, che la bambina sfoggiava con orgoglio, era già un grave errore: il classico capo di abbigliamento che indossano le persone tranquille, sottomesse, quelle che nell’infanzia giocano con le bambole, con la cucina fatta su misura per loro, poi, già dalla preadolescenza, mostrano un sospetto di esagerato romanticismo ai limiti della tossicità diabetica, illanguidito dallo sguardo dolce più del miele, con pericolosissima propensione alla vita matrimoniale, sintomatico della più grave malattia incurabile che inevitabilmente sfocia in: fidanzamento precoce con ragazzi a modo, posati, tranquilli, seguito da un matrimonio organizzato a tempo di record prima di raggiungere la maggiore età. In meno di un anno si profila già la prima nascita di un erede, in cantiere un discreto numero di pargoli ad allietare la loro vita piena di fiori, boccioli di rosa, cose belle e gentili, buoni propositi, educazione, addirittura, udite udite: aiuto ai bisognosi!
Nooo, impossibile! Mai e poi mai, peggio della peste!
Ma questo sarebbe ancora nulla: in questi soggetti è totalmente assente qualsiasi se pur remoto accenno di aggressività, ambizione, sete di potere, dominio, mai la più innocua bugia, che scandalo sarebbe per loro rubare, ad esempio, quel bellissimo asciugamano di spugna dell’albergo che li aveva ospitati per una sola notte!
Mai una lite tra le mura domestiche! Perché bisogna litigare? Chi l’ha stabilito? Si parla, si conversa, quando non si è d’accordo su qualcosa ci si viene incontro.
Questa volta faccio contento te, domani tu farai contenta me, semplice no?
“Terribile, è un incubo, devo fare subito qualcosa, spero solo di essere ancora in tempo” pensava e rimuginava continuamente tra sé re Vega, mentre con sguardo scrutatore non si perdeva nemmeno un movimento della figlia e tentava di immaginare strategie utili e infallibili per tamponare in tempo una simile catastrofe.
Nemmeno ricordava dove e da chi aveva appreso l’esistenza di questi modi di pensare e vivere, erano cose di una tale assurdità!
La bambina armeggiava con abilità sorprendente con il secchiello colmo d’acqua di mare, poi con la sabbia bagnata si accingeva a costruire castelli laboriosi, pieni di ponti, torrette, carrozze, abitanti.
“Però, è brava e veloce, accidenti! Potrebbe iscriversi alla facoltà di architettura da grande, ha buon gusto e ci sa fare. Certamente, questa sua dote va poi sviluppata in senso espansionistico e di conquista: una volta conquistato un pianeta e fatta strage degli abitanti, ricostruirlo come pare a noi, tenercelo solo per noi, comandare sempre e solo noi, questo è ovvio.”
Dopo che gran parte della mattina era trascorsa in questo modo, a Rubina venne la voglia di fare un tuffo tra le onde.
Sulla riva si teneva un corso di nuoto per bambini e principianti; un gruppo di circa 20 persone ce la stava mettendo tutta per vincere la paura dell’elemento liquido, sperando che il loro sogno di nuotare da soli fino al largo si avverasse al più presto.
Rubina li osservò attenta per alcuni minuti, poi decise di snobbarli e dirigersi verso gli scogli usando i braccioli di gomma come salvagente.
Nonostante avesse solo cinque anni, era già piuttosto esperta, si muoveva con grazia e scioltezza, anche se i suoi occhi attenti continuavano a fissare senza posa nella direzione dei suoi castelli di sabbia: sembrava li stesse controllando, quindi decise ben presto di tornare a riva.
“Tra poco esploderanno delle bombe e distruggeranno tutto!” disse Rubina tutta eccitata e con gli occhi che brillavano.
Il padre la osservò distrattamente senza capire: di certo la sua fertile fantasia infantile si stava popolando di immagini senza una logica, o forse quella notte aveva avuto un incubo.
Pochi minuti dopo, dall’interno delle costruzioni di sabbia, dei bagliori sprizzarono fuori emettendo scintille colorate.
Un gran botto e tutto esplose come fosse scoppiata una bomba; dei castelli non c’era rimasto più nulla, solo sabbia fangosa, dove a tratti si poteva intravedere un debole fumo dovuto all’esplosione.
“Ma… Rubina… cosa significa, mi spieghi cosa sta succedendo?”
Lei aveva un sorriso estasiato che le arrivava alle orecchie, si alzò e con calma serafica, abbinata ad un tono adulto e professionale, si decise a notiziare il proprio genitore.
“Ho messo delle bombe a orologeria e tutto è andato a meraviglia, il mio piano è stato perfetto!” disse con aria di superiorità, mentre un pericoloso febbrile luccichio nello sguardo la diceva lunga sul suo stato di bambina innocente; poi con un’alacrità che non aveva mai avuto, cominciò a sistemare tutti i suoi oggetti e a prepararsi per il ritorno.
Stupefatto, re Vega la fissava come in trance, poi riuscì a chiederle: “Ma… non è ancora presto? Vuoi già tornare a casa?”
“Sì, e subito anche. Le stesse bombe che sono scoppiate qui, le ho piazzate presso altre costruzioni sulla spiaggia, tra pochi minuti esploderanno, quindi filiamocela di corsa.”
Il padre la seguì senza fare una grinza: doveva ancora rendersi conto della portata di ciò che aveva appena visto e udito.
“Prima di arrivare a casa, fermiamoci a fare delle compere. Questo orrendo costume finisce dritto filato nell’inceneritore, ne voglio subito uno con delle stampe come piacciono a me; teschi, bombe, draghi, belve feroci, squali…”
Rubina comandava, dirigeva, pretendeva, come se nella vita non avesse fatto altro.
Toni bassi e gentili, vocina di miele, nasino all’insù e occhioni come Bambi.
Finalmente il padre cominciava a capirla, ed era tutto soddisfatto del pericolo scampato.
“Meno male! Per fortuna! È davvero figlia mia, ha preso tutto da me! Che soddisfazione essere padre! Cioè, un momento: ha preso da me nel carattere, ma l’aspetto no, ed è questo il bello! Chi potrebbe non essere conquistato da lei? Chi potrebbe immaginare cosa si nasconde dietro quello sguardo di cielo, quella figurina aggraziata, quel visino angelico, quella vocetta da uccellino?”
La accarezzò con lo sguardo tenendola per mano e ad ogni passo si riempiva di orgoglio paterno.
“Infelice e perduto chiunque finirà nella sua rete! Non se ne accorgerà mai, oppure lo vedrà troppo tardi. Cara, carissima Rubina, nessuno sa e saprà mai quello che tu nascondi dietro la maschera.”

Gli sguardi ammirati e quasi commossi dei passanti erano la diretta conferma di quanto sopra.
Re Vega e la figlia attraversavano con noncuranza il lungomare, accompagnati dalla lieve brezza portatrice di tanti odori: della vicina estate, dell’acqua di mare, della pineta, delle vacanze, dei villeggianti, dei sogni ad occhi aperti, della sete di dominio e potere.

Un giorno… di tutto questo rimarrà solo un lontano ricordo… tutto deve sparire… noi soli abbiamo il diritto a restare, comandare, distruggere…


Zuril e Fritz

“Infame traditore, bugiardo, delinquente, criminale, bastardo, falso… Ti odio, sparisci!”
Il rumore di un cristallo in frantumi tagliò l’aria, poi, all’improvviso, un silenzio irreale entrò con prepotenza nella stanza, reclamando tutto lo spazio e l’attenzione per sé.
Il pavimento della stanza del soggiorno era interamente ricoperto di vetro, mentre dall’altro lato, nella camera da letto matrimoniale, Zuril tentava in tutto i modi di fermare la sua consorte, voleva spiegarle, dirle che non era come pensava, c’era una spiegazione, dopotutto avevano un bambino piccolo, non poteva abbandonarli, solo una madre snaturata poteva pensare di fare una cosa tanto mostruosa.
“Le possibilità di cambiare le hai avute da me un milione di volte, ma non è servito a niente! Tu non cambi e non cambierai mai, lo so! Vuoi tutto, non ti accontenti mai, uno come te non deve sposarsi e tantomeno avere figli! Corri dietro a tutte le donne che vedi, sono diventata lo zimbello di tutti, non hai un minimo di rispetto per noi!” Con modi bruschi e spicci, Lya preparava le sue cose alla rinfusa, voleva andarsene subito di lì, la misura era ormai colma da un pezzo.
“No, non puoi, ricordati che sei sposata con me, abbiamo un bambino piccolo, non puoi lasciarlo, sei un’egoista senza cuore…”
Il viso di lei fu tutt’uno con un’espressione mista a rabbia repressa, odio, orrore, disgusto.
“Ma senti chi parla! Spero che Fritz non ti assomigli in niente, non lo abbandono, cosa credi? Sono diversa da te!”
Tutto il disprezzo per lui era evidente nello sguardo e nella voce.
“Questi pochi giorni di vacanza voglio che li passi con te, poi fra due settimane sistemeremo ogni cosa, puoi giurarci!”
La donna uscì di corsa, col bagaglio colmo di abiti che a stento entravano nella valigia; era tutta sudata, un fremito in tutto il corpo, voleva andarsene al più presto, non pensare più a che razza di uomo si era legata.
Nella sua cameretta, il piccolo Fritz giocava sul pavimento di legno scuro: voleva costruire un enorme palazzo coi mattoncini di plastica. Era tutto impegnato il quel lavoro che lo appassionava, la mente era distaccata dalla realtà.
“Cosa stai facendo? Lascia subito stare quella roba, non è per uno come te, per ciò che dovrai essere un giorno!”
Così dicendo, Zuril, con una sola mano, rovesciò a terra la costruzione.
Il pianto disperato del bambino invase ogni angolo della casa.
“Devi essere coraggioso, hai capito? Devi essere forte, il più forte!” gridava con voce sempre più alta e imperiosa, di rimando Fritz si disperava ancora di più.
Alla fine decise di lasciarlo solo e, come consolazione, gli promise che il mattino seguente sarebbero partiti per quel grande lago pieno di pesci, sarebbero stati lì molti giorni a divertirsi.
Il bambino, distrutto dalle emozioni di quella giornata da incubo, si addormentò sul parquet e così rimase fino al mattino seguente.
“Basi architettoniche: istruzioni” lesse Zuril con vivo interesse, quindi prese tutti i mattoncini e, prima dell’alba, aveva costruito un grande palazzo con giardini a terrazze, un patio interno, scale, fontane, animali in pietra.
“Sono un genio! È da qui che si comincia a conquistare l’universo!”

Ranch Makiba

“Sei sicuro di aver preso tutto Mizar?”
“Sono più che sicuro, ora si è fatto tardi e devo partire, ciao a tutti!”
“Ciao, telefonaci appena arrivi, mi raccomando!» gli disse Venusia salutandolo con la mano.
Mizar salì sull’autobus al volo, diretto alla piazzetta del vicino villaggio, dove i suoi compagni di scuola lo stavano già aspettando. Una bella ed entusiasmante avventura li attendeva: 15 giorni di vita da scout in mezzo ai boschi, montagne, ruscelli, laghi, stretti sentieri, pendii.
Zaino in spalla, tenda da campeggio e sacco a pelo: non vedeva l’ora di arrivare, era la prima volta che passava le vacanze senza la sua famiglia per un bel po’ di giorni, ed era tutto eccitato.
Erano i primi giorni di agosto e tutti gli ospiti del ranch sentivano il caldo e il bisogno di staccare la spina, ma i mostri di Vega non andavano certo in vacanza, quindi essere sempre vicini al Centro e con gli occhi bene aperti era un obbligo.
Rigel controllava gli animali nelle stalle, intanto Venusia e Maria rigovernavano la cucina, quando, all’improvviso, il segnale lampeggiante e inequivocabile dell’orologio che Actarus teneva al polso fece capire che tutti loro dovevano essere pronti per decollare coi loro dischi.
“Uno stormo di minidischi è stato appena avvistato, correte subito qui” disse il dott. Procton e, prima che potesse finire la frase, Venusia e Actarus erano già balzati sopra la jeep, Maria e Alcor avevano lasciato una gran nuvola di polvere con la loro moto, che era già partita ancora prima di ascoltare la conversazione.
Arrivati al Centro, presero la strada che li conduceva alle rispettive navette e si lanciarono nello spazio.
Tre formazioni di minidischi vennero prontamente distrutte dal tuono spaziale, più lontano Alcor aveva già individuato il mostro.
“Di questo me ne voglio occupare io da sola!” lo prevenne subito Maria, trattenendo a fatica il tono tra l’arrogante e il saccente.
“No, Maria non puoi, fermati subito, devi rientrare in formazione!”
La ragazza fece naturalmente di testa sua e con la bomba termica aveva reso quasi innocuo il mostro veghiano, quindi, con un missile ben assestato, Alcor lo ridusse in polvere.
Intanto Venusia si era agganciata a Goldrake ed erano scesi nel fondo marino, perché, dall’Istituto, Hayashi aveva segnalato una presenza sospetta; perlustrarono molto bene la zona circostante senza notare nulla di strano.
Usciti dal mare si sganciarono, ma decisero di tenere comunque gli occhi bene aperti e continuarono un lungo giro esplorativo. L’unica cosa che notarono dopo due ore di volo furono soltanto delle strane bolle che uscivano dalla superficie marina.
Procton li invitò a rientrare alla base, era sicuro che non c’erano altri segnali di allarme.
Quello che i terrestri non sapevano era che dalla base lunare Skarmoon, Zuril, Gandal e signora si stavano dando alla pazza gioia. Loro sì che avevano deciso di prendersi delle lunghe e meritate ferie.
Com’era possibile tutto ciò, dato che il loro sovrano li controllava in ogni mossa e pretendeva il rendiconto di qualsiasi impresa?
Semplice: in quel periodo estivo non era presente e nemmeno lo vedevano dallo schermo.
Re Vega, Rubina, Barendos e Zigra erano lontani, molto lontani, precisamente stavano perlustrando palmo a palmo ogni pianeta, stella o galassia disabitati dell’intero universo.
La loro idea era quella di rifornirsi di nuove materie prime, costruire armi belliche nuove ed imbattibili, avere dei mostri così potenti da sbriciolare Goldrake e veicoli ausiliari con uno solo sguardo inceneritore.
Dopo una decina di giorni di viaggio, in effetti avevano scoperto nuovi mondi, si rendevano conto che era ben diverso cercare pianeti dal computer alla base lunare e andarci invece di persona.
Sapevano che i loro sudditi avrebbero continuato le invasioni terrestri come sempre avevano fatto, erano completamente tranquilli; senza ombra di dubbio lavoravano, studiavano, si impegnavano, li avevano lasciati quando il nuovo mostro Gas-Gas era pronto e collaudato, quindi di sicuro era già sceso in combattimento.
Tutti contenti, ogni giorno scendevano su una nuova stella e, con avidità e prepotenza, sottraevano a piene mani tutto ciò che potevano.
Avevano progettato di stare lontani almeno un mese, ma, dopo 20 giorni, erano così soddisfatti che decisero di rientrare, anche perché le loro astronavi non ce la facevano più a contenere tutto quel materiale prelevato.
La vacanza di agosto alla base lunare procedeva in questa maniera: al mattino si alzavano tardi, si facevano servire dai soldati in tutto e per tutto, poi, con la nave madre, andavano in gita verso costellazioni sempre nuove.
All’ora di pranzo facevano il picnic in prossimità di un laghetto, si tuffavano, giocavano a golf e a canasta, nel tardo pomeriggio rientravano senza fretta mezzo assonnati e, una volta arrivati, facevano in modo di non lasciare traccia alcuna di queste scorribande.
Il mostro inviato sulla Terra era stato abbattuto quasi senza colpo ferire, perché il pilota designato si era messo a frignare e pestare i piedi per un’ora buona con loro tre: voleva seguirli, andarsi anche lui a divertire e, se non lo avessero accontentato, quella sera stessa, re Vega avrebbe avuto un resoconto dettagliatissimo delle loro gite fuori porta, con tanto di orari, foto, registrazione delle conversazioni che non lasciavano scampo a dubbi.
Per forza di cose, si erano dovuti arrendere e accontentarsi di guidare il disco col telecomando.
La base sottomarina in Giappone era diventata, per i nostri tre vacanzieri, un’ottima occasione per il sub e, quando non c’era nessun terrestre nei paraggi, per fare anche surf.
Quando si stancavano, rientravano e giocavano a carte: ogni partita sfociava inevitabilmente in un litigio e arrabbiatissimi prendevano la strada verso Skarmoon.
Ecco spiegato il motivo di quelle strane bolle segnalate dal Delfino Spaziale.
Una sera, rientrati da una giornata infernale piena di litigi per cose futili, stanchi e affamati, sudati e scarmigliati, notarono che la porta della Sala del Trono era solo accostata: strano, quando il re era partito, l’aveva chiusa a doppia mandata. Sentirono un parlottio sommesso e pochi istanti dopo, nel corridoio, si materializzò re Vega in persona con l’umore alle stelle, cordiale e ben disposto come mai l’avevano visto prima.
“B… bentornato maestà, già di ritorno? Perché non ci ha avvertito, volevamo riceverla con tutti gli onori…” balbettavano Zuril e Gandal, mentre la sua gentile metà si era defilata prontamente nel bagno: tutta quella sudata si faceva sentire e non era opportuno che il sensibile olfatto del re rimanesse offeso.
“Va benissimo così! Ho delle magnifiche novità, questo viaggio è stato molto più proficuo di quanto immaginassi, venite, voglio mostrarvi le meraviglie che ho portato.
Vi vedo in forma e pimpanti più che mai, molto bene, io non sono stanco per niente, quindi insieme guarderemo tutto il filmato.”
“Q… quale filmato? Non capisco… riuscì a sillabare Gandal con fatica.
Zuril si sentiva la gola arsa, con lo sguardo cercava la bottiglia senza trovarla.
“Quello del mio viaggio e quello su di voi, sulle cose che avete fatto in queste tre settimane, così saremo in grado di fare meglio ogni cosa, ho capito che bisogna toccare tutto con mano, non serve a nulla stare a guardare.”
“Ma… noi non abbiamo registrato niente qui… il mostro Gas-Gas è stato sconfitto, stiamo imbastendo cose nuove, ad ogni modo aspettavamo il vostro ritorno per…”
“Lo so! Ho messo delle telecamere su ognuno di voi! È molto creativo, perché così si capiscono meglio gli errori, se qualcosa non ha funzionato lo si vede bene subito. Eh sì, sbagliando si impara!”
Così dicendo spense tutte le luci e il film “Vacanze nella galassia” ebbe inizio.


FINE
 
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view post Posted on 22/4/2023, 16:32     +1   +1   -1
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Professore della Girella

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INNOCENTI EVASIONI

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Nella capitale del pianeta Fleed, il palazzo reale era situato nella semiperiferia della città, immerso in grande parco pieno di fontane, sentieri, gradini, statue in pietra.
Poco distante, c’era la dimora della famiglia di Barsagik: quest’ultima era collocata sopra una piccola collina e, nei giorni limpidi, in lontananza si poteva intravedere la sottile striscia blu del mare.
I rampolli delle due famiglie erano fratello e sorella, tra loro c’erano molti anni di differenza, quindi era impossibile che avessero gli stessi gusti e interessi; giocare insieme per più di mezz’ora era a dir poco assurdo.
Il duca di Fleed era sui vent’anni, la piccola Maria solo sei.
Naida Baron era una diciottenne che a fatica sopportava il pestifero fratellino di sette anni, anche se a volte era costretta ad occuparsene, quando i genitori li lasciavano soli per molte ore, se non per alcuni giorni.
Lo stesso accadeva al re e la regina: il loro ruolo li obbligava ad assentarsi spesso, ma non si preoccupavano, dato che i loro eredi sapevano gestirsi, o almeno così avevano sempre pensato.
Una mattina di fine estate, quando le foglie già cominciavano a tingersi dei languidi colori autunnali, i due sovrani partirono per un viaggio di una settimana e, nello stesso periodo, anche i genitori di Naida e Sirius furono costretti ad allontanarsi da casa, perché avevano saputo che una famiglia di loro parenti era sola; stavano attraversando un brutto momento e volevano essergli vicini.
Alcuni dei sudditi delle rispettive famiglie erano in permesso, altri erano da poco andati in pensione, quindi i quattro ragazzi erano soli nelle rispettive dimore.
Naturalmente, questa prolungata solitudine sarebbe stata una vera pacchia per Naida e Duke, perché avrebbe significato incontrarsi come e quando pareva loro senza controlli né divieti, ma i due rispettivi congiunti reclamavano attenzioni e sorveglianza costante, perchè la loro voglia di indipendenza e libertà superava di gran lunga quella dei fratelli maggiori.

“Qui ci sono provviste e piatti pronti per almeno un mese, il frigorifero è pieno, meno male” mormorò Naida tra sé, visto l’appetito insaziabile di Sirius e la sua altrettanto scarsa voglia di cucinare a fare la spesa.
Il pesante silenzio della casa venne improvvisamente spezzato dallo squillo del telefono.
“Ciao, Naida, come va?”
La voce di Duke le accarezzò l’orecchio, ma, nello stesso istante, uno strillo acutissimo del fratellino le perforò il timpano. Si stava lanciando dalle scale scivolando sul corrimano, quel suo sistema era da lui definito: “prendere l’ascensore”. Appena toccava il suolo, gridava di trionfo, stavolta anche di dolore, visto che era finito lungo disteso, ma non c’era mai da preoccuparsi, sembrava fatto di gomma, rimbalzava come una pallina e non si faceva male.
“Bene, sento che c’è baldoria a casa tua!” scherzò il ragazzo.
“Lascia stare, ho già i nervi a fior di pelle, mi sta frullando per la testa un’idea niente male. Che ne dici di venire qui da me con la tua sorellina e a tutti e due facciamo bere una tisana con dentro un sonnifero che li faccia andare in letargo per almeno una settimana? Poi, a noi non mancheranno certo le occasioni per non annoiarci nemmeno un istante.”
Con voce bassa e sensuale pronunciò le ultime parole.
Silenzio per alcuni secondi dall’altra parte del filo.
“Stavo pensando che è meglio se venite voi due a casa mia e restate qui stasera. Non c’è nessuno, quindi uniamo le nostre solitudini e divertiamoci un poco.”
“Il tempo di organizzarmi e arrivo.”

Naida fu sollevata e al contempo preoccupata dell’invito: gestire quelle due pesti era un’impresa a dir poco titanica. Quando erano insieme facevano comunella, quindi inventavano giochi e scherzi a non finire, ma quasi sempre litigavano con ferocia per ogni piccola contrarietà; bisognava intervenire, dividerli, farli ragionare, lei già si sentiva stanca e arrabbiata solo a pensarci.
“Sirius! Vieni qui.”
Come apparso dal nulla, il bambino era già pronto con lo zainetto contenente le sue cose.
“Ho sentito tutto, andiamo, muoviti!”
Prese la mano della sorella e la trascinò fuori con forza sorprendente, lei quasi faticava a stargli dietro.
Uscirono passando dalla porta laterale, discesero correndo la piccola collina e in pochi minuti furono davanti all’ingresso principale del palazzo.
La porta era appena accostata, quindi entrarono senza cerimonie.
Seminascosta dietro una tenda, la piccola Maria taceva, mostrandosi docile e sottomessa con il capo inclinato di lato e una mano in bocca. Gli occhi vivaci e intelligenti tradivano tutta questa sorta di commedia, perché mandavano lampi e scintille, come volesse dire: “Adesso cominciamo a divertirci, finalmente!”
Naida ricordava molto bene quella sala immensa che pareva non avere mai fine: sul pavimento con piastrelle verde brillante vedeva sé stessa come in uno specchio.
Sapeva che in casa non c’era quasi nessuno, ma dentro l’animo si sentiva clandestina e fuori posto, perché lì dentro era sì venuta molte volte da sola e in compagnia, ma con un suo ruolo ben definito dentro un cerchio molto stretto.
Bella, nobile, grazia innata, cultura e talento, ma queste sue doti apprezzabilissime, senza dubbio, avrebbero avuto modo di manifestarsi e sbocciare completamente dentro un altro palazzo, con un altro giovane bello, nobile e distinto, meglio ancora a molte miglia di distanza.
Parole e frasi mai pronunciate da nessuno, ma era come fossero scritte con inchiostro rosso vivo su una pergamena esposta in ogni angolo del palazzo.

Trasalì all’improvviso, quando il tocco familiare di una mano sulla spalla, le fece volgere il capo indietro e i suoi occhi verdi si fusero nello sguardo azzurro di quel ragazzo che conosceva e frequentava da quando era nata. Per una frazione di secondo, le loro labbra si sfiorarono, poi altrettanto rapidamente si staccarono.
Sirius e Maria si stavano già rincorrendo attorno al tavolo di legno, poi lei svincolò all’improvviso e corse fuori nel giardino veloce come una lepre.
“Tanto non mi prendi, non ce la farai mai!” gridava lei tutta eccitata.
“Non capisci niente, sono io che ti faccio vincere apposta, vedrai come rimarrai male quando mi prenderò la rivincita!”
Alla fine si buttarono a terra esausti, sporchi di erba, sudati e col fiatone.
Duke e Naida li osservavano in silenzio tenendosi per mano, poi li fecero rientrare.
“Il cielo si oscura e l’aria si sta rinfrescando, entriamo in casa, prima di cena dovete fare un bagno con tutti i crismi!” disse lei con fare materno, dentro però era nervosa e impaziente, non le piaceva fare la balia.
“Senti Naida, che ne dici se io mi occupo di questi due e tu sistemi il necessario per la cena?
Il frigorifero è pieno di tutto, scegli ciò che più ti piace, basterà solo scaldarlo qualche minuto.
La tovaglia e le posate sono nei primi cassetti della cucina, quelli vicino ai fornelli.”
“Va benissimo!”
Sollevata da quell’incombenza che non gradiva, Naida andò in cucina, si mise un grembiule e canterellando si diede da fare.

Mezz’ora dopo, scesero veloci dalle scale i due bambini, ripuliti da capo a piedi e con l’appetito più acceso che mai.
Senza formalità, Naida aveva apparecchiato in cucina con una semplice tovaglia a quadretti azzurri, ma aveva acceso una candela e posto in centro alla tavola qualche fiore preso dal giardino e il tutto faceva un bell’effetto.
Duke e Naida, per tacito accordo, si misero a capo tavola e le due piccole pesti uno di fronte all’altro.
La cena si svolgeva velocemente e tranquillamente, fino a quando Sirius e Maria, ormai sazi, presero a tirarsi palline fatte con molliche di pane, i tovaglioli, spruzzarsi d’acqua, fino ad esplodere in un feroce litigio; si alzarono e presero a rincorrersi correndo in cerchio attorno al tavolo.
“Fermatevi subito! Chi vi ha detto di alzarvi? La cena non è ancora finita, ma per voi due sì, ve lo sognate il gelato all’amarena!”
Così tentava invano Duke di farsi sentire alzando la voce, ma era come parlare al vento, le urla di quei due arrivavano fino alla strada.
Naida era accasciata sulla sedia, languida e sensuale a un tempo, stanca di tutto, gli occhi spenti come la sua chioma verde, la dicevano lunga sulla personalità della giovane.
“Senti, facciamo così: finchè non vediamo scorrere del sangue non interveniamo” disse lei spostando lentamente una ciocca di capelli dal viso.
Lui la guardò a lungo gravemente e seriamente.
“Non tutte le ferite sanguinanti possono dirsi pericolose: se battono il polso sullo spigolo del tavolo, che per giunta è alla loro esatta altezza, sangue magari non ne esce, ma…”
Non volle terminare la frase, il possibile tragico finale era tangibile ed evidente.

Alla fine, i due bambini presero la via del salotto e si buttarono sul divano.
“Sei un cretino.”
“E tu una scema, non capisci niente!”
“Non ti azzardare a ripeterlo!” gridò Maria, tirando in faccia a Sirius un cuscino.
“Basta bambini, per stasera avete fatto il pieno, pensiamo piuttosto a domani: avete voglia di fare un lungo giro in barca, quella che passa ogni settimana e ci porta dall’altra parte del fiume…”
“Sìììì, dissero in coro.”
“Bene, si è fatta l’ora di andare a dormire” li ammonì Naida.
“Io non ho sonno”, disse Maria.
“Nemmeno io”, fu l’eco di Sirius.
“Ma domattina dobbiamo alzarci all’alba se vogliamo prendere il primo battello che passa, quindi…”
Nel pronunciare la frase, Duke infilò la sua mano in quella della sorellina e la condusse nei pressi della sua stanza.
“Stesso discorso per te Sirius, fila subito di sopra!”
Per tutta risposta, Naida ebbe in faccia un metro di lingua del fratello in segno di spregio e negazione; prima che lei potesse articolare una sillaba, lui la gelò con una frase effetto doccia super gelata.
Con tutta la malizia possibile stampata sul viso di un bambino di sette anni, il salone centrale udì queste parole: “Lo sapevo fin da subito che tu e lui sognavate da tempo questa vacanza lontani da tutti, in particolare dai nostri genitori, perché così tutte quelle cose che fate sempre sulla spiaggia o quando nuotate in mare, dentro il bosco, sulle rive dei ruscelli e nella nostra casa di nascosto, ora potete farlo con tutta calma e comodità nella grande camera che sta di sopra senza che nessuna vi veda o interrompa.”
Stava seduto sui talloni e guardava sfacciatamente in viso la sorella dal basso verso l’alto e la sua espressione era tutta carica di muti sottintesi: “Da tempo vi seguo, vi spio, vi controllo, ora se mi fa comodo posso anche ricattarvi.”
“Tu questa notte dormi nella camera con me, intesi? Niente televisione, né altri giochi, se vuoi puoi leggere qualche pagina del tuo nuovo libro a fumetti, ma non più di dieci minuti, mi sono spiegata?”
Riluttante, Sirius salì adagio le scale; Maria stava sul ballatoio con una camicia da notte così lunga che rischiava di inciampare ad ogni passo, mentre teneva stretto in mano un elefantino azzurro di peluche.
Gli occhi espressivi dei due dicevano: “Non siamo affatto stanchi, vogliamo divertirci.”
Conciliante, visto che la tempesta era passata, Duke ebbe un’idea adatta.
“Il nuovo libro potete sfogliarlo insieme per qualche minuto, così vi verrà sonno prima e domani sarete freschi e riposati. Possibile che voi due non vi stanchiate mai? Io fatico a reggermi in piedi! Domani abbiamo una lunga giornata bella e interessante, ma anche tanto faticosa, quindi vi conviene prendere subito la via del letto.”
“Come voi due, che non aspettate altro…” si dissero i due bambini in un orecchio ridacchiando.
La cameretta di Maria aveva un letto attiguo, quindi entrambi si rassegnarono ad infilarsi dentro.
“Tra dieci minuti voglio che la luce sia spenta d’accordo? Vengo a controllare” disse Naida.
Nel frattempo, i due giovani scesero al pianterreno e si misero a sfogliare gli album delle foto di famiglia, rievocare eventi della loro infanzia, aneddoti, viaggi, feste; volevano essere ben sicuri che i due pargoli piombassero in un sonno a prova di bomba, prima di ritirarsi nella camera in comune.
Stavano giusto salendo le scale in punta di piedi, quando un grido acutissimo li fece sobbalzare.
“Aiuto!!! Un drago vuole mangiarmi, mi segue, aaahhh!!!”
Di corsa aprirono la porta e videro Maria tutta livida e tremante in piedi sopra al letto, con lo sguardo atterrito verso terra, come davvero vedesse un animale feroce pronto ad aggredirla, mentre Sirius brandiva un bastone e picchiava sul pavimento con tutta la forza e un coraggio da leone.
“Ma non c’è nessun drago Maria, hai solo avuto un incubo! Prima hai guardato quel libro pieno di figure, ti ricordi? E’ pieno di animali, ma non sono qui, calmati!”
Il fratello tentava di tranquillizzarla con parole, ma il terrore invadeva ancora la stanza; Naida scese in cucina a preparare una camomilla doppia, insieme ad una gran voglia di infilarci l’intero flacone di gocce che prendeva sempre sua nonna per combattere l’insonnia.
Portò il vassoio con le due tazze fumanti in camera, quando si avvide che Duke aveva portato i bambini nel letto matrimoniale.
“E’ meglio che stanotte stiano qui con noi, sono ancora molto scossi” le disse con tono di scusa, mentre lei, stanca e rassegnata, si toglieva i sandali ed esausta, si buttava sul letto vestita.
“Non spegnare la luce, ho paura” piagnucolò Maria.
“Ma di cosa devi avere paura, ci siamo noi” le rispose il fratello.
“Nooo, accendi subito, lo so che dall’armadio esce un toro enorme, sì, esce solo quando è tutto buio, vuole mangiarmi!”.
“Naida, dalla tua parte, in alto, c’è un pulsante, se lo premi si accende una piccola lampadina.”
“Trovato!”
Una luce fioca addolcì il buio della notte. Si sperava che ora non ci fossero altri incidenti!
I due bambini presero finalmente sonno, ma in modo alquanto agitato: non stavano mai fermi, rischiavano di cadere perché si spostavano tantissimo, quasi come dei sonnambuli.
Alla fine, Duke scese in cantina a prendere delle funi e li sistemò in un modo e in una maniera che, pur muovendosi, non potessero farsi male.
Il sole del mattino si affacciò su quella finestra e, divertito ammirò la strana scenetta.
Quattro corpi così ingarbugliati tra loro che parevano uno solo, i lenzuoli annodati, le coperte e il materasso quasi a terra: veniva spontaneo chiedersi come avrebbero fatto a sciogliersi senza un magico intervento e non si capiva nemmeno come avessero fatto quattro cuscini a finire sopra l’armadio.
Si svegliarono tutti intorno alle 10,00, quanto il fischio della nave sulla quale sarebbero dovuti salire, faceva intendere di aver preso il largo da un bel pezzo.
Gli occhi gonfi e pesti di Naida furono i primi ad aprirsi e realizzare che in quella camera, come minimo, doveva essere esplosa una mega bomba al vegatron.
Con qualche abile mossa da contorsionista riuscì a liberarsi, si precipitò dentro il bagno e rimase sotto la doccia quasi mezz’ora nell’intento di schiarirsi le idee, togliersi ogni traccia di sonno e stanchezza e farle giurare che di figli non ne avrebbe mai avuti.
L’ora della colazione era passata, quella del pranzo ancora lontana, quindi, per risparmiare tempo e fatica riunirono i due pasti in uno solo.
Pimpanti e allegri con non mai, i due bambini chiesero in coro: “Cosa facciamo adesso?”
La strada lunga e dritta che portava al mare era deserta, quindi, armati di tutto il necessario, si decisero a percorrerla.
Naida e Duke camminavano per inerzia trascinando i piedi, gli occhi chiusi a tre quarti, i riflessi molto rallentati.
Maria e Sirius saltellavano e correvano, ogni poco si volgevano dietro apostrofandoli così: “Perché andate così piano? Correte, dai, venite!”
Appena toccata la sabbia, stesero i teli e vi si buttarono sopra a peso morto.
“Facciamo un buco fondo, poi ci seppelliamo dentro?”
“Ottima idea!” disse Maria “Poi loro devono venirci a cercare.”
La spiaggia si stava popolando di gente, da lontano li vide una vecchia conoscenza delle loro famiglie, una signora pettegola e maligna, che lanciava sempre occhiate sospettose a tutto e a tutti, non si lasciava sfuggire niente, poi lo andava a raccontare in giro.
Aveva un prendisole informe a fantasia, un turbante dello stesso colore e così il costume intero di foggia antiquata, che conteneva a stento un fisico piuttosto tendente alla pinguedine. I neri occhiali da sole le permettevano di soffermarsi a lungo su cose e persone per osservarle bene. Mentre sbottonava lentamente il vestito, con piccoli passi si avvicinò a quel quartetto che da lontano le pareva avesse un non so che di familiare.
Mentre Maria e Sirius lavoravano di paletta con la forza di due minatori, Naida e Duke appoggiavano i loro corpi l’una con l’altro, spalla contro spalla, mentre ogni poco le loro teste crollavano in avanti per la stanchezza.
Due labbra scarlatte si aprirono per sillabare con una vocina tutta miele, ipocrisia e falsità: “Tu sei Maria vero? Mi conosci? Sono tanto amica della tua mamma…”
Uno sguardo panoramico le confermò che la piccola era lì senza genitori, né governante.
“Non è qui con te? E’ rimasta a casa col tuo babbo?”
Maria la guardò fissa coi suoi occhi celesti e limpidi: “I nostri genitori sono via per qualche giorno, sto in casa con mio fratello, lui è Sirius e lì c’è sua sorella.”
La donna lì guardò lungamente dall’alto, mentre i due giovani stavano quasi distesi sulla sabbia calda e l’aria di mare li ritemprava poco alla volta.
“Aaahhh, ho capito”, disse quell’arpia scandendo con lentezza le parole che da sole non avevano nulla di malizioso, ma il suo sguardo, il modo con cui le aveva pronunciate, l’aria di saperla lunga, il soffermarsi in lungo e in largo a guardare da ogni angolazione quei due ragazzi sotto il sole, trarre le sue conclusioni, su Naida soprattutto, lanciare un’occhiata fuggevole ai due bambini che giocavano, erano tutt’uno con la malvagità, il sospetto, la malizia, la certezza sulla promiscuità della situazione, sulla libertà di costumi.
Tutto ciò lo riversava direttamente e negativamente su quelle due nobili famiglie, che tanto elogiava quando era davanti a loro, ma, appena svoltato l’angolo, li riduceva in briciole, quando col suo gruppetto di amiche, vuote almeno quanto lei, si incontravano per giocare a canasta.
Si allontanò lentamente com’era venuta: nella sua borsa di rafia c’erano almeno tre riviste riportanti le notizie più succose, frivole, sciocche e false su gente famosa e in vista.
Intanto il tempo passava: in un qualche modo le ore divennero giorni e si avvicinava il momento del ritorno a casa dei genitori di questi ragazzi.
Alla fine di quell’infernale settimana, Naida e Duke erano sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Se qualcuno avesse chiesto loro se volevano passare un periodo in una clinica per malati di mente, sarebbero corsi subito e senza offesa alcuna.
Per contro, Maria e Sirius erano più belli e vivaci, abbronzati e in salute, sprizzavano energia per ogni poro e le loro doti naturali e nascoste si erano sviluppate maggiormente.
Maria aveva una certa tendenza ai poteri ESP, non capiva cosa fosse, ma a volte prevedeva certi eventi prima che avvenissero. Sirius poteva facilmente mimetizzarsi, quindi passare inosservato agli occhi della gente; con questa accoppiata vincente, avevano visto un sacco di volte i loro fratelli vedersi di nascosto e fare certe cose che i bambini non dovrebbero sapere.
Per tutta quella settimana, però, quelle certe cose non le avevano mai potute fare!

Le navette che atterrarono su Fleed restituirono alla patria e alla famiglia due coppie di genitori fondamentali per lo Stato, la politica, la popolazione. E anche per i loro figli, soprattutto i maggiori.
Si corsero incontro e, felici come non si vedessero da molti mesi, si baciarono e abbracciarono, poi magicamente fecero la loro comparsa dei regali per tutti; altri regali molto graditi furono i domestici che rientravano dai permessi e quelli nuovi che avrebbero preso subito servizio.
Maria, dopo i primi attimi di euforia, rimase pensosa e, assumendo un’aria da adulta, disse in un orecchio a Sirius: “Sto già vedendo che quei due stasera si vedranno senza dirlo a nessuno.”
“A casa mia o a casa tua?”
Lei pensò un attimo, poi ebbe l’illuminazione: “A casa mia!”
“Bene, allora diventerò verde come quell’edera che ricopre tutto il muro, tu aspettami!”
“Ci divertiremo un sacco!” disse lei ridacchiando.
“Non vedo l’ora!” Dopo qualche secondo di silenzio e in coro: “Mai quanto loro due!”.

La principessa Maria Grazia Fleed era nata con una spiccata propensione verso i fenomeni ESP. Questa eccezionale caratteristica passava inosservata da tutti, familiari compresi.
Essendo ancora una bambina, nemmeno lei sapeva il significato di certe sue visioni precognitive e pensava che anche gli altri fossero così. Era allegra e socievole, faceva amicizia con tutti e non si annoiava mai. Era facile volerle bene, perché, pur essendo vivace, aveva già quell’innata regale compostezza dei nobili e, anche se spesso e volentieri si scatenava a giocare coi maschi, la sua grazia di bambina mai veniva offuscata.
Sappiamo però che, per quanto un bambino sia incondizionatamente meritevole di affetto e sincerità da parte degli adulti, proprio questi ultimi, in certi casi, a causa della propria instabilità mentale, possono avere atteggiamenti deleteri e devastanti proprio sui bambini stessi.

“Ti dico che è così… è terribile, chissà che trauma, povero bambino…” sussurrava Naida sottovoce e con aria contrita, parlando al telefono e tenendo una mano sulla bocca.
“Sirius ha un piede più lungo dell’altro e la parte in eccesso dovrà essere tagliata molto presto. Chissà che dolore, quanto sangue, che spavento!”
La ragazza parlava da sola, perché dall’altra parte del filo non c’era nessuno: ma il suo fratellino stava nella stessa stanza e lei, con sadismo crudele e raffinato, voleva spaventarlo. Faceva finta di parlare piano, ma, per la verità, Naida voleva che Sirius sentisse tutto. Lui non avrebbe più preso sonno dalla paura e, peggio, non avrebbe mai potuto far vedere agli altri la sua paura. Altrimenti, lo avrebbero considerato un vigliacco e un inetto.
“Mah, speriamo bene… dicono che, quando il dolore è insopportabile, si perdono i sensi… speriamo che sia così.”
Poi assunse un tono di voce normale e spensierato, cambiando completamente discorso e parlando di moda e frivolezze: “Ah, stavo per dimenticarmene, domani andiamo a fare quel giro che avevamo in programma da tempo per rinnovare il guardaroba. Ciao, cara!”
Chiuse l’inesistente comunicazione, buttando giù la cornetta. Poi lasciò la sala del soggiorno per uscire in giardino a fumare.
Sirius aveva sentito tutto e, dentro di sé, tremava come una foglia, perché proprio quella settimana doveva recarsi ad una visita ortopedica: non se ne faceva mai un cruccio, era soltanto una cosa noiosa e basta. Dopo era bello uscire, perché incontrava gli amici e giocavano insieme. I genitori gli avevano taciuto questo fatto per non spaventarlo? No, non era possibile che gli tagliassero un pezzo di osso e di carne… no, nooo! Chiuse gli occhi disperatamente e si turò le orecchie sperando di dimenticare quelle frasi, che sua sorella aveva pronunciato piano, perché lui non sentisse, ma che, invece, aveva capito benissimo e ora gli rimbombavano nella testa come un mantra.
La sera, a tavola non toccò cibo, restò sempre silenzioso e triste.
“Perché non mangi? Stai male?” gli chiese la madre con una lieve apprensione.
“No, ho fatto una doppia merenda oggi” riuscì a rispondere con un filo di voce, poi si tolse il tovagliolo, scivolò giù dalla sedia e chiese di ritirarsi nella sua stanzetta.
“Naida, tu sai perché Sirius è così? Non è da lui questo atteggiamento” le chiese il padre fissandola direttamente negli occhi.
Di rimando lei piantò lo sguardo in faccia ad entrambi i genitori e, con estrema leggerezza, rispose: “Cosa vuoi che abbia? Niente! Come al solito ha corso e giocato tutto il giorno e adesso non si regge in piedi, tutto qui” rispose tranquillamente, mentre con calma imperturbabile finiva la sua mousse ai frutti di bosco.
Entrambi i genitori erano abbastanza perplessi, anche se nemmeno loro avrebbero saputo dare un nome esatto a ciò che respiravano nell’aria; pensarono, tuttavia, che era inutile dar corpo alle ombre, quindi, finita la cena, decisero di uscire per andare a sentire quel concerto che da tempo avevano programmato.
Il giorno successivo, Maria era a passeggio con la sua governante. Nel grande parco vicino al palazzo reale, c’erano altri bambini accompagnati e poco lontano videro Sirius.
“Ciaooooo!”
Gli corse incontro Maria tutta festosa. Lui rimase serio e zitto con lo sguardo fisso a terra.
“Oh, ma non mi saluti più, ti sei dimenticato di me?”
Il bambino si chiuse in un mutismo ostinato, poi vennero distratti dagli altri ragazzi e si divisero.
Dietro un grosso albero, Naida osservava la scena di nascosto e, approfittando di un momento in cui Maria era abbastanza lontana da tutti, le piombò davanti senza preavviso, spaventandola a morte.
La piccola rimase tramortita, col cuore che batteva a mille e gli occhi sgranati, poi, quando venne raggiunta dalla sua governante, scoppiò in un pianto dirotto.
La donna era senza parole, non poteva credere ad un simile repentino sbalzo di umore: quando erano uscite era tutta allegra e contenta, cosa poteva esserle successo in pochi minuti?
“Maria, ma cosa c’è? Stai male? Sei caduta? Parla, ti prego.”
“N… no, ho avuto paura”, articolò a fatica singhiozzando: “Naida mi ha fatto paura… sembrava un mostro, era cattiva.”
“Non è possibile, qui non c’è Naida, forse era un’altra persona che le somigliava. Non piangere più adesso, vuoi tornare a casa?”
“Era lei, era lei, l’ho vista, è cattiva!” continuò a ripetere tra i singhiozzi.
“Ma no, anche perché ho sentito dire che in questi giorni sta quasi sempre in casa a studiare; e poi, fosse anche lei quella che hai visto, come puoi pensare che volesse farti del male? Ti vuole bene, è sempre gentile con te, l’ho notato molte volte e lo dicono tutti, sai?”
“Oggi era un mostro e non voglio vederla mai più!” decise Maria con tono che non ammetteva repliche.
La sua governante pensò fosse meglio assecondarla per non irritarla di più, ma dentro di sè era convinta che la bambina avesse preso un grosso abbaglio.
Prendendola per mano, fecero la via del ritorno senza fretta, mentre da lontano Naida aveva visto la scena e ora voleva a tutti i costi incontrare Duke Fleed.
Sapeva che di solito, a quell’ora del mattino, lui andava a cercare dei nuovi testi nella grande biblioteca centrale della città, dove, una volta uscito nel piazzale, si fermava a conversare con qualche amico incontrato in quel luogo.
Fu così anche quel giorno. Lei corse verso il ragazzo facendo i gradini due alla volta, poi, senza salutare nessuno, infilò la sua mano dentro quella di lui e, con atteggiamento di possesso, lo portò più lontano.
“Naida! Ma che sorpresa, che ci fai qui?”
Un sorriso pieno di meraviglia, illuminava il viso del giovane.
Lei sembrava seria e triste, poi gli disse: “Andiamo via, lontano, solo noi due senza avvertire nessuno, io ho bisogno di stare lontana da casa per qualche giorno, non ne posso più.”
“Perché? è successo qualcosa?” le chiese con preoccupazione.
Un lungo sospiro, poi si decise a rispondergli: “No, niente di grave, però sono stanca di tutto.
In casa a volte mi sembra di soffocare, gestire il mio fratellino non è per niente facile. Io cerco di renderli la vita semplice e amena, di rassicurarlo se ha dei timori, poi i discorsi dei grandi rovinano sempre tutto. Gli mettono in testa delle paure, in pratica guastano tutto ciò che di buono io avevo fatto e, se poi lui alla fine soffre e sta male, se la prendono con me. Ecco perché sono stanca e voglio allontanarmi per stare da sola con te almeno qualche giorno.”
Duke aveva ascoltato con grande attenzione il suo sfogo, soffermandosi a guardarla anche nell’aspetto. Dal tono delle sue parole e dall’espressione del viso, sembrava avesse parlato di chissà quali catastrofi, ma, soffermandosi sui racconti che lei riportava, niente era così drammatico.
“Sentimi bene allora, facciamo così: prendiamo quella navetta velocissima e facciamo un lungo giro nello spazio fino all’ora di cena e questo ci ripagherà delle fatiche. Anch’io desidero per un attimo staccare la spina dagli studi e vedere altri mondi, altre stelle e pianeti, ci farà tornare come nuovi, che ne dici?”
Lei non disse nulla, si limitò a chinare il capo con uno sguardo pieno di mestizia e decise di seguirlo con simulata sottomissione.
Dopo pranzo, Maria era salita nella sua camera per il solito riposino pomeridiano. Gli occhi spalancati fissavano ogni centimetro della stanza e nella parete, su quella carta a fiori, vedeva il viso di una ragazza dai lunghi capelli rossi, con un sorriso dolcissimo rivolto proprio a lei.
Non sapeva chi fosse, ma non aveva dubbi che fosse già sua amica, lei era buona e gentile, si volevano bene e sapeva con assoluta certezza che un giorno si sarebbero incontrate.
Fissò a lungo quell’immagine bella e rassicurante, finchè arrivò il sonno ristoratore che le fece dimenticare tutte le emozioni di quella strana giornata.

Su Vega, intanto, la ragazza dai lunghi capelli di fuoco, assisteva alla conversazione del padre, nonché Re di quel pianeta e del suo fidatissimo collaboratore, l’eminenza grigia, il formidabile scienziato Zuril.
“Maestà, non si ottiene nulla con la forza, almeno non subito.”
“Che intendete dire Zuril?”
“Che se voi decidete di occupare Fleed senza preavviso attaccando con le armi più potenti, potrebbe essere pericoloso e ritorcersi contro.”
Re Vega lo fissava senza capire.
“Accettate la proposta del re di Fleed. Vostra figlia è perfetta come fidanzata per il principe ereditario: il resto verrà dopo” affermò con uno sguardo ambiguo e dopo una breve pausa continuò.
“Anzi, sapete che vi dico? Sarebbe molto bello fare dei cloni della principessa, così, in contemporanea, potreste usare la stessa proposta ad altri sovrani di stelle a voi congeniali e, quando loro sono tranquilli e beati, buttarli giù dal letto con un’esplosione letale e spegnere in un botto tutti i loro sogni. Che ve ne pare?”
“Mmm… credo si possa fare: cioè si può mandare Rubina su Fleed, l’altro vostro progetto mi pare molto fantasioso e decisamente impossibile” gli rispose il sovrano con un’espressione di scherno.
Le labbra di Zuril si stirarono in un largo sorriso.
“Molto bene maestà, ma non sottovalutate la scienza e soprattutto i miei studi: io non mi fermo mai, questo dovreste saperlo.”
Rubina ascoltava con uno sguardo a tratti interessato, ad altri annoiato sfogliando una rivista di moda; con la mano sulla bocca represse uno sbadiglio, poi si alzò dalla poltrona e chiese di uscire.

Sul pianeta Fleed era già notte fonda: Naida e Duke stavano rientrando dal lungo giro nello spazio.
Era stato un viaggio meraviglioso, quante stelle avevano visto da vicino, quasi avrebbero potuto sfiorarle con un dito. Non avevano quasi mai parlato per tutta la giornata, ma, una volta atterrati, la mano di lei strinse con forza il polso di lui.
“Non andare via, non lasciarmi!”
“Naida. Ora dobbiamo divederci, ma domani staremo di nuovo insieme” le rispose con tono dolce, ma fermo e risoluto.
“No! Vieni a casa mia di nascosto, nella mia camera!”
Con parole gentili, lui declinò l’invito, spiegandole i motivi, quindi si salutarono con un lungo bacio.
La ragazza rientrò a casa, Sirius stava per terra sul grande tappeto e giocava in silenzio; appena vide la sorella la scrutò a lungo di sottecchi e con uno sguardo carico di livore.
Quel pomeriggio aveva affrontato la temutissima visita ortopedica, ma non c’era stato nessun dolore, né spargimento di sangue. Quindi? Chi era il bugiardo? Il dottore aveva detto che tutto filava liscio, anzi si era complimentato con lui e i genitori per l’ottima forma.
Naida non lo guardò nemmeno e filò dritta nel guardaroba per cambiarsi d’abito.
Sirius si sentì subito più sollevato senza lei vicino, ma non abbandonò la guardia, anzi, in cuor suo, meditava di farle qualche bello scherzetto a sorpresa.

Nel grande palazzo reale fleediano veniva servita la cena nella sala più piccola.
Maria era allegra e ciarliera, parlava sempre di questa sua amica che molto presto sarebbe arrivata e insieme si sarebbero tanto divertite.
I familiari l’assecondavano con simpatia, pensavano che quella bambina fosse molto più intelligente della sua età, di sicuro doveva svogliare molti libri illustrati, per avere tutta quella fantasia.
Quando venne per tutti l’ora di ritirarsi nelle proprie stanze, Duke Fleed, ripensò alla giornata trascorsa nei dettagli, ma, per quanto si sforzasse di rivedere con gli occhi della mente le ore appena passate, tutto un altro genere di immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, come in un film.
Vedeva una grande distesa d’erba, una fattoria, persone sconosciute, mandrie, cavalli, un bambino, uno stranissimo personaggio che stava sopra un’alta torre col cannocchiale.
Poco distante un edificio grandissimo, con degli uomini che parevano studiare il cielo e le stelle: a giudicarli così, sembravano un popolo decisamente arretrato. Che strani abiti indossavano! Ma chi erano? E da dove venivano?
In mezzo a tutta questa animazione, più che vedere, sentiva al suo fianco una presenza femminile che di sicuro faceva parte di tutta quella grande famiglia. Gli camminava sempre a lato, silenziosa ma presente, alla fine lui decise di guardarla. Girò la testa e vide una giovane ragazza semplicemente vestita che lo fissava con due grandi occhi castani: dentro quegli occhi sentiva una muta domanda, non seppe dire cosa fosse, ma c’era, ed era una presenza molto forte, concreta e reale.
Nonostante la singolarità della cosa, tutto era molto piacevole, era curioso di vedere e sapere di più su quella gente e quei luoghi.
Non era un sogno, perché lui era perfettamente sveglio, attribuì questa stranezza alla giornata insolita che si era appena conclusa e, quando il sonno venne, i suoi lunghi e tormentati sogni gli mostrarono che Naida lo voleva tutto per sé, non lo avrebbe lasciato mai, a nessun costo. La mano di lei non mollava la stretta, ma questa si faceva sentire con più forza, fino a fargli male.
Erano le ultime settimane dell’anno, quando accadevano questi fatti.
La primavera successiva, coi suoi colori e profumi, sarebbe stata testimone e avrebbe portato sulla scena di un grande palcoscenico coi riflettori molto accesi, tutti i personaggi, le situazioni, gli imbrogli, le gelosie, i tradimenti, i fuori schermo, gli intrighi, i mancati impegni, le debolezze di ognuno, come piccole tessere di un enorme mosaico, che, magicamente e maleficamente incastratesi alla perfezione, avrebbero portato alla totale distruzione del pianeta Fleed e della sua gente.


FINE
 
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view post Posted on 22/4/2023, 16:36     +1   +1   -1
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1_259

I sudditi di re Vega, da tempo immemore, impiegavano ogni energia, studio, ricerca, per soddisfare ogni esigenza del loro sovrano. Da quando si erano formate Le Forze Alleate di Vega, numerosi pianeti, stelle e galassie erano finiti sotto il loro dominio: c’erano stati attacchi vandalici, stermini degli abitanti, sottratte le preziose materie prime del sottosuolo, carpite le nozioni della tecnologia che in alcuni pianeti era più avanzata di quella veghiana.
Hydargos, Gandal e Zuril avevano dato il meglio o, sarebbe il caso di dirlo, il peggio di loro stessi nell’eseguire le rappresaglie.

Nel tempo, alcuni validi collaboratori esterni scelti da re Vega avevano fatto la loro comparsa alla base lunare Skarmoon: non erano stati ben visti dai comandanti di ruolo, perché capivano che il loro posto sarebbe stato sostituito dai nuovi o, nella migliore delle ipotesi, ridotti alla stregua dei soldati, cioè, senza più voce in capitolo. Con in testa il motto che: “In amore e in guerra tutto è permesso”, li avevano eliminati senza pietà, quindi nessuno aveva usurpato il loro posto.
La conquista della Terra si stava rivelando un’impresa più ardua di quanto avessero mai pensato. Quel maledetto Goldrake aveva messo lì le sue radici e la difendeva ad ogni costo, con le unghie e coi denti, con l’aggravante che alla fine di ogni battaglia usciva vittorioso.
“Io voglio capire una cosa e, se qualcuno sarà in grado di spiegarmela, prometto di regalargli tutto ciò che desidera. Quando abbiamo attaccato Fleed, purtroppo Duke è riuscito a fuggire col suo robot, e questo per noi è stato un danno gravissimo e non preventivato, accidenti! Era in prigione quel maledetto ed è riuscito a fuggire!” ragionava tra sé Gandal seduto alla sua scrivania e, ad un tratto, battè il pugno sul tavolo con tutta la forza scaturita dalla rabbia repressa, poi proseguì coi suoi ragionamenti: “Non capisco il dannatissimo motivo del perché non se ne è andato in giro per lo spazio per i fatti suoi a divertirsi, vagare da un pianeta all’altro e così via. No! E’ arrivato sulla Terra? Sì, eccome! Ha parcheggiato alla base del Centro Ricerche e nemmeno la minaccia di un milione di bombe al vegatron sono capaci di schiodarlo da quel luogo che deve assolutamente essere solo nostro! Perché si ostina a difendere quel pianeta? Cosa gliene viene in tasca? Possibile che non gli passi mai per l’anticamera del cervello di fare le valigie senza salutare nessuno e volare qua e là per l’Universo senza pensieri di sorta, cioè viaggiare, divertirsi e magari incontrare tante belle ragazze aliene?”
Quest’ultimo pensiero sulle donne gli fece brillare gli occhi di desiderio, ma anche crollare repentinamente l’umore: lui non poteva certo dare appuntamento a nessuna, perché la sua metà era parte inscindibile di sé, poi era consapevole di non avere le attrattive e la faccia tosta di uno come Zuril ad esempio, e se anche questi impedimenti non ci fossero stati, il dovere del suo ruolo di Comandante era sopra tutto. Avrebbe dato la vita per il suo re, pensò alzandosi in piedi con lo sguardo verso il cielo e la mano sul cuore in segno di giuramento, fedeltà, abnegazione, eroismo.
Poi, il pensiero ossessivo riprese corpo e forma nella sua mente: “Se adesso Duke Fleed lasciasse la Terra, in un istante sarebbe nostra! Lui non dovrebbe più rischiare la vita per una missione senza attrattive per lui, può benissimo cercarsi un piccolo pianeta lontano e indenne da invasioni veghiane, fare la bella vita e chi s’è visto, s’è visto!”
Questi pensieri continui lo stavano portando verso uno stato morboso e pericoloso, quando improvvisamente il noto segnale di allarme della base prese a suonare con forza, segno che Vega li voleva tutti al suo cospetto.
Gandal arrivò trafelato nella sala del re, il quale, superbamente assiso sul trono, stava già impostando il suo piano.
“Dopo lunghi ripensamenti, ho deciso di impostare un nuovo metodo per individuare strategie vincenti finalizzate a sconfiggere i terrestri. Voi tre, Zuril, Gandal e Lady Gandal, avete il compito di studiare in modo autonomo un piano che sia inattaccabile e porti alla vittoria certa e totale.
La novità di questa cosa, sta nel fatto che ognuno di voi penserà all’attacco vincente in modo assolutamente individuale e, quando lo avrete concretizzato, sarò io a decidere quello giusto da mettere in pratica. Ora andate, e ricordatevi che il migliore di voi, avrà un avanzamento di grado e prestigio. Tutto chiaro?”
“Sì, maestà!” risposero ad una voce sola, poi filarono dritti nelle loro stanze e si chiusero bene a chiave.
Tutti e tre si sentivano motivati ed eccitati più che mai, ognuno di loro era convinto di essere il più bravo e il più furbo, già si vedevano su alti gradini imperiali cinti di vapori azzurri e ornati di medaglie, tutti i soldati e collaboratori facevano l’inchino in deferente e ossequioso rispetto… Poi, che altro? Meglio mettersi al lavoro, perché confusamente ricordavano un detto trito e ritrito: “Con acqua e chiacchiere non si fanno le frittelle.”

Lady Gandal si chiuse nel suo boudoir e prese a sfogliare un libro pieno di storie illustrate che aveva finito di leggere da poco. Era sicura che dentro quei racconti fantastici, pieni di fate, maghi, sortilegi, si nascondesse la strategia vincente per avere la Terra in pugno.
“Mmm, vediamo, vediamo… ecco l’indice: “Biancaneve”, “Cenerentola”, “Pelle d’asino”, “Pinocchio”, “Il lupo e i sette caprettini”. “Cappuccetto Rosso”. Con l’indice dall’unghia lunga e arcuata laccata di rosso vermiglio, la donna faceva scorrere i titoli sussurrandoli a bassa voce.
“No, ancora non ci siamo, questi non vanno bene… aspetta, aspetta! Forse ho trovato, eccolo qui: “Il pifferaio magico.”

Se facciamo qualche passo indietro, i lettori assidui, ricorderanno che la dolce metà di Gandal, aveva preso un certo gusto alla lettura e, anche se non era riuscita a coinvolgere il consorte in questa passione, lei era andata avanti per suo conto: dopo aver divorato, letto e riletto in solitudine “L’arte di amare”, non si era certo lasciata abbattere dall’indifferenza del marito, ma nella fornitissima biblioteca posta in fondo alla base lunare aveva trascorso molte ore a sfogliare grossi volumi. A quanto pareva, questa sua passione, stava per dare buoni e consistenti frutti a suo vantaggio. La donna, quindi, lesse con occhio avido tutta la storia:

“La storia si svolge nel 1284 ad Hameln (Bassa Sassonia). Un uomo con un piffero si presenta in città e propone di disinfestarla dai ratti; il borgomastro acconsente promettendo all'uomo un adeguato pagamento. Non appena il Pifferaio inizia a suonare, i ratti, incantati dalla sua musica, si mettono a seguirlo, lasciandosi condurre fino al fiume Weser, dove annegano.
La spergiura gente di Hamelin, ormai liberata dai ratti, decide incautamente di non pagare il Pifferaio. Questi, per vendetta, riprende a suonare mentre gli adulti sono in chiesa, attirando dietro di sé tutti i bambini della città…”


Un sorriso maligno e soddisfatto le illuminava il viso, mentre dall’ultimo cassetto della scrivania estraeva un flauto di legno, col quale era solita esercitarsi ai tempi della scuola.
“Perfetto, magnifico! Che idea meravigliosa! Con questo, mi reco alla base del dottor Procton in Giappone, quel dannato Centro è sorvegliato giorno e notte, all’interno del quale, ben nascosto, si trova Goldrake coi veicoli ausiliari. Sentiranno una deliziosa e gentile melodia che li farà uscire tutti, ma davvero tutti di lì e finalmente troveremo il nascondiglio del robot e sarà un gioco da ragazzi impossessarcene!”
Battè le mani tutta soddisfatta, poi un pensiero le bloccò tutto l’entusiasmo.
“Già, però questo è un normalissimo strumento musicale, come posso renderlo magico?”
Pensò alcuni istanti, poi riprese il libro e l’occhio cadde su un titolo: “Biancaneve”.
“Se non ricordo male, c’è scritto che una semplice mela è stata capace di far addormentare la fanciulla… vediamo come è successo.”
Le pagine illustrate arricchite di sottotitoli, le mostrarono una vecchia e orribile strega che gettava la mela dentro un pentolone pieno di liquido bollente, dove pareva uscire l’inferno e intanto recitava delle formule magiche.
Detto e fatto. Lady Gandal, col libro davanti, versò dentro un recipiente il flauto assieme al contenuto di alcune ampolle piene di sostanze multicolori e, con quelle mani stregate, ripeteva la formula scritta nel libro. Un’ora dopo, estraeva lo strumento tutta soddisfatta: lo avvolse con delicatezza in una garza di cotone, quindi decise che lei sola aveva trovato la chiave per conquistare la Terra senza colpo ferire.
“Sarò la numero uno! Mi prenderò un mare di rivincite, comanderò tutti a bacchetta, farò… sarò…”
Abbandonate le membra sulla poltrona di damasco, immagini di gloria si susseguivano rincorrendosi l’una con l’altra senza posa, mentre il piacere di assaporare la prossima vendetta non l’abbandonava un istante.

L’eminente Ministro delle Scienze Zuril non se ne stava certo con le mani in mano.
Da tempo era stato folgorato da un’idea, secondo lui geniale: era nel passato, nella storia antica che erano nascoste le soluzioni per il presente, basta solo saperle tirare fuori.
Zuril estrasse dalla cassaforte posta dietro l’armadio della sua camera, alcuni libri: “Non è terrestre”, “Astronavi sulla preistoria”, poi fece la sua comparsa una bozza di velivolo in pietra grezza, un reperto archeologico in realtà.
Quando si recava in missione sulla Terra, lo scienziato non si faceva mai mancare, oltre alla lirica, anche qualche visitina culturale nei musei sparsi sul pianeta.
Una volta aveva visto un gruppo di archeologi intenti a scavare e, quando il terreno arido aveva restituito alla luce quella cosa che tanto gli ricordava la nave madre di Vega, aveva deciso che doveva essere sua. Appena gli uomini si erano distratti un istante, lui l’aveva afferrata ed era subito scappato via, poi aveva acquistato libri che parlavano di alieni preistorici.
Da mesi, nel cuore della notte, studiava questa cosa, non ne aveva mai parlato con nessuno, ma ora era arrivato il momento di mostrare a re Vega che il passato tornava, ciò che si costruiva ieri era senz’altro meglio delle scoperte di oggi, ma, sopra ogni cosa, eccola qui l’arma infallibile!
Così pensò Zuril, mentre il brillio del suo sguardo era tutto un sottinteso di: sono il più bravo, ho trovato la soluzione a tutti i nostri problemi, diventerò anch’io re o poco meno.

Gandal era sceso in cantina, perché all’improvviso si era ricordato che una bomba originalissima, ma potentissima stava in quel seminterrato.
Lo stanzone era fresco e avvolto nella penombra: un odore stantio regnava sovrano.
Da una parte c’era una grande scaffalatura piena zeppa di provviste e cibi in scatola, mentre un angolo era adibito a magazzino per i missili, le armi, gli utensili.
Dopo qualche minuto, il comandante si era abituato alla semioscurità e, con grande gioia, vide ciò che a lui serviva: un grande barattolo di vetro sigillato, con dentro una salsa vermiglia condita con erbe dal sapore fortissimo, bastava che per un istante un disgraziato qualsiasi appoggiasse la punta della lingua per assaggiare quell’intruglio infernale e il poveretto sarebbe esploso all’istante.
“Ecco qua, una bomba a mano!”
Gandal teneva ben stretto il recipiente ed era al settimo cielo.
“Farò esplodere i terrestri, mentre il pianeta resterà intatto e tutto per noi. Manderò un pacco a quelli del Centro Ricerche con scritto: “Specialità esotiche - Omaggio” e in men che non si dica saranno disintegrati, che bello!”
Rideva forte e sguaiatamente, mentre saliva le scale saltellando, per recarsi nella Sala del Trono a mostrare la sua imbattibile genialata.
“Ho vinto! Sono sicuro che Vega mi elargirà tutti gli onori!”
Neanche si fossero dato appuntamento, la sua consorte e Zuril, stavano arrivando dai lati opposti del corridoio.
Tutti e tre erano gonfi e tronfi come tacchini, ostentavano superiorità e sicurezza, si guardavano son sorrisetti ironici pieni di sottintesi, finchè un ruggito del re, li fece sobbalzare.
“Ci siete? Avete svolto il compito che vi ho dato?”
“Sìììììì!” gridarono ad una sola voce, poi in fila indiana entrarono composti nella sala.
“Bene, siete stati svelti e puntuali, ora mostratemi le vostre scoperte: prima le signore, quindi venite avanti Lady Gandal.”
La donna fece un breve inchino, poi posò sul tavolo del re un involucro dove dentro era conservato il suo strumento di guerra: con delicatezza scostò la tela e un flauto di radica, fece bella mostra di sé.
Zuril, imitando i prestigiatori con mosse teatrali, materializzò dal nulla una strana cosa in pietra dura, che faceva vagamente ricordare una bozza di velivolo allo stato primitivo, una scultura di un principiante che frequenta il primo anno dell’Accademia di Belle Arti, uno che forse ha scelto un piano di studi non troppo consono alle sue reali attitudini.
Il Comandante Gandal, a piccoli passettini e con cautela estrema, posò a terra il vaso di vetro pieno di sugo dal colore repellente.
“Mi raccomando sire, faccia attenzione, è peggio della bomba atomica.”
Vega rimase in silenzio per lunghi minuti: fissò a lungo “le armi belliche” e ancora di più i tre personaggi, poi disse loro, scandendo bene le parole: “Grazie, per ora potete andare.”
Con un inchino cerimonioso lasciarono silenziosamente la stanza per tornare ciascuno nella propria.
Il re aprì il mobiletto dei liquori, si versò un’abbondante dose di grappa e la tracannò in un sorso solo, poi si mise in comunicazione con Rubi e intanto pensava: “Ma quei tre ci fanno o ci sono?”
“Rubinaaaaaa!” urlò con tutto il fiato che aveva. Subito la ragazza apparve sullo schermo.
“Ooohhh?!! Ma sei ammattito, cosa gridi? Mi sono presa un colpo, si può sapere cosa c’è? Guarda che se fai così ti viene un infarto, ti ricordi nell’ultima visita quello che ti disse il dottore vero? Niente sforzi, niente emozioni, niente arrabbiature. Ora ti calmi, e mi dici tutto, coraggio” gli ordinò la ragazza con piglio deciso e un’aria tra il preoccupato e il saccente.
“Non ho niente, niente” rispose il padre con lo sguardo basso.
“Ma… no dico, sto cominciando seriamente a pensare che in quella base ci sia una sorta di maleficio o non so che altro. Adesso parlo chiaro e ti dico tutto ciò che penso, è da tanto che queste cose le avverto, ma taccio, ora è il momento di chiarire una volta per tutte: io ormai vengo lì poco e se proprio devo dirla tutta e senza offesa naturalmente, te lo devo dire, per me non siete normali, no, per nulla! Non so se dipenda dall’aria, dal clima, dall’età che avanza, dalle sconfitte terrestri, tutte queste cose insieme più altre, ma io davvero non vi seguo, non vi capisco più, e non ne posso più!”
Rubina parlava seria con le mani sui fianchi, e aveva un tono da persona molto più adulta e matura di quanto non fosse; era decisa, non ammetteva mezze frasi e ambiguità. Era seccata e preoccupata al tempo stesso.
Ora teneva le braccia conserte e aspettava un cenno, una risposta dal proprio genitore, che in quell’ora pareva a lei che avesse perso tutta la sua arroganza, il suo prestigio, la sua sicurezza. Non era più un sovrano, sembrava un povero diavolo che ha smarrito la memoria e la strada di casa.
Re Vega posò lo sguardo angosciato su quei ridicoli oggetti infantili che i cuoi comandanti gli avevano proposto, spacciandoli per armi belliche infallibili; no, non poteva raccontare a Rubina un fatto simile, nemmeno lui riusciva a crederci, l’avrebbe preso per pazzo, ridicolizzato oltremodo, quindi rispose come meglio credette.
“No, niente di nuovo… cioè… anche oggi siamo stati sconfitti in battaglia.”
“Sai che novità!” disse Rubina con un sorriso ironico, mentre con la mano faceva segno di buttarsela alle spalle.
“Scusa, da quanto tempo succede così? Ho perso il conto, non mi stai dicendo cose tanto nuove, se permetti; comunque, hai i minidischi, mostri in quantità, validissimi collaboratori e domani è un altro giorno. Dà retta a me: adesso prendi qualche goccia di ansiolitico, fai un bel sonno di almeno dieci ore infilate e domattina vedrai tutto sotto una luce molto più chiara e ottimista. Scommettiamo che torni in pista più forte e vincente che mai?” disse la ragazza ammiccando con una strizzatina d’occhio.
“Dai, voglio vederti di nuovo in forma, domani mi faccio viva io e ti ordino fin da ora, di levarti dalla faccia quell’espressione da cane bastonato che proprio non ti si addice. D’accordo? Posso stare tranquilla? Promesso?”
Dopo alcuni secondi di silenzi, Rubina aggiunse: “Cosa credi, anch’io prendo delle belle sconfitte, mica tutti i genocidi che organizzo finiscono bene, sai? E con ciò? Vado avanti, ricomincio, non mi arrendo: vedi, questa sera esco, vado a ballare in un locale appena inaugurato.”
Fece un giro intorno a sé stessa e disse: “Come sto vestita così? Ti piace questa maglia tutta glitterata? A me sì, è all’ultima moda, anche. Ho messo i brillantini anche in mezzo ai capelli e mi vedo strepitosa.”
Alcuni secondi di silenzio, poi Vega, articolò faticosamente alcuni monosillabi.
“Buonanotte Rubina, divertiti più che puoi, ciao!”



FINE
 
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BUONE MANIERE

1_260

Nella grande cucina del ranch Betulla Bianca, Venusia stava finendo di rigovernare dopo un pranzo non molto tranquillo e soprattutto per lei, tutt’altro che piacevole.
Mentre finiva di asciugare gli ultimi piatti e bicchieri, il suo sguardo, tra l’apatico, l’assente e il malinconico, abbracciò tutta la stanza e, dopo un rapido inventario, si accorse che era ancora ben lontana dal finire di rassettare per dare almeno un’impronta di decenza a tutto l’ambiente.
Il tavolo era coperto dalla tovaglia tutta sporca e stropicciata con sopra avanzi di cibo, il pavimento denunciava la presenza di grosse e sporche impronte di scarpe maschili; pozzanghere qua e là di acqua e altre bevande, completavano questo quadro desolante.
Era rimasta sola in casa, gli ospiti se ne erano andati via tutti, non che fossero molti a dire il vero, solo due, ma c’era da chiedersi come avrebbero ridotto la casa se fossero stati cinque o sei.
Svolgeva il suo lavoro lentamente, non tanto per una stanchezza fisica, quanto morale, perché quei suoi due ospiti avevano davvero passato ogni limite. Si passò una mano sugli occhi quasi a voler scacciare via i pensieri, per un istante si velarono di lacrime, poi dalla finestra, vide suo padre arrivare di corsa a cavallo.
“Sono tornato, Venusia!” gridò Rigel, scendendo dall’animale in corsa prendendo bene la mira stavolta, quindi senza cadere e si precipitò in casa tutto allegro e contento.
“Eccomi qua, sono tornato prima del previsto e credo di avere fatto un ottimo affare. Ho appena acquistato una partita di puledri purosangue ad un prezzo favoloso, ho anche trovato un nuovo cliente che vuole il nostro latte, poi ho visto il nostro vicino, ho incontrato…”
Continuò a parlare per alcuni minuti, alla fine si decise a guardare in faccia la figlia, perché ancora non gli aveva rivolto la parola e, solo in quell’istante, l’espressione del suo viso lo colpì e addolorò senza spiegarsene il motivo.
“Venusia! Che hai? Ti è successo qualcosa di spiacevole, parla ti prego!”
La ragazza, lasciati a loro stessi piatti e bicchieri, si abbandonò sullo sgabello come priva di forze e, tenendo lo sguardo fisso a terra, si decise a parlare.
“Oggi, qui a pranzo, sono venuti Alcor e Banta, ricordi che già erano stati invitati?”
“Sicuro, io stesso avevo detto loro di fermarsi qui, anche perché la tua cucina è davvero insuperabile!”
Quelle parole parevano aver rotto gli argini, perché improvvisamente Venusia scoppiò in un pianto dirotto.
Rigel era senza parole: cosa poteva essere successo durante quelle ore? Il ranch era tutto in ordine, gli animali tranquilli, Mizar l’aveva appena visto nelle stalle, quindi?
“Come già sai, Alcor e Banta hanno mangiato qui” si decise a dire con voce bassa “solo che… alla fine del pranzo, mi…”
“Cosa, cos’hanno fatto, voglio saperlo!”
“M… mi hanno mancato di rispetto, tutti e due” disse lei in tono desolato e stanco.
Rigel si agitò tutto e divenne nervosissimo, quindi, dopo aver fatto per una decina di volte il giro attorno al tavolo correndo e aver ingollato una bottiglia di sake tutta in un fiato, iniziò a sbraitare agitando le braccia in modo convulso.
“Io, io, lo sapevo, lo sapevo, ma ora ci penso io, dove sono finiti quei due infami miserabili, mangia pane a tradimento, ladri, traditori, io li uccido, li faccio a pezzi, li disintegro, non mi sfuggiranno, li farò pentire di essere nati…”
“Lascia stare, non ne vale la pena, sai? E’ meglio essere superiori a queste cose.”
Lui la fissò con occhi stupiti e dilatati dalla meraviglia.
“Lasciar stare??!!! Maiiiii!!! Venusia, come puoi dire questo, sei fuori di testa? Bè, dopo quel che è successo, non c’è da meravigliarsene, ma io… io voglio far loro harakiri… no, quello è per suicidarsi, qui non c’entra nulla, io invece voglio farne polpette, chiarooooo??? Dove sono andati, lo sai? Li voglio qui subito per farli in mille pezzettini, poi cuocerli alla brace, anzi, meglio fritti, quindi prima vanno impanati, poi… poi, non lo so, ma non la passeranno liscia, mai e poi mai!
Non puoi davvero fidarti di nessuno nella vita! Banta l’ho sempre visto alquanto svitato, ma che arrivasse a questo, no! Alcor è pure laureato, viene dall’America, ha progettato il suo disco alla Nasa, come può ridursi in un lurido verme di questa portata, ma sono impazziti o cosa??!”
Un pensiero fulmineo attraversò la mente di Rigel, quindi con fare tra l’inquisitorio e il sospettoso, chiese: “Ma Actarus dov’era? Dimmi la verità Venusia, voglio saperlo, perché se c’era e non ti ha difesa è… è…. adesso non ho in mente l’aggettivo adatto, ci penserò dopo…”
Si fermò a pensare tenendo le braccia incrociate e le puntò il dito in tono accusatorio: “Anche lui ha fatto parte della combriccola di delinquenti??!!! Voglio saperlo, non provare a difenderlo sai, tanto scoprirò tutto lo stesso e nessuno sfuggirà alla forca!”
Così dicendo, Rigel balzò giù dal tavolo con un grosso tonfo, corse nella stalla per sellare il cavallo più veloce, quando di sentì toccare la mano da Venusia.
“Ti ho già detto di lasciar stare, credimi, non ne vale la pena, domani mi sarà già passato tutto e magari ci farò sopra una risata.”
Di nuovo, il padre la fissò senza capire, poi lei riprese: “Anche se hanno detto che la mia cucina va bene sì e no per il pastone degli animali e che Hara pensa di venire qui ogni giorno per provare ad insegnarmi qualcosa come atto compassionevole, anche se è sicura che sarà un’impresa impossibile, so che non devo prendermela, sono sciocchezze in fondo” disse Venusia con un lieve sorriso e un’aria più allegra.
“Mi ha ferito molto il fatto che lo dicevano ridendo a crepapelle, per loro è una cosa spassosissima, è quello che più mi ha fatto stare male, però, averne parlato adesso con te, mi è stato di conforto e ora non voglio pensarci più.”
Rigel la fissò basito: da un lato era sollevato di aver finalmente capito la situazione, perché sentir dire dalla figlia: “Mi hanno mancato di rispetto”, subito aveva respirato aria di tragedia, ma al tempo stesso c’era qualcosa che non gli tornava affatto, ed era deciso più che mai a far quadrare tutti i conti.
“Vieni Venusia, torniamo in casa, voglio vedere bene cosa manca, perché domani vado a fare provviste.”
“Ma papà, l’altro ieri Actarus è andato a Tokio e ha comprato scorte di cibo per almeno un mese.”
“Appunto, ma non si direbbe, voglio capire perché il frigorifero è quasi vuoto e pure la dispensa.”
Entrarono in casa e videro Mizar intenzionato a farsi un grosso panino per la merenda… però non sapeva come riempirlo.
“Venusia? Non c’è niente da mangiare? Hai cambiato posto alle cose?”
“No, però…”
Improvvisamente, la ragazza vide srotolarsi davanti agli occhi la pellicola del film di quello strano pranzo avvenuto poche ore prima. Alcor a Banta avevano fatto onore alla sua cucina, altrochè, tanto che alla fine avevano spazzolato il piatto con tutto il pane che c’era sulla tavola, poi ne avevano cercato dell’altro e si erano serviti da soli senza nemmeno chiederlo. Infine, a dimostrazione della loro totale ignoranza sulle più elementari norme di galateo, si dondolavano in bilico su una gamba della sedia, usavano gli stuzzicandenti senza ritegno, parlavano con la bocca piena, poi, dopo aver mangiato e bevuto come maiali, si erano burlati di lei dicendole che non era nemmeno capace di cuocere un uovo e avevano tolto il disturbo senza neanche fare l’atto di aiutarla a sparecchiare.
Rigel, intanto, faceva l’inventario dei beni commestibili e il risultato era deprimente: se volevano cenare, era meglio che si recassero al villaggio a fare rifornimento.
“Venusia? Conosci vero il detto: “Chi disprezza compra”, o se più ti piace “Chi disprezza apprezza?”
“Sicuro! Stavo appunto pensando la stessa cosa!” disse lei ridendo di cuore, poi c’è anche: “Chi la fa l’aspetti!”
“E’ proprio così, quindi, sai cosa facciamo? Che venga pure qui Hara a cucinare un bel pranzetto, poi sentirà tessere delle magnifiche lodi da noi, te lo dico io!”
“Non vedo l’ora! Naturalmente con ospiti di riguardo, cioè gli educatissimi e gentilissimi Alcor e Banta, che te ne pare?”
“Magnifico! Vedo però che si sta facendo ora di cena e, in fondo al viale, Actarus sta tornando con la moto. Corrigli incontro prima che spenga il motore e andate a comprare qualcosa insieme.”
Venusia sorrise come forse mai aveva fatto in vita sua e, dopo aver stampato un bacio al padre, corse fuori.
“Venusia, che succede, perché corri così?”
“Perché ho fretta di venire con te, andiamo.”
Lui la fissò stupefatto, ma felice.
“Andiamo, ma poi mi dici di che si tratta?”
“Certo, è una lunga storia, una specie di favola che parla di ricette, fate, folletti, stregoni e tanto altro. E’ molto lunga sai? Dura una giornata intera, ma ne vale la pena di sentirla.”
“Da quel che dici, mi pare molto interessante.”
“Non immagini nemmeno quanto!”
Venusia salì dietro e non si perse nemmeno un istante di quella gioia inaspettata: correvano contro vento e la brezza portava loro tutti i profumi e i colori di quella giornata che stava volgendo al termine.
C’è anche un altro detto, per chi non lo sapesse: “Dopo il brutto, viene il bello.”


FINE
 
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RICORDI DEL PASSATO

2_61

Sul pianeta Rubi, il sole era già sorto da alcune ore, ma la principessa che governava quella stella ancora non si decideva ad alzarsi dal letto. Non che stesse poco bene o fosse ancora assonnata, ma una strana e insolita apatia l’avvolgeva tutta: aveva dormito poco e male, ma a disturbarla maggiormente erano stati alcuni frammenti di strani sogni che nemmeno riusciva a ricordare tanto bene, tuttavia l’avevano riportata indietro, molto tempo prima, quando era sì una principessa, ma solo sulla carta, perché, di fatto, svolgeva una vita comune a tante ragazze della sua età.
L’orologio segnava quasi le 9.00, quindi lentamente e con indolenza si vestì, senza preoccuparsi dell’eleganza, poi iniziò a vagare per la casa come una sonnambula: cercava qualcosa, ma una fitta nebbia nella mente le impediva di capire bene.
Un silenzio quasi irreale avvolgeva tutta la casa, dei suoi sudditi non c’era traccia, quindi Rubina, dopo aver ingoiato in fretta un caffè nero e forte, aprì un armadio a muro posto in un angolo del ripostiglio dove lei non entrava quasi mai e si decise a cercare quel qualcosa che la tormentava.
Un forte odore di muffa le arrivò subito alle narici: una grande e fitta ragnatela nera sbarrava un ripiano, mentre le tarme avevano dimostrato di gradire molto il sapore di quel legno.
C’erano vecchi libri dalle pagine scollate e poco leggibili, carte sparse, oggetti di cancelleria ormai secchi e consumati dal tempo.
Continuò a cercare e finalmente, in un angolo dell’armadio, trovò un grosso album pieno di vecchie fotografie, appunti, documenti: soffiò sopra e subito si formò una nuvola di polvere grigia che la fece tossire e starnutire, con un panno lo pulì alla meglio, poi, con quel tesoro prezioso, si accomodò nella poltrona della sala da pranzo e si mise a sfogliarlo con lentezza estrema soffermandosi su ogni particolare.
Fu quando gli occhi riconobbero all’istante una vecchia fotografia che ritraeva lei e tutto il gruppo delle sue compagne di classe che i ricordi di quel periodo le vennero incontro senza tregua.
Quando Rubina ebbe compiuto l’età per gli studi superiori, fu mandata dal padre a studiare in una città molto lontana dalla capitale del pianeta Vega: non ne aveva mai saputo il motivo, perché, per una ragazza del suo rango, è più normale essere seguita da un tutore, un professore di alta cultura e con ottime referenze che ogni giorno si rechi personalmente al palazzo reale per dare l’istruzione adatta ad una principessa. Nel suo caso non era andata così, o meglio, fino al diploma delle scuole medie inferiori aveva avuto più di un insegnante privato per la sua formazione, perché, essendo nobile, non erano state trascurate, oltre alle materie umanistiche, anche le attività fisiche, musicali, il galateo. Un bel giorno, però, si era trovata dalla sera alla mattina in un liceo di un’anonima città di provincia, in mezzo a una ventina di sue coetanee di tutti i censi e provenienze.
Era certamente una scuola che garantiva una buona preparazione, ma trovarci lì una principessa era oltremodo improbo.
In quell’ambiente, nessuno sapeva niente del suo rango, per tutti era normale che lei fosse lì per studiare, alloggiata in una grande casa che ospitava gli studenti esterni: ragazzi e ragazze di ceto medio-alto, tutti intenti certamente per imparare, ma anche divertirsi tra loro, organizzare festicciole, raduni, gite fuori porta.
Rubina si rivide là con gli occhi della mente: di solito portava due grosse trecce che le cadevano sopra al grembiule nero col colletto di pizzo bianco, esattamente com’era ritratta in quella foto di gruppo in una giornata dal cielo plumbeo dentro un giardino con siepi piuttosto trascurate e alberi sempreverdi.
Ricordò che teneva sempre nelle tasche dei gessetti colorati e con quelli faceva i disegni sulla lavagna nell’ora di disegno. Le piaceva molto e spesso si sporcava, oltre alle dita, anche il grembiule e il viso, ma era tanto felice delle belle creazioni che riusciva a realizzare, anche se poi di esse non rimaneva traccia, perché, finita la lezione, la lavagna andava sempre cancellata.
“Nessuna traccia…” pensò socchiudendo gli occhi e tenendo il capo reclinato da una parte.
“Non c’è rimasto niente di quel periodo, niente di niente. La mia vita all’improvviso ha preso un corso completamente diverso: quella ragazza che usciva con le amiche e i ragazzi le facevano il filo, chi in modo velato, altri in maniera più sfrontata, è morta e sepolta per sempre.”
Aveva formato un gruppetto forte e compatto con altre tre ragazze, erano inseparabili e insieme si aiutavano anche passandosi i compiti di nascosto, coprendo le assenze ingiustificate delle une o delle altre, facendo scherzi ai bidelli e alla professoressa di Lettere.
“Per colpa vostra ho il sistema nervoso!”, spesso gridava, oppure: “Ho la cervicale, non posso muovere la testa.”
Studiando Scienze, avevano presto capito che quei discorsi non avevano alcuna logica: per essere corretta, avrebbe dovuto lamentare un sistema nervoso disturbato e dolori alle articolazioni.
Di conseguenza le ridevano sempre dietro, specialmente per via di quei grossi occhiali con le lenti molto più spesse di un fondo di bottiglia, che la facevano comunque sbagliare quando leggeva l’elenco dei nomi delle ragazze e anche confondere i loro visi: spesso scambiava una con un’altra, addirittura con qualcuna di un’altra sezione e perfino di quelle che già da qualche anno si erano diplomate, partite, sposate o fidanzate.
Al quinto e ultimo anno di liceo, quando gli odori dell’aria e i primi boccioli facevano presagire l’arrivo della primavera, aveva ricevuto una lettera dal padre che le chiedeva di tornare: “Per una settimana almeno devi venire qui, ho bisogno di te…”.
Questo, in sintesi, era il succo del discorso che Rubina ricordava, quindi, senza alcun timore o presagio, aveva lasciato l’alloggio e col permesso firmato dal proprio genitore era tornata a casa.
Data la sua convinzione che sarebbe rimasta lontana dalla scuola solo pochi giorni, aveva preso con sè solo lo stretto necessario infilato dentro una piccola valigia, lasciando libri e vestiario nella casa dove abitava insieme alle sue compagne di studi.
“Da quel giorno in poi, io sono stata e sarò sempre una persona diversa di quella che fumava di nascosto nei bagni della scuola, passava i compiti alle altre, andava a ballare nei locali alla moda, disegnava piccoli capolavori coi gessetti colorati e a volte anche deliziosi oggetti con la creta.”
Si alzò dalla poltrona e, con gli occhi puntati a terra, vedeva, come in un film, una sua ipotetica vita se fosse rimasta per sempre in quel paese lontano dal palazzo reale.
“Mi sarei sposata, avrei avuto dei bambini, le mie amiche avrebbero fatto lo stesso e ci saremmo ritrovate nel tempo libero a casa di una o dell’altra. Le vacanze estive, gli sport invernali, i club più o meno esclusivi… di certo il mio sangue blu lo avrei dimenticato… forse senza rimpianti. Oppure no?” si chiese fissando la sua immagine nello specchio della sala.
Di fatto, a quei tempi, appena aveva depositato il suo piccolo bagaglio nella reggia della sua casa natale, quasi senza sapere come e perché, si era trovata all’improvviso su un pianeta fino ad allora mai visto né sentito, a navigare su una barchetta sul lago decorato di fiori rossi galleggianti in compagnia di un bellissimo giovane, nientedimeno che il principe ereditario, a notiziarlo che re Vega, suo padre, aveva pensato di farli sposare.
Rubina tirò fuori dal primo cassetto del comò dei cerini e si accese una sigaretta, poi, il film della sua mente continuò a srotolare immagini e ricordi.

“Invece non andò così” disse sottovoce alla sua immagine riflessa nel vetro. “Scoppiò una terribile guerra, altro che matrimonio… ma io…”
Con voce più alta e sicura continuò: “Io ho fatto esattamente ciò che rifarei anche adesso se la stessa situazione si ripetesse. Non voglio bugie né tradimenti. Davanti a questi, solo la vendetta spietata è la giusta soluzione, perché, per simili offese, non ci sono scusanti né attenuanti.”
Finì la sigaretta e la buttò a terra spegnendola con la punta della scarpa: anche in quel semplice gesto, era evidente tutta la sua volontà distruttiva che mai si era attenuata, specie ora che governava da molti anni su Rubi con scettro di ferro e ogni rivolta provocata dai suoi abitanti veniva sistematicamente soffocata nel sangue.
Era ancora immersa in questi pensieri, quando il computer le mandò il solito segnale lampeggiante, quello delle comunicazioni urgenti.
Rubina premette sul pulsante per avere contatto col mittente e un messaggio scritto riportava esattamente queste parole: “Altezza, abbiamo eseguito alla lettera tutti i suoi ordini: duecento insubordinati sono stati giustiziati senza appello.
Con ossequi, Suo devoto e fedele servitore, Il Capo delle Guardie Imperiali.”
La principessa rispose subito in modo succinto e telegrafico, mentre un sorriso soddisfatto le stirava le labbra: “Molto bene. Grazie per la comunicazione.”


FINE
 
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view post Posted on 22/4/2023, 16:45     +1   +1   -1
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REGALI NATALIZI

1_21

Sulla base lunare Skarmoon, Gandal, Zuril e il Comandante Zigra osservavano da vicino le abitudini dei terrestri, i quali, verso la fine di ogni anno, addobbavano gli abeti con palline multicolori e altri svariati materiali luccicanti.
Tutti e tre, per mezzo di un potentissimo e nuovo telescopio, vedevano e commentavano questa strana consuetudine: naturalmente, l’idea che prendeva forma nella loro testa, era di usare quell’innocua e decorativa usanza per ingannarli, sfoderando con l’occasione le loro micidiali armi belliche.
“Non sarebbe una cattiva idea, far recapitare allo studio di Procton una bella scatola piena di palline coloratissime con scritto sopra: “fragile” e un biglietto di auguri per tutti, insieme alla raccomandazione di decorare tutti gli abeti vicini al Centro e alla fattoria. Naturalmente saranno palline ad alto potenziale esplosivo! Ah, ah, ah!!!”
Così si esprimeva il Comandante ridendo sguaiatamente, mentre Zuril e Gandal incassavano il colpo con malcelata acredine, perché questa idea avrebbero dovuto farsela venire loro, non un estraneo, il quale, tra l’altro, se fosse andato a genio al loro sovrano, portava il grosso pericolo che loro due venissero messi alla stregua dei soldati o poco più.
Lady Gandal non aveva nemmeno fatto il più piccolo tentativo di intervenire: era pericolosamente depressa e fuori combattimento, quindi ancora più temibile del solito.
Zigra, intanto, si avviò con passo celere verso gli appartamenti di re Vega e, dopo un leggero colpo alla porta, entrò senza nemmeno aspettare il permesso.
Pieno di boria, superbia e alterigia, scompostamente seduto sulla grande poltrona di velluto verde acido e i piedi taglia quarantasette sopra alla scrivania, espose al re la sua brillantissima idea, il quale, dopo pochi istanti di riflessione si illuminò tutto: era così estasiato che pareva quasi bello.
“Il vostro piano è eccellente Comandante, mettetevi subito al lavoro.”
Sottovoce e con una piega di disprezzo nell’espressione: “I miei funzionari non hanno neppure da lontano un’intelligenza pari alla vostra: fanno fanno, dicono dicono, ma sono buoni soltanto a collezionare sconfitte, insuccessi e umiliazioni.”
Da dietro la porta, Gandal e Zuril ascoltavano il colloquio e, via via che i minuti passavano, una gran rabbia li invadeva. Alla fine, il Ministro delle Scienze decise: “Vedremo cosa porterà questa grande idea, intanto torniamo ai nostri lavori: ci sono centinaia di minidischi da rimpiazzare, due bei mostri che ho disegnato da realizzare. Non ho mai saputo che per conquistare un pianeta, basti fare un regalo con palline colorate, anche se tutt’altro che innocue. Il bello si vedrà solo alla fine: ride bene, chi ride ultimo” concluse Zuril, sfregandosi le mani con perfida soddisfazione.
Gandal era dello stesso parere, quindi lo seguì nella sala dove si svolgevano le progettazioni più importanti.
Stranamente, l’altra metà del Comandante taceva: era un fatto insolito, perché, ogni volta che si presentava alla base un potenziale avversario, lei prendeva subito la parola, zittiva il coniuge e le studiava tutte per rimanere sempre la numero uno.
A onor del vero, Zuril, intendeva usare la sua scienza anche per qualcosa di segreto e molto personale: di nascosto, aveva creato una serie di profumi dalla fragranza insolita e finissima. Voleva fare un regalo a Rubina, appena il tutto fosse stato pronto, l’avrebbe spedito con un apposito missile per posta celere su Rubi.
Con una scusa, lasciò Gandal al lavoro, quindi, si diresse velocemente verso i suoi appartamenti.
“Ecco, ci sono! Che meraviglia, sono un genio. Quando la principessa annuserà queste delizie, non potrà non essermi riconoscente… dalla riconoscenza si passa alla gratitudine… alla fine dovrà per forza cascarmi tra le braccia, e se non funziona nemmeno questo sistema, non so che dire… ma deve per forza dare il risultato che voglio io!”
Allineò sul tavolo una decina di piccole bottiglie, ognuna venne avvolta in un fazzoletto di seta pura, poi le adagiò in una scatola di cristallo; chiuse bene il tutto, lo confezionò con una carta colorata, scrisse “fragile” e l’indirizzo di Rubi, il mittente era la base lunare, ma all’interno, un piccolo biglietto recava la sua firma non molto ben leggibile e piena di svolazzi, contornata da tanti cuoricini rossi e rosa.
Credendo di essere solo, il grande scienziato saltellava tutto contento da un punto all’altro della stanza. Non sapeva che Lady Gandal aveva da poco scovato il sistema di dissociarsi dal consorte, anche se per pochi minuti: in quel momento era proprio lì, nascosta dietro una tenda e aveva visto tutto.
“Bene, è come avevo pensato: ora ne vedranno di scintille” pensò la donna, mentre rientrava silenziosa come un gatto a far tutt’uno con Gandal.
Contemporaneamente, nella sala del trono, Zigra mostrava al re, con dovizia di particolari, le palline colorate che avrebbero dovuto adornare gli abeti terrestri in una precisa zona del Giappone.
“Ecco maestà, io dico di scrivere “fragile” e al centro della scatola “regalo natalizio”: Procton è uno scienziato di fama mondiale, di sicuro non sospetterà nulla, è normale che i suoi colleghi si ricordino di lui durante le festività annuali.”
“Mmm, speriamo… ad ogni modo, teniamoli sempre d’occhio con quello speciale telescopio… sono così sospettosi…”
“Certamente, ma con una bella scatola come questa, piena di addobbi stagionali, che sospetti potranno avere? Posso inviare il tutto subito?”
“Sì, ma prima voglio che mi spiegate alla perfezione come funziona.”
Zigra si accese un sigaro e dopo aver aspirato una lunga boccata di fumo, sempre pieno di boria e con tono più che saccente, esordì: “Appena i terrestri avranno aperto la scatola, capiranno al volo l’uso delle palline; tra l’altro, come vedete, in fondo alla scatola, c’è il disegno di un bell’abete e la spiegazione, anche se non ce ne sarà assolutamente bisogno, perché sulla Terra è un’usanza comune per quasi tutte le nazioni. Dalla base lunare, con un telecomando a distanza, daremo il via all’esplosione.”
“Mmmm… ma questa esplosione, di quale portata sarà?”
“Grandiosa!” rispose Zigra con un sorriso perfido e pieno di superbia che gli arrivava fino alle orecchie appuntite.
“Distruggerà il Centro, quindi?”
“Per forza, e anche i malcapitati che avranno la disgrazia di passare vicino agli alberi addobbati!”
“Mi avete convinto, spedite pure il pacco bomba.”
In meno di un’ora, la scatola regalo volava verso il pianeta Terra.
Il Comandante Zigra, aveva dato lui stesso gli ordini ai soldati per la spedizione: Lady Gandal si era offerta come volontaria per la supervisione e tutti avevano approvato.
Come spuntato dal nulla, apparve Zuril.
“Ho visto che avete ordinato il missile per le spedizioni veloci: c’è anche un mio pacco da mandare via.”
“Cosa devi inviare?” chiese Gandal con uno sguardo sospettoso.
“Cose mie, cose importanti di chimica, va bene? Oh, ma guarda se uno deve rendere conto agli altri di ogni cosa: sarò padrone di fare il mio lavoro in santa pace? Mi intrometto forse nei fatti tuoi?”
“Stendiamo un velo pietoso che è meglio” sussurrò Gandal.
Finito il battibecco, i due pacchi andarono ciascuno al proprio destino: uno sulla Terra, l’altro verso il pianeta Rubi.
Il primo ad arrivare fu il regalo per il dottor Procton.
Rigel gironzolava e ficcanasava da ore nello studio, appena vide quella grossa scatola con tanto di fiocco e carta luccicante, ebbe l’idea fulminea di portarlo alla fattoria.
“Tanto non interessa a nessuno lì dentro… sono tutti persi con gli occhi fissi su quei monitor… lo porto a casa e lo metto sotto l’albero che ho addobbato questa mattina insieme a Mizar. Naturalmente, lo apriremo insieme il giorno di Natale e tutti saranno invitati.”
Il pacco era grande e bellissimo. Venusia e Maria, di tanto in tanto, passavano ad osservare i regali e ad aggiungere i propri: quello all’insaputa di tutti, veniva dallo spazio, stuzzicava a tal punto la loro curiosità che ognuna, di nascosto all’altra, ebbe la tentazione di sbirciare dentro e leggere il biglietto di sfuggita.
“Ohhh, Alcor mi ha fatto la dichiarazione scritta con questo dono, quanti cuori ha disegnato, non ci posso credere!” sussurrò Maria, portandosi una mano alla bocca, mentre il cuore batteva all’impazzata.
“In questo modo, sarà palese a tutti: sono molto felice, ma anche imbarazzata, come farò a nascondere l’emozione?”
Per non pensarci troppo, Maria corse a prendere la sua moto e, a tutto gas, prese la via dei campi. Una corsa solitaria nell’aria fredda, le avrebbe fatto bene.
Venusia stava passando lo straccio umido per tutta la sala e, nonostante si fosse imposta di non aprire nemmeno un pacchetto prima di Natale, come una calamita, la sua mano scostò un poco la carta del famoso regalo: capì subito che il contenuto era una serie di costose bottiglie profumate e subito un sorriso le illuminò il viso.
“Oh, Actarus! Ti sei ricordato di quella volta che ti avevo accennato al fatto che mi piacciono i profumi e che avrei voluto averne tanti per poterli variare tutti i giorni. E’ stato molto tempo fa, però non l’hai dimenticato, te ne sono molto grata” pensò subito la ragazza e, con quella magnifica prospettiva, si rimise al lavoro con energia rinnovata, tanto che, in meno di mezz’ora, la sala brillava come uno specchio.

Sul pianeta Rubi, i soldati avevano fatto recapitare alla principessa, un pacco tutto infiocchettato.
“Altezza, c’è qualcosa per voi, viene dalla base lunare.”
La ragazza alzò di poco lo sguardo dal computer e liquidò subito la faccenda.
“Non ho tempo per guardare nulla, non mi interessa, aprite voi la scatola.”
Il Comandante non se lo fece ripetere due volte, quindi, in men che non si dica, le palline coloratissime giacevano sul tavolo del soggiorno.
Anche gli altri soldati stavano intorno al regalo pieni di curiosità: lessero le istruzioni, quindi pensarono di mettersi subito all’opera. Rubina non avrebbe avuto nulla in contrario se quelle magnifiche palline avrebbero rallegrato le siepi, del resto era stata lei a dire che al momento non poteva occuparsi di cose futili.
Un’ora dopo, l’albero più grande del giardino pensile del palazzo, luccicava come non mai.
Alla base lunare, il potente telescopio tenuto in mano dal Comandante Zigra controllava quando avrebbe dovuto premere il tasto del telecomando per far esplodere quelle micidiali palline decorative, le quali, secondo i suoi calcoli, dovevano già essere appese sugli abeti giapponesi.
Gandal e Zuril gli stavano sempre attorno con aria canzonatoria e l’espressione di uno che gli sta dicendo: “Non è ancora il momento buono? Ma credi davvero che il tuo piano funzionerà?”
Non potendo sopportare un minuto di più le occhiate di scherno di quei due incapaci, Zigra afferrò nervosamente il telecomando e pigiò con forza il dito sul tasto.
“Ecco fatto, tutto a posto! Ora vedremo chi è il più in gamba tra tutti noi!” esplose pieno di rabbia.
Re Vega, intanto, stava contattando Rubina per sapere le ultime novità: sapeva che, da alcune settimane, la figlia si stava impegnando ad un progetto bellico di rara portata e lo faceva tutto da sola, non aveva voluto l’aiuto di nessuno.
“Che ragazza in gamba! Mica per niente, ma è mia figlia, per forza è intelligente! Vediamo se riesco a trovarla… sì, di solito a quest’ora è libera.”
Accese il monitor e, in un secondo, gli apparve sullo schermo un’immagine spaventosa.
“Aiuto! Un mostro ci sta attaccando! L’allarme, devo dare l’allarme!”
Prima di premere il tasto, il re si fermò ad osservare meglio quella strana creatura, perché vagamente gli ricordava qualcosa di familiare e poi gli stava puntando il dito contro.
Quella figura era tutta nera di fumo, dalla cima del capo fino ai piedi e non la smetteva più di tossire: quando si fu calmata, spalancò due grandi e atterriti occhi celesti.
“T… tu… mi… mi… hai quasi ammazzata… cosa ti è saltato in mente di mandarmi quegli oggetti esplosivi? Hai deciso di sbarazzarti di me? Non mi vuoi più? Nemmeno io ti considero mio padre, ti ripudio!!!”
Rubina parlava con voce roca e bassa, mentre si vedeva che, gesticolando, tentava di urlare con tutto il fiato, ma gliene era rimasto molto poco. Era arrabbiatissima, incredula, alla fine chiuse la comunicazione promettendo vendetta.
Su Rubi, era avvenuta una vera tragedia: appena i soldati ebbero finito di decorare il giardino reale, le palline erano esplose all’improvviso, uccidendone una dozzina, altri erano rimasti gravemente feriti, poi era scoppiato un incendio che aveva distrutto il parco e un’ala del palazzo era crollata.
Rubina era abbastanza lontana da quella zona e non aveva corso gravi pericoli, però il fumo era ovunque, e lei ne era la prova.
Nel boudoir di Lady Gandal, il computer acceso riproduceva tutta la scena avvenuta su Rubi e Skarmoon: lei si stava limando le unghie e, con calma serafica, decideva il colore dello smalto da usare.
“Ecco, questo può andare, un bel rosso rubino, tanto per stare in tema.”
Spense il monitor e tutta soddisfatta si adagiò meglio sulla poltrona.
“Tanti auguri Rubina, a te e tutti gli altri.”


FINE
 
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CAPODANNO SOTTO IL MARE

1_261

Una scossa di terremoto porta in superficie una nuova isola così Alcor e Maria fanno un'ispezione. Maria rimane incastrata sul fondo col Delfino Spaziale a causa di una manovra azzardata e presto Alcor, nel salvare la ragazza, si scontra prima con un branco di squali robot e poi con un tremendo mostro.
I due eroi tornano alla base e, dietro indicazione di Procton, tornano sul luogo dell'emersione dell'isola vulcanica dotati di una telecamera il cui scopo è quello di monitorare il fondale.

Al centro si intravedono immagini relative alla base sottomarina di Vega prima che la sonda venga distrutta ma è tutto previsto da Zuril, che intende sfruttare l'inferiorità di Goldrake a quelle profondità.
Actarus e Venusia, coi rispettivi mezzi, si immergono nel fondale dove si scontrano col mostro di Vega e il branco di squali meccanici. Il nemico prevale sul robot di Fleed e la situazione è disperata: dalla base non si può nulla e gli eroi vengono seppelliti da un ammasso di rocce. Actarus spinge Goldrake a tutta potenza rischiando la vita riuscendo a riguadagnare la superfice ed eliminare il nemico.


Questa è la sintesi della puntata n.66 di Goldrake, dal titolo: “Sotto il livello del mare”.
Qui di sotto, riscritta a modo mio.

Mattina del primo Gennaio al ranch Makiba


Mizar stava facendo volare il suo aquilone sotto lo sguardo approvato di Actarus, che lo incitava con queste parole: “Corri più forte che puoi, mi raccomando… ecco, così va bene.”
Il dottor Procton e Rigel sorseggiavano con calma tè giapponese, mentre Alcor e Venusia giocavano a volano; Maria invece, tentava di indossare per la prima volta un kimono.
“Hai perso, Venusia! Mizar, portami inchiostro e pennello, forza!”
“Oh no, abbiamo appena iniziato!”
“Sei fuori allenamento cara, eri tanto brava l’anno scorso, ricordi?”, poi, sogghignando, le sussurrò all’orecchio queste parole: “Tanto brava, al punto da perdere dei colpi di proposito… eh sì, così imbrattata di nero, avevi un’ottima occasione di filartela di nascosto con Actarus, ancora più dipinto di te…”, continuava Alcor con tono e sguardo sempre più maliziosi: “Con la scusa di lavarvi, vi siete chiusi dentro il bagno… poi… non ho mai saputo il resto… se, e come sia stato…”
Venusia divenne di fuoco e, con un’espressione che nessuno le aveva mai visto tanto feroce, gli tirò la pallina con tutta la forza, colpendolo bene in mezzo alla testa.
“Questo è quanto ti meriti, Alcor: come vedi, so prendere ancora molto bene la mira, ed è solo l’inizio, vedrai!”
“Oh, scusa, non te la prendere, in fondo non hai più bisogno di ricorrere a certi trucchetti per restare sola con lui… ormai è tutto alla luce del sole, e quindi…”
Alcor, benchè adulto da un pezzo, non aveva ancora capito quando era il momento di chiudere l’argomento, cioè non gli entrava in testa il detto: “Lo scherzo è bello quando dura poco”, perché subito dopo la sua ultima frase, un’altra pallina gli arrivò in mezzo alla fronte, da parte di Rigel stavolta.
“Non mi piacciono questi discorsi a Capodanno e per tutto il resto dell’anno, siamo intesi?” ringhiò il ranchero coi trentadue denti bene in vista.
“Ma io scherzavo…” disse Alcor tastandosi la nuca e la fronte: due bernoccoli stavano lentamente lievitando proprio in quei punti.
“E io dicevo sul serio!”
Procton intanto, rideva sotto i baffi, mentre Mizar dipingeva un bel cerchio nero intorno all’occhio della sorella confusa e rassegnata. Il dottore, come era nel suo stile, sistemò i vari battibecchi con classe e buongusto.
“Dignità Venusia, indossi il kimono!”
Rigel riprese a conversare con lui, dando fondo alla tazzina del tè, quando una violenta scossa, fece cadere tavolo, tovaglia e servizio di porcellana.
“Aiutooo! Il terremoto! Un’altra scossa, ma quanto dura?” brontolava Rigel da sotto il tavolo rovesciato.
“E’ meglio andare al laboratorio” decise il dottore e subito i quattro ragazzi lo seguirono: Alcor e Maria salirono svelti sulla moto, mentre Actarus e Venusia in automobile con Procton.
Rigel, arrabbiatissimo, gridava e sbraitava saltando: “Venusiaaa, ma non puoi restare con tuo padre almeno a Capodanno?”
Arrivati al Centro, capirono dai collaboratori e dalle immagini sul monitor che era opportuno controllare il fondale marino col Delfino spaziale.
“Bene, vado subito a prepararmi” decise Venusia, Maria la prevenne subito: “E’ meglio che oggi resti a casa con la tua famiglia.”
La comparsa sulla soglia della porta di Rigel inferocito all’ennesima potenza, fece desistere la ragazza, anche se una lieve supplica la rivolse ad Actarus, ma egli negò col capo, poi disse: “Maria, vai tu con Alcor!”
La ragazza salì di corsa a bordo del Delfino, mentre Alcor pilotava la Trivella.
Arrivati sul punto del mare dove il monitor aveva segnalato una presenza sospetta, Maria scese senza esitare, ma, pochi istanti dopo, fu catturata da una rete di grosse alghe.
“Aiuto! Sono bloccata e vicino a me, c’è un mostro!”
“Vengo subito Maria, non temere!”
Alcor si tuffò senza esitare, lasciando la Trivella sugli scogli: riuscì con l’arma a liberare il Delfino e ferire gli squali robot che volevano azzannarlo. Velocissimo nuotò fino alla superficie e appena in tempo raggiunse il suo disco, prima che il mostro di Vega lo aggredisse.
I due fecero subito ritorno alla base e Alcor dovette passare in infermeria, perché quei mostri lo avevano ferito alla gamba.
Nel frattempo, Zuril stava di guardia nella base sottomarina: doveva assolutamente fare in modo che Goldrake arrivasse in quel punto per poi catturarlo una volta per tutte.
“La sua potenzialità sott’acqua è davvero esigua: può venire con tutti i delfini spaziali che vuole, ma nessuno di loro, sfuggirà alla trappola che ho preparato. Sei finito, Goldrake!” dicevano Zuril e Gandal via radio, al colmo della soddisfazione.
Soddisfazione per lo scienziato fino ad un certo punto, però. Da giorni, aveva ricevuto l’invito per lo spettacolo di opera lirica che a Tokio faceva la sua comparsa in modo specialissimo proprio il primo gennaio. Lo spettacolo durava una giornata intera con i migliori musicisti, i cantanti più bravi e conosciuti del mondo, le opere più famose e suggestive, i costumi più ricchi, le scene più belle e curate che si siano mai viste.
Alla fine, aveva dovuto per forza rinunciare con grande rammarico e dolore.
Accidenti, proprio il primo dell’anno, re Vega aveva dato l’ordine perentorio di fare a pezzi, anzi, affogare sotto il livello del mare l’odiatissimo Goldrake? Non che anche a lui non facesse piacere, anzi, ma non si poteva fare il giorno dopo?
Tutti questi pensieri li aveva tenuti per sé, logicamente, ma, mentre Zuril sostava tutto solo nella base marina, il cuore e la mente venivano sempre più spesso rapiti dalla bellezza suggestiva di quel teatro imponente, che gli aveva fatto conoscere i terrestri da un’altra angolazione e, da parte sua, non aveva fatto nulla per impedire che il sipario di questa passione si spalancasse nella sua vita.

Contemporaneamente, nello studio di Procton, i collaboratori segnalavano nuove presenze sospette nel mare. Maria volle di nuovo uscire col Delfino insieme a Goldrake, ma si bloccò sulla porta, appena vide materializzarsi la figura di Venusia nel rettangolo.
“Questa volta andrò io insieme ad Actarus, tu e Alcor resterete qui.”
“E’ pericoloso, Venusia…” tentò di dissuaderla Maria.
“So manovrare molto bene il Delfino Spaziale” le rispose con fermezza, ma senza superiorità.
Dentro di sé aggiunse: “Ho cominciato prima di te sai, per quanto tu sia brava e abile, sei venuta dopo, un poco di umiltà ti farebbe solo bene. La guerra non è una gara per mettersi in mostra e far vedere a tutti la propria bravura, ma una lotta continua tra il bene e il male, ogni attacco è un’incognita, non sappiamo se ne usciremo vincenti e soprattutto vivi.”
“Andiamo Venusia, presto!” le disse Actarus, mentre già si infilava nel lungo corridoio diretto all’hangar.
“Un momento, aspettate” disse il dottor Procton, mostrando loro il video dove appariva il fondale in tutta la sua profondità.
“Goldrake si trova in grosse difficoltà quando è in mare, dovete fare in modo di non scendere oltre i quattrocento metri, più giù potrebbe essere fatale e noi non potremmo venire ad aiutarvi” spiegava il dottore, indicando, col metro posto sopra all’immagine, le misure esatte che i due piloti dovevano rispettare.
“Va bene, andiamo!”
Un minuto più tardi, Actarus e Venusia erano già a bordo dei rispettivi mezzi e scendevano diretti sotto il mare.
Zuril, di vedetta dentro la base marina, gongolava tutto soddisfatto: “Ecco Goldrake! Alghe robot in azione, presto!”
Come era avvenuto poche ore prima con Maria, delle alghe giganti bloccarono Goldrake e Delfino: l’alabarda spaziale le fece a pezzi in breve, ma, subito dopo, un ammasso di pesantissime rocce sommersero i due mezzi bloccandoli completamente.
“Evviva, ci sono riuscito, guarda Gandal, puoi cominciare a stappare una bottiglia, l’anno è iniziato benissimo per noi!”
“Ho visto, è magnifico, questa volta re Vega sarà soddisfatto di noi, la vittoria è nelle nostre mani!”
Goldrake e il Delfino Spaziale, intanto, erano al buio completo e incapaci di muoversi.
Riuscirono comunque a mettersi in contatto col Centro: Procton, preso atto della situazione, potè solo dire: “Noi purtroppo non possiamo venire ad aiutarvi, non arrendetevi, Goldrake deve fare il possibile, usare tutta la sua potenza per uscire.”
“Va bene: Venusia, hai sentito?”
“Sì, ma i cristalli sono rotti e l’acqua sta entrando.”
“Cerca di tamponare come puoi.”
“E’ quasi impossibile, poi mi manca l’aria…”
Actarus stette un attimo in silenzio, poi le disse: “Aziona i motori a tutta forza.”

Nel frattempo, Zuril si stava concedendo un “meritato riposo”: via radio, assisteva in diretta lo spettacolo che si svolgeva a Tokio. Era bellissimo, sembrava di essere lì. Con un sorriso che gli arrivava fino alle orecchie, canticchiava a memoria le note dell’opera: in quel momento, il tenore che stava interpretando la parte di Mario Cavaradossi in “Tosca”, intonava la famosa romanza:

E lucevan le stelle,
e olezzava la terra,
stridea l'uscio dell'orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! Dolci baci, o languide carezze,

mentr'io fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
tanto la vita.


Zuril non potè fare a meno di unirsi a quell’aria così struggente, quindi si alzò in piedi, la mano sul cuore, l’immagine di Rubina nello sguardo e, con un portento di voce fino ad allora sconosciuto, cantò fino a raggiungere il massimo dei decibel.
La base sottomarina ebbe così una forte scossa, un maremoto potentissimo e, in quell’esatto istante, le rocce che imprigionavano Goldrake e il Delfino si smossero: i due veicoli avevano già azionato i motori e, in una manciata di secondi furono liberi di correre fuori nel cielo blu.
“Tutto bene, Venusia?” le chiese subito Actarus con premura.
“Benissimo! L’aria fresca di gennaio è magnifica!”
“Torniamo subito alla base! Siamo ancora in perfetto orario per la festa di Capodanno!” le rispose felice, subito dopo aver distrutto il mostro che li aveva catturati con quelle alghe robot.
Il cielo era in parte coperto e qualche fiocco di neve scendeva sulla Terra, ma, in fondo all’orizzonte, il rosso del tramonto faceva capolino tra le nubi: una visone simbolica per la vittoria appena ottenuta, dopo la tempesta, il cielo si rischiara.
Tutto il ranch Makiba accolse con gioia il ritorno dei due eroi che se l’erano vista davvero brutta.
Rigel invece si comportava come niente fosse, stava col suo kimono blu, disteso sotto il portico.
“Era fredda l’acqua Venusia? Stai attenta a non prenderti un malanno proprio adesso che dobbiamo festeggiare, ora che finalmente ci siete tutti. Quanto mi avete fatto aspettare! Da stamattina non avete fatto altro che andarvene per i fatti vostri, mi avete lasciato solo, se non ci fosse stato Mizar, credo sarei morto di solitudine.”
Alcor e Maria si erano nascosti sotto un enorme drago fatto con stoffa colorata, poi tutti insieme brindarono al nuovo anno appena iniziato.

Zuril, aveva appena fatto ritorno alla base lunare: aveva un’espressione fiera e felice della vittoria che era convinto di avere ottenuto. Ne era così sicuro, che nemmeno si era preoccupato di controllare se Goldrake ancora stava sotto il livello del mare completamente sepolto dalle rocce.
Entrò nella sala del re senza chiedere permesso, dato che per lui era scontato considerarsi quasi al pari del sovrano: finora nessuno era riuscito a catturare, né tantomeno a distruggere Goldrake, e nel suo caso quasi senza colpo ferire. Poi, in questa sua impresa, si era divertito un mondo ad assistere in diretta col teleschermo il lunghissimo spettacolo lirico che si era svolto a Tokio.
Aveva unito l’utile al dilettevole, cosa voleva in più dalla vita?
Rubina, certo! Oh, ma ci sarebbe stato tempo anche per lei adesso, era più che sicuro che presto gli sarebbe cascata tra le braccia come una pera matura. Un uomo di successo come lui era indubbiamente ancora più affascinante di quanto già non lo fosse.
Gandal passò di lì guardandolo male e di sfuggita, mentre Lady Gandal si manifestava in tutta la sua ira, sdegno e livore.
“C’è nessuno qui? Maestà, dove siete? Sono tornato vincitore stavolta!”
Si avvicinò al tavolo, subito la sua attenzione fu catturata dalla visione di una grande busta intestata a lui. L’aprì sorridendo, già immaginava il contenuto della lettera, la quale riportava in calce, queste esatte parole:

Egregio Ministro Zuril,
Vi comunico che il Vostro mandato su Skarmoon finisce oggi stesso.
Questo che vedete, è l’iscrizione della durata di anni tre, per seguire un corso di canto a livello amatoriale. Il corso avrà luogo sul pianeta Terra, nella città di Tokio.
Al termine del corso, dovrete sostenere un esame della durata di giorni sette.
Se verrete promosso a pieni voti, otterrete una borsa di studio per studiare musica, questa volta a livello professionale, con la possibilità di farVi strada nel tortuoso e insidioso mondo dello spettacolo.


In fede,

Re Vega – Sovrano Assoluto di tutte le Galassie conosciute e sconosciute, nonché, dell’intero Universo -

Li, 1 Gennaio 1976.”


FINE
 
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view post Posted on 22/4/2023, 16:54     +1   +1   -1
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PREMONIZIONI

1_262

Nel mattino di un giorno qualsiasi, Actarus, Alcor, Venusia e Maria, stavano davanti al grande schermo del Centro di Ricerche e attendevano disposizioni dal dottor Procton.
“Siccome da molti giorni i miei collaboratori non segnalano presenze sospette, credo sia meglio che Alcor e Maria facciano un lungo giro di ricognizione tenendo gli occhi bene aperti. Sono dell’idea che i veghiani stiano tramando qualcosa di serio, ma in maniera quasi invisibile” disse il dottore aspirando una lunga boccata di fumo dalla pipa.

Dopo una breve pausa, aggiunse: “Dato che hanno installato una base sottomarina, partite col giro per tutta la costa e al ritorno controllerete l’entroterra senza lasciarvi sfuggire nessun particolare. Io resto comunque in contatto con voi, quindi, in tempo reale, sarete in grado di segnalarmi se c’è qualcosa che non va: Actarus e Venusia resteranno qui, pronti ad intervenire all’occorrenza.”
“Tutto chiaro. Andiamo Maria, non perdiamo tempo.”
La ragazza l’aveva preceduto infilando di corsa il lungo corridoio e in breve era già salita sulla Trivella Spaziale.
“Muoviti, sei sempre in ritardo!” gli disse lei in tono sarcastico.
“Lo vedremo, chi è il più svelto!”
Alcor andò al posto di guida del Goldrake2, accese i motori a tutto gas e si lanciò nel cielo turchino.

Dopo un’ora di volo, Maria cominciò a subissare Alcor di domande sui suoi problemi personali.
“Alcor, perché mi trattate tutti così?”
“Così come, Maria?” le rispose dopo un lungo sbadiglio.
“Come non fossi adulta, non avete fiducia in me e io ne soffro tanto.”
“Ma no… che significa questo? E’ vero che la tua età anagrafica non può ancora considerarsi adulta, però Venusia ti stima moltissimo e tiene molto a te.”
“Ma che c’entra questo? Io intendevo ben altra cosa. Tu e mio fratello, mi trattate come una bambina, non mi lasciate prendere iniziative, avete sempre paura che mi succeda qualcosa, raccomandazioni, divieti, consigli. Uffa!”
“Veramente le iniziative le hai sempre prese tu da sola e molte volte siamo dovuti correre noi tre a toglierti dai guai, se ben ricordi.”
“Non cambiare discorso, adesso. La verità è che ti dà fastidio che io abbia una spiccata potenzialità ai poteri ESP, questo mi rende superiore a te, ti ho salvato la vita ben due volte; essendo fleediana ho tante altre qualità che non ti sto ad elencare per intero, perché una giornata intera non basterebbe” rispose Maria in tono piccato e con un’espressione di superiorità in viso.

Alcor, dal canto suo era rimasto basito: per ben due volte aveva tentato di aprire la bocca, voleva rispondere per le rime a tutte quelle assurdità, ma non gli venivano le parole.
Il terzo tentativo andò meglio.
“Maria, intanto se tu hai queste doti superiori a noi terrestri, non posso fare altro che essere felice per te, e te lo dico sinceramente. Ti faccio però notare che, se tu ora ti fai un vanto di avere la facoltà precognitiva, al momento in cui la stessa si manifestò, tu la rifiutasti come fosse la peggiore delle disgrazie. Mi fa piacere che ora tu abbia cambiato idea, però devi ammettere che sempre negavi l’esistenza di questa cosa, solo ad accennare l’argomento scappavi via come un fulmine, ripetevi che non era vero, che volevi essere una ragazza come tutte le altre, quindi suppongo intendessi dire, come una ragazza terrestre. Sbaglio?”

Silenzio di tomba per molti secondi.

“Mmm… in un certo senso è così, però spesso faccio strani sogni che mi lasciano un ricordo indelebile per alcuni giorni, unito a strani presentimenti che poi si avverano. Alla fine, ho accettato questa cosa. Poi, sai che ti dico? Mi diverto a fare le carte per indovinare il futuro e sempre ci azzecco!”
“Bene, allora dimmi, cos’hanno detto i tuoi tarocchi per questa giornata?”
“Niente, non faccio consulti ogni giorno, dipende dalla disposizione del mio animo” rispose Maria con un tono adulto e un tantino saccente.
“Ho capito. Ad ogni modo, è vero che mi hai salvato la vita almeno due volte e te ne sarò grato per sempre. Bene, ora che ci siamo chiariti continuiamo il nostro giro.”

Re Vega intanto, aveva mandato sulla Terra Gandal per cercare del vegatron: un loro satellite aveva segnalato una presenza importante nei pressi del Giappone, in un luogo poco abitato.
Il Comandante scese dalla nave madre, e camminando, andò nella direzione di una grande casa in mezzo ad un bosco. Doveva trattarsi dell’abitazione di un qualche scienziato, certamente ne aveva una grossa scorta per studiarla: era necessario impadronirsene al più presto.
Gandal si avvicinò alla villa e si accorse che non c’era nessuno. Entrò con cautela e senza far rumore. Aveva con sé il radar che gli segnalava il punto dove il prezioso materiale si trovava.
La porta a vetri che dava su una grande sala era solo accostata: l’aprì e con lo strumento cercò in ogni angolo della casa. Il segnale cominciò a lampeggiare nei pressi di una camera da letto.
Il comandante entrò e nella penombra il radar vibrava sempre di più.
“Che strano… un materiale del genere dovrebbe essere in uno studio, un laboratorio… forse è qui provvisoriamente. Bene, ora devo trovarlo!”
Gandal aprì tutti i cassetti e l’armadio: velocemente buttò a terra il contenuto. Ancora nessuna traccia di vegatron, accidenti!
“Ma ora lo trovo, è questione di secondi, il mio radar non sbaglia mai!”

Dalla porta della cucina, la padrona di casa era entrata con due borse colme di spesa. Posò sul tavolo il contenuto, poi decise di cambiarsi d’abito per iniziare le faccende domestiche.
Si tolse le scarpe col tacco alto e scalza entrò nella camera.
La scena che registrò la retina dei suoi occhi, mandò un immediato impulso al cervello, un ordine di fare a pezzi, massacrare quell’orribile individuo che toccava la sua roba, i suoi vestiti, gli oggetti personalissimi. Non era tanto la sensazione di un ladro in cerca di preziosi, quanto un lurido, sporco bastardo che si era preso tale licenza.
Afferrò un sandalo dal grosso tacco di dodici centimetri e con quello prese a colpire con tutta la forza e dove capitava quella creatura celeste scialbo, col preciso intento di cambiare la triste nuance, in un bel blu elettrico più vivo e brillante che mai.
“Prendi, porco animale, bastardo schifoso! Ti ammazzo sai? Lascia subito questa casa, vattene imbecille, quella è roba mia, chi ti ha detto di toccarla? Mi fai schifo, ti odio, ti riduco in polpette per cani, ti faccio a fette, ti friggo in padella, sparisci subito, se non vuoi finire dentro l’inceneritore!”
La donna era in preda ad una rabbia tale che aveva la bava alla bocca, gridava con tutta la sua voce, l’adrenalina le aveva messo una forza fisica ben al di sopra delle sue reali capacità.
Gandal era stato preso alla sprovvista perchè non l’aveva sentita entrare, tutti quei colpi lo stavano massacrando ed era incapace di difendersi, quindi da vero cavaliere, pensò bene di uscire dalla scena e far salire su quel teatro di violenza, la sua dolce metà. Si chiuse bene a chiave con tripla mandata e Lady Gandal subì un terribile martirio. La sua pelle chiara e diafana, fu ben presto costellata da chiazze bluastre, gli occhi cerchiati di rosso vermiglio, la fresca pettinatura un groviglio di nodi inestricabili, l’abito nuovo in pura seta, ridotto a striscioline.
In una frazione di secondo in cui la terrestre aveva allentato la presa, riuscì miracolosamente a fuggire in giardino, quindi scomparve nella polvere. Velocissima rientrò nella nave macinando improperi e promesse di vendetta all’indirizzo del consorte, e filò dritta come un fuso alla base lunare.
Si mise in contatto col sovrano per notiziarlo: “Missione fallita, maestà” e chiuse subito senza attendere risposta.

Dal laboratorio di Procton intanto, venivano mandati messaggi continui ad Alcor e Maria.
“Attenzione, ci sentite? Abbiamo avvistato la nave di Vega in prossimità di un bosco, correte subito a controllare!”
Niente – nessuna risposta. A quel punto, Actarus e Venusia si precipitarono coi loro mezzi nel luogo indicato dal monitor.

Come mai i due piloti non sentivano i messaggi via radio? Semplice: stavano di nuovo litigando con toni molto accesi, ed erano scesi a terra.
“Ti dico che non puoi pretendere di usare la mia Trivella! E’ mia e solo mia, l’hanno costruita apposta per me!”
“Mi stai dicendo quindi che, se tu per caso sei ammalata o lontana, dobbiamo lasciarci fare a fette dai veghiani perché il tuo velivolo – progettato e costruito da Procton e collaboratori, tra l’altro – è solo tuo, proprietà privata, guai a chi lo tocca sennò suona l’allarme, si rovina, eccetera, eccetera…”
“Esatto, proprio così!”
“Ti faccio presente, cara Maria, che la tua prima uscita in campo è stata col mio Goldrake2! Ti ricordi? Non te l’ho certo impedito, anzi!”
“Per forza, stavi a letto mezzo morto con la testa fasciata!”
“Appunto! Ma lo stesso potrebbe succedere a te!”
“Impossibile! Io sono fleediana, ricordi? Sono superiore, nulla di tutto ciò potrà accadermi.”
“Vedremo! Per adesso finiamo il nostro giro.”
Alcor si accostò al suo disco e vide una lunga lista di chiamate dal Centro.
“Pronto? Pronto… ci avete cercato?”
Rispose Hayashi: “Sicuro, da più di mezz’ora! Ma dove siete? Per caso, la zona non riceve?”
“Ehm… sì, esatto, non c’è campo, ma cosa dovevate comunicarci?”
“Abbiamo avvistato la nave di Vega, ora Actarus e Venusia sono corsi sul posto, per ora non ci sono novità.”
“Ho capito, provo a contattarli io.”

“Non guardarmi in quel modo, Alcor! Non ho sentito pericoli, i miei super poteri non mi hanno comunicato niente” attaccò subito Maria nello stile di tutti i colpevoli, i quali, sapendosi nell’errore, si difendono prima ancora di venire accusati.
“Pronto, Actarus? Dove siete? Sul litorale ad est? Ah, vicino a noi allora. Niente da segnalare? Avete bisogno? No? Bene, vi aspettiamo qui.”

Base Lunare Skarmoon

I coniugi Gandal, appena parcheggiato, corsero in infermeria e lì rimasero un paio di ore.
Uscirono zoppicando e tutti incerottati: lentamente bussarono alla porta della sala del trono. Vega li stava aspettando.
Appena li vide così conciati, si alzò dalla poltrona e li osservò con aria incredula.
“Cosa… come… cioè, perché… perché siete così?” domandò a bassa voce e tono apprensivo.
“Ecco maestà… ci hanno aggredito.”
“Che significa?”
“Significa che, molto probabilmente, ci hanno creduto dei ricchi signori pieni di denaro e gioielli, noi non eravamo preparati all’aggressione… ad ogni modo erano un bel gruppo di delinquenti, noi solo due… cioè, due è una parola grossa, insomma, alla fine siamo riusciti a fuggire e salvarci per miracolo.”

Il re non parlò per lunghi minuti, osservandoli senza posa.
Dalla porta laterale entrò Zuril, li osservò attentamente, poi disse: “Avevo fatto un brutto sogno premonitore su voi due, ma non ho fatto in tempo a dirvelo, perché eravate già partiti. Ad ogni modo siete salvi, questo è ciò che conta in fondo.
Maestà, se permettete, lascio sul vostro tavolo queste carte.”
Si congedò dopo un breve e ossequioso inchino.

“Non sapevo che il nostro Ministro delle Scienze, fosse diventato anche chiaroveggente!”


FINE
 
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