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Luce's fanfiction gallery

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view post Posted on 22/4/2023, 19:12     +1   +1   -1
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Professore della Girella

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TEMPI MODERNI

1_269

La montagna altissima di fieno appena tagliato, era stata messa sul carro da Rigel a tempo di record.
Non che gli fosse venuta la voglia matta di lavorare, ma la rabbia che gli era montata dentro quel giorno, l’aveva obbligato a sfogarsi in quella maniera.
Non solo sua figlia si era presentata nel mezzo del cortile con una nuova minigonna tanto corta e indecente, no, anzi! Si era pure messa in mostra davanti a tutti facendo una specie di sfilata, e Mizar l’aveva lodata e approvata per il suo nuovo look, quanto ad Actarus… beh, lasciamo stare, il suo sguardo ammirato non gli era piaciuto per niente, il solo pensiero gli faceva ribollire il sangue nelle vene e salire la pressione a livelli preoccupanti.
Solo contro tutti era, ecco! Aveva gridato e sbraitato tanto senza ottenere niente, quindi era corso in cucina per bere qualcosa, visto che ad arrabbiarsi in quel modo gli si era seccata la gola.
Ad un tratto, il suo sguardo era stato catturato da una busta che aveva visto sulla credenza…

“Che cos’è? voglio vedere, non saranno i soliti conti da pagare, spero… no, è strano, sembra profumata, vediamo cosa dice. C… cosaaa? E’ per Venusia? E chi gliela manda? Ci sono tanti cuori stampati sopra e poi…”

Sulla busta, c’era scritto: “Per Venusia – Top Secret – Privatissimo - Vietato aprire.”
“Vietato guardare, eh? Si capisce, deve essere un suo ammiratore, adesso lo sistemo io, lo faccio a pezzi, sono suo padre e ho il dovere di leggere questi messaggi di certo indecenti e scandalosi! Credo già di sapere chi è stato.”
Tutto un fremito, Rigel aprì la lettera e subito lesse, scritto a caratteri cubitali in rosso vermiglio: “CURIOSONE! Ci sei cascato, eh? Ih, ih, ih!”.

In mezzo alle scritte, tante emoticons piene di allusioni.
Coi denti stretti e pieno di rabbia, buttò il foglio a terra saltandoci sopra, pestandolo con tutta la forza. Dalla porta socchiusa, Alcor aveva visto la scena ridendo a più non posso, cercando di non farsi sentire. Lui e Mizar erano i due autori dello scherzo riuscito benissimo.
“Ci vorrebbe una cinepresa”, pensava Alcor “questa è una scena da immortalare.”

Era decisamente una giornata no per il povero ranchero, tutti lo avevano più o meno implicitamente accusato di essere retrogrado e con le idee fuori moda. Nella mattinata aveva tirato fuori una mitragliatrice preistorica e con quella, aveva avuto l’ardire che sarebbe stato capace di spaventare tutti i veghiani, sì, sarebbero fuggiti nello spazio soltanto a vederla da lontano.
“Vedrete, con questa salgo sulla mia torre di controllo, appena spunta un minidisco gli sparo, dopodichè, il mostro che lo segue, scapperà lontanissimo, nessuno oserà mai più avvicinarsi a noi.”
Inutile dire che i suoi figli gli avevano riso dietro senza farsi scrupoli, Alcor era uscito con una battuta al vetriolo e Actarus se ne era andato senza dire niente: con quel silenzio aveva già detto tutto.
Era inutile: Rigel non capiva niente di capi all’ultima moda, né di armi belliche. Tutti lo pensavano e glielo dicevano a chiare lettere.

Decise quindi di andarsene lontano a cavallo del suo purosangue: una corsa solitaria nella prateria gli avrebbe fatto bene, solo gli animali potevano capirlo, tutti gli altri erano ingrati e tanto maleducati.

Incredibile a dirsi, ma anche sulla base lunare succedevano fatti simili.

Il Comandante Gandal era entrato nello studio dove lavorava insieme a Zuril; appena acceso il computer, si era accorto che vicino al suo tavolo c’era una grande busta chiusa con scritto sopra:
“Per il Ministro Zuril - Privatissimo – Formule segrete”.
“Formule segrete, eh? Hai capito, hanno mandato queste cose solo a lui perché possa fare carriera, così io rimango di molti gradini più in basso.”
“Apriamolo subito Gandal, deve ancora nascere quello che può dire di averci fatti fessi!” intervenne prontamente la sua dolce metà.
“Anche se è sigillata, conosciamo il sistema per aprirla e richiuderla senza che si conosca niente.”
“Lo so da solo come si fa, lasciami fare” le rispose lui con un moto di fastidio.
Una volta aperta la busta con perizia, i due coniugi lessero avidamente il contenuto che diceva:

NUOVA FORMULA PER DISINTEGRARE LE SPIE E I COMANDANTI ANTIQUATI

50 gr di Comandante Gandal
50 gr di Lady Gandal
70 gr di Vegatron
30 gr di Impiccioni
35 gr di Curiosoni
50 gr di Traditori
20 gr di Bastardi
50 gr di Fessi
90 gr di Alcol purissimo

Mescolare bene gli ingredienti, frullare il tutto alla massima potenza, mettere il liquido in parti uguali dentro una formazione di minidischi e spedirli in missione vandalica sulla Terra.

Dalla sua camera, Zuril si godeva lo spettacolo in diretta del video, dato che in precedenza aveva sistemato una telecamera nascosta nella stanza ricerche.
“A posto! Stasera lo mando a re Vega che ora si trova su Rubi per aiutare la figlia. La rivolta appena scoppiata richiede strategie intelligenti per essere soppressa, di sicuro dovrò andare là per aiutare… resterò solo con la principessa… notti di fuoco mi aspettano…”
Zuril si accomodò meglio sulla poltrona e continuò la sua riflessione.
“Le mie nuove formule strategiche appena collaudate si trovano al sicuro in un posto che so io…” Un sorriso ambiguo lo illuminò tutto.
“Ho anche trovato il modo per far cadere ai miei piedi tutte le donne che voglio… so come fare a conquistare in un colpo tutti i pianeti… sono un genio, e non è certo una novità.”

I coniugi Gandal intanto, meditavano vendetta. Avevano subito capito chi era l’autore di quello scherzo sadico e cattivo, ma loro non erano certo di pasta buona, sentirsi in ridicolo in quella maniera li aveva fatti imbestialire.
“Cosa facciamo, dobbiamo farla pagare a quello là, chi si crede di essere! Brutto verme schifoso e repellente, vigliacco!”
Lady Gandal era la più inviperita, quindi disse: “Cosa dici se gli facciamo un bello scherzo mentre dorme? Sì, infiliamo delle gocce di sonnifero nella tisana che beve ogni sera, e mentre si trova nel mondo dei sogni, gli facciamo un bel trucco femminile molto marcato. Quando si presenterà così conciato davanti al sire e Sua Altezza, ci sarà da ridere!”
“Mmm, l’idea sarebbe anche buona, ma quel vanesio, prima di uscire, passa molte ore ad ammirarsi davanti allo specchio, se ne accorgerebbe subito.”
“Gli facciamo il sacco nel letto come qualche estate fa? Ci siamo divertiti la faccia, ti ricordi?”
“Mi ricordo anche quanto re Vega si arrabbiò con tutti noi per via dello scherzo! Voleva mandarci via! No, non va bene, poi quello è cosa da poco, lo fanno i bambini, per quella brutta bestia ci vuole un colpo basso, molto più basso di quello che ci ha fatto lui.”

Sentirono un rumore di passi nel corridoio. Zuril aveva fatto i bagagli e stava per partire: destinazione pianeta Rubi. Si era profumato in un modo così terribile, che tutti gli insetti vaganti nella base, erano rimasti stecchiti. Peggio di ogni veleno, accidenti!
In ogni sua mossa, si poteva indovinare la frase: “Sono il meglio, il più bello, il più intelligente, il più bravo…”
“Anche il più scemo” sussurrò Lady Gandal.
“Ho un’idea!”
“Credo di aver capito.”
“Davvero?”
“Sì, hai pensato di mandare un bel messaggio al nostro sovrano, giusto?”
“Adesso mi leggi anche nel pensiero?”
“Beh, siamo una cosa sola!”
“E allora, via!”

Mentre Zuril atterrava su Rubi, re Vega leggeva questa lettera:

Sua Maestà, Grande Sire,
i Vostri devoti e fedeli servitori, hanno il dovere di metterVi in guardia circa alcuni atti gravissimi che stanno per attentare la Vostra incolumità, nonché quella di Sua Altezza, la principessa Rubina.
Il Ministro delle Scienze, dentro quella scatola che sta per portarVi, ha messo un potentissimo spray in grado di farVi perdere i sensi in un istante. Il suo scopo è quello di attentare la virtù e l’innocenza della Vostra amatissima erede, averla per sé con l’inganno e prendere il Vostro posto.

Abbiamo scoperto molti altri tradimenti che non stiamo per ora ad elencare, definire questi sabotaggi col reato di Lesa Maestà è un eufemismo.
Inoltre, ha copiato da noi alcune scoperte nuove e importanti facendole passare per sue invenzioni: come non bastasse, ha accusato me e la mia consorte, di essere con una mentalità ancora allo stato primitivo, lui invece… Vi potete immaginare quanto si sia esaltato.

Sempre a Vostra disposizione per altri dettagli,
i Vostri fedelissimi servitori



Comandante Gandal Lady Gandal


FINE
 
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PRIMA DEL PIANETA BLU

2_68

L’idea di scrivere questa storia, ha preso forma da un fumetto di Goldrake che avevo letto molti anni fa.
Il racconto è stato inventato di sana pianta dagli autori, non c’entra niente con la realtà dell’anime.
Ad ogni modo, visto che l’esilio del principe di Fleed prima di arrivare sulla Terra è durato quattro anni, credo che in questo lunghissimo lasso di tempo, più di una sosta planetaria ci sia stata.


In un assolato pomeriggio di aprile, Actarus e Mizar avevano deciso di comune accordo di dedicarsi al giardinaggio: le piante erano cresciute moltissimo, quindi andavano travasate in vasi più capienti insieme al nuovo terriccio.
“Ti ricordi Actarus, hai promesso di raccontarmi la storia di quella principessa…”
“Oh, ma sei implacabile, Mizar! E va bene…”

La Stella Antares brillava di luce propria e mi attirava come una calamita. Erano molti giorni che viaggiavo senza una meta precisa, decisi quindi di fermarmi lì.
Atterrai in una città molto grande, era la capitale. Sapevo che era governata da una monarchia, come lo era stato il mio pianeta d’origine: in passato avevamo avuto qualche sporadico contatto diplomatico con loro.
Appena toccai il suolo, vidi venirmi incontro una ragazza bellissima dai lunghi capelli biondi. I suoi occhi verde mare mi guardavano implorando una muta supplica. Si comportava come mi conoscesse, quasi ci fossimo dati appuntamento.

“Ti aspettavo, principe di Fleed…”
“Come? Noi non ci siamo mai visti” le risposi sbalordito.
“Lo so, ma io e gli abitanti di Antares, abbiamo seguito per filo e per segno la tua tragica vicenda.”
Abbassò gli occhi imbarazzata, poi continuò con voce sommessa.
“La tua stella è stata distrutta dai feroci sicari di Vega… la tua famiglia… il tuo popolo… ohh!” disse portandosi una mano alla bocca, poi alzò lentamente lo sguardo verso di me e proseguì.

“Il feroce re Vega vuole sottomettere anche il nostro pianeta, qualche suo disco bellico ha già bruciato i nostri campi e alcuni paesi ai limiti della città. Agisce così per farci paura, per mandarci via, ma io non voglio… e così…”
Si fece coraggio e proseguì: “Da alcuni giorni sembra ci sia una tregua che io ritengo solo apparente, quindi, quando il mio computer ha segnalato l’arrivo del tuo disco, ho subito pensato che fossi venuto qui in nostro aiuto. E’ così, vero?” chiese lei supplichevole, congiungendo le mani come stesse formulando una fervida preghiera.

Prima di risponderle, volli osservare bene il luogo dove mi trovavo. Davanti ai miei occhi vidi subito la reggia: era molto grande e ben diversa da quella dove ero vissuto io. Un vasto edificio tutto a forma di torri in varie dimensioni di colore bianco azzurrognolo. La strada che conduceva al portone centrale era a curve e leggermente in salita. Ai lati sorgevano delle siepi molto basse e l’erba cortissima era di un verde diverso da quella che ero abituato a vedere; molto più chiara e brillante. C’era un laghetto pieno di ninfee dove nuotavano le anatre. Sembrava un posto disabitato, non c’erano rumori, l’aria era immobile.

“Ti prego di scusarmi… non mi sono ancora presentata” disse lei, accorgendosi solo in quel mentre che aveva parlato di corsa e non aveva osservato l’etichetta che i rispettivi ruoli richiedevano.
Gli tese la mano bianca e affusolata e gli disse fissandolo negli occhi: “Mi chiamo Myra e sono la principessa di questa stella. Entriamo nel palazzo.”

Il portone era solo accostato e in ogni stanza regnava la penombra. Nessuno ci ricevette, sembrava un palazzo disabitato, benchè il perfetto ordine che regnava nei locali denunciasse la costante e molteplice presenza di domestici.
Come avesse intuito la mia perplessità, si affrettò a spiegarmi la situazione.

“Questo è il salotto, accomodati dove vuoi” disse lei indicando con la mano un divano e delle poltroncine di seta color oro antico.
Si trattava in realtà uno dei numerosi salotti del castello, quello era il più piccolo e intimo della casa, il più adatto a ospitare due persone che ancora devono conoscersi e parlare di questioni di vitale importanza.
Nel mezzo di quella stanza quadrata, c’era un tavolo di vetro molto grosso e delle sedie in stile semplice ed essenziale.
Dal mobile bar, Myra prese una bottiglia e versò un liquido denso di amarena in due bicchieri. Mentre lisciava con le mani le pieghe del lungo e ricco abito di seta pesante di un rosa molto acceso, si decise a parlare tenendo lo sguardo fisso sul pavimento di legno scuro.
“Dopo l’attacco di cui ti parlavo prima, i miei genitori hanno deciso che sarebbe stato meglio per loro allontanarsi per un certo periodo… io invece sono rimasta. Sono voluta rimanere qui a tutti i costi a difendere la mia patria, anche se in realtà non saprei come. I miei due fratelli sono andati via da alcuni anni e ci sentiamo di rado.”
Tacque subito dopo. Era chiaro che gli argomenti trattati erano per lei molto pesanti e difficili, soprattutto in quel momento.

“Cosa è poi successo?” chiese Mizar con impazienza, mentre portava con fatica un grandissimo vaso di terracotta.
“E’ successo che, il giorno dopo, alcuni dischi provenienti da Vega hanno fatto di nuovo la loro comparsa. Non si aspettavano di trovarsi ad aspettarli il mio robot, quindi, dopo averli distrutti, non se ne sono più visti altri. La famiglia della principessa è tornata a casa e da quel momento sono vissuti sempre felici e contenti.”
“Tutto qui?” chiese Mizar piuttosto deluso dalla piega che aveva preso la storia. Si sarebbe aspettato un racconto fantascientifico pieno di mostri giganti, esplosioni spettacolari, tradimenti, colpi di scena inaspettati, lacrimosi addii…
“Tutto qui, certo. E adesso finiamo di sistemare questo vivaio prima di sera, d’accordo?”
Il bambino tacque e obbedì piuttosto scontento. Sentiva che c’era molto di più, un fitto e intricato mistero impalpabile, ma pur vivo e presente.

Aveva visto giusto infatti, ma quei fuori schermo, nemmeno Actarus li aveva potuti vedere, eppure c’erano stati e nel tempo l’avevano toccato da vicino. Molti personaggi che avrebbe poi incontrato sulla Terra come nemici inviati da Vega, erano passati proprio da Antares seguendo delle lunghe e spesse trame assai complicate.

La Famiglia Reale di Antares


“Ho vinto io anche questa volta!” disse Myra tutta trionfante, scrollando i lunghi capelli.
“Diciamo piuttosto che ti ho lasciata vincere, è il giorno del tuo compleanno, no?” le rispose Mal, il fratello maggiore.
“Cosa intendi dire? Che il premio ricevuto in quella famosa gara di fioretto, è stato per farmi un favore?” lo provocò lei, fissandolo con occhi scintillanti e le guance rosate per la gioia e lo sforzo appena compiuto.
I due ragazzi si erano allenati di prima mattina nella grande palestra posta nel seminterrato del palazzo reale.
Myra era una ragazza spigliata e moderna, poteva considerarsi a ragion veduta, una Lady Oscar aliena dei giorni nostri. La sua passione per lo sport non offuscava affatto la sua femminilità: poteva portare con la stessa disinvoltura gli abiti principeschi e quelli maschili da equitazione, senza che la sua grazia innata venisse a meno.
“Esiste anche la fortuna dei principianti” continuò il fratello senza darsi per vinto, col preciso intento di farla arrabbiare.
“E’ vero, ma quattro anni di allenamenti continui, non ti sembrano troppi per considerarmi ancora una principiante?”
“Dipende…” abbozzò lui con un sorriso ambiguo.
“Vuoi sempre avere ragione tu. Ma invece la più brava sono io!”

Il piccolo battibecco venne interrotto dal segnale lampeggiante che videro sullo schermo.
“Il dovere ci chiama, anzi, i nostri genitori reclamano la nostra presenza, andiamo; per oggi abbiamo fatto abbastanza qui, dobbiamo farci belli per la festa di stasera mia cara. Eh sì, non solo si festeggia il tuo compleanno, ma anche il tuo ingresso in società, quindi è ora che cominci a darti una sistemata, il tempo vola!”
“Anche tu devi darti una sistemata, sai che ne hai molto bisogno?” gli rispose la sorella con lieve impertinenza nella voce e un sorriso di scherno.

Entrarono nello studio del padre, dove entrambi i genitori li attendevano con trepidazione.
“Abbiamo appena ricevuto le conferme per la festa di stasera. Verranno tutti, tranne i sovrani di Fleed, i quali ci hanno appena mandato una lettera dove si scusano moltissimo, ma hanno una lunga lista di impegni importanti e improrogabili” disse la madre con un lieve sorriso.
“Però, vostro fratello Roy, ci ha appena comunicato che sarà qui puntualissimo” precisò il padre molto soddisfatto. Tutti i visi si illuminarono di gioia alla notizia.

I tre fratelli si somigliavano molto fisicamente: i due maschi avevano dei folti capelli biondo scuro, gli occhi verdi. Myra aveva dei colori leggermente più chiari, l’incarnato avorio ereditato dagli avi materni.
Erano molto uniti, nonostante le piccole schermaglie e battibecchi che ogni tanto si concedevano: del resto, non sfociavano mai in vere liti, anzi, erano sempre pronti ad aiutarsi in caso di necessità.
Roy era il maggiore: un carattere estroverso e portato all’avventura. Aveva scelto la carriera militare, quindi la maggior parte dell’anno la passava fuori casa e quando tornava era pieno di novità e regali per tutti.
Mal era il secondogenito e fin da bambino aveva dimostrato la passione per i numeri: teneva i conti con una precisione certosina e riusciva a sistemare tante pendenze. L’informatica non aveva mai avuto misteri per lui.
Myra era piena di interessi, non stava mai ferma. Era capace di alzarsi all’alba e decidere di aiutare in cucina, poi correva in biblioteca dove si perdeva per ore e ore a leggere senza sosta. Gli sport maschili, l’equitazione e perfino il giardinaggio l’attiravano come una calamita.

I genitori avevano pensato di organizzare una festa speciale per i suoi diciotto anni. Sapendola così attiva e piena di vita, avevano esteso l’invito a molte nobili famiglie delle vicine costellazioni; speravano in un vicendevole scambio di ospitalità, viaggi, nuove culture.
Avevano aderito un centinaio di persone, e del resto la stagione era ideale. L’estate era alle porte, il clima giusto, si potevano mettere i tavoli nel grande patio all’aperto che era nel centro del castello.
Sarebbero arrivati nel tardo pomeriggio e per chi lo avesse desiderato, l’invito sarebbe continuato per tutto il fine settimana.

L’abito di Myra era tutto bianco e soffice come una meringa. Era il classico modello per le ragazze che iniziano ufficialmente la vita in società. L’aveva disegnato lei, poi era andata dalla sarta e le aveva spiegato nei dettagli come lo voleva: spesso andava a controllare come procedeva il lavoro, aveva paura che non corrispondesse ai suoi desideri. Ci teneva tanto a quel giorno, voleva che tutto fosse perfetto… perfetto come il filo di rarissime perle che aveva ricevuto in dono dai suoi genitori e che ora le adornavano il lungo collo di cigno.

Gli invitati cominciarono ad arrivare. La famiglia reale al completo, li attendeva sui primi gradini del castello. Ad uno ad uno, si sarebbero presentati con un lieve inchino.

Il ricevimento

Tutti gli invitati arrivarono puntuali portando ognuno almeno un regalo. Erano molto eleganti, quell’eleganza tipica dei nobili, dall’apparenza semplice e senza fronzoli, ma che in realtà è molto fine e ricercata.
La cena si svolse con elegante rapidità. Il lieve suono di un’arpa che li accompagnò fino alla fine, fu molto gradito da tutti.
Finto di mangiare, lasciarono il patio e uscirono nell’immenso giardino che circondava tutto il castello.
C’erano anche alcuni parenti della famiglia reale, i quali ebbero così modo di conoscere i regnanti delle stelle vicine.
Il grande parco era stato decorato con una moltitudine di lampioncini colorati appesi agli alberi; dappertutto c’erano piccoli tavoli rotondi in ferro battuto e in un angolo, una piccola orchestra allietava la serata. Non era stato allestito un ballo vero e proprio, ognuno doveva sentirsi libero di svagarsi come preferiva, soprattutto avere l’opportunità di conoscere gente nuova.
Anna e Carlo, i due cugini alla lontana di Myra, nonché complici di ogni genere di giochi e avventure fin dalla più tenera età, le corsero incontro e si fecero grandi feste: durante la cena erano stati piuttosto lontani e si erano salutati velocemente.
“Ciao, carissima! Benvenuta tra gli adulti!” le dissero in coro i due fratelli ridendo. Loro erano di pochi anni più grandi di lei.
“Era ora, finalmente! Adesso potrò fare tutto quello che mi pare e piace” disse Myra facendo una giravolta.
Da lontano li osservava con sguardo decisamente scrutatore e piuttosto severo, il suo cugino di primo grado, Alan, di appena dieci anni. Era piuttosto basso di statura per la sua età, aveva i capelli lisci e cortissimi biondo cenere, gli occhi tanto chiari che a volte nel sole sembravano quasi bianchi. Gli occhiali di vetro sottile e dalla forma rotonda, gli conferivano un’aria da professore universitario, il suo sguardo ti perforava e non gli sfuggiva mai niente; osservava molto e parlava solo se ne aveva voglia, elargiva consigli, faceva appunti e pronunciava sentenze agli adulti su ogni cosa che secondo lui era sbagliata, in modo sintetico e ad effetto doccia gelata.
Si avvicinò a Myra porgendole la mano e dopo avergliela stretta, esordì con cipiglio severo: “Cara cugina, ti auguro un buonissimo compleanno. Se ancora non ti è chiaro, sappi che da oggi in poi tu sei un’adulta responsabile, devi imparare a gestirti da sola, viaggiare, conoscere bene tutti i popoli, studiare moltissimo, conoscere tutte le regole di galateo a memoria.”
Si fermò alcuni istanti per prendere fiato, poi continuò scrutandola con attenzione: “E’ inutile che ti ricordi che sei in età da marito, ed è ora che ti spicci a trovarne uno prima che sia troppo tardi.”
Tutti e tre scoppiarono in una fragorosa risata. Quel bambino era troppo simpatico nei suoi modi, perché si prendeva molto sul serio, ma la sua aria da adulto supponente, si scontrava con quel suo aspetto da ragazzino che ha ancora molti anni davanti a sé prima di potersi definire grande.
“Ti sei vestita abbastanza bene, non c’è male”, le disse sezionandola da capo a piedi.
“Però, se fossi venuta a consigliarti con me, ti avrei fatto scegliere un altro modello e una diversa pettinatura… sì, non ti valorizza molto. Ad ogni modo, il voto è sufficiente.”
Un altro scoppio di risa irruppe nell’aria, alla quale si erano unite alcune signore che avevano sentito quella lezioncina con voto finale.

Alan ritenne terminata la sua funzione, quindi dignitosamente uscì di scena e si unì al gruppo di suoi coetanei che si stavano preparando per un gioco da tavolo.
A soli dieci anni, era già in grado di liquidare complicate congetture tra adulti in una sola frase risolutoria e lapidaria. Un giorno, mentre era tutto impegnato a risolvere un complicato problema di algebra, una parte del suo cervello si era dissociata e aveva ascoltato una conversazione piuttosto drammatica.
“Quell’uomo ha rovinato la sua vita e un’intera famiglia per seguire una ragazza di umili origini e con quei drammi alle spalle… un passato oscuro.”
Quasi un’ora di discorsi ripetitivi, mormorati all’interno di un gruppo di donne pettegole.
Alan era comparso nel rettangolo della porta e aveva liquidato l’intera vicenda con una sola frase: “Di solito si dice: se non si fosse innamorato di quella bella infelice, non sarebbe stato un uomo.”
Come per incanto il chiacchiericcio si era spento come quando si stacca la corrente all’improvviso e ad una ad una, se ne erano tornate a casa propria; Alan, invece, al suo compito di matematica.

Myra, Carlo e Anna si tennero e per mano e percorsero a piedi tutto il viale. Avevano tanta voglia di ascoltare i discorsi della gente a spizzichi, era uno dei loro divertimenti preferiti.
Udirono queste frasi: “… si è ripreso da quella batosta, non c’è male, ma se l’è vista molto brutta… l’ho visto ringiovanito… non si usano più ormai i gioielli di granata, poi invecchiano… troppo chiari quei colori per una donna della sua età… e quanto rossetto, è volgare, non ha mai avuto buon gusto… credimi, è questione di giorni e il duca di Altair, dovrà dichiarare bancarotta… il re di Zari è così pieno di corna, che per passare dalla porta è costretto a piegarsi… l’ha sposato per i suoi soldi, lo sanno tutti… si è più saputo niente di quel figlio illegittimo… non sono stati invitati i re di Fleed alla festa?”
“Com’è scema la gente!” sbottarono i tre ragazzi in coro, quindi corsero lontano dove c’era l’orchestra e si misero a ballare tra di loro.

In un angolo del giardino si intravedeva il principe della stella Lupo, il principe Gauss, con la sua fidanzata Helen.

Gli invitati


I due giovani conversavano con un gruppo di persone provenienti da Zari. Si erano conosciuti tempo addietro durante un ritrovo di studenti, poi in un viaggio di gruppo alla ricerca di pianeti sconosciuti.

Dal lato opposto del giardino, alcuni di scienziati discutevano davanti al tavolo dove venivano distribuite le bevande.
Una giovanissima ragazza veghiana dai corti capelli a punta e di uno scialbo colore lavanda, si era avvicinata con un poco di timore all’ormai famosissimo ministro delle scienze Zuril. Voleva assolutamente parlargli, ma non osava farsi avanti, lei era ancora una studentessa, ma con la testa piena di idee molto fertili per le formule chimiche e gli esperimenti. Studiava e lavorava insieme al fratello, ora assente. Era venuta da sola ed era lì per caso: aveva preso il posto di una nobile famiglia del suo pianeta, i quali, all’ultimo istante erano stati costretti a rifiutare l’invito, ma al tempo stesso dispiaceva molto lasciare il posto vuoto, così avevano pensato di chiedere ad altri di andare a quella festa.
Shira era stata pronta a cogliere l’occasione, visto che da tempo cercava di emergere tra i luoghi più esclusivi e quell’occasione non voleva lasciarsela sfuggire.
Mentre si avviava lentamente con gli occhi rivolti a terra verso il bar, si scontrò con lo scienziato.
“Oh, mi dispiace moltissimo!” mormorò lei.
“Non fa niente… a proposito, come ti chiami? Non credo di conoscerti” le rispose Zuril fissandola con intensità, mentre raccoglieva da terra il tablet che gli era caduto durante lo scontro.
Fatte le dovute presentazioni, i due si accomodarono in un tavolino in disparte e cominciarono a parlare fitto fitto di esperimenti, formule, chimica, fisica, cibernetica e progetti.
Dopo oltre un’ora di questi scambi, Zuril decise che quella ragazza, dallo sguardo sfuggente e profondo al tempo stesso, era di un’intelligenza fuori dal comune e i suoi esperimenti gli sarebbero tornati utili per mettere a punto le armi adatte a progetti bellici invasivi. Si allontanò alcuni istanti e in disparte, contattò re Vega per notiziarlo di questa novità.
Il re gli diede carta bianca su tutto: convenne anche lui che Shira sarebbe stata un’ottima alleata e non dovevano lasciarsela scappare.

Nel cielo apparvero all’improvviso una moltitudine infinita di fuochi d’artificio enormi e di tutti i colori in segno di buon augurio. Alla fine, spiccarono in volo decine e decine di colombe addestrate, formando una perfetta e sincronizzata danza acrobatica. Provenivano dalla stella Delta: il comandante Haruk, appassionato di quei volatili, le aveva inviate come deferente omaggio per la festa della principessa.

Il principe Gauss si staccò dal gruppo ed entrò nel guardaroba per prendere la sua giacca.
Stava per tornare fuori, quando sentì il sussurro di una voce a lui molto nota e si fermò ad ascoltare.
“Quando pensi di dirglielo?” chiese l’uomo.
“Presto, appena tornati a casa… anzi, non dirò niente, scapperò via con te e ce ne andremo lontano. Ne avevamo già parlato, ricordi?” rispose la voce di Helen, la sua storica fidanzata, quella che Gauss avrebbe dovuto sposare di lì a pochi mesi, quella che, baciandolo con passione, gli ripeteva sempre di amarlo senza limiti, che la sua vita aveva avuto un senso senza di lui… e che ora invece progettava di lasciarlo e chissà da quanto tempo lo tradiva.
Aveva sentito abbastanza, senza salutare nessuno prese la sua nave e con quella perfetta calma e freddezza dovuta allo shock, guidò fino a casa senza sentire niente dentro, solo una perfetta estraneità a tutto come fosse chiuso dentro un bozzolo; aveva solo fretta di arrivare, dimenticare quella festa, la gente, i discorsi e… Helen!
In tutto l’orrore di quella squallida vicenda, un’immagine meravigliosa gli rimase per sempre impressa nella retina: lo splendido bracciale di diamanti che adornava perfettamente il polso di Helen… lo stesso col quale abbracciava languidamente il suo amante.
Di lì a poco, avrebbe amaramente scoperto che la vera tragedia della sua vita era appena iniziata.
In quella limpida notte di luna piena, re Vega, a tradimento, aveva attaccato la sua stella, rendendola all’istante arida e inospitale.
Una volta arrivato in prossimità della sua reggia, Gauss aveva appena fatto in tempo a intravedere da lontano e in mezzo alla nebbia, Lonan, sua sorella, sentire il grido accorato, chiamarla, poi il nulla.

Quella notte di inizio estate, la bramosia di un volgare usurpatore aveva calpestato senza pietà il fiore appena sbocciato della vita di tante persone.

Ma l’odio chiama odio, la vendetta chiama vendetta. Così quel principe, lasciò per sempre insieme ai suoi sogni, quella figura diafana e delicata di giovane nobile che si affaccia alla vita e con impazienza ne coglie tutti i frutti. Divenne un uomo imponente dai tratti duri e decisi.
E del lupo, oltre all’aspetto che mutava in lui nelle notti di plenilunio, ereditò l’avidità, la sete di potere e dominio e, soprattutto, la vendetta.
Ma sempre e fino all’ultimo respiro, senza che lo volesse, gli occhi della mente vedevano la crudele bellezza di quei brillanti che adornavano il polso di una donna che credeva essere sua, ma che invece abbracciava un uomo senza volto che gliela aveva rubata.

Li vide anche anni dopo, in quella notte stellata di luna piena, sulla Terra, quando il suo cuore venne trafitto a morte dall’alabarda spaziale di Goldrake…li vide fino all’ultimo respiro… su quel verde prato, dove la sua mano aveva afferrato con la forza della disperazione un fiore primaverile.
Ma dentro, lui era già morto molti anni prima, su Antares, in una sera di inizio estate, quella sera che avrebbe potuto essere una delle più belle della sua vita.

Epilogo

Il principe di Fleed non seppe mai che il suo breve soggiorno sul pianeta Antares, avvenuto durante il suo lunghissimo viaggio nello spazio prima di trovare un porto sicuro sul pianeta blu e durato soltanto una manciata di giorni, aveva riunito i destini di tanti personaggi e intricate vicende, che poi avrebbe incontrato sul suo cammino e precisamente sulla Terra, quando venne minacciata dalla bramosia e sete di conquista di Vega.
Su quel pianeta non c’era stata nessuna invasione veghiana, tranne una breve incursione senza gravi danni: eppure quella stella, per quei strani disegni che il destino ama dipingere sulla tela, aveva visto i semi che sarebbero sbocciati molto presto per fiorire in una immensa guerra interplanetaria.


FINE


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ANIME E MANGA SPAZIALI

3_46

Appena parcheggiata la navetta, entrò nella base. Lo faceva molto malvolentieri da un tempo indefinito: ormai, si recava lì solo quando non poteva evitarlo e, appena sistemate le cose urgenti, se ne andava via subito.
Si rallegrò un poco all’idea del nuovo guardaroba che aveva acquistato lungo la galassia: erano capi estivi molto colorati. Si avviò per il lungo corridoio che conduceva alla sua camera, quando da un angolo sbucò Zuril.
La guardava dall’alto al basso, scrutandola come se la stesse sottoponendo ad un severo esame.
Non disse niente, lei tirò dritto come nulla fosse e senza un cenno di saluto.
Con amarezza, si rese conto che stava contando le ore che la separavano dal suo rientro su Rubi.
Era già stanca di stare lì, ed era appena arrivata!
Un lieve sorriso le illuminò subito il viso tirato. Aveva fatto degli ottimi acquisti. Indosso portava l’abito provato nella boutique, era di spesso cotone a fiori e righine di vivaci colori, in stile collegiale.
“Perché ti sei vestita come Candy?” le domandò Zuril, infilando il capo dentro la porta.
“Ma che vuoi?” gli rispose con un moto di fastidio e scarsa educazione.
Rubina intanto, aveva tirato fuori dalle borse tutti i nuovi capi acquistati e li stava riponendo nell’armadio. Sul vetro bordeaux della toletta, riponeva trucchi, smalti e rossetti.
Decise di ignorarlo e continuò il suo lavoro come fosse sola.
“Ma anche l’abito col nastro legato dietro! Non ci posso credere! Sei Candy in persona e con quei due codini di capelli tutti arricciati, sembri la sua fotocopia! Hai deciso regredire allo stadio infantile, cambiare tutto il tuo look, o sei stata scritturata per una parte?”
La ragazza non lo degnò di uno sguardo, sedette sullo sgabello e iniziò a cospargersi le guance di fard.
Zuril a quella vista non si potè trattenere.
“Ma noo!! Non così! Il rossetto va sfumato, non devi farti i pomelli come Heidi, fai ridere… oppure le caprette ti fanno ciao!”
Il Ministro era piegato in due dalle risate che non riusciva più a trattenere.
Rubina si alzò di scatto e gli puntò gli occhi in faccia e il dito sul petto: “Ho capito! Tu guardi i cartoni animati, invece di lavorare! Ti ho scoperto, mangia pane a tradimento!”
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere!” le rispose lui con l’indice alzato e ostentando superiorità estrema.

La principessa lo scansò, corse nel corridoio e filò dritta come un razzo nella stanza di suo padre; voleva dirgli subito cosa aveva scoperto.
Si arrestò un attimo sulla soglia: perché nella stanza regnava la penombra?
Perché, per vedere bene le immagini proiettate sullo schermo che occupa l’intera parete, è necessaria.
Re Vega sul divano e di fronte a lui si vedeva correre una bambina dall’aspetto emaciato e con lunghe trecce rosse.
Estasiato e con un sorriso che non finiva mai, canterellava la sigla tra sé:

Anna dai capelli rossi va
vola e va come una rondine
però un nido non ce l'ha
non ha una mamma né un papà…


Rubina uscì indignata e sconvolta, decise comunque di controllare subito il lavoro dei soldati.
Entrò nel grande magazzino dove si fabbricavano i minidischi e si bloccò impietrita. Una dozzina di addetti ai lavori, leggevano con avidità dei fumetti: Topolino, Pluto, Nonna Papera, Paperino, Qui Quo Qua, Ezechiele Lupo, Diabolik, Cattivik, Vampirella, Tex.
In un angolo, almeno dieci manovali erano con gli occhi puntati sullo schermo che riproduceva “La spada nella roccia”. Uno di loro la vide di sfuggita e si scansò lievemente, indicandole che se voleva, c’era posto anche per lei.
Decise di notiziare Gandal e signora di questo scandaloso assenteismo: senza nemmeno bussare, entrò nella loro stanza… ma indietreggiò di alcuni passi.
I due coniugi tiravano di scherma: naturalmente con l’anime di Lady Oscar ben piazzato davanti.
“Cosa fate, si può sapere? Siete scemi?”
“Che vuoi, piccola strega?” l’insultò la donna con arroganza.
“Quello che mi pare, Grande Cretina! E non ti azzardare mai più a mancarmi di rispetto, chiaro?”
Entrambi scoppiarono a ridere fino alle lacrime, poi presero il telefono per comunicare a Hydargos quello spassosissimo episodio.

La ragazza scappò via come avesse preso una forte scossa, andò correndo nel salotto e una volta buttatasi sul divano, scoppiò in lacrime. Non ci poteva credere, quello era un brutto sogno… che altro poteva essere?
Singhiozzando senza ritegno, iniziò un monologo atto a dar voce alla sua incredula disperazione:
“M…ma perché mi hanno fatta venire qui?... perché si comportano tutti in questo modo… io… io, non capisco niente, mi sembra di impazzire… cosa sono venuta a fare… sembrano tutti matti…”
Entrò Zuril fischiettando e, senza vederla, puntò deciso verso l’armadio aprendolo senza cerimonie.
“Dove siete dvd? Saltate fuori, avanti… io e Hydargos abbiamo una voglia matta di rivedere “I fantastici quattro!”
Pochi istanti dopo: “Ah, eccoli qui, benissimo!”
Durante la sua breve sosta nel soggiorno, Rubina aveva continuato a parlare alzando la voce e sempre singhiozzando, perché sperava che quel verme la degnasse di uno straccio di risposta.
Lui non la sfiorò nemmeno una volta con lo sguardo, ma prima di uscire a grandi falcate, accennò un’aria che si adattava alla situazione: “… non piangere Liù…”

Rubina fu nuovamente sopraffatta da una disperazione senza precedenti: dolore, rabbia e incredulità l’avevano sconvolta. Iniziò a tempestare il divano coi pugni, maledicendo il momento che aveva deciso di venire su quella dannatissima base lunare, la sua vita, la sua famiglia… tutto.

Dopo circa dieci minuti, una voce maschile, gentile e titubante, arrivò alle orecchie della ragazza.
“E’ permesso? C’è nessuno? Si può?”
“Chi è?” chiese lei, dopo un lungo sospiro come quelli che si fanno dopo un lungo pianto.
Un leggero colpo alla porta e apparve un giovane con indosso una tuta da meccanico.
“Ah, siete voi Altezza, scusate. Ecco, volevo dirvi che la vostra pantera cosmica è a posto. Ho pulito tutti i filtri, revisionato il motore… e ricaricato il telecomando” disse alla fine sorridendo e porgendoglielo gentilmente.
“G… grazie… i… io ve ne sono molto grata… q… quindi se voglio posso anche partire, vero?”
“Sicuro! Ho fatto prima del previsto. Buona giornata, principessa.”
Finì la frase con un inchino corretto e molto educato.
Rubina si sentì subito rinascere e l’angoscia svanire: era la prima volta in quel giorno tremendo, che almeno uno si comportava da savio, la trattava con rispetto e rispondeva coerentemente alle sue domande.
Diede un’ultima occhiata panoramica a quel luogo. Non aveva più niente da fare lì, questo era certo.

Corse felice verso la sua Quenn Panther che brillava sotto il sole; non le era mai parsa tanto bella e cara. Si sentì di nuovo felice. Ad un tratto, lo sguardo fu attratto da un segnale verde lampeggiante: era quello dei messaggi. Accidenti, quanti ne avevano lasciati. Accese per ascoltarli: erano i suoi amici.
“Ehi, Rubi, che fai? Noi siamo tutti al Drive In, vieni anche tu? Teniamo il posto per la tua navetta, ci sono spettacoli imperdibili per 24 ore infilate – non stop! Ti prendiamo il pop corn e lo zucchero filato, va bene? Vieni!”
“Sto già arrivando, non vedo l’ora!” gridò lei, con un sorriso fino alle orecchie.

Dopo neanche mezz’ora, la Quenn Panther di Rubina atterrava nel grande piazzale.
Sul mega schermo, correvano le scritte dei programmi: “115 puntate di Candy Candy, L’incantevole Cremy, I Puffi, Pollon, Ape Maia, Braccobaldo Show, Gli Antenati”.
Il suo umore era alle stelle, mentre canticchiava:

Candy e' poesia
Candy Candy e' l'armonia
Candy e' la magia
Candy Candy e' simpatia
e' zucchero filato
e' curiosita'
e' un mondo di pensieri e liberta'



FINE

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AUTOSTIMA

1-16898633527453


A volte, anche nelle persone più sicure di sé, anzi, forse proprio in quelle, può succedere che un bel mattino si sveglino come tutti gli altri giorni, ma all’improvviso vengano presi da un senso di disagio misto a stupore, una lieve apatia, un vago senso di inutilità, senso di colpa, paura di non piacere agli altri, timore del giudizio altrui… in poche parole: autostima sottoterra.
Quando arriva all’improvviso non è facile rendersene conto, quindi si va avanti come prima, compiendo le solite attività; finchè… un muro di cemento armato ti si para davanti a tradimento impedendoti di proseguire. In questo caso, è sempre opportuno prendere adeguati provvedimenti.

Un mattino dove il cielo azzurro era qua e là striato di lievi e soffici nuvole bianche, al ranch Makiba, Rigel brillava per la sua assenza, esattamente dalla sua torre di controllo avvista-ufo.
Venusia, dopo aver risposto il fieno aveva meccanicamente alzato lo sguardo verso l’alto e si era accorta che non c’era nessuno e soprattutto non si sentiva nessuno.
Alquanto perplessa, posò il secchio a terra e andò a cercarlo nella stalla, anche se quello non era l’orario in cui suo padre si occupava degli animali.
Infatti, non c’era.
Continuò il suo giro attorno alla fattoria. Niente.
Era sola, perché tutti gli altri si trovavano al Centro Ricerche e Mizar era a scuola. Il suo sgomento si stava quasi tramutando in paura, quando da lontano vide una gran nuvola di polvere, poi avvicinarsi un purosangue guidato proprio da suo padre.
Sospirò per un attimo di sollievo e gli andò incontro correndo per chiedergli dov’era stato tutto quel tempo senza avvisarla.
Nell’osservarlo da vicino però, non riuscì ad articolare una sola parola.
“Sono tornato Venusia! Pensaci tu al cavallo, io devo subito mettermi in contatto coi miei amici extraterrestri, mi staranno aspettando, sono in ritardo!”
Rigel indossava una tuta spaziale mai vista prima, un modello di certo molto costoso e adatto più per un astronauta che non ad un ranchero fissato con gli ufo. Sul davanti portava una nuova targa del Comitato Amici dello Spazio bella grande e in vista, in mano una radio ultimo modello per captare le onde spaziali… sembrava quasi si fosse anche colorato di verde… o no?
Era tutto baldanzoso e pieno di sé, camminava un metro da terra da tanto si sentiva superiore a tutti.
Veloce come un felino salì sulla torre e iniziò a “colloquiare” con i suoi amici alieni.

Venusia era senza parole. Non che fosse una novità la mania di suo padre, quella la sapevano tutti, ma il modo di proporsi e soprattutto quella superbia, il sentirsi superiore a tutti. Se avesse incontrato il dottor Procton, gli avrebbe detto di pulire le stalle insieme ad Actarus. Sì, non avevano mai voglia di fare niente quei due, che vergogna!
Guardò meglio il padre mentre a voce spiegata urlava agli ufo: lo faceva in modo ancora più assurdo del solito. Ma perché? Cosa c’era stato?

Se facciamo un passo indietro di pochi giorni e osserviamo Rigel da dietro le quinte, è tutto molto semplice.
L’attuale sfacciataggine di lui, era un moto di ribellione ad uno stato d’animo tutt’altro che piacevole: di punto in bianco si era sentito molto ridicolo per questa sua passione. Aveva preso atto che nessuno gli credeva e lo prendevano in giro senza riserve. Prima che questa tristezza scivolasse nella spirale depressiva, gli era capitato tra le mani un interessante articolo sul giornale che leggeva di solito.
In sintesi, parlava delle altrui opinioni, come gli altri ci vedono e giudicano.
Se uno è basso di statura, ma si convince di essere alto e così si propone alla gente, nessuno si permetterà mai di chiamarlo “tappo” ad esempio.
Il ranchero aveva letto avidamente tutto il testo e alla fine, molto su di giri, aveva deciso di mettere in pratica quei saggi consigli, quindi il risultato finale era stato quello che aveva sconvolto Venusia, la quale, come tutti gli altri, ignorava i precedenti stadi di autosvalutazione e semi-depressivi del padre.
Si era detto quindi: “Se io sono sicuro di parlare agli ufo, mi vesto da alieno, ostento sicurezza estrema, tutti mi crederanno, mi rispetteranno e non oseranno mai più contraddirmi.”
Detto e fatto: l’importante era che si convincesse lui in questo caso… gli altri? E chi se ne importa!

La ragazza si rallegrò molto, quando da lontano vide arrivare Actarus. Finalmente non era più sola!
Si salutarono con gioia e siccome era ancora presto, lui le propose una corsa a cavallo.
“Andiamo subito, è quello che ci vuole dopo una giornata come questa!”
“E’ successo qualcosa?” le chiese gentilmente e con una leggera preoccupazione nella voce.
“No… le solite cose… però oggi mi hanno leggermente intristita.”
I due giovani sellarono i cavalli e si lanciarono di corsa nella prateria spensierati e contenti.

Anche fare le cose semplici, quelle che piacciono di più e in compagnia della persona che ami, sono un grande aiuto per recuperare il buonumore e l’autostima.

La persona che ami… o credi di amare… e pensi di essergli sempre stato o diventato indifferente. Anche questi sono dei pericolosi stati d’animo che possono far precipitare nel baratro chi li sperimenta su di sé… e far commettere degli errori quando si tenta di uscirne nel modo meno adeguato.

Rubina: Duke, sai perchè mio padre mi ha mandata al Pianeta Fleed?
Duke Fleed: Il Grande Re Vega? Chissà?
Rubina: Ha detto che era per farmi tua moglie.
Duke Fleed: (stupito) Ma non è possibile!
Rubina: (preoccupata) Non è possibile?! Allora tu non mi vuoi bene, vero, Duke?
Duke Fleed: (imbarazzato) Non volevo mica dire questo, Rubina…!


In un’alba di molti anni dopo, la principessa di Vega ricordava con precisione certosina questo episodio. Non solo nei dialoghi ma anche e soprattutto nell’anima. Era rimasta delusa sul momento, poi quel paragone ad un fiore circa la sua bellezza l’aveva per un certo tempo rincuorata.
E adesso?
“Io non piaccio a nessuno e non mi vuole nessuno… tranne qualche lurido viscido verme, per soddisfare le sue sporche voglie”.
Si alzò molto presto, era sveglia da ore. All’improvviso, nel cuore della notte era stata svegliata da quel ricordo: con gli occhi della mente si era rivista adolescente a trastullarsi in una barchetta in mezzo al lago e con le lievi note della marcia nuziale sparse nell’aria primaverile… la testa piena di sogni romantici.
Quell’episodio la feriva molto di più adesso di allora; le parole, la situazione, le mezze frasi, le allusioni… le pungevano il cervello continuamente.
E poi la cruda realtà!
Sapeva fin dall’inizio di essere stata mandata su Fleed come pretesto, nessun matrimonio si sarebbe realmente celebrato. Ma lei era una giovane ragazza molto avvenente e non aveva immaginato quanto fascino avesse quel principe sconosciuto. Non aveva pensato di poter provare una reale attrazione per lui. E quando se ne era resa conto, aveva subito preteso che fosse lo stesso anche per lui.
L’aveva voluto con prepotenza, esattamente come quando chiedeva qualcosa fin da quando era nata: doveva essere subito suo.
Erano passati i giorni e le settimane, era stata con lui, conosciuto la famiglia reale, fatto delle piacevoli gite.
Un giorno aveva davvero visto la cruda realtà e senza che nessuno gliela dicesse, senza una parola: coi semplici fatti, i quali dicono tutto e sono inequivocabili.
Dato che ormai conosceva abbastanza bene la città e i dintorni, aveva deciso di andare a farsi un giro tutta sola e senza Maria tra i piedi. A quell’ora faceva il sonnellino pomeridiano, quindi lei era libera. Duke Fleed le aveva detto che sarebbe stato fuori di casa tutto il giorno e il re e la regina si dividevano tra le incombenze domestiche e i contatti diplomatici.
Rubina era giunta in una piccola radura dove scorreva un ruscello. Si era tolta le scarpe e camminava nell’acqua fresca. Quel giorno si sentiva piuttosto contenta e trovava quel luogo pieno di fascino: era un ambiente molto diverso dal suo luogo natale.
Ad interrompere il cinguettio degli uccelli e il fruscio delle foglie mosse dalla brezza, ci fu uno strano parlottio sommesso, dei passi striscianti.
Il cuore le sobbalzò nel petto: chi poteva essere? Credeva non ci fosse nessuno. Non fece in tempo a formulare un pensiero compiuto che, dal tronco cavo di una grande quercia, uscirono due giovani che si tenevano stretti per mano, gli occhi negli occhi.
La ragazza si portò una mano alla bocca per non gridare. Lui era il suo fidanzato, quello che doveva forse sposare, quello che le aveva detto che era bella come un fiore; lei era una che le sembrava di avere intravisto qualche volta in lontananza… no! Stavano assieme, questo era più che evidente!
Ma dire insieme non rendeva nessuna idea. Erano, come dire? Una cosa sola, di più! Anche se il loro atteggiamento appariva assolutamente casto, era chiarissimo che una forte passione li legava, e che passione! Senza che lo volesse, la mente iniziò a popolarsi incessantemente di immagini dei due stretti in un abbraccio infinito, amplessi focosi. Quante notti di passione dovevano avere consumato quei due! E queste notti, certamente per loro non dovevano bastare mai. Il fatto poi che la relazione dovesse restare segreta, non faceva altro che alimentare il sentimento reciproco come un fuoco inestinguibile. Era così chiaro ed evidente! Le faceva male questo pensiero, ma al tempo stesso aveva un bisogno quasi disperato di pensare a quelle immagini… doveva essere bellissimo poterle vivere.

Lei non era assolutamente niente al confronto. Niente. Questa parola le risuonava dentro il cervello come un mantra. Era solo una cosa graziosa, un ninnolo, un semplice accessorio. Si sentì giovane e sciocca, infantile quasi. Lui non avrebbe mai provato una passione travolgente per lei, mai, nemmeno fosse stata infinitamente più bella di quanto non fosse.
Andò verso casa in silenzio col cuore stretto in una morsa e gli occhi pieni di lacrime trattenute.
Per tutta la strada, ebbe sempre davanti agli occhi l’immagine di quella ragazza dalla lunga chioma verde: traboccava di prorompente sensualità e la vedeva, la sentiva realmente parlare come fosse presente. “Lui è mio, sappilo… tu devi solo sparire”.
La bocca di lei che si atteggiava in un sorriso di scherno: non sei niente, sappilo!
Rubina chiuse gli occhi e raggiunse il palazzo correndo. Rimase tutta la sera chiusa nella sua camera senza voler incontrare nessuno.

Adesso, molti anni dopo, sul pianeta Rubi, il suo cuore ricominciava a sanguinare di rabbia e dolore.
“Perché nessuno mi vuole?” si disse ad alta voce.
“Per il mio ruolo? Perché sono troppo impegnata a sottomettere questo pianeta? Sono un’arrivista… sono…. Che cosa?”

“Oh, ma oggi ho delle cose importanti da fare, me stavo dimenticando!” si ricordò improvvisamente e nel dirlo, fece in un attimo a vestirsi e sistemarsi.
Uscì di casa e subito la nave del Ministro Zuril atterrò.
Sapeva che dovevano incontrarsi per mettere a punto un piano strategico circa la popolazione di Rubi. Non le faceva mai troppo piacere incontrare lo scienziato: non mancava mai di lanciarle occhiate viscide e che sottintendevano desideri perversi.
Decise di non dare importanza alla cosa, ma andare dritta al fatto pratico che dovevano affrontare.
“Vieni nel mio studio Zuril, ci sono tutti i dati.”
In meno di un’ora finirono e quella volta furono d’accordo su tutto.

Rubina tirò un sospiro di sollievo, poi si sorprese a guardare con altri occhi l’individuo che le stava davanti. Pensò: “dopotutto, gli sono sempre piaciuta… e che male c’è? ho anch’io il diritto a qualcosa, no? Glielo dico? Mi faccio capire?”
Prima che potesse finire il pensiero, lui le prese una mano e la portò alle labbra. Aveva già capito.

Stavano entrambi molto giù di tono. Lui, erano mesi che nessuna donna se lo filava neanche di striscio. Lei era languidamente depressa e con l’autostima molto al di sotto del limite consentito, ma questo la faceva ancora più irresistibile. Gli occhi socchiusi, la testa inclinata da un lato… non ci fu bisogno di parole. Rubina aprì la porta della sua camera e gli fece segno di entrare.
Lui non se lo fece ripetere due volte.
La mente di lei era tutta rivolta a quei due ragazzi che aveva visto tanti anni prima… non voleva più soffrire ricordandoli. Decise quindi che sarebbe stata lei al posto di Naida e il suo principe al posto di Zuril. Bastava solo chiudere gli occhi e, complice il buio, abbandonarsi ad ogni fantasia senza limiti.

Verso il tramonto, il tremolante luccichio delle prime stelle e la falce di luna appena accennata nell’indaco del cielo, furono testimoni dell’avvenuto miracolo.
Due persone sole e senza più amor proprio, si erano ritrovati: scambiandosi i reciproci fallimenti, li avevano così (per il momento) annullati.


FINE

Edited by .Luce. - 20/7/2023, 16:29
 
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SINGLE E’ BELLO
Scrittura creativa

1_270

Di solito si pensa che Duke Fleed sia fuggito dal suo pianeta a bordo del suo disco, perché tanto non c’era più niente da fare e restare lì non aveva senso, visto che Vega aveva pensato bene di raderlo al suolo con una mega bomba al vegatron. Anche per questo, certamente, ma non solo.

Il principe di Fleed non ne poteva più di avere delle donne adoranti ai suoi piedi, ecco il motivo principale!
Quando aveva visto quel macello che il suo nemico aveva combinato, si era detto che non tutti i mali venivano per nuocere. In mezzo a quella carneficina, per forza di cose, c’era anche una nutrita schiera di fanciulle adoranti e appiccicose molto più dell’attaccatutto, che smaniavano attorno a lui dalla mattina alla sera… e anche di notte, perché ad ogni alba, qualcuna sbucava da sotto il letto, un’altra dall’armadio, una stava nel guardaroba quale sarta improvvisata… terribile! Peggio dell’invasione delle cavallette!
Ne trovava sempre una o due nascoste dentro la sua navetta quando decideva di andarsene tutto solo a trovare il suo amico Marcus per distrarsi. Appena toccava il suolo, eccole sbucare dal nulla. Moine, baci, frasi zuccherose: “veniamo con te, da solo ti annoi, che bel posto, andiamo a divertirci…”
Uno stillicidio. La cosa era anche piuttosto imbarazzante: che la gente non si mettesse in testa che lui facesse così per mettersi in mostra! Nooo! Erano loro! Ma non poteva dirlo per almeno due motivi: non gli avrebbero creduto, oppure avrebbe fatto la figura del pavone. Meglio evitare altre figuracce.

Intendiamoci: gli andava benissimo stare con la sua storica fidanzata Naida, nonché amica d’infanzia, questo senza dubbio. Erano molto affiatati, c’era intesa fisica, trasporto… e il bello era anche quando per qualche giorno decidevano di comune accordo di non vedersi e andarsene ciascuno per i fatti propri.
Quello che non gli andava bene era l’assillo, il corteggiamento continuo e disperato di troppe femmine adoranti che sempre gli stavano tra i piedi, in casa, in giardino, a passeggio… ovunque, insomma!

“Ad ogni modo, adesso è acqua passata!” si era detto il principe senza corona quanto era atterrato sul pianeta blu e un certo dottor Procton si era preso cura di lui, spacciandolo per suo figlio.
“Qui non c’è nessun sentore di incastratrici! Sono in Paradiso!” disse un mattino appena sveglio, stirandosi con gusto.
L’overdose di ragazze adoranti era stata così eccessiva, che la solitudine era solo una benedizione.
Sarebbe stato meglio che avesse atteso qualche tempo, prima di cantare vittoria.
Il padre adottivo, infatti, pensò bene di inserirlo come stalliere dal suo vecchio e caro amico Rigel, il quale aveva due figli: Venusia e Mizar.
La ragazza, oltre al fatto che aveva sempre vissuto ai margini della città, quindi con rare occasioni di fare amicizie soprattutto maschili, aveva dei pretendenti che non erano affatto di suo gusto.
Vedere un bel giovane aitante, dallo sguardo azzurro, dal fascino misterioso e innamorarsene in meno di un battito di cigli, fu una cosa sola.
Si incollò al suo braccio e nemmeno i duri lavori che con lui condivideva (che bello!) riuscirono a staccarlo. Mai!
“Ecco che ci risiamo!” si disse il giovane, appena capì di essere ancora sotto le grinfie femminili.
Il suo animo oppresso si aprì alla speranza, quando Alcor, pilota e ideatore del TFO, arrivato da poco al ranch Makiba, palesò il suo interesse per la bella Venusia.
Dato che i corteggiatori non vengono mai soli, anche il suo vicino di casa, Banta, un messicano dai modi spicci e diretti, si dimostrò molto attratto da lei e glielo fece capire senza mezzi termini.
Purtroppo, oltre all’indifferenza della ragazza per i due giovani, ci si mise anche il padre di lei, allontanandoli a colpi di fucile se solo intravedeva che le stavano ronzando attorno dalla sua altissima torre di controllo (faceva solo finta di contattare gli alieni, in realtà difendeva l’onore della figlia).

Duke Fleed, ora divenuto Actarus per motivi logistici, stava perdendo le speranze e la depressione avanzava. La “singletudine” tanto agognata non era che un lontano miraggio, sempre più vago.
Il dottor Procton non aveva nessuna spasimante, beato lui! Che segreto aveva? Mah!
Stava il più possibile lontano dal ranch, gli attacchi veghiani erano attesi come una liberazione, perché in quei frangenti, lui cambiava aspetto, saliva sul suo disco e si lanciava nello scontro finalmente solo.

Un bel giorno, finalmente, sembrò che la tanto attesa libertà si fosse profilata all’orizzonte.
Venusia correva come una matta a cavallo per cercare un puledro disperso: era arrabbiata anche con lui perché non c’era mai.
“La seguo, me l’ha detto Rigel, poi… ah, bè, se corre così in questa montagna stretta e pericolosa, non avrà scampo.”
Infatti, il cavallo di Venusia la disarcionò, e lei prese il volo.
“La seguo, così non posso avere rimorsi, se poi non faccio in tempo, pazienza!
E così, Actarus prese le sembianze di Duke Fleed e riuscì appena in tempo a salvarla dalla rovinosa caduta sulle rocce. Gli aveva fatto pena il pensiero di suo padre… e anche Mizar, era solo un bambino, in fondo. Lui dopotutto era un nobile e non solo nel titolo, anche nell’animo.
“Adesso che mi vedrà così e le dirò chi sono, non mi vorrà mai più! La partita è chiusa per sempre.”
Infatti, lei rimase alquanto scossa a sentire quella rivelazione e scappò via.
“E’ fatta, non mi vuole più vedere e se in aggiunta le mollo un ceffone con tutti i crismi (la sicurezza non è mai troppa), non vorrà mai più vedermi nemmeno in fotografia!”
Non aveva assolutamente tenuto conto dell’ostinazione di Venusia, una peculiare caratteristica della sua personalità che lei ebbe poi occasione di dimostrare in diverse situazioni.

Alla fine di quella massacrante giornata, dove perfino Hydargos l’aveva presa in ostaggio e minacciata di farla precipitare nel burrone, verso il tramonto e dopo un duello terribile col solito mostro veghiano e il puledro ritrovato in mezzo a loro due, sapete cosa aveva avuto il coraggio di dirgli?
“Adesso capisco perché ogni tanto scomparivi dalla fattoria… Actarus, tu sei il difensore della Terra contro gli spaziali!”
“Cosa le dico? Aiuto! Vediamo… allora… sono felice che tu mi comprenda Venusia, ma io sono Duke Fleed in realtà… non so se… ti vado ancora bene… l’hai capito che non sono terrestre?”
“A me piaci come prima, più di prima, sei sempre lo stesso di quando ci siamo conosciuti.”
Occhi a cuore, sorriso estasiato, panorama romantico ad alta tossicità diabetica… e l’approvazione del puledro… sì, aveva leccato le mani ad entrambi. Ma si poteva essere più sfortunati?

Non era affatto finita, i veri guai dovevano ancora cominciare.
Re Vega, aveva tenuto in ostaggio la sua ex fidanzata, Naida, aveva pensato che era arrivato il momento di buttarla sulla Terra, perché potesse ammazzare con le sue mani Duke Fleed.
“Mi raccomando, quando lo incontri, uccidilo. D’accordo?” le aveva detto e ripetuto il sire, torturandola a piacere per essere certo che lei gli obbedisse.

Il disco di Naida atterrò in mezzo alla neve e… i due giovani si corsero incontro felici (?)
Diciamo che lui si mostrò contento, mica poteva arrabbiarsi perché quella piaga appiccicosa, lamentosa e petulante non era perita su Fleed come gli altri, no? A proposito: come aveva fatto a salvarsi?
“Sono felice di vederti Naida… ma, scusa la domanda: perché non sei morta anche tu insieme agli altri?”
“Non lo so. Sono scappata e non mi hanno più trovata.”
“Ah…. Capisco… andiamo a casa mia, vuoi?”
“Come no! C’è da chiederlo?”
“Ma… in questi sei anni, ti sei mica fidanzata con qualcuno? Un veghiano magari? No?”
“No, io amo e amerò sempre solo te.” Mano nella mano ad effetto colla presa rapida.

Nello studio di Procton, Naida iniziò a raccontare con dovizia di particolari le sue drammatiche vicissitudini e dentro di sé, Actarus pensava: “Come avrà fatto a sopravvivere… mi sembra impossibile… se ciò che mi racconta è vero…. che abbia sette vite come i gatti?”
Di fatto, in quelle poche settimane che Naida rimase sulla Terra, successero questi fatti in ordine cronologico:
Duke Fleed la portò a cavallo facendola cadere di proposito e rotolare per un fosso, ma lei non si fece nemmeno un graffio. Lui le diede un piccolo e breve bacio, per darle ad intendere che era stato solo un incidente. Con premura, le chiese anche se per caso si fosse fatta male.
Arrivati in prossimità di un lago, la ragazza pensò che era arrivato il momento per pugnalare il suo ex, dato che lui si era distratto a fissare la suggestiva bellezza del luogo e giocare con l’eco. Purtroppo, dato che lei prima di uscire si era cosparsa le mani con della crema molto unta, l’arma scivolò in acqua.

Naida tentò di far esplodere Goldrake con una bomba, ma la cosa finì in uno scoppio di petardi stile ultimo dell’anno.
Sempre Naida, aizzata dalla voce di re Vega impiantata con un apposito strumento dentro la testa, colpì con una sbarra di ferro il suo ex senza ammazzarlo (e lui ci rimase molto male al risveglio dal coma, perché così, l’incubo femmine appiccicose, sarebbe continuato).
Un bel giorno, la ragazza, sentendosi di troppo, dato che Venusia le aveva fatto ben capire di farsi in là, si lanciò da sola in mezzo al cielo a combattere coi veghiani in un folle scontro suicida, e questa volta ci rimise davvero la pelle e per sempre.
Ogni tanto, almeno una va liscia, no?
Mica tanto, alla fattoria c’era sempre Venusia bella agguerrita e in forma più che mai!

E adesso cosa si era messa in testa? Di combattere anche lei! Sì, col fischio!
Nemmeno un attimo di pace neanche in combattimento, si potrà? I veghiani, saranno anche cattivi, ma almeno non si vogliono fidanzare, desiderano solo farti a fette; e che male c’è? Siamo in guerra, no?
Alla fine, Venusia, si mise d’accordo con tutti gli abitanti del ranch, ed essendo la maggioranza, votarono per il suo ingresso quale novella pilota.
Mossa strategica studiata a tavolino! Tutti contro uno, tanto valeva arrendersi e sperare che il suo Delfino Spaziale, un bel giorno, rimanesse incastrato in fondo al mare.
“Se mai un giorno finirà questa guerra, me ne vado di corsa in un altro pianeta senza lasciare tracce”, si diceva tra sé Duke Fleed nei momenti più neri. Non poteva farlo subito, aveva dato la sua parola che avrebbe difeso la Terra fino alla fine.

Passarono alcuni mesi e un’altra fleediana arrivò al ranch: stavolta era sua sorella per fortuna!
“Speriamo diventi buona amica di Venusia, così staranno insieme il più possibile”, pensava il fratello.
Maria era una brava pilota e guidando la Trivella Spaziale, si unì al gruppo: combinava qualche guaio, ma non erano cose gravi. E poi era così simpatica e divertente! Lei e Alcor erano due vere macchiette! Quando litigavano erano spassosissimi.
Le cose gravi erano le ragazze che si volevano fidanzare e poi sposare, altrochè!

Sposare… un momento… Rubina, la figlia di re Vega si voleva sposare con lui. E com’era accanita, non lo mollava un istante… però era il passato, un passato che non sarebbe mai più tornato, per fortuna.
No, non era così. Un bel giorno di primavera, la dolce Rubina venne a sapere che Duke Fleed era vivo e vegeto, quindi meditò di incontrarlo subito in mezzo al cielo. In volo, lei lo riconobbe subito.
“Non uccidermi, sono la principessa Rubina, non mi riconosci?”
“Come? Rubina? Noooo!!!”
“Sì, io. Parcheggiamo nel prato, va bene?”
“E come faccio a dirle di no?”
“Evviva! Quanto tempo è passato!”
La principessa gli corse incontro estatica, ma lui, memore che ben due sosia lo avevano quasi ucciso (magari), cioè sua madre e suo padre en travesti, la bloccò subito.
Siccome non c’è due senza tre, questa bella rossa chi era davvero?
“Fermati! Dimostrami subito che tu sei realmente Rubina!”
“Certo! Otto anni fa mi hai detto che sono bella come un fiore e che mi avresti sposata all’istante, anche nella barca su cui viaggiavamo.”
“Un momento. Sul fiore ci sto, ma di sposarsi l’hai detto tu, cara! Non cambiare le carte in tavola.
Ad ogni modo, eravamo solo noi due, quindi ti credo, sei davvero tu. Che vuoi adesso?” le chiese con un sospiro spazientito.
“Che ci sposiamo subito, no? C’è stato un intoppo, però adesso siamo qui e ci mettiamo al lavoro.”
“Cooosaaa??? Che lavoro, ma di cosa parli? Sei fuori come un balcone, te lo dico poi io.
Poi, scusa, ma tu non sei la serva di Zuril?”
“Io??? Quelle orribili zampacce verdi chissà dove sono ora. Ti sei visto un film, sai?”
Nel dirlo, lei agitò le mani sulla fronte per fargli segno che stava vaneggiando.
“Senti, le voci corrono e anche i giornali pettegoli, eccone qui uno, leggi!”
La principessa diede un’occhiata e sentendosi colta in flagrante, tentò qualche vaga scusa.
“Ma lo sai che i giornalisti sono dei gran bugiardi… fanno soldi così, inventando bugie sul conto dei nobili, ma non c’è niente di vero, credimi.”
In quel mentre, la nave del ministro Zuril atterrò sul prato di fiori nanohana.
“Ah, Rubina sei qui. Si può sapere perché sei partita senza dirmelo? Ti sei dimenticata che tu sei solo mia e non più una principessa? Sali sul mio disco e alla tua pantera tolgo subito il motore, così non la usi più.”
Lui la prese per il gomito con fare da padrone, e senza tanti complimenti la obbligò a salire.
Rubina, con la testa volta al suo principe, trascinata con forza da Zuril, in lacrime gli diceva: “Non è vero, è un infame, un porco schifoso, non credergli… si è voluto vendicare perché non l’ho voluto…”
Poi, verso quel verme: “Smettila di tirarmi in quel modo! Ignorante! Sei sgarbato come l’aceto, mi fai schifo!”
“Tu fai quel che ti dico io e senza storie, capito?” le gridò lui tenendola per un braccio.
“Cosa ci facevi qui con lui? Gli hai dato appuntamento per cosa? Te lo dico io per cosa: volevi andarci a letto e subito anche, sì è così! Lo sai cosa sei? sei una… una… te lo dico quando siamo a casa!”
A Rubina dalla rabbia le si erano gonfiate le venne del collo: tutto il suo livore esplose in un enorme sputo in faccia a Zuril.
“Questa me la paghi! Fila dentro!” urlò lui puntando il dito verso la nave, mentre con l’altra mano tentava di pulirsi.
“Ti sta bene! Ma di quale letto parli, sei scemo? Ne vedi qui uno per caso? Idiota!”
Gridava lei con voce isterica e il viso in fiamme.

“Ma te guarda! Bugiarda fino alla fine, nega anche l’evidenza! E quella sarebbe una principessa? Ma vedi come si comporta! Vai, vai che è meglio” disse a bassa voce il principe con disgusto.
“Scampato pericolo, torno alla base.”

Verso il tramonto, Actarus, Alcor, Venusia e Maria si godevano il panorama dal balcone del centro ricerche.
Vennero chiamati all’improvviso dal dottor Procton.
“Actarus, vieni qui, c’è un messaggio per te.”
“Rubina! Ma… cosa?”
Sul video, la Quenn Panther della principessa con lei a bordo, brillava nel sole morente.
“Ho messo del sonnifero nella cena di Zuril, per molte ore non mi cercherà. Duke, se senti questo messaggio vieni da me, io ti aspetterò. Non volevo dirti bugie, ti spiegherò tutto a voce, è molto importante.”

A notte fonda, nessuno riusciva a dormire, finchè Actarus decise di recarsi all’appuntamento perché voleva vederci chiaro e soprattutto levarsi dai piedi una volta per sempre quella noiosissima ex principessa di Vega. Glielo avrebbe detto chiaro e tondo una volta per sempre.
Alcor, Venusia e Maria lo seguirono coi loro mezzi perchè non si fidavano.

E infatti…

Zuril si svegliò all’improvviso con un gran cerchio alla testa e in un attimo capì tutto.
Quella sciacquetta l’aveva fregato come un pollo. Adesso l’avrebbe sistemata lui!
Salì a bordo della nave madre in forte stato di ebbrezza, dato che a cena aveva bevuto molto e l’effetto col potente sonnifero, l’aveva tramortito. Era sostenuto da una rabbia cieca: in un colpo solo, avrebbe ucciso Duke Fleed e Rubina che lo aveva così abbindolato.

Appena Goldrake raggiunse il prato, la tela di ragno che Zuril aveva messo sotto l’erba, intrappolò il pilota e il suo disco.
“Rubina, mi hai tradito! Non dovevo fidarmi di te!”
“No! Non è vero, non lo sapevo, ma adesso ti salverò!”
Rubina tentò di liberare Goldrake, anche se il grosso del lavoro toccò ad Alcor e Maria.
Il dito di Zuril premette un tasto a caso: un raggio colpì in pieno la Quenn Panther e anche Rubina.
Il suo velivolo precipitò al suolo, mentre l’astronave di Zuril era avvolta nelle fiamme.

Scesero tutti dai rispettivi veicoli. Duke estrasse Rubina, e la portò sul prato fiorito, mentre Alcor Maria e Venusia rimasero discretamente distanti.
La principessa moribonda aprì gli occhi una volta adagiata sull’erba.
“Ah, sei ancora viva, molto bene.”
“Duke… io… non volevo ingannarti…”
“Lo so cara, tranquilla. Senti, intanto che ci siamo, mi dici dov’è collocata esattamente la base di Vega sulla Luna?”
“Io… io…”
“Su, fai un piccolo sforzo.”
“Te lo dico solo se prima mi prometti una cosa.”
“Dimmi” disse lui al limite della pazienza. “Però spicciati, vedo non hai una gran bella cera…”
“Siccome su Fleed il verde sta tornando, ecco qui la foto che lo dimostra, il primo fiore che vedrai sbocciare, lo chiamerai Rubina?”
“Sicuro, parola d’onore.”
“Sono felice. Però lo innaffierai, coltiverai, poterai, avrai ogni cura, vero?”
A quel punto, Venusia, appoggiatasi al suo Delfino Spaziale, non potè trattenere un singhiozzo. Sapeva benissimo che quel lavoro ingrato sarebbe toccato a lei.
“Grazie. La base si trova al centro dell’altra faccia della luna.”
“Ottimo. E’ molto grande? Come siete messi a mostri?”
Ma Rubina esalò l’ultimo respiro e con lei anche Zuril. Quella compressa di sonnifero conteneva anche una dose massiccia di veleno.

A tutta prima, il principe di Fleed tirò un gran sospirone di sollievo: si era levato di torno l’ennesima incastratrice. Subito dopo però, fu assalito dal panico.
“Ma… ha detto che diventerà un fiore… quindi sboccerà ogni primavera? No……! Ecco, l’ha trovato il modo per incastrarmi, accidenti a lei! Vivrà in eterno! Ma poi… annaffiare… coltivare… nooo, è un incubo dentro un incubo!”
E così, Duke Fleed fu in preda ad una disperazione senza precedenti. Corse per il prato correndo e gridando per alcuni minuti. Poi… una volta arrivato sulla cima del monte Yatsugatake e davanti ad un’alba luminosa, fu colto da una folgorante e risolutiva illuminazione. Ma sicuro! Mica sarebbe andato da solo su Fleed, c’era pur sempre Maria, no? E allora? Lei avrebbe curato i fiori Rubina, quello è un lavoro da donne, dopotutto. Ah, che sollievo, tanto rumore per nulla.

Molti mesi dopo…

Quando si ebbe la certezza che Fleed era completamente privo di radioattività Duke e Maria partirono.
Lungo il viaggio, lui pensava: “Mi sono informato, i superstiti fleediani sono tutti accasati, quindi nessuna probabile fidanzata all’orizzonte, adesso sono libero una volta per sempre!”
Ricordò Venusia al momento degli addii… non era triste, anzi, aveva un sorriso soddisfatto sulle labbra. “Beh, si è rassegnata, in fondo l’ho sempre detto che è una ragazza intelligente.”
Guardò Maria. Era tranquilla.
“Sei contenta? Stiamo per arrivare.”
“Sì, molto.”
Dopo un istante, la sentì gridare di gioia.
“Evviva, dopodomani saranno da noi! Mi è arrivato adesso il messaggio!”
“Chi, Maria?”
“Come chi? Alcor e Venusia, no? La Cosmo Special è fatta apposta per navigare nello spazio profondo. E poi abbiamo bisogno di aiuto… e il dovere di ripopolare il nostro pianeta.”

Non era possibile, questo era davvero troppo! Venusia su Fleed? Ripopolare? Quindi… quindi bisognava sposarsi! Nooo!!!
Ma cos’era, una maledizione?

Non esattamente. Duke Fleed non sapeva che al momento della nascita, la sua madrina, mentre lo teneva in braccio e lo guardava con affetto infinito, aveva così pronosticato: “Non rimarrai mai solo dalla tua giovinezza in poi, per via del tuo fascino irresistibile.
Tante donne ti cercheranno, saranno disposte a tutto pur di averti, e sarai per questo invidiato da molti.”


FINE
 
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UNA FAME DA MORIRE

2_70

Sul grande schermo dello studio del dottor Procton, Rubina, assisa sulla sua Quenn Panther era riapparsa dopo l’incontro sul prato di fiori, e stava colloquiando con Duke Fleed.

“Posso venire da voi? Vi prego, non voglio restare da sola con lui, ditemi di sì.”
“Da noi? Stai scherzando, vero?” le rispose lui con tono che non ammetteva repliche.
“No, dico sul serio, per favore, non lasciatemi in questo guaio!”
“Se mi permetti, in questo guaio ti ci sei messa con le tue mani, cara.”
“Come? Ma in che senso?” disse lei con voce piagnucolosa.
“In che senso?!! Rifletti un momento. Appena hai saputo che io stavo qui sulla Terra e per giunta vivo, cosa hai fatto?”
“Cos’ho fatto? Non capisco”, vagheggiò lei con sguardo senza espressione.
“Se fai mente locale, ti ricorderai che, via radio, hai dato la notizia a tuo padre, no? E facendogli per giunta capire che la simpatia nei miei confronti non era mai scemata, gli hai mosso dei rimproveri sul fatto che lui ti ha taciuto la cosa per anni. Devo continuare?”
“No, ma non vedo dove stia il problema” rispose con tono neutro.
“Il problema sta nel fatto che, proprio lui, non era molto felice che ci incontrassimo, quindi per evitare questo increscioso incidente, ha pensato bene di levarti ogni titolo nobiliare e di rifilarti quale serva al non veghiano Illustrissimo Ministro delle Scienze, in arte Zuril. Fin qui ci sei?”
“Abbastanza.”
“Re Vega, per sua disgrazia, non ha ancora capito quanto in realtà voi due vi assomigliate! Sì, perché pur così dimessa, te ne sei altamente fregata e hai fatto finta di niente. Non mi hai detto del tuo nuovo stato giuridico e sociale, nonché nobiliare.”
“Non me lo hai chiesto. Cosa ne sapevo che la cosa ti interessasse tanto?” disse lei con innocenza a stadio infantile prenatale.
“Infatti non mi interessa. E siccome la cosa non mi riguarda più da tempo immemore, la partita è chiusa per sempre.”

A quel punto, il suo ex fidanzato uscì dalla stanza con passo celere.
Oltre a Procton e collaboratori, erano rimasti Alcor, Venusia e Maria.
La destituita principessa era ben decisa a non perdersi d’animo, cercò quindi di convincere i presenti ad ospitarla sulla Terra.
Scoppiò in un pianto dirotto, tenendo il viso tra le mani, così le inesistenti lacrime, passarono inosservate; in mezzo ai finti singhiozzi, farfugliò alcune frasi sconnesse.
“Io… io… c… con… quel… verme, porco schifoso… n… non… c… ci voglio s… stare…”
Altri dieci minuti di pianti teatrali, poi: “V… voglio… an… andare… via… ho… ho fame…”
Procton alzò il volume, gli altri si guardarono senza capire.
“Come? Ma cosa dice, qui ci vuole il traduttore!” disse Alcor spazientito.
“Mi sembra di averle sentito dire che ha fame” insinuò Venusia.
“Anch’io” replicò Maria convinta.
“Ma fame di cosa?” mormorò Procton pensieroso. “Credo che la sua fame sia di conquista. Vuole venire qui con una scusa e farci secchi.”
Rivolse uno sguardo verso tutti gli altri, poi disse sottovoce: “Così non lo sapremo mai con esattezza, però se viene sola non può essere pericolosa. Anzi, potremmo scoprire notizie interessanti… sembra piuttosto giù di corda, come una che stia soffrendo da mesi… quasi di stenti direi.”
Chiamò Actarus via radio e gli propose la sua idea. Dopo alcuni minuti di scambi di vedute, decisero.

“Rubina, ha detto il dottore che per stasera puoi venire, però solo qualche ora, va bene? Domani all’alba te ne torni a casa coi razzi, d’accordo? Niente scherzi, eh?” le disse Alcor deciso.
Non aveva ancora finito la frase, che la navetta era già sparita: sullo schermo si vedeva solo un gran polverone grigio.

Un’ora dopo, la ragazza era già davanti alle porte a vetri del Centro Ricerche; con fatica, trascinava una valigia più grande di lei.
A quella vista, Actarus le corse incontro, dicendole alterato: “Ti avevamo detto solo qualche ora, non di traslocare qui. Mi pareva che fossimo stati chiari, no?”
“Aiutami, pesa una tonnellata” disse lei con voce affannosa.
“Ma cosa hai messo qui dentro, si può sapere? Non si solleva quasi da terra.”
“I miei vestiti, le mie cose personali”, rispose con il candore di un’educanda.
Dopo un’istante: “Ho fame.”

Tutti tacquero. Dopo alcuni istanti di imbarazzato silenzio, salirono sulla jeep in direzione della fattoria di Rigel.
“Abbiamo tante cose buone, poi adesso si è fatta l’ora della cena” disse Venusia con cordialità.
Appena entrati in cucina, Rubina, senza fare complimenti, si sedette a tavola e prese tutto quello che c’era di pronto sul tavolo.

Alla decima scodella di latte a chilometro zero che la ragazza aveva ingollato con sorprendente avidità, dopo essersi in coro schiariti la voce, i presenti iniziarono qualche cauta domanda.
“Come mai tanta voglia di venire qui? Del resto non è che siamo poi così in amicizia, cioè…” mormorò Alcor con cautela.
“In che senso non c’è amicizia? Con lui stavo per sposarmi e lei doveva diventare mia cognata” rispose la veghiana pulendosi la bocca bianca di latte col dorso della mano (come principessa destituita da poche ore, bisognava dire che già si era bene adattata al nuovo ruolo. Molto versatile la ragazza!) mentre col mento indicava i due fleediani.
“Amicizia, fidanzamento e company sono estinti per sempre. Ti sei dimenticata del bellissimo scherzo che ci hai giocato?” replicò il suo ex.
“No, quale?”
“Te ne sei andata da Fleed di soppiatto ed è subito scoppiata una guerra coi controfiocchi! Tutti morti, il pianeta distrutto per sempre…” le ricordò lui con voce tagliente.
“Ma cosa vuoi che sia quello, bella roba!”
“A parte questo, sono anni che voi veghiani ci bombardate anche qui e non ne possiamo più!” urlò Alcor buttando una sedia a terra per la rabbia.
“Lo so, per questo voglio abitare qui, così le bombe non vi arrivano perchè ci sono io.”
“Come no! Poi una mattina ti viene il ticchio di andartene e si replica. Vero?” le disse Maria.
“No, anche se volessimo non potremmo, ormai siamo a secco. Il pianeta Vega è scoppiato, non abbiamo più risorse… e siamo alla fame” disse con gli occhi bassi e voce triste.

“A proposito… c’è qualcos’altro? Ho ancora fame” chiese Rubina guardandosi intorno.
I quattro caddero di peso sulle rispettive sedie. Ma che aveva questa? Mangiava più di Hara e Banta messi insieme!
“Rubina, ma sei sfonda?” le chiese Actarus in tono poco principesco.
“No, è che siamo diventati poveri.”
E all’improvviso, scoppiò ancora in un pianto dirotto (vero, stavolta).
“Vi prego, tenetemi con voi. Io non voglio stare con Zuril, non lo voglio, mi fa ribrezzo. E’ viscido, falso, ignorante, brutto, cattivo. Non sopporto l’idea di essere la sua serva, nascondetemi qui, vi supplico!” implorò lei a mani giunte.
“E come facciamo? Se lo vengono a sapere i tuoi, verranno qui di corsa e sarà un pericolo reale per tutti. Ci sono Rigel, Mizar… loro non c’entrano in questa storia. Come puoi essere così egoista?
Ripeto: dovevi pensarci prima. Se non avvertivi il tuo amorevole genitore che mi avevi trovato, se avessi continuato a fare la brava sanguinaria come sempre, se fossi stata zitta una buona volta, tu adesso saresti ancora una principessa, e su Rubi per giunta. Giusto? E Zuril sarebbe stato buono buono al suo posto” le rinfacciò Actarus scandendo bene le sillabe.
“No… ma io… non sapevo, io non volevo… guarda che ti sbagli, sei prevenuto, io…”
“Io non sapevo, io non vedevo. Tutte scuse!” le rispose ancora battendo il pugno sul tavolo.
“Hai sempre fatto quel che ti pareva fregandotene altamente di tutti. Esatto, anche quando sei stata ospite da noi su Fleed e non mi riferisco solo alla tua dipartita, c’è dell’altro. Siccome non hai mai sopportato mia sorella, di nascosto le mettevi il sonnifero nella minestra. Prova a negarlo se hai il coraggio!”
“No… ma io… quando? Le ho sempre voluto bene e giocavo con lei, non vi ricordate?” disse Rubina vagando con lo sguardo in tutte le direzioni.
“Guarda che la memoria mi sta tornando, sai? Oltre alle massicce dosi di tranquillante, le quali per inciso, erano già troppe per un adulto, quindi potevano mandarmi in coma in un istante, una volta mi hai chiusa dentro il ripostiglio buio per ore. Per anni ho avuto incubi atroci e per tutte le notti. Ma questo a te che importa, vero? sono sciocchezze, cos’era per te una bambina piccola, un vuoto a perdere, un inutile impiccio, dico bene?”
“Io queste cose non le ho fatte, non ricordo niente. Ti ho sempre voluto bene.”
“Per forza, per una sanguinaria come te, sono solo giochi divertenti, scherzi innocenti, eh!” aggiunse Maria alquanto su di giri.
“Io mi sono solo molto offesa quando ho capito di essere stata messa da parte, quando ho visto che ero solo una fidanzata di facciata e invece c’era un’altra, ecco!” disse Rubina a braccia conserte e tono risentito.
Intervenne Alcor e con modi spicci, andò al sodo senza mezzi termini: “Alle corna, si risponde con altre corna. Punto e basta. Non c’era su Fleed un fustacchione da novanta col quale fare faville, passare notti di fuoco alla faccia di tutti? Non dire di no perché tanto non lo crede nessuno. Ti saresti presa una rivincita coi controfiocchi e pace. Invece, cosa fa questa? Telefona a Gandal e gli dice: vieni a prendermi subito adesso che è notte, sbrigati. Dico bene? E’ inutile che neghi, tanto sappiamo tutto, mica siamo scemi qui. Perché tu sei quella che le cose le vuole tutte e subito, lo si vede bene da come sei piombata qui stasera. I veghiani hanno buttato bombe su Fleed come se piovesse perché tanto eri in salvo, e mentre morivano qualche miliardo di fleediani, tu andavi alle feste delle debuttanti che si tenevano su Vega, compravi abiti costosi, gioielli, hai sempre fatto la bella vita, occupato pianeti, ammazzato a piacere, eccetera. Cosa vuoi ancora, si può sapere una dannata volta?”
“Ho ancora fame.”

Venusia si recò alle stalle per mungere. Rigel, che sapeva la storia per sommi capi, le propose: “Ma se a quella ragazza piace tanto il latte, le possiamo regalare una capra, così lo potrà bere a casa sua quando vuole. Cosa te ne pare?”
“Fosse solo quello il problema. Ma poi non sarebbe l’ambiente adatto per i nostri animali” gli rispose mentre si avviava verso casa col secchio colmo.

“Finito di bere, torni a casa, vero?” tornò alla carica Actarus.
Rubina si pulì di nuovo la bocca con la mano e propose: “Avevo pensato che, siccome Zuril mi fa schifo, di poterlo rendere innocuo sia per me che per voi terrestri con uno stratagemma.”
“E quale? Sentiamo” chiesero tutti in coro molto spazientiti.
“Ecco, rimpinzarlo di cibo a dismisura e farlo diventare quindi un pachiderma. In quella maniera, avrà la mente poco brillante, il respiro affannoso, il passo pesante e nessuna voglia di… di… passare le notti con me.”
“Vedo che non hai capito assolutamente niente. Per prima cosa, non è che uno riesca a diventare obeso dall’oggi al domani. Ci arrivi fin qui? Secondo particolare: se siete al verde, alla fame, alla sete, al tutto, con cosa intendi rimpinzarlo, me lo spieghi? Stasera hai mangiato quello che a tutti noi basta per una settimana” le chiese l’ex fidanzato col tono che si usa per i semi deficienti.
“No, ma lo so bene che non abbiamo risorse. Pensavo che voi terrestri mi procuraste gli alimenti, anche perchè avete della roba buonissima e in abbondanza per giunta.”
Prima che i quattro perdessero definitivamente la pazienza e infilassero quella cretina dentro un missile col biglietto di sola andata destinazione spazio infinito, sentirono un gran tonfo nell’erba.

Corsero fuori a vedere: era una navetta spaziale. Dallo sportello uscì Lady Gandal.
“Oohhh!!!” sussurrarono tutti in coro trasecolati. Com’era possibile?
“Niente paura, non sono qui come nemica, ve lo giuro. Chiedo asilo sulla Terra, io voglio la pace, non ne posso più.”
Dopo alcuni istanti e con titubanza: “E se non sono troppo sfacciata: c’è qualcosa da mangiare?”
“Ma… il vostro consorte, dovè?” domandò Actarus con tono di sospetto.
“Non c’è, mi sono separata. Cioè, sono riuscita finalmente a dividermi da lui con un complicatissimo sistema che ho ideato tutto da sola. E poi… poi l’ho ucciso con le mie stesse mani.”
La fecero entrare in casa e dalla dispensa le offrirono quel poco che era rimasto.
Alla fine di quella cena frugale, la donna riprese il discorso.
“Dopo aver ucciso Gandal, poiché le scorte di cibo si stavano esaurendo, lo abbiamo fatto a pezzi, cotto e mangiato.”
Si fermò un istante e fissò Rubina: era incerta se proseguire o meno il discorso, poi si fece coraggio.
“Pensavo di fare la stessa cosa col re, ma ha una carne troppo dura e velenosa, oltre che immangiabile. Sono arrivata qui per fuggire da quel luogo infernale. Non ho più niente e una fame da lupo”.
Venusia le rispose con un grande sorriso e tono cordialissimo: “Anche noi non abbiamo rimasto più niente, dato che la ragazza che sta di fronte a voi, ha già divorato tutto.
Ah, a proposito: io sono quella che voi un giorno avete definito: “quella smorfiosa di Venusia”, sì eccomi qui, tanto piacere” aggiunse stringendole la mano.
Lady Gandal guardò altrove imbarazzata, non sapeva più cosa dire. Ci pensò Alcor a risolvere la situazione.
“A quanto pare, cara signora, avete fatto un grande favore a noi terrestri togliendoci di mezzo Gandal. Anche Rubina ha in mente di fare lo stesso con Zuril, anche se non ha le idee chiare come voi e sia piuttosto maldestra, purtroppo. Peccato che con Vega non si sia potuto, perché così la guerra sarebbe già finita, peccato davvero! Rimane il problema approvvigionamento cibo: se non vi dispiace, esco un momento con la signora per farle una proposta.”
Uscirono fuori e tornarono dopo un quarto d’ora; dopo dieci minuti, le due ospiti se ne erano già ripartite.
Non ci potevano credere, un miracolo! Ma come aveva fatto Alcor a convincerle?
Le aveva semplicemente detto che l’ex principessa di Vega, aveva in corpo una sorprendente quantità di cibo: ce n’era per un esercito, o quasi. E siccome l’aveva divorato da pochissimo tempo, se l’avesse fatta a pezzi durante il viaggio, avrebbe potuto mettere il tutto in freezer e stare bene per molti mesi.
Lady Gandal non se l’era fatto ripetere due volte: liberarsi in un colpo solo di quella insopportabile e anche dei morsi della fame! Però, i terrestri erano davvero in gamba, adesso capiva perché nei combattimenti i veghiani perdevano sempre.


FINE
 
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COLLOQUI AMICHEVOLI

1_271

“Almeno una volta nella vita, voglio provare a guidare tutti i dischi da combattimento e non solo la trivella!”
“Mai! Scordatelo fin da ora!”
“Perché?”
“Come perché? Ognuno ha il suo mezzo da combattimento, impara a guidarlo perfettamente e usa quello: solo in caso di grave impedimento del pilota, un altro può prendere il suo posto, ma in via del tutto eccezionale e solo in caso di reale necessità, non certo per soddisfare le sue voglie, manie di grandezza, protagonismo o stravaganze varie!”
“Io non sono stravagante e non ho manie di grandezza!” ribattè lei risentita.

Al termine di una lunga corsa in moto, Alcor e Maria si erano fermati ad ammirare il panorama. Erano alquanto stanchi e accaldati, ma non per questo la ragazza aveva perso la voglia di farsi intendere, primeggiare, mettersi in mostra, cercare in tutti i modi di essere sempre la numero uno.
Dal canto suo, Alcor non era certo il tipo da lasciarsi mettere i piedi in testa. Maria era arrivata al Centro da soli due giorni e subito aveva cominciato a farsi intendere, eccome!
Si era messa in testa di correre a cavallo la prima volta che ci era salita sopra, vincere sempre le gare di moto, vantarsi di saper guidare bene il suo disco al primo tentativo di aggancio. La modestia non era di certo la sua dote principale.
“Io insisto, invece. Sono sicura di essere capace di guidare tutti i velivoli e lo voglio fare!”
Rispose lei con aria seccata e ostentando superiorità.
“Torniamo a casa? E’ ora di cena.”
“Andiamo… ma non finisce qui” concluse lei sgommando a tutta forza e lanciandosi in una folle corsa sollevando un gran polverone grigio.
Alcor iniziò così a tossire e prima di partire dovette aspettare finchè la nuvola di polvere si fu diradata, dato che gli impediva la visibilità.
“Perché ci hai messo tanto?” gli domandò seccata Maria quando lo vide tornare.
Lui non le rispose, ma dentro bruciava di rabbia repressa.
Continuò a punzecchiarlo per quasi tutta la durata della cena, finchè una breve ma efficacissima battuta l’ammutolì all’istante.
“Non capisco perché una ragazza così sportiva e moderna come te Maria, abbia il cattivo gusto di indossare un vestito antico e col nastro. Sembra uscito da un armadio dell’Ottocento, lo sai? Strano che nessuno te lo abbia mai fatto notare” le disse Alcor ostentando noncuranza estrema mentre era tutto intento a bere il suo caffè.
Venusia e Actarus abbozzarono un sorriso gentile, Rigel era tutto occupato a fare in modo che la pila dei piatti sulla credenza non finisse rovinosamente a terra. Mizar tentava di aiutare, ma le due loro stature non bastavano ad arrivare sufficientemente in alto.
Maria non replicò più nulla, per tutta la serata rimase seria e zitta.
Alcor si convinse di averla messa a posto una volta per tutte. Non sapeva invece, quanto si sbagliava.

La mattina del giorno seguente, per i quattro piloti fu tutta impegnata al centro di Procton a fare il punto della situazione ed elaborare nuovi piani strategici.
“Bene, ora la nostra squadra è davvero al completo. Ci sono domande? No, potete andare allora.”

“Alcor, visto che è ancora presto, andiamo a fare un giro a Tokio? Ti va?”
“Perché no? Con la moto, vero?”
“Per forza!” gli rispose lei con un grande sorriso.
“Non correre veloce come ieri, d’accordo? C’è anche il limite di velocità in centro, ricordatelo.”
“Lo so, andiamo!”
Appena arrivati, Maria iniziò a guardare i negozi con aria molto interessata. Entrò in uno di abbigliamento e accessori all’ultima moda e molto caro. Scelse velocemente un abito a giacca di seta con borsa in tinta, uno da pomeriggio, uno da sera, sandali col tacco, collana, bracciale e orecchini.
Davanti agli occhi esterefatti di Alcor, posò tutta quella roba sul banco e le sue orecchie udirono queste parole: “compro tutto e questo signore che vedete provvederà al saldo. Ieri mi ha fatto gentilmente notare che non so vestire e si è offerto di colmare questa lacuna pagando di tasca propria.” Disse la ragazza con studiata gentilezza mista a sottile perfidia.

“Molto bene: contanti o carta di credito?” domandò il commesso.
Maria era già uscita, mentre Alcor stava ancora metabolizzando quello che aveva appena visto e udito.
Spiazzato e senza via d’uscita, tirò fuori una carta prepagata e alcune banconote. Rimase col portafoglio completamente vuoto.
“Questo è un buono per i prossimi acquisti. Abbiamo un vasto assortimento anche nel reparto maschile, ha dato un’occhiata?” gli disse il venditore con tono serio e professionale.
“Ci puoi scommettere che torno qui un’altra volta. Addio e a mai più arrivederci” mugugnò tra sé.

Per tutto il viaggio di ritorno non gli fu possibile articolare una parola, era scioccato e totalmente spiazzato. Decise comunque che una fregatura simile non l’avrebbe mai più avuta per il resto della sua vita, né da Maria, né da nessun altro, terrestri e non.
Tornati a casa, Alcor corse ad ammirare il Goldrake2: ricordò che l’aveva costruito da solo e gli era venuto benissimo. Sarebbe stato sempre e solo il suo e lui l’unico a pilotarlo, pensò pieno di soddisfazione.

Il pomeriggio seguente, Maria decise di lanciarsi in una corsa spericolata a cavallo e con fare provocatorio, invitò Alcor nella gara.
“Vediamo chi arriva prima, sono sicura che vincerò io” lo sfidò lei con arroganza.
“Ti faccio mangiare la polvere, vedrai! E con questa, tutte le partite sono chiuse per sempre!”
Il cavallo di Alcor era ancora da addestrare completamente, quindi dopo qualche metro di corsa, lo buttò a terra, mandandolo a sbattere con la testa sui sassi appuntiti.
Maria andò subito a soccorrerlo piena di paura.

Il ragazzo venne portato semisvenuto in infermeria, dove gli diedero alcuni punti sulla fronte: contemporaneamente, suonò il noto allarme.
“Dottore, vedo tre formazioni di minidischi” disse Hayashi.
“Li vedo. Actarus, parti subito col tuo disco… e tu Venusia, tieniti pronta in caso di bisogno.”
“Va bene, dottore.”
“Prendi il Goldrake2, combatti anche per me…” sussurrò Alcor alla ragazza con sforzo estremo.
“Vado subito!”
Venusia si lanciò per il lungo corridoio che portava all’hangar, ma si fermò ben presto.
“Actarus è mio fratello, devo rischiare io!” le disse Maria sorpassandola.
“Che ragazza coraggiosa!” disse Venusia piena di ammirazione.
Forse avrebbe dovuto dire: “Che arrogante presuntuosa e maleducata”, sarebbe stato molto più appropriato a lei.
“Non ci posso credere, sono a bordo del disco di Alcor, ce l’ho fatta!”
Raggiunse ben presto il fratello giusto in tempo per dare il colpo di grazia al mostro di turno.
Al ritorno non la smetteva più di pavoneggiarsi e complimentarsi da sola.
“Maria, ricordati che noi siamo qui per difendere la Terra che ci ospita, non per esibirci in esercizi bellici” le disse Actarus in tono di rimprovero.
“Questo lo so, figurati” gli rispose con finta umiltà, mentre tra sé pensava: “Mi rimane da pilotare il Delfino… e ci riuscirò. Devo solo avere pazienza e aspettare il momento giusto. Se si distraggono un attimo, un giorno mi vedranno a bordo di Goldrake! Eccome! Tutto è possibile quando una cosa la si vuole davvero.”

Così pensava Maria volando nel cielo turchino in un pomeriggio di fine estate. Chissà se ci sarebbe realmente riuscita?


FINE

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A TUTTO GOSSIP

2_71

Nel periodo estivo, di solito, i giornali pettegoli strabordano di notizie curiose riguardanti i personaggi più in vista. Nemmeno il pianeta Vega fa eccezione su questo: i giornalisti si appostano a fotografare i vip e ci scrivono sopra delle storie condite di molta fantasia.

Sul settimanale “Fantasy” è apparso un articolo sui gargarismi.
“Il bevitore Hydargos ha ideato un sistema molto innovativo per nascondere il suo vizio: ingoia sorprendenti quantità di acqua di colonia in stile Rossella di “Via col vento.” Il contrasto coi due forti odori, ha fatto svenire tutti i soldati e il Comandante Gandal. Non ci è pervenuta notizia circa la reazione della sua dolce metà, anche se, insistenti voci di corridoio insistono nel dire che il divorzio tra i due sia imminente.”

“Sempre a proposito di gargarismi, è appurato che il Ministro Zuril li faccia ogni mattina. Da quando si è improvvisato tenore, ci tiene a dare il meglio con la sua voce.”

“Il pianeta Vega è quasi al collasso… si mormora che il sire giochi tutte le materie prime al tavolo verde. La ludopatia è una brutta bestia oltre a un vizio da nascondere, specie quando si tratta di sangue blu. Quali possibili rimedi?”

“Chi impalmerà la sua erede? Che sia l’estate buona? A proposito: dalle foto in bikini, pare che la principessa abbia fatto ricorso al silicone… o è solo merito del push up?”


Nel mese di agosto, i veghiani in vacanza, fanno abbondanti scorte di riviste pettegole. Una volta in spiaggia, le leggono e commentano ad alta voce coi vicini di ombrellone.
Sul litorale sud-est di Vega, ci sono ampie spiagge lambite dal mare turchino. Il luogo ideale per ospitare intere famiglie solitamente composte da quattro persone e a volte con nonna o zia al seguito.
Numerosi intrattenimenti per i bambini, corsi di nuoto per tutte le età, gare di bocce e racchettone, musica dal vivo.
Di solito, le famiglie coi pargoli al seguito, amano lasciare i suddetti alle cure degli animatori; tutto l’anno sempre tra i piedi! La vacanza è per tutti, che diamine!
Succede quindi che, ogni mattina le signore riempiano le borse di riviste traboccanti articoli al vetriolo sugli appartenenti al bel mondo e li commentino tra loro aggiungendo il manico.
I signori mariti invece, lontano a fissare la costa e fare qualche passeggiata senza molta convinzione: più che altro impegnati ad ammirare le giovani e procaci bagnanti.

Vediamo un gruppo standard. Una fila di ombrelloni in prima linea e quelli centrali tutti occupati da famiglie sopra descritte, le quali arrivano sempre intorno alle nove del mattino.
Dopo che i bambini vengono abbondantemente unti con creme ed olii contro le scottature e lasciati a costruire castelli di sabbia, le signore aprono le rispettive borse di plastica strabordanti di settimanali freschi di stampa e naturalmente leggerli avidamente fino all’ultima riga.

“Senti senti… qui dice che i coniugi Gandal si stiano separando.”
“Impossibile! Ma come fanno? Sono una cosa sola!”
“Pare che abbiano trovato un chirurgo di fama universale in grado di riuscirci. Certo che l’intervento è piuttosto rischioso, non è mica un’appendicite!”
“E gli alimenti? A proposito, la separazione è consensuale o no?”
“Qui non lo dice, ma a giudicare dalle loro facce arrabbiate, si direbbe che più di un Principe del Foro si stia occupando della causa.”
“Chissà quanto costa! Ma chi rimarrà poi con re Vega?
Lui o lei? e dove andranno ad abitare?” Forse separati in casa, chissà!”

“Il Ministro delle Scienze Zuril è stato fotografato sulla Terra in missione artistica a quanto pare. L’hanno beccato mentre si recava al teatro di Tokio… in dolce compagnia naturalmente. E il sire gli ha fatto una ramanzina coi controfiocchi: se si è fatto scoprire, è segno che il travestimento non era ben fatto, oppure non ha fatto sparire tutte le tracce. Strano che non l’abbia ancora defenestrato… Gorman e Dantus, pare non aspettino altro. Mica è scemo Zuril, li ha conciati per le feste. Loro, non certo la principessa, quella non se lo fila neanche di striscio e lui va sempre in bianco.”

“Da quanto si legge e si vede dalle foto, anche Rubina non se la passa tanto bene in fatto di uomini. È sempre sola, seria e immusonita anche…”

“Ehi, guardate questa foto! Il Comandante Gandal ha una testa piena di ricci, tutti gonfi e cotonati: la sua metà invece… ma è calva! Cosa avranno fatto?”

“Un esperimento mal riuscito di Zuril, sembra. Volevano farsi belli, invece… che orrore! Brutti e cattivi, ben gli sta!”
“Ad ogni modo, in quanto a soldi se la passano davvero male; e si sa che con certi chiari di luna, poi le liti e dissapori abbondano più del solito.”

“Tira una brutta aria da quelle parti. Bisognerebbe che la principessa facesse un bel matrimonio di convenienza con un re straniero… così… la vedo molto buia per loro. Sembra che su Rubi abbia trovato qualcuno… queste foto lo dimostrano: chi sarà?”
“Uno spiantato, non vedi come va in giro? E che faccia?”
“Comunque, lei non ha ancora mandato giù il fidanzamento andato a monte col Duca di Fleed. L’ha presa malissimo, ancora non le è passata.”
“Non lo sai che lui se la faceva con un’altra? Lei deve averli scoperti insieme…”
“Ah, hai capito? Sempre di corna si tratta, dunque. Gira e rigira finisce così.”
“Ma tutti si tradiscono a vicenda, solo che c’è quello che ci passa sopra e fa finta di niente perché gli conviene, un altro li ammazza a sangue freddo. Delitto d’onore, no?”
“Una volta, ma adesso ti mettono dentro…”
“I nobili in galera non ci vanno di sicuro; ci mandano un innocente al fresco, credici!”

“Hanno tutto in mano, fanno il bello e cattivo tempo. Comunque, il tempo passa anche a casa loro… guardate qui il sire com’è invecchiato.”
“E poi, non si è mai più risposato, da molti anni è sempre solo…”
“Ma per forza! Lo sapete no? La sua legittima consorte… gli ha sempre messo un sacco di corna. Anche la sua fine è qualcosa di oscuro e avvolto nel mistero. Non si sa niente: che sia morta, sparita, ripudiata, separata… mah!”
“Si dice fosse una donna bellissima e molto ammirata dagli uomini.”
“Bellissima per forza: da chi avrebbe preso le sembianze sua figlia, altrimenti? Mica dal padre!”
“Ah, no! È un mostro! Pare sia stata una nobile straniera decaduta… costretta quindi a ripiegare su un matrimonio di interesse.”
“Sai quanti ce ne sono di fatti così! L’universo ne è pieno.”

I giornali Fantasy, Astrovip, Vegatron, Gossip-x, Cleo-zx, sono pieni di foto raffiguranti i personaggi più noti in costume da bagno, mentre nuotano al largo, in barca, a mangiare… ma quelle che riscuotono più interesse sono quando si intravede accanto a loro un probabile fidanzato dall’aspetto anonimo. In quei casi, le congetture si sprecano: sia da parte dei giornalisti, che dei lettori.
Un’altra cosa che allieta molto le lettrici è il ricorrente aspetto trasandato di tutti, i quali, credendosi al riparo da sguardi indiscreti, non si truccano, si vestono male e hanno modi ed espressioni alquanto poco nobili.

“Guardate qui: Lady Gandal da sola sul molo della spiaggia, mentre fa un tuffo dagli scogli.”
“Ha fatto apposta perché c’era il bagnino, vedete? Gran bel fustacchione! Però, non ancora separata, ma già si guarda attorno.”
“È slavata, poi sta male con quel costume olimpionico.”
“Figurati! Ne ha uno simile mia nonna quasi novantenne. In testa porta una di quelle cuffie antiquate di plastica con le margherite applicate: si usano per non bagnarsi i capelli.”
“No, se l’è messa per nascondere le calvizie, ormai di capelli non ne ha più.”
“Allora anche Gandal se la deve mettere per mascherare la sua folta chioma… quella che è passata da lei a lui…”
“Che strane cose succedono a quelli lì… non vorrei essere al loro posto.”

“Ad ogni modo, anche la principessa Rubina è abbastanza scialba quando non è in tiro. Guardate qui, senza trucco e piena di scottature.”
“C’è un bel fusto vicino a lei che la spalma di crema solare.”
“Il solito flirt estivo: a settembre sarà tutto finito.”
“Sicuro, è così che fanno i nobili ricchi. Cambiano compagno con la stessa disinvoltura e rapidità con la quale fanno il rinnovo del guardaroba.”
“Li avete visti nell’altra pagina? Fanno gara di palloni con le gomme da masticare.”
“Che finezza! Davvero uno sport principesco. Di sicuro vince lei.”

“Ma… in questo periodo non fanno niente? Attacchi terroristici, invasioni, genocidi, esperimenti? Che abbiano esaurito le armi e tutti i mostri?”
“No, diciamo che anche loro vanno in vacanza, così come ci andiamo noi.”
“Esatto, così dopo, freschi e riposati sono ancora più cattivi e agguerriti.”


Infatti, è così. Re Vega ha dato ordine ai suoi comandanti di buttare alcune bombe al vegatron sopra i giornalisti e il reparto stampa di questi settimanali dissacratori.
Domani le edicole saranno quasi vuote.


FINE

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QUALCOSA DI CUI SPARLARE

5_22

“Io voglio sapere perché devo sopportare questo terribile tanfo che tu osi chiamare profumo alla francese e mi propini da settimane!”
Così parlava il Comandante Gandal alla legittima consorte in un mattino di mezza estate.
“Sei tu che non capisci niente e sei totalmente privo gusto. Allora, visto che sei entrato sull’argomento delle lamentele, ti dico subito che da anni taccio sulle tue unghie mal tagliate e mal curate. Va bene non mettere lo smalto perché sei un uomo, ma sono brutte, sporche, incolte: è un bel castigo dover condividere lo stesso corpo, accidenti! Per oggi ti risparmio il tema vestiario, perché sono buona e anche perché si è fatta l’ora in cui di solito il nostro sovrano vuole parlarci.”

Entrati nella sala comando, videro con stupore che la principessa Rubina era arrivata alla base lunare: strano, non ne sapevano niente, credevano fosse ancora in viaggio alla scoperta di pianeti sconosciuti e ricchi di materie prime da sottrarre.

Sua Altezza stava seduta, no, quasi distesa sulla poltrona di velluto scarlatto, stanca e annoiata a morte di tutto e di tutti. Almeno questa fu la prima impressione che ricevettero.
“Si può sapere cos’hai di preciso?” le domandò il padre con premura.
“Cosa devo avere? Niente. Ho viaggiato per settimane senza concludere un accidente! E quando tornerò su Rubi, sentirai che musica! Sommosse, proteste, rivoluzioni… il popolo ha fame, sete e disperazioni varie. Non ne posso veramente più!” disse la ragazza con tono incolore, soffocando uno sbadiglio.

“E’ un periodo di fermo anche qui: in realtà ci sarebbe molto da fare, ma questi collaboratori mi stanno facendo impazzire, non combinano niente di buono, fanno errori stupidi e sono tanto svogliati. Io dico che sto pensando seriamente di sostituirli tutti e quando dico tutti, non ne escludo nessuno.
Lo sai che l’altra sera Gandal e consorte si sono divertiti a fare il sacco nel letto a Zuril?
Sembravano regrediti allo stadio infantile, peggio, ridevano come dei cretini. Credevano io non li vedessi, come no, pensavano di farmi fesso… come quando la settimana scorsa, l’inappuntabile Ministro delle Scienze, alzatosi di buon mattino e in vena di esperimenti, ha messo una dose massiccia di sonnifero nel doppio cognac a Hydargos ingoiato a digiuno, perché voleva vedere se riusciva a procurargli un coma etilico.”

Rubina non era affatto interessata all’argomento, tratteneva gli sbadigli a fatica, mentre con l’indice arrotolava distrattamente una ciocca di capelli e i suoi occhi senza espressione erano persi in un punto lontano.

Zuril intanto, per dimostrare al sovrano di essere il più laborioso, serio ed efficiente, si presentò nella sala del trono con un pacco di fogli impilati raffiguranti le bozze di nuovi mostri da combattimento.
Entrato senza guardare dove metteva i piedi, andò ad inciampare sulle gambe distese per quanto erano lunghe della principessa, cadendo in avanti e nella rovinosa caduta, i fogli si sparsero per tutta la sala.
Rialzatosi non potè credere ai propri occhi: l’oggetto dei suoi sogni leciti e non era lì, in carne ed ossa, che magnifica sorpresa, come mai non ne sapeva niente?

“M… ma che novità, non sapevo che ci stavate onorando con la vostra presenza: a cosa debbo questa gradevolissima visita inaspettata? Siete sempre molto bella, sapete? Oggi più di ieri, domani…”
“Voi invece sembrate un ramarro in corsa, di quelli che sono raffigurati nelle spille decorative: sempre verde, sempre disgustoso, sempre antipatico, sempre...”
“Abbiamo capito Rubina, pensiamo piuttosto a cosa fare adesso: dato che siamo ancora in estate, vuoi andare in vacanza da qualche parte? In quella rivista che stavi leggendo ci sono dei club con tanti giovani, tanto divertimento…” le disse suo padre.
“Tanto tornaconto anche, perché è pieno di bellimbusti che ti fanno il filo per portarti subito a letto e prima dell’alba ti hanno già scaricato!” gli rispose gettando lontano il giornale.
“Non occorre scendere nei dettagli, se questa cosa non va bene si troverà dell’altro”, le rispose il sovrano, alquanto imbarazzato dalla piega che stava prendendo la conversazione.

“Ma… dove sono finite le caramelle tutti frutti, le mentine, le gomme che fanno i palloni più grossi dell’universo?” chiese la principessa, infilando una mano nel grande barattolo di cristallo che stava sul piccolo tavolo accanto al divano.
“Non lo so. Devono averle mangiate Gandal e il comandante Zigra durante la riunione di ieri.”
“Ingordi! Gli si cariassero tutti i denti, almeno”, borbottò lei mentre si alzava dalla poltrona.
“Dove vai, Rubina?”
“Nell’altra sala, perché?”
“Sul tavolo deve esserci l’apparecchio per ascoltare la musica, portamelo. Spero che quella, mi possa distrarre dai pensieri di quei buoni a nulla”, borbottò il sire con malumore.

La principessa entrò nella stanza adibita a studio, dove sempre si riunivano i Comandanti di Vega.
Zuril, Gandal e Zigra erano impegnati in una discussione piuttosto accesa: all’apparire della ragazza, tacquero all’istante e fecero un breve e ossequioso inchino.

“Scusate Altezza, se vi possiamo essere utili in qualche modo…” le chiesero gentilmente e in tono servile.
Lei li fissò con occhi di brace, poi esordì con queste parole: “Voglio indietro tutte le caramelle che vi siete strafogati, brutti egoisti, ingordi e imbecilli!”
“N… no… un momento… veramente… non è stata avidità e men che meno indelicatezza nei vostri confronti, principessa… è stato che… Per farla breve, Zigra soffre di diabete e ha avuto un forte calo di insulina: stava per svenire e quei dolci gli sono stati provvidenziali”, le disse Zuril con deferenza e tono stucchevole.
“Va bene, ho capito. Adesso voglio lo stereo, dov’è? O avete ingoiato anche quello per via dell’insulina?” lo aggredì lei molto scocciata, le mani sui fianchi e tono al limite dell’esasperazione.
Senza muoversi dal centro della stanza dove si trovava, con lo sguardo fissò ogni particolare e finalmente lo vide.
“Ah, eccolo lì! E ti pareva! Sta sotto la gigantesca zampaccia verde di Zuril, sfido io che non lo vedevo! Leva quella manaccia, non è mica roba tua, cosa credi?”
Lui si spostò subito come colpito dalla scossa elettrica. La ragazza prese lo stereo con modi diretti e spicci, poi corse nella Sala del Trono.
“Eccolo qua. Che canale sintonizzo?”
“Dentro ci deve essere un disco con musica da camera: accendi, è quel che ci vuole in un momento come questo”, le rispose il padre in tono laconico.
Rubina premette il tasto e subito una tenue melodia si sparse nella sala. Dopo alcuni minuti di musica soft, si udirono chiare e distinte delle voci. Erano quelle dei tre comandanti!
“Sono qui da due giorni e già stufo… ma insomma, questo Re Vega, chi si crede mai di essere? Se non gli va bene ciò che facciamo, che si arrangi da solo una dannata volta! Si metta al lavoro di buona lena e fabbrichi mostri con le sue stesse mani: così lo vede quanto è difficile!” diceva Zigra con tono tra l’annoiato e il saccente.
“A te va alla grande! Come credi ce la passiamo noi, sempre ai suoi ordini, servirlo e riverirlo da anni, rischiare la pelle, essere presi a male parole ogni volta dopo una sconfitta o anche soltanto perché si è svegliato con la luna di traverso?” aggiunse Gandal con tono amaro.
“E quando elaboro una buona idea, mai che abbia un aumento di grado! Brava, complimenti, come farei senza di voi, siete la più brava… ma alla fine, detto in soldoni, io ne esco sempre male”, dichiarò Lady Gandal con voce e tono molto aspri.

“Non avete mai pensato ad andarvene? Cercare un’altra galassia come base e mettervi in proprio? Anche perché, scusate, lui è un re, ma appunto solo un re, nel senso che non possiede la tecnologia, la scienza, le armi. Senza voi collaboratori è meno di niente. Rubate di nascosto le formule segrete, il materiale e i mostri… e dopo sarete in grado di attaccare tutti i pianeti che vi pare. Così l’utile rimarrà a voi soli: non che si pappi tutto lui senza muovere un dito e nulla rischiare, e alla fine rimangono a voi solo le briciole come contentino”, ragionò Zigra a braccia conserte.
“E’ vero!!!” dissero gli altri in coro. “Non ci avevamo mai pensato. Lui è solo un gran pallone gonfiato! Anzi, tra poco scoppia da tanto è gonfio… perché non proviamo a forarlo con un ago? Si sgonfierà di botto come quei palloni colorati che si vedono nelle fiere terrestri.”
A quella battuta di Zuril, scoppiarono tutti a ridere a crepapelle… e continuarono a sganasciarsi per molti minuti.

Nella sala del trono, re Vega e Rubina ascoltarono quella lunga conversazione che inavvertitamente era stata registrata: molto probabilmente, qualcuno aveva spinto un tasto senza rendersene conto e adesso, i discorsi volgari di quei miserabili erano arrivati alle orecchie dei sovrani.
Re Vega era tutto un fremito, si era alzato dal trono e buttava a terra tutto ciò che stava sulla scrivania.
Non parlava, ma la sua espressione gridava una prossima e feroce vendetta per quei disgraziati infami traditori, ingrati, falsi, ipocriti e bugiardi che a parole lo lisciavano e ossequiavano, mentre dietro lo riducevano in briciole di polvere cosmica.

Rubina, con un gesto della mano fece segno al padre di buttarsela dietro, poi prese le sue cose e si avviò verso l’uscita.
Prima di andarsene, si voltò per dire: “Non badarci, non ne vale la pena. Sono sicura che ben presto avrai l’occasione per fargliela pagare. Io vado, ci sentiamo al più tardi domani.”
“Non la passeranno liscia, te lo dico io! E non ho intenzione di aspettare” disse il re, schiumando rabbia.
“Va bene, ma tieni d’occhio la pressione, lo sai che è soggetta a sbalzi e questo ti fa male.”

La principessa uscì, ma dopo alcuni istanti rientrò perché aveva dimenticato qualcosa.
“Oh, che sbadata! Ho lasciato qui la borsa con tutti i telecomandi: senza questi non vado da nessuna parte.”
Afferrò la borsa, ma poi si arrestò un attimo per ascoltare la conversazione registrata… c’era qualcosa che aveva catturato la sua attenzione.

“… da anni il re non ha più uno straccio di donna… chi vuoi che se lo pigli! E’ un mostro, sta finendo in miseria, ed è sempre stato pieno di corna. Mica è sua figlia quella, lo sanno anche i muri!”, diceva in tono sguaiato Lady Gandal. Il consorte fu svelto ad afferrare la palla al balzo e continuò: “la principessa è bella, ma giusto quello, per il resto non ha niente.”
“Lei vorrebbe fare un buon matrimonio, ma poverina, è così cheap che nessuno la vuole. Capirai, con quel genitore avido e sanguinario fin nel midollo, i suoi trascorsi sentimentali, la scarsa cultura ed educazione, fanno il resto. Quella lieve e superficiale patina di nobiltà che si porta addosso, non basta certo a renderla chic e raffinata come il suo titolo richiede”, lo interruppe la donna, infierendo con gusto perfido.
Zuril intervenne tempestivamente. “Un momento, Rubina è davvero strepitosa e scommetto tre formazioni di minidischi che entro l’anno riuscirò a sedurla.”
Seguì un coro di fischi e parole derisorie: “Ma quando mai? Non ne hai avuto abbastanza dei no che ti ha sempre detto e delle terribili figuracce che ne sono seguite? Lascia perdere, va!”
“Un momento”, interruppe lo scienziato con tono serio: “Non ho ancora messo in pratica l’ultimo dispositivo di condizionamento mentale da me inventato. E’ un sistema imbattibile! Devo solo perfezionare le ultime cose e ne vedrete delle belle! Mi cadrà ai piedi e mi supplicherà di tenerla sempre con me” disse lui a voce alta scandendo bene le sillabe.
“Se lo dici tu… può essere…” rispose Zigra poco convinto.

Nella sala, Rubina ascoltava tutto e manteneva sul viso un’espressione impenetrabile.
Suo padre la fissava preoccupato, mentre la rabbia saliva a picchi altissimi.
Con gesti febbrili, la ragazza frugò nella borsetta, estrasse una piccola bottiglia piena di liquido e la porse al padre.
“Lo sai cos’è questo?” Lui negò col capo.
“Una piccola dose di vegatron super concentrato; nel lungo viaggio che ho fatto, sono riuscita a recuperarlo e mi sono detta che sarebbe servito per le emergenze. L’emergenza c’è, e si tratta di quei bastardi traditori!” gli disse con sguardo incandescente.
“Non ho bisogno di spiegarti la modalità. Farai tutto questa notte, quando ognuno sarà nel mondo dei sogni… gli ultimi sogni d’oro per loro…”.

“Torna pure su Rubi, che qui ci penso io. Fai buon viaggio cara, ci sentiamo domani.”


FINE

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VIAGGI DI NOZZE

1_272

Questa storia parte dal presupposto che Naida e Duke si siano sposati su Fleed… e in versione piuttosto “spensierata ma non troppo”.

Alcuni chicchi di riso caddero a terra, quando Naida scrollò i capelli nell’alba di quel suo primo giorno da sposa. Sorrise divertita e con la spazzola iniziò a pettinarsi con vigore davanti allo specchio ovale della grande e luminosa camera da letto nuziale.
Non le sembrava ancora vero: adesso era una donna sposata!
Sentì la mano di Duke che le sfiorava il viso e si girò a guardarlo. Era bellissimo! Si alzò dallo sgabello rovesciandolo a terra, e si buttò felice tra le sue braccia.
Lei indossava una lieve camicia da notte di seta e pizzo bianca dalle spalline sottili e molto scollata; lui un pigiama bianco in seta e raso.
C’era un’usanza piuttosto comune tra i nobili e le famiglie benestanti di Fleed: si acquistava un unico taglio di stoffa preziosa, e con quello si confezionavano fini capi da notte che gli sposi avrebbero indossato la prima volta da sposati. Per chi ne aveva le possibilità, si cucivano anche lenzuoli e asciugamani dello stesso tessuto. Dopo, venivano riposti con grande cura nella tela e custoditi gelosamente negli armadi, per poi essere di nuovo indossati ad ogni anniversario di matrimonio. Molte famiglie usavano passare questi indumenti ai propri eredi come dote, specie quando erano molto costosi, raffinati, impreziositi da perle e ricami fatti a mano.

“Cara…” le sussurrò.
Lei lo fissava con occhi languidi, ed era palese che entrambi ripercorrevano con la mente le ultime ore. Sapevano che non potevano indugiare ancora in quella stanza, perché sarebbero dovuti partire in quello stesso giorno per un lunghissimo viaggio di nozze.
In cuor loro, immaginavano i prossimi giorni e notti che avrebbero condiviso, e questo li colmava di una gioia senza fine.
“… ho deciso che, per un intero anno, svolgerete una vita del tutto simile alle persone normali, quelle cioè, che non hanno nemmeno una goccia di sangue blu nelle vene.” Così aveva detto loro il re di Fleed al termine del breve ma raffinato pranzo nuziale, svoltosi il giorno prima in un’ala riservata del palazzo.
Li aveva presi in disparte e in mezzo a loro, circondandoli con entrambe le braccia, li aveva fissati negli occhi e spiegato le sue intenzioni. “… Questo è il mio regalo di nozze per voi. Ritengo necessario che, per essere dei buoni sovrani e ottimi governanti, bisogna vivere sulla propria pelle le diverse condizioni sociali che di fatto esistono. Dalla vostra nascita ad oggi, avete appreso tutto ciò che di nobile ci può essere e questo non si cancellerà mai più, qualunque tipo di situazione incontrerete.”

Poco distante, la regina li fissava intensamente e i suoi occhi dicevano molto più di mille parole.
“Partirete per questo lungo viaggio in luoghi insoliti, dove avrete la possibilità di conoscere e studiare tutto ciò che vi sarà utile per la vita futura, ma in incognito e con abiti comuni. Ecco qui il programma…”, continuò il re, porgendo loro un fascicolo pieno di fotografie con scritte e piantine.

I due giovani erano sorpresi, ma tanto felici: tutto questo ai loro occhi non era altro una lunga vacanza, un intero anno di vacanza! Se avevano ben capito il succo del discorso come pensavano, significava non osservare l’etichetta, evitare noiose cerimonie, inviti con noiosissimi nobili decaduti che conoscevano il galateo a memoria, indossare abiti troppo eleganti che li impacciavano nei movimenti, parlare sempre a bassa voce, trattenere gli sbadigli, ubbidire, rispettare gli orari…
Erano stati felici anche della sobrietà della cerimonia: pochissimi invitati con un pranzo nuziale di poche portate, anche se era evidente che il tutto risultava molto fine e ricercato. Non si erano posti troppe domande circa la singolarità della cosa, perché per loro era stata solo una benedizione! Quando erano stati ospiti di qualche importante evento, si erano stancati moltissimo. I ricevimenti duravano almeno una decina di ore: Naida e Duke erano avvantaggiati dal fatto di avere un fratello e una sorella ancora molto piccoli, quindi la scusa per andarsene prima degli altri almeno ce l’avevano.

“Va bene!” risposero in coro raggianti.
“Per qualsiasi difficoltà dovesse presentarsi, noi ci siamo sempre… siamo la vostra famiglia, ricordatelo”, disse la madre di Naida che fino a quel momento era rimasta in disparte.
“E questo è per te”, aggiunse suo padre porgendole una piccola scatola di seta verde.
Naida l’aprì e vide che conteneva un ciondolo di oro ramato con una sottile catenella. Lo prese con soggezione, perché aveva subito intravisto che nel gioiello erano incisi dei piccoli disegni, i quali denunciavano la sua nuova condizione di donna sposata, erano simbolo di maturità, fertilità e responsabilità.
Una volta indossatolo, l’ultimo residuo dell’adolescenza sarebbe sparito per sempre dalla sua vita. Provò un istintivo momento di paura, ma subito quel sentimento fu spazzato via dal grande affetto che provava per Duke già dai tempi dell’infanzia e che era maturato col passare degli anni, dall’eccitazione di quel viaggio della durata di cinque settimane che avrebbero fatto insieme in posti semi sconosciuti e poco frequentati, ma molto suggestivi da quel che potevano vedere dalle immagini.
Sarebbe stata una lunga ed eccitante avventura e una volta tornati a casa, ancora molti mesi di luna di miele li attendevano. Il re aveva parlato di un intero anno senza obblighi nobiliari. Che regalo meraviglioso!

“Bene, allora potete andare” disse il re di Fleed.
I due giovani sorrisero felici e corsero al piano superiore per finire di preparare i bagagli.

La loro camera da letto era situata all’ultimo piano del palazzo reale e la porta finestra portava ad un ampio terrazzo, dal quale era possibile scorgere il corso del fiume circondato da piante e siepi basse.
Naida indugiò ad osservare commossa quello splendido paesaggio. Non si era mai resa conto della suggestiva bellezza di quel luogo, perché ancora non sapeva che gli occhi di una giovane donna innamorata, vedono tutto più bello.
Trasalì all’improvviso quando sentì la mano di Duke prendere la sua: non l’aveva sentito arrivare.
“Dobbiamo andare, cara”, le disse all’orecchio e lei lo seguì, rientrando nella stanza.
Le loro valigie erano quasi pronte, mancava solo l’inventario finale e chiuderle bene.
“Io dico che abbiamo preso tutto” rise lei.
“E io ti rispondo che siamo pronti a partire!”
I due giovani presero un bagaglio ciascuno e, nonostante il peso, scesero quasi di corsa al pianterreno. Erano vestiti con abiti da viaggio molto sportivi e in tela ruvida di un verde militare scolorito.

Sulla porta d’ingresso, erano a salutarli i loro genitori e fratelli. Si diedero un breve bacio e la raccomandazione da parte dei genitori, di mandare notizie ogni sera.

La prima tappa era la regione sud-est di Fleed e per arrivarci dovettero servirsi della nave pubblica. Appena saliti a bordo, rimasero colpiti da ciò che videro. Era piena zeppa di gente piuttosto malvestita e anche maleodorante. Parlavano a voce alta spintonandosi per passare, buttavano a terra le carte delle caramelle che avevano scartato, fumavano, ed erano molto maleducati.
Naida aveva trovato un posto d’angolo vicino al finestrino e da lì non vedeva quasi niente, perché la visuale era coperta dalla gente che era rimasta in piedi e non stava un attimo ferma.
Duke era rimasto sulla porta d’ingresso in cima al gradino più alto: le aveva fatto segno di andare avanti e prendere quel posto libero, con la promessa che al momento di scendere, l’avrebbe avvisata.

Il viaggio si rivelò piuttosto lungo, perché essendo una linea locale, ci furono molte fermate e ad ognuna, uscivano gruppi di persone, ma in compenso ne entravano altri, ancora più numerosi, chiassosi, sporchi e invadenti.
Era giugno e faceva molto caldo: in quella navetta di terza classe, non c’era aria condizionata e nemmeno l’ombra di un ventilatore. I finestrini erano quasi tutti bloccati o coi vetri sporchi e rotti.

Dopo circa due ore di viaggio, a Naida parve di soffocare, tentò di alzarsi per raggiungere la piattaforma vicino alla porta d’ingresso. In un’abile contorsione ci riuscì, ma il piede destro che aveva iniziato il percorso, venne massacrato dal pesante tacco degli zoccoli che indossava una specie di contadina molto bassa e dalle forme strabordanti. La ragazza soffocò un grido a fatica e piegata in due, fece per tornare al suo posto, ma vide che era già stato occupato da due gemellini tutti intenti a litigare per via dell’album di figurine e alcuni giocattoli.
Col piede stretto nella mano, Naida fece il possibile per rimanere in equilibrio e ci riuscì, perché così fitto di gente, rimanere in piedi era dopotutto un qualcosa di molto logico.
Con sguardo disperato cercò Duke e finalmente vide che le faceva segno con la mano. Con enorme sollievo, capì che era ormai prossima la loro fermata e facendosi largo tra quegli essere rozzi e maleducati, lo raggiunse.
“Tutto bene, cara?” le chiese preoccupato.
“Abbastanza… scendiamo adesso?”
“Sì, alla prossima, poi dobbiamo prendere la coincidenza che passa tra mezz’ora.”
Lei lo fissò desolata.
“Cosa? Un altro viaggio simile? Ma quando arriviamo a destinazione?”
“Dopo ci sono altre tre ore di viaggio.”
“Io non ce la posso fare” mormorò Naida affranta, nascondendo il viso dietro la spalla di lui.
Lui la fissò sorridendo, mentre le sollevava il mento con l’indice. Le disse qualcosa all’orecchio e lei si rianimò un poco.

Scesero alla stazione e finalmente poterono respirare! Osservarono gli orari degli arrivi e partenze nel grande monitor centrale, e mentre cercavano l’indicazione esatta del loro mezzo, l’altoparlante annunciò che il loro volo era stato sospeso. Si recarono subito all’ufficio informazioni, ed ebbero la conferma che sarebbero potuti partire solo il giorno successivo.
“Ci sono stati degli scioperi con conseguenti ritardi: alle nove e trenta di domani, c’è il primo volo utile” questa era stata la risposta della ragazza allo sportello.
I due giovani avevano quasi tirato un sospiro di sollievo, visto che alla fine dei conti non avevano obblighi di nessun tipo, né rigidi orari da rispettare e sinceramente, viaggiare per altre ore in quel modo, non era per nulla piacevole. Oltretutto si sentivano alquanto sudati e sporchi.

“Non ci resta che passare la notte in questo paese” le disse Duke prendendo anche la borsa di lei.
Insieme si avviarono verso l’uscita decisi ad andare subito a cercare una locanda possibilmente munita di bagno con doccia, quando davanti ai loro occhi si materializzarono all’improvviso due figure di loro conoscenza: il nonno e la nonna di Naida!
Con un sorriso fino alle orecchie e contenti come pasque, corsero incontro ai due ragazzi.
“Carissimi! Eccoci qua anche noi!”
Naida era trasecolata, non ci poteva credere. Rimase per lunghi minuti immobile e incapace di articolare una sola parola.

Duke si riprese subito e li salutò cordialmente.
Dopo alcuni minuti di chiarimenti, si seppe che i due, erano lì per fare il viaggio di nozze insieme a loro.
“… Ai nostri tempi non ci fu possibile… avevamo il desiderio di visitare questi luoghi… i vostri genitori hanno così insistito…”
A queste ultime parole, Naida trasalì.
“In che senso, i nostri genitori hanno insistito? Volete dire che avevano progettato tutto questo senza dircelo?” li aggredì verbalmente, stringendo gli occhi in due fessure.
“Certo, cara!” le disse sua nonna con semplicità e senza mai smettere di sorridere. Pareva non notare assolutamente il disappunto della nipote.
“Abbiamo lasciato le nostre borse nell’ingresso…” si ricordò il marito.
“A quelle ci pensiamo noi, voi due aspettateci qui, torniamo subito; vieni Naida!”
Lei lo seguì, ma solo perché aveva voglia di chiedergli a quattr’occhi, come mai accettava tutta questa stranezza senza battere ciglio, anzi, quasi contento!

“… Ma Naida, perché dici così? Davvero sei dispiaciuta perché i tuoi nonni si sono uniti a noi?” le aveva chiesto fissandola negli occhi con un’espressione incredula e quasi dolorosa, quando aveva sentito lo sfogo di lei.
Prima di rispondere, Naida ricacciò indietro le lacrime di rabbia che volevano prorompere, poi disse:
“Hanno deciso tutto tra loro senza dirci niente! E poi questo è il nostro viaggio di nozze, noi due soli, cosa ci fanno qui i miei nonni? Ci hanno tradito, ecco… io voglio bene ad entrambi, però… non possiamo portarceli dietro, non è un viaggio semplice per noi, figuriamoci per due anziani! No, non esiste, io non ci sto e se pensi che sia crudele ed egoista, pensalo pure, ma non cambio idea, io non sono la loro balia, chiaro?”

Lui posò a terra la pesante valigia, la fissò a lungo, poi le rispose con calma.
“Naida, ascolta: ti ricordi cosa ci disse mio padre prima della partenza? Che questo non sarebbe stato il viaggio che fanno tutti i nobili appena sposati… e che non sarebbe stato da nobili, giusto? Tu sei stata ben felice di accettare la cosa, ricordi? E ti è andato bene anche il fatto che noi due avremmo avuto un intero anno da vivere in maniera molto diversa da quella in cui siamo sempre stati abituati, no?”
“Sì, è così, l’ho detto! Ma non mi aspettavo un colpo basso come questo!” gridò lei con voce lievemente incrinata dal pianto.
“Aspetta, non ho finito. Questo non è stato un tradimento da parte di nessuno, è solo ciò che era nei patti da noi accettati, di quanto ci era stato anticipato prima della partenza. E il fatto sorpresa, non è come lo intendi tu nel senso di un inganno, ma è una cosa diversa. Vedi, per tutta la gente di ogni razza, età e condizione sociale, la vita è tutta un’incognita, ed è sempre piena di sorprese, belle e brutte; le quali sorprese, vanno adeguatamente gestite senza perdersi d’animo.
Se noi due un giorno vogliamo davvero essere in grado di portare sulle spalle una responsabilità così grande che è quella di una monarchia e nella giusta maniera, bisogna che da subito abbiamo la forza di affrontare senza panico le situazioni improvvisate.”

Si fermò alcuni istanti, lei continuò a tenere gli occhi bassi senza rispondere.
“E questa non è certo la cosa più brutta che potesse capitarci, no?” le disse con un sorriso complice.
Naida sentì un moto di ilarità prorompere sulle labbra, ma non volle darlo a vedere, quindi continuò a mantenere il broncio.
“Fammi un sorriso, dai! No? Aspetterò fino all’ora di cena, dunque… ed esattamente quando tuo nonno si accorgerà che la solita medicina è finita dentro la minestra, conferendole uno strano sapore.”
A quelle parole, lei non si trattenne più e scoppiò a ridere. E a quelle risa, ne seguirono altre, perché quel comico quadretto, veniva di solito seguito da altre scene sullo stesso tono.
“Bene, ora che ti è tornato il buonumore, vogliamo andare?” le chiese prendendola per mano.
I due giovani andarono incontro all’anziana coppia, che li aspettavano seduti su di una panchina.

Kenobi e Vera, così si chiamavano i nonni paterni di Naida, avevano entrambi superato la sessantina e si conoscevano fin dalla prima adolescenza, in quanto frequentavano lo stesso liceo della Capitale. Avevano un aspetto giovanile nonostante i capelli grigi e l’andatura non sempre spedita causata da alcuni acciacchi per via degli sport agonistici che lui aveva praticato per almeno una trentina d’anni. Lei non aveva voluto essere da meno e in gioventù l’aveva seguito in quell’attività che a volte rasentava i limiti della resistenza fisica, procurandosi così alcune cadute con conseguenti fratture che l’avevano ben presto fatta desistere dal proseguire quegli sport massacranti.

Vera era di nobili origini, ma si era sempre mormorato che il suo sangue blu, nelle ultime generazioni si fosse molto scolorito a causa della vita dissoluta della nonna di lei, la quale fin dalla giovinezza era sempre stata al limite della depravazione. Tali scandali venivano messi a tacere quel tanto che bastava a mantenere una parvenza di decoro, ma sia nel mondo della nobiltà, che nella servitù, i pettegolezzi si sprecavano.

Quando Vera e Kenobi si erano incontrati nell’augusto edificio liceale, i primi tempi si erano osservati da lontano senza avere il coraggio di farsi avanti. Un giorno, lei aveva preso la navetta sbagliata per tornare a casa e quando aveva fissato il paesaggio sconvolta perché non riconosceva quelle alte costruzioni grigie col bianco delle villette a schiera che era solita vedere, aveva sentito una voce rassicurante alle sue spalle.
“Se scendi alla prossima fermata, trovi subito la coincidenza che ti porta a casa tua…”
A casa c’erano poi andati insieme e da quel momento non si erano mai più lasciati.

Kenobi aveva delle origini nobili alquanto offuscate e molto lontane: questo era stato il problema iniziale per farlo accettare quale fidanzato e poi sposo di Vera.
Lui non si era certo perso d’animo, ma una volta presa la licenza liceale si era iscritto all’Accademia militare della capitale di Fleed, quella che aveva fama di essere la più severa in fatto di allenamenti e disciplina ferrea. Dopo un anno, aveva ottenuto l’attestato dove si diceva che il giovane si era classificato tra i primi, cioè uno dei migliori promettenti soldati che il pianeta potesse vantare.
Con quel foglio in mano, aveva bussato alla porta della fidanzata e i genitori di lei non avevano potuto fare a meno di ammirare quel giovane così serio e dalla parlata schietta, relegando quindi in un angolo remoto della mente il fatto che lui non fosse propriamente nobile. Lo era nell’aspetto e nei modi, possedeva una squisita nobiltà d’animo, cosa piuttosto rara nei giovani di quell’epoca.
Era palese che i due ragazzi non volevano proseguire gli studi, quindi acconsentirono alle nozze, le quali si svolsero in un assolato pomeriggio di fine estate.

Dato che entrambe le famiglie avevano dato fondo a tutti i risparmi per offrire ai novelli sposi una casa spaziosa e moderna, i due giovani avevano dovuto rinunciare al viaggio di nozze, ma a loro non era importato. Erano giovani, felici e innamorati, cosa potevano desiderare di più?

La loro abitazione era a pochi chilometri dal mare e ogni giorno ci andavano a piedi: passavano lunghe ore sugli scogli a guardare i gabbiani, mangiavano quello che si erano portati da casa e quei panini mai a loro erano sembrati così buoni.
Di comune accordo avevano pensato che ad entrambi sarebbe piaciuto avere molti bambini, ma di fatto ne ebbero soltanto uno dopo oltre tre anni di matrimonio: Morpheus, quello che poi sarebbe diventato il padre di Naida.
Tra una cosa e l’altra, rimandarono sempre il viaggio di nozze, finchè quando ormai non ci pensavano più, non si presentò l’occasione su un piatto d’argento.

Adesso stavano lì su quella panchina della stazione a fissare i nipoti con un sorriso stampato in faccia che non accennava a spegnersi.
Duke Fleed prese le loro borse e poi disse: “Si sta facendo sera, è meglio cercare un alloggio.”
Si avviarono lentamente verso il centro e dopo alcune centinaia di metri videro una piccola e romantica pensione a gestione familiare. In quella stagione era semivuota, trovarono quindi una grande suite all’ultimo piano.
Era grande quanto un appartamento, con due camere matrimoniali comunicanti, un salottino, il terrazzo, un bagno ampio e moderno.
I due nonni erano entusiasti, non erano mai stati in un posto così bello! A bocca aperta osservarono ogni cosa con timore e quando furono sul terrazzino adornato di gerani, credettero di aver toccato il cielo con un dito.
“Mi sembra di avere vent’anni” esclamò Vera buttandosi sulla poltroncina di vimini.
“E io credo di averne almeno venticinque” le rispose il marito ridendo.
“Vorrei restare qui per sempre…”
Naida era apparsa sulla soglia e li aveva osservati scura in volto.
“Si sta facendo l’ora della cena… volete prepararvi?” mormorò.
“Di già? Ma noi siamo pronti così…” disse il nonno, mentre la moglie fissava estasiata il cielo e tutto il panorama che li circondava.
“Più tardi staremo qui fuori ad ammirare le stelle.”
Si alzarono lentamente, poi scesero al pianterreno.
Naida e Duke si attardarono più a lungo per finire di lavarsi e cambiarsi: ne avevano molto bisogno.

La cena venne servita dentro il patio, un cortile rettangolare posto all’interno dell’edificio e che si poteva ammirare dalle camere.
“Prego, da questa parte” disse loro un giovane cameriere indicando un tavolo posto in angolo vicino ad alcune siepi.
Dopo una decina di minuti, arrivarono anche i due giovani: Naida, nonostante gli sforzi, non riusciva a mostrarsi contenta, Duke invece sorrideva sempre e si accomodò di fronte ai due anziani come fosse un fatto normalissimo, esatto, un viaggio di nozze a quattro con sorpresa: una cosa piacevole e del tutto naturale.
Arrivò il cameriere, il quale disse in tono professionale, ma cordiale: “C’è il menu fisso… ma se c’è qualche piatto che non va bene, non ci sono problemi a sostituirlo con un altro…”
“Va benissimo!” esclamarono Kenobi e Vera in coro e al colmo della gioia.
“Ma… come? Non potete mangiare tutto quello che vi pare. Tu nonno, devi seguire una dieta povera di sodio e grassi…” disse Naida molto seria.
“Senti cara, siamo in vacanza e facciamo come ci pare! E poi non siamo mica decrepiti! E se vuoi saperlo, gli ultimi esami che abbiamo fatto, sono risultati perfetti!” disse la nonna addentando un grissino.
“Qui il mangiare è semplice… fatto in casa”, puntualizzò il cameriere.
“Ce ne siamo accorti, è come essere a casa nostra… porti pure quello che avete”, rispose gentilmente il principe di Fleed.
“Da quanto tempo non facevamo un viaggio?”
“Forse mai, perché quelli che abbiamo fatto sono sempre stati per lavoro o per visite di cortesia, mai per puro piacere che io ricordi”, disse Vera al marito con sguardo sognante.

Arrivarono ben presto le portate e furono molto gradite da tutti.
Finita la cena, vollero fare una breve passeggiata nel grande viale alberato.
“Questa strada porta alla pineta: domani possiamo esplorarla da cima a fondo”, notò Kenobi con interesse.
Vera raccolse un volantino da terra e lesse che ogni mattina partiva una nave che faceva il giro di tutta la costa e verso sera rientrava.
“Io voglio andarci, guarda qui che viaggio magnifico! E’ una meraviglia, noi ci andiamo domani… voi ragazzi, cosa fate?” chiese la nonna con una punta di apprensione e forse dolore, come se solo ora si fosse accorta dello scontento della nipote.
“Mi pare una cosa ottima, che ne dici Naida? Andiamo anche noi?”
Lei si limitò ad annuire con la testa, tenendo lo sguardo fisso a terra. Duke la prese per mano e camminando dietro ai nonni, rientrarono lentamente nella locanda.

Passarono il resto della serata sul terrazzo ad ammirare le stelle e a ricordare fatti piacevoli del passato. A parlare erano quasi sempre Vera e Kenobi, Naida rispondeva monosillabi cercando di non essere scortese, mentre sentiva la rabbia mista a impotenza crescerle dentro.
Duke invece mostrava di divertirsi moltissimo a sentire parlare quei due che, a loro dire, erano felicissimi quando appena sposati avevano pochissimi mobili essenziali, niente televisione, né elettrodomestici, ma erano tanto felici.
“Ci volevamo bene, solo questo contava! La nostra casa a parer nostro, è stata progettata sul punto più bello dell’universo!” disse Kenobi.
“Era come se il cielo, il sole e le stelle fossero stato creati solo per noi. Non ci stancavamo mai di guardare le meraviglie del creato, e non capivamo perché alcuni ci dicessero con aria di compatimento che, senza computer, domestici e mobili ultima generazione, fosse impossibile stare bene”, rispose Vera sorridendo. “Andavo sempre al fiume per lavare i panni, al ritorno raccoglievo i fiori e con quelli adornavo ogni angolo della casa.”
Andarono avanti coi ricordi, finchè si fece quasi mezzanotte e rientrarono nelle camere per riposare.

Quando fu buio e silenzio, Naida rimase sveglia a lungo meditando tra sé.
“Forse sono un mostro… ma non riesco a capire il senso di questo terribile viaggio appena iniziato. Cosa può esserci di bello per due novelli sposi, andarsene in giro con due zavorre come loro. E quello che non capisco, è perché mai soltanto io sento la stranezza di questa cosa… per tutti gli altri è normale così… ma io…”
Sentì un nodo stringerle la gola e due lacrime salirle agli occhi. Girò lo sguardo verso il suo principe: come aveva sognato quei momenti nei mesi precedenti il matrimonio, le notti di passione loro due soli in posti strani e avventurosi lontani da casa, senza dover rendere conto di niente a nessuno.
E invece niente. Tutti dormivano beati e domani sarebbe stata una giornata passata a bordo di una stupida nave, certamente piena di bambini e anziani che facevano un gran fracasso. Una giornata deprimente e inconcludente: era terribile!
Dalla sua camera poteva vedere nella penombra quei due stesi nei loro letti: avevano tenuta aperta la porta di comunicazione nel caso avessero avuto bisogno.
“Ma bisogno di cosa?” si chiese arrabbiata. “A casa loro stanno sempre soli, no? Cosa c’è di diverso qui? Nemmeno un attimo soli… non credo di reggere un così lungo periodo… non ce la farò mai”, pensò con rabbia e dolore.
Naida si addormentò solo verso l’alba, quando ormai mancavano poche ore alla partenza.
Si alzò e vestì meccanicamente senza parlare: sapeva di non avere altra scelta.

Dopo aver fatto un’abbondante colazione servita in giardino, i quattro si avviarono a piedi verso l’imbarco: la nave sarebbe partita dopo una ventina di minuti.
Sentirono il fischio che annunciava la prossima partenza e coi biglietti in mano, si misero in fila per salire.
“Abbiamo dimenticato le medicine!” disse Vera ad un tratto, “Non possiamo farne a meno… Naida, ti dispiace…”
“Vado subito, voi intanto salite”, rispose lei con impeto, correndo verso la pensione.

Per alcuni istanti, fu quasi un sollievo per lei staccarsi dal gruppo: scartò subito l’ascensore e salì le scale a perdifiato. Entrata nella stanza guardò ovunque, ma non vide niente. Cercò anche sotto il letto, entrata nel bagno, vide che stavano sopra la mensola davanti allo specchio. Si attardò un attimo ad ammirarsi e quasi le dispiacque tornare da loro; sarebbe stata lì sola più che volentieri, tuttavia prese i farmaci e scese di malavoglia al pianterreno.
Ripercorse la strada che portava al molo senza fretta, quando improvvisamente si accorse che la nave era già partita e stava prendendo il largo.
Si accasciò esausta sulla panchina incapace di formulare un pensiero compiuto. Non ne poteva più, e questi erano solo i primi due giorni delle cinque settimane di viaggio che dovevano affrontare.
Poco dopo, il suo sguardo fu catturato da un foglietto caduto a terra, dove erano scritti gli orari delle partenze e degli arrivi, oltre al numero telefonico della nave.
Lo prese con impeto, poi andò a cercare un telefono.

La scritta che stava appesa sul vetro del locale di ristorazione, diceva che era incluso anche il servizio telefonico, quindi Naida entrò decisa.
Si fermò smarrita nella grande sala deserta, quando una voce femminile alta e sgarbata l’aggredì alle spalle.
“Alla buon’ora, meglio tardi che mai, eh? Ti aspettavamo da stamattina, si può sapere dove sei stata? Se cominci così, voglio proprio vedere cosa sarai capace di combinare, buona a nulla!” l’aggredì una donna molto larga e bassa dall’aria sciatta e volgare, che quasi certamente doveva essere la cuoca.
“Entra subito in cucina e comincia a lavare i piatti, muoviti!”
Naida era totalmente scioccata e incapace di articolare una sola parola.
La donna la spinse dentro la cucina senza tanti complimenti e il disordine che regnava lì dentro era indescrivibile. C’erano pile di piatti sporchi ovunque, pozzanghere d’acqua, fumo nero e denso.
“Questo è il grembiule, inizia subito a lavorare”, le disse in malo modo guardandola con aria di rimprovero. “Che razza di agenzia è mai questa, che ci manda delle lavoranti così svogliate!”
A quel punto, Naida iniziò a capire che lei era stata vittima di un equivoco, quindi tentò di spiegarsi.
“M… ma… veramente… io… io ero venuta qui sola per telefonare… la mia famiglia è partita con la nave e io non sono riuscita a raggiungerli… quindi… volevo…”

La donna era già uscita senza ascoltarla; sentiva la sua voce alta dare ordini ai camerieri e poi parlare col gestore.
“Quella là che sta in cucina è una buona a nulla, non ce la voglio qua dentro… prima di assumere gente, dovete interpellarmi, chiaro? Sono io che mando avanti la baracca qui”, gridava la cuoca.
“Ho capito, va bene…” le rispose esausto “Mandami la ragazza un momento.”
Naida entrò nel piccolo ufficio, quando sentì una mano prendere la sua.
“Duke! Come hai fatto a trovarmi?”
“Te lo dico dopo, ora andiamo” le disse sorridendole con aria complice.
“Aspetta che mi levo questo orribile e sporco grembiule: che brutto posto!”
Corsero fuori, mentre quelli del locale li fissavano sbalorditi.

Sul molo, Vera e Kenobi li aspettavano tranquilli.
“Ma… non siete partiti?” chiese loro Naida titubante “Pensavo che fino a stasera non vi avrei più visto, che gioia”, disse sollevata, mentre un sorriso che veniva dal cuore le allargava le labbra e illuminava gli occhi. Era la prima volta che, da quando erano partiti, era felice di essere insieme ai due nonni. Si era sentita sola e sperduta, adesso si rendeva conto quanto fosse importante la sua famiglia e non contava niente se quello strano viaggio di nozze fosse piuttosto insolito e un tantino affollato.

“No, non siamo più partiti, perché abbiamo fatto tardi e dopo abbiamo deciso una cosa di comune accordo; stai a sentire e dicci se ti va bene”, le spiegò Kenobi.
“Io e tua nonna, vorremmo fermarci qui per tutta la durata del vostro viaggio: il posto ci piace moltissimo e abbiamo visto che ogni giorno vengono organizzate delle brevi gite nei dintorni. Non possiamo permetterci di seguire voi due, arrampicarci per delle altissime montagne e passare alcune notti accampati all’aperto.”
Si fermò per prendere fiato, quindi Vera proseguì: “Al vostro ritorno, noi vi aspetteremo qui e torneremo a casa insieme. I vostri genitori non sapranno niente di questo piccolo complotto, anzi, telefoneremo loro dicendo quanto ci divertiamo tutti insieme… e voi farete lo stesso”, le disse strizzandole l’occhio.

“Cosa ve ne pare, ragazzi?”

Naida e Duke si fissarono un attimo, poi assentirono felici.

Decisero che si sarebbero separati il giorno dopo in tarda mattinata: adesso avevano ancora voglia di passare le ultime ore insieme per sentire ancora i racconti dei tempi passati, della loro infanzia e tanto altro.

Si alzarono senza fretta e decisero di fare un lungo giro al lago e poi in pineta prima dell’ora di cena.

Era davvero un posto bellissimo, pensò Naida, un piccolo angolo di paradiso e se fossero tornati con qualche giorno di anticipo, avrebbero trascorso gli ultimi giorni di vacanza proprio lì.



FINE

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Professore della Girella

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LE STELLE NON STANNO A GUARDARE

1_273

“Io non ci vado più, è chiaro??!!!”
Gandal alzò per un solo istante lo sguardo dal suo computer e fissò distrattamente Hydargos.
Perché quel grido isterico? E dov’è che non voleva più andare? Forse non voleva più scendere in campo a combattere contro Goldrake: non aveva tutti i torti, dato che ogni volta mieteva solo sconfitte, rimproveri dai superiori e soprattutto da re Vega.

Nel frattempo, il suo sottoposto si era alzato di scatto dalla sedia e aveva cominciato a camminare nervosamente per la stanza. Davanti al mobile bar, non si era potuto trattenere: l’aveva aperto e afferrato la bottiglia di cognac vuotandola quasi in un fiato.
“Non penso troverai la soluzione ai tuoi problemi dando fondo alla bottiglia, lo sai?” gli fece notare con calma serafica, mentre la stampante sputava una decina di fogli pieni di complicate formule e disegni mostruosi.
Hydargos si pulì la bocca col dorso della mano e tirando un grosso respiro, aggiunse: “Tutti voi mi mangiate sempre la faccia… sempre, ogni volta che…”
“Mi pare che la tua faccia sia tutta intera e sempre al solito posto; come fai a dire che noi te l’abbiamo mangiata?” lo punzecchiò con perfidia Lady Gandal facendo la sua comparsa per un nanosecondo.

Lui non rispose, ma lasciò la stanza veloce come un felino. Si chiuse a chiave nella sua stanza, poi accese il computer; voleva trovare una soluzione definitiva ai suoi problemi, quindi digitò nervosamente i tasti alla ricerca disperata di qualcosa.
“Corso di autostima… Riprendi in mano la tua vita… Fatti valere!... Non farti fare mettere i piedi in testa da nessuno… La vita è nelle tue mani, non fartela rubare da nessuno…”

Diede una breve occhiata a tutte le inserzioni, ma non fu persuaso da nessuna.
Continuò a cercare e sempre, in fondo alla pagina dello schermo compariva la pubblicità di un cartomante che si definiva anche: astrologo, indovino, traumaturgo, pranoterapista, veggente… tutto insomma!
Decise di cliccare lì, giusto per curiosità, mica perché ci credesse, che diamine! Lui era Hydargos, un potente soldato di Vega, che c’entrava il suo ruolo con la magia? Quelle erano cose per creduloni e ingenui, lui si sarebbe fatto solo quattro risate a sentire uno così!
Però, guardare non costa nulla e non c’è niente di male a dare una sbirciatina. Magari era uno gonfio di soldi e non solo quelli: poteva anche nascondere una notevole quantità di vegatron ad esempio, materiale per creare i suoi amuleti… chissà! Fare un colpo coi controfiocchi derubandolo fingendosi un cliente, avrebbe fatto crescere la sua stima davanti al sovrano e i suoi superiori sarebbero crepati d’invidia.

Davanti ai suoi occhi comparve subito un video dove era stato ripreso lo studio del veggente, mentre una voce calda e suadente elencava tutti i benefici che tale individuo era capace di elargire ai clienti.
Una luce soffusa e il lieve suono di una musica misteriosa, contribuivano a rendere l’atmosfera molto suggestiva. Il numero di telefono, indirizzo, erano sempre sottotitolati a caratteri cubitali, quindi Hydargos prese nota furtivamente e nascose il foglio dentro l’ultimo cassetto della scrivania, poi chiuse bene a chiave.
“Mago Morpheus riceve tutti i giorni… telefonate al numero… non aspettate, la soluzione ai vostri problemi è qui…” così riportavano le scritte lampeggianti blu elettrico.

Subito dopo, decise di scendere nel seminterrato per controllare le truppe dei soldati; sperava di beccarne qualcuno a fare il lavativo o errori grossolani, così la stima per lui dei superiori sarebbe salita a livelli accettabili. Da troppi giorni era in codice rosso: stato perenne di ebbrezza anche quando si scagliava contro Goldrake, errori così banali che non li avrebbe commessi neanche un bambino… no, bisognava rifarsi e per davvero stavolta.


Nessuno su Vega avrebbe mai pensato che Hydargos non era l’unico ad avere grossi problemi di autostima.
L’erede al trono, la principessa Rubina nonché comandante di Rubi, era sull’orlo dell’esaurimento da molti mesi e prima che la situazione diventasse irrecuperabile, aveva preso appuntamento presso uno studio medico specializzato in psicologia comportamentale. Siccome non voleva essere riconosciuta da nessuno, era andata su un altro pianeta con falsa identità, spacciandosi per un’anonima impiegata di un piccolo studio notarile di provincia.
Un lunedì pomeriggio quindi, la principessa stava in paziente attesa nella sala d’aspetto della clinica: per evitare confidenze con gli altri, aveva affondato la faccia dentro una vecchia rivista e così era rimasta, finchè non l’avevano chiamata per dirle che era arrivato il suo turno.
Col cuore che le batteva furiosamente nel petto si era alzata dignitosamente e a piccoli passi era entrata nello studio dello specialista.
“Chiuda la porta, prego, poi si sieda. Ha compilato la scheda che le ha dato la segretaria?”
“C… come? La scheda? Quale?”
“Quella dove vengono indicati i suoi dati anagrafici e il motivo che l’ha spinta a venire qui.”
Così le aveva risposto la dottoressa: una donna senza età, grigia e senza grazia. Né bella né brutta si sarebbe potuto dire, se la vista di un grosso porro sul mento e per giunta con lunghi peli, non le avesse deturpato la fisionomia.
“Ho capito, non l’ha scritta. Lo faccia ora e alla svelta, ecco qui il foglio” le disse con modi spicci e diretti.
Rubina notò che, nel fare quel lungo respiro spazientito, i peli sopra al porro si erano sollevati. Trattenne una risata che voleva prorompere sulle labbra e iniziò a scrivere.

Nome: Rossana (meglio un falso nome, la prudenza non è mai troppa)
Età: 23 anni
Stato civile: nubile
Professione: impiegata
Titolo di studio: licenza superiore
Motivo del colloquio: …. ehm…. non ho un fidanzato da troppo tempo…


Finito di scrivere, porse il foglio alla dottoressa, la quale, dopo una rapida occhiata si schiarì la voce, sistemò i capelli grigi che uscivano dalle forcine e inforcò un paio di occhiali dalle lenti spesse. Appoggiatasi alla sedia, fissò per alcuni istanti la ragazza che le stava davanti. Il suo sguardo aveva una punta indefinibile di cattiveria mista a soddisfazione, sembrava quasi sottintendere queste parole: “Bene bene, sei giovane, bella, ma sola… e come mai? Hai dei problemi nonostante ciò, ora vediamo…”
“Con chi abita lei, signorina?” chiese in tono neutro e professionale.
“Da sola…”
“Non ha più i genitori?”
“Ehm… sì, ma… si sono separati molti anni fa e ci vediamo di rado…”
“Bene… da quanto leggo è impiegata, immagino sia in mezzo a uomini e donne, giusto?”
“S… sì… infatti…”
“Gli uomini che età hanno? Sono sposati, fidanzati, single?”
“N… non lo so… non chiedo niente… bado solo al mio lavoro…” rispose Rubina imbarazzata.
“In passato è stata fidanzata suppongo: nella scheda ha scritto infatti che non ha nessuno da tempo, quindi prima c’è stato qualcuno, dico bene?”
“Sì, otto anni fa.”
“Perché vi siete lasciati?”
Aiuto! E adesso cosa dico?

Rubina iniziò a torcersi le mani nervosamente e questo non sfuggì alla dottoressa, la quale colse subito l’occasione per incalzare con altre domande inquisitorie mentre annotava tutto sul notes.
“Perché… perché… è finita…”
“Chi dei due ha deciso di lasciare l’altro?”
“Ma… non ricordo… non saprei…” disse Rubina tenendo gli occhi fissi a terra.

Gli occhi della mente la riportarono indietro di colpo, quando in una primavera lontana, il bellissimo principe di Fleed le sussurrava imbarazzato che era bella come un fiore.
Lei al momento era rimasta soddisfatta, ma poi… ohhh! Dopo aveva visto ciò che i suoi occhi di ragazza che si affaccia alla vita mai avrebbero voluto vedere. Il suo promesso sposo con quell’altra, sì, una donna bellissima e conturbante mentre si baciavano con una passione e un trasporto a lei totalmente sconosciuti.
Nonostante lo shock provato alla vista di quella scena, lei aveva sentito uno strano turbamento.
Aveva sofferto tantissimo, ma al tempo stesso le era piaciuto soffermarsi a ricordare quei due: la sua adolescenza era definitivamente conclusa, ed era diventata in un colpo donna. Senza che lo volesse, quel bacio passionale le aveva portato per lungo tempo immagini continue e involontarie davanti agli occhi della mente: li vedeva animati da una passione travolgente e gli incontri clandestini alimentavano il fuoco di quell’amore. Si amavano sulla spiaggia, sul mare, nel bosco, negli angoli bui e nascosti delle loro dimore, in edifici abbandonati… cosa avrebbe dato per essere al posto di lei anche solo per una volta!

In quello studio medico tutto bianco e impersonale, Rubina pensava al passato e il ricordo era una lama affilata che le tagliava l’anima. Lacrime silenziose e inarrestabili iniziarono a sgorgare dai suoi occhi.
La voce chiara e decisa della dottoressa, la riportò bruscamente al presente.
“Deduco che sia stato lui a lasciarla. Quanto tempo siete stati fidanzati? Era un rapporto platonico o anche fisico?”
“Siamo stati insieme pochi mesi, ed è stato un amore romantico.”
“Lui non le ha mai chiesto di più? Intendo dire che, se la relazione è durata qualche mese, mi pare impossibile che non abbia mai desiderato di conoscerla anche fisicamente, dico bene? Lei è anche una bella ragazza”. La dottoressa pronunciò l’ultima frase con un tono pieno di ambiguità e un fondo di sarcasmo.

Rubina si alzò dalla sedia ed esasperata da quei modi odiosi, decise di buttare fuori tutto il veleno che aveva dentro: non aveva più niente da perdere adesso.
“No! Non mi ha chiesto niente e sa perché? Perché aveva già con chi spassarsela, sono stata chiara? E quando ho visto e capito, non sono certo stata lì a piangermi addosso, né ho provato a tagliarmi le vene! Me ne sono andata via e siccome sono la principessa di Vega, ho detto a mio padre di bombardare quella stella e ammazzarli tutti, mi sono spiegata? E non mi sono mai pentita, perché è ciò che faccio anche adesso e farò sempre fino alla fine dei secoli, brutta strega! E siccome lei mi è simpatica quanto una polmonite doppia, farò lo stesso con questo disgustoso pianeta e sul suo studio in primis, ci siamo fin qui? Adesso me ne vado, ma ne vedrà delle belle! Invidiosa, antipatica, brutta e cattiva, ecco cos’è!”
Nonostante la rabbia, un sorriso beffardo e ironico illuminava il viso giovane e fresco della ragazza: prese la sua borsa con gesto deciso, e si congedò dicendo: “Nessuno vuole lei, e nessuno la vorrà mai: fa schifo!”

Per tutta la durata del dialogo, la dottoressa aveva continuato a prendere appunti mantenendo un’espressione neutra. Si alzò anche lei e le allungò la mano, dicendole: “Questa è la parcella della seduta di oggi, e poiché aveva prenotato una decina di incontri me li deve pagare tutti con gli interessi di mora causa disdetta. Per onorare il saldo, dalla segretaria all’ingresso, prego.”
“CREPA!” gridò Rubina sbattendo la porta con tutta la forza. Uscì dal grande portone d’ingresso e si avviò alla sua navetta quasi correndo. Volò diretta verso Rubi e accese subito la radio: voleva sapere se c’erano state sommosse o disordini in sua assenza.
Dopo alcuni minuti di notizie noiose e inutili, iniziò la pubblicità con la speciale promozione del mago Morpheus: problemi di cuore, di denaro, lavoro, salute… nelle sue mani tutto sarebbe finito. Provare per credere! Sconto speciale per chi prenotava in giornata.

La principessa arrivò su Rubi verso il tramonto; affidò la sua navetta al meccanico e andò nella sua stanza per cambiarsi. Mentre fissava il severo tailleur grigio abbandonato sulla poltrona, pensò che forse le poteva tornare ancora utile. Se aveva dato un taglio netto e deciso alla psicoterapia, ciò non significava che lei non avesse ancora bisogno di ricorrere ad un travestimento.
Le parole sentite lungo il viaggio, ancora le udiva nella mente: problemi di cuore… un mago risolverà tutto… Che male c’era a chiedere un consulto? Nessuno l’avrebbe mai saputo, poi lo facevano tutti. Quanta gente dell’alta nobiltà non faceva mistero di consultare l’astrologia, i fondi di caffè, le carte…
Decise di telefonare per un appuntamento e questo le venne dato per l’inizio della settimana entrante.

Il mago esercitava la sua professione sul pianeta Vega: osservando bene la piantina, vide che distava molto dalla sua casa natale, era quasi dalla parte opposta della stella.
“Molto bene… così non incontrerò nessuno, ma per sicurezza cambierò totalmente il look.”
Un filo di perle sopra l’abito a giacca incolore, i capelli tinti di castano pettinati in una severa acconciatura. Occhiali da vista e atteggiamento modesto: così si vestì Rubina il giorno dell’appuntamento.

La sala d’aspetto era piena di gente. Rassegnata, si accomodò in una sedia d’angolo e pensò a cosa doveva chiedere quando sarebbe stato il suo turno.
Osservò distrattamente le altre persone: c’erano più donne che uomini e non parlavano tra loro.
Si rivide in un’altra sala d’aspetto dove era stata pochi giorni prima… e l’epilogo inconcludente dopo l’incontro con la dottoressa. Un’arpia! Ma che non credesse che lei si sarebbe lasciata condizionare dal suo atteggiamento: mai! Lei era Rubina, la principessa di Vega… tutti gli altri erano delle misere nullità.
Le nullità vanno bombardate a suon di vegatron, così spariscono per sempre dalla faccia dell’universo.

Arrivò finalmente il suo turno e il mago l’accolse con cordialità. Aveva un turbante azzurro sulla testa, sembrava senza età, un personaggio al di fuori dello spazio e del tempo immerso in quella stanza dalla luce dorata e dove sul tavolo era parcheggiata una grande palla di vetro. Un intenso aroma di incenso si sprigionava nell’aria.
“B… buongiorno… io devo chiedere per…”
“Silenzio!” La bloccò subito e, tenendo gli occhi chiusi, iniziò a parlare.
“Vedo che sei qui per problemi di solitudine… e disperazione…”

In meno di dieci minuti, il mago sciorinò con precisione certosina tutta la vita della ragazza dalla sua nascita ad oggi.
Lei rimase inebetita e incapace di parlare, finchè lui la spiazzò nuovamente con una frase.
“Il tuo ex abita molto lontano da qui: se vuoi riaverlo, mi devi portare i suoi indumenti usati. Durante il plenilunio userò le mi arti magiche per farlo innamorare di te e dopo, dovrai riportargli i vestiti che lui dovrà di nuovo indossare.”
“Cosaaaaaa? Il… mio ex? Come dici? Io credo sia morto… non so più niente e…”
“E’ vivo e vegeto, ma se lo vuoi riavere devi fare come ti dico. E pagarmi in anticipo, naturalmente: la magia costa molto cara.”
Rubina si alzò di scatto dallo sgabello e arrabbiatissima lo aggredì a male parole.
“Chi vuoi prendere in giro, deficiente? Non sono mica scema io! Mangia pane a tradimento, crepa! Addio, ma non è finita qui, perché questo tuo esercizio lo faccio chiudere in meno di due giorni, credici! Ed è inutile che cerchi la soluzione in quella stupida palla di vetro, visto che non ti ha nemmeno detto che io sono una principessa e con molto potere per giunta!”
Se ne andò sbattendo la porta e uscì masticando improperi; i clienti in attesa di voltavano a guardarla e avevano sentito tutto.

Una volta in strada, qualcosa catturò la sua attenzione: un individuo con un non so che di familiare stava entrando nel portone che portava allo studio del mago. Decise che voleva saperne di più e lo seguì. Entrò di nuovo nella sala d’aspetto nascondendosi per non farsi notare da nessuno: dietro una libreria, Rubina fissò molto bene tutti i presenti finchè lo vide. Hydargos! Ecco chi era! Ma che ci faceva lì? Vuoi vedere che?
L’unico modo per sapere la verità era entrare con lui nello studio; passò quindi da una piccola porta che serviva da ripostiglio e da dove avrebbe potuto ascoltare la conversazione, dato che era situata proprio a lato della stanza del mago.
Dopo una lunga attesa, venne finalmente il turno di Hydargos. Rubina accostò l’orecchio al muro e accese il registratore.
Più tardi, fotografò anche l’insegna sul portone e la via dove l’esercizio del mago Morpheus svolgeva la sua funzione.

Verso il tramonto Hydargos doveva ancora rientrare su Vega, perché si era fermato in un’osteria per brindare, e mentre scolava qualche bottiglia, re Vega ascoltava e vedeva il filmato che sua figlia gli aveva appena mandato.

“… queste polveri magiche servono a rincretinirli tutti quanti… mettine dappertutto: nelle stanze, nei loro letti,
nel cibo, ovunque, insomma. In meno di una settimana sarai Capo Supremo, perché qualsiasi successo ottenuto da altri, crederanno sia opera tua…”
“Grazie di tutto Morpheus, questo lavoro non ha prezzo e ti pagherò subito e in oro sonante: è l’oro delle casse reali… le casse di re Vega!” gli disse Hydargos con occhi febbricitanti e un incontenibile fremito di gioia nella voce.


FINE

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STRATEGIA ECONOMICA

1_274

Il bilancio di fine anno era stato un disastro, ancora peggio degli anni precedenti.
Quando re Vega aveva guardato e riguardato quelle somme, sulle prime non ci aveva creduto. Si era messo gli occhiali e usato una lente macroscopica: non era possibile un simile macello!
Alla fine si era dovuto arrendere all’evidenza: il pianeta Vega, non solo stava per esplodere causa forte inquinamento vegatron, ma era anche sull’orlo del fallimento in toto.
Tutti i mostri da combattimento che i veghiani avevano scagliato contro Goldrake erano costati un occhio della testa. Nonostante la loro enorme capacità distruttiva, la fine intelligenza usata da Zuril per idearli e la quasi totale invulnerabilità degli stessi, uno ad uno erano stati sistematicamente polverizzati da quel dannato Duke Fleed col suo robot da combattimento e veicoli ausiliari: Goldrake2, il Delfino e la Trivella Spaziale.

Si leggevano solo delle grandi uscite, mentre le entrate erano esigue, quasi nulle.
Per molti minuti, il sovrano era rimasto solo nel suo studio accasciato sulla poltrona nera, incapace di formulare un pensiero compiuto. Alla fine, la sua indole battagliera aveva come sempre prevalso sul dramma e aveva quindi contattato un famoso Studio Associato.

Due giorni dopo, re Vega e il plurilaureato commercialista più famoso del pianeta, discutevano faccia a faccia nella sala del trono.
Il dottor Brumol aveva tutta l’aria di uno che sapeva il fatto suo. Di media statura, calvo e con piccoli occhiali dalle lenti rotonde, appena entrato, aveva sistemato la valigetta sul tavolo ed estratto dei documenti. Erano tutti i master da lui conseguiti dopo le tre lauree ottenute col massimo dei voti; una volta accomodatosi sulla sedia che stava di fronte al re, aveva domandato senza preamboli ciò di cui aveva bisogno per capire la situazione.
“Mi vogliono tutti i Bilanci degli ultimi cinque anni, comprensivi del Magazzino e del Conto Economico, più gli Investimenti” aveva chiesto con tono asciutto e neutro, stendendo bene le sue multi lauree piene di lodi.
Forse per la prima volta nella sua vita, il re si era sentito in imbarazzo. Era come non sapesse più di essere un potente sovrano, bensì una matricola universitaria al suo primo esame davanti ad un professore esigente e severo.
Con mano leggermente tremante, aprì il secondo cassetto della scrivania ed estrasse i documenti richiesti.

Dopo una quindicina di minuti, il dottore fu in grado di esprimere la diagnosi.

“… dunque… ho inquadrato perfettamente la situazione…” disse il dottore schiarendosi la voce.
Re Vega gli chiese se voleva qualcosa da bere, ma l’altro negò col capo; lui invece ingurgitò un grande sorso d’acqua. La forte tensione nervosa l’aveva disidratato.

“Il collasso economico in cui versa Vostra Signoria, è dovuto al fatto che le uscite hanno superato le entrate del 90%. Questo fatto increscioso perdura da alcuni anni, durante i quali, non ci sono stati miglioramenti di sorta. Il persistere con la costruzione di robot costosissimi, sia in termini di materie prime che in mano d’opera senza che in cassa vi sia stato un ritorno, vi ha portato alla bancarotta.
Il magazzino è infatti completamente vuoto.
La via d’uscita è: niente spese – entrate cospicue.”
“E come?” balbettò il re con voce spezzata.
“Usando una materia prima già in essere, cioè a chilometro e costo zero. Mi spiego: occorre un articolo femminile di bella presenza… la quale si trova ovviamente già presente sul mercato.”
“Mi scusi…. ma non capisco…” si azzardò ad obiettare Vega in un sussurro.
Il dottore, con piglio deciso aprì la sua valigetta ed estrasse alcuni capi intimi femminili tutti pizzi e trasparenze multicolori.

Re Vega li fissò costernato: deglutì un paio di volte, guardò il commercialista e poi ancora quelle trine senza capire nulla.
“Mi spiego subito: si tratta di promuovere degli sponsor, sì, sponsor Re Vega. Occorre una modella con le misure giuste in modo che possa indossare questi, poi la mettete sul mercato. Pubblicità estesa a tutte le galassie, naturalmente.”
“Mmm…”, borbottò il re poco persuaso.
“Vedete, il marchio di un re, batte tutto e tutti. Appena iniziata la promozione sulle reti satellitari, avrete subito una marea di richieste. L’unico costo che dovrete sostenere, sarà quello dei capi femminili. Nient’altro. E vi assicuro che, in confronto alle ingenti spese che fate per ogni piano d’attacco, si tratterà solo di pochi spiccioli.”

Il re si accomodò meglio sulla poltrona e ripensò a quella strana proposta.
“Ho capito perfettamente… l’unico problema è trovare la modella giusta… io, tranne i miei sudditi, non vedo altre persone… ormai non frequento più…”
L’altro replicò prontamente in tono neutro e professionale.
“So che avete una figlia, molto giovane e graziosa. Dalle foto pubblicate sui social, sembra proprio un figurino.”
“Questo mai! Non lo permetterò mai, e non vi azzardate a ripeterlo, chiaro?” urlò il sovrano battendo un pugno sul tavolo, mentre schiumava rabbia dalle fauci. Dalla sua espressione feroce, sembrava volesse polverizzarlo all’istante.
L’altro non si scompose affatto, ma si tolse gli occhiali e li pulì bene con un fazzolettino: sistemò la sua valigetta e si alzò.
“E’ stato un piacere, addio. Le manderò la notula entro la prossima settimana.”
“La… cosa? e per che cosa?”
Niente. Il dottor Brumol era già a bordo della sua navetta: doveva arrivare puntuale all’appuntamento del suo prossimo cliente.

Re Vega rimase solo. Era veramente a terra e non riusciva a formulare un pensiero compiuto. Passarono alcune ore e nemmeno si accorse che imbruniva e nella stanza regnava l’oscurità.
Si scosse all’improvviso, quando sentì qualcuno bussare alla porta.
“Avanti!” gridò, mostrando nella voce una sicurezza che era ben lungi dal provare.

Lady Gandal apparve nel rettangolo.
“Oh, siete voi… precisa e puntuale come sempre… scusate, ora accendo la luce.”
“Buonasera maestà, sono qui per prendere accordi circa il nuovo mostro sottomarino. Vi ricordate?”
Il sovrano ricordò, ma sapeva molto bene che non erano in grado di terminare il lavoro. Mancavano le materie prime, il combustibile e i soldati minacciavano sciopero, causa ritardato stipendio.
“Sì, ricordo. Accomodatevi, così ne discutiamo.”
Mentre il re cercava qualcosa di sensato da dire, lo sguardo di Lady Gandal fu catturato dai fini indumenti sparsi sul tavolo. Con occhio avido li fissava, ed era palese che moriva dalla voglia di toccarli… e perchè no? Anche di provarli. In tutta la sua vita non aveva mai visto niente di simile e si accorse di averne sentito la mancanza molto più di quanto pensasse.
Vega si accorse del suo interesse e si sentì in imbarazzo. Come avrebbe potuto giustificare la presenza di quegli oggetti? E nella stanza di un sovrano, per giunta.
Tentò di abbozzare una scusa.
“Ehm… vedete, mia figlia Rubina ha lasciato qui alcune cose sue… mi ha pregato di tenergliele da parte…”
“Ah! Non sapevo che la principessa indossasse un intimo così succinto, trasparente e provocante! Mi meraviglio di voi, maestà; vi credevo più all’antica, invece non fate una piega davanti a capi adatti più ad una escort, che non ad una ragazza nobile e per giunta erede al trono” disse con mal dissimulata malizia la donna.
“Ad ogni modo, la faccenda non mi riguarda. Sono qui per parlare di mostri bellici, non di merletti.”

A quel punto, il re si accasciò sulla poltrona e si prese la testa tra le mani per la disperazione. Decise che era inutile continuare la commedia, bisognava vuotare il sacco, tanto prima o poi, tutti avrebbero capito lo stato di disperazione di quell’impero ormai prossimo alla catastrofe.

“Ascoltate… devo dirvi una cosa molto delicata… noi…. Noi non possiamo al momento progettare niente, perché siamo privi di risorse. Questi… questi oggetti che vedete qui… ecco, mi sono affidato ad un luminare dell’Economia e poc’anzi mi ha suggerito di… di… vedete… lanciare degli sponsor usando questi indumenti.”
Vega aveva parlato con tono sommesso, tenendo sempre lo sguardo basso.

Lady Gandal non fu sorpresa, né tantomeno scandalizzata.
“Scusate maestà, ma uno sponsor in che senso? Immagino occorra una modella.”
“Esatto, e non so come fare. Ma non è solo quello il punto, c’è dell’altro! Voglio dire: sono un re, ho sempre usato e vinto tutte le battaglie con le armi, che diamine! Non posso nemmeno pensare di rendermi ridicolo promuovendo certe cose!” rispose lui con voce alterata, mentre con un moto di stizza, buttava a terra quei ridicoli capi.
La donna non si scompose, ma raccolse gli indumenti e li stese bene sul tavolo. Non si stancava mai di ammirarli, quindi, dopo un attimo di titubanza, propose: “Potrei indossarli io e dare il via allo sponsor.”
“Voi? Ma che dite?” le chiese stralunato il re.
“Non avete il fisico, lo sapete bene!”
“Lo so, ma non vi preoccupate. Prima della mia trasformazione ero solo una miniatura di donna e che doveva stare sempre e solo dentro la testa di Gandal accontentandosi di uscire ogni tanto, ma ora sono intera e intendo farmi valere! Non guardate al fatto che in apparenza io abbia un fisico maschile, perché non è così.”
“No?!!! Com’è possibile?”
“E’ una lunga storia. Sapete, da quando io e lui frequentiamo il gruppo di terapia di coppia cognitivo-comportamentale, molte cose sono cambiate nella nostra vita.”
“Non ne sapevo niente, spiegatevi meglio.”
“Ecco… ad esempio, oggi lui è in terapia, io invece sono qui. E’ stata una grande innovazione liberatoria per entrambi poter restare separati alcune ore. Di questo fatto se ne occupa un grande scienziato, il quale è riuscito a renderci la vita a due meno soffocante e far avere a me un fisico di tutto rispetto.
Quindi, tornando a noi: mi presto a fare da modella maestà, e con molto piacere!”
“Ma…”
“Cominciamo subito? Li provo?” chiese lei con sguardo febbrile.
“Se per voi va bene, non ho nulla in contrario… però… fatemi sapere… ehm… come vi stanno, cioè…” le disse il re piuttosto imbarazzato.
Lady Gandal non se lo fece ripetere due volte e corse subito nella sua camera.

Davanti al grande specchio, non la finiva più di ammirarsi. Quel body rosso in pizzo e tulle era divino, le calze a rete una meraviglia… la vestaglia in seta avorio, poi! E com’era fresca e liscia al tatto! Solo a sfiorarla provava un benessere fisico, una soddisfazione senza pari. Non si stancava mai di accarezzarsi il viso con quella stoffa.
Da sola, si fece molte fotografie in pose strategiche, sexi e provocanti indossando scarpe tacco sedici. Quando ammirò quelle immagini, lei fu molto soddisfatta e, impaziente, decise di dare il via alla pubblicità senza dire niente al re. Contattò un’importante agenzia, quella della rivista di alta moda che leggeva sempre di nascosto e gliele inviò con una mail, spiegando nel dettaglio la sua richiesta.

Nel frattempo, Gandal era tornato dalla seduta, ed erano di nuovo come sempre: due menti in un corpo solo.

La signora aveva deciso di ritirarsi presto quella sera, quindi era andata a dormire; non aveva voglia di parlare con nessuno, ma solo assaporare quello stato di benessere e vanità a lei sconosciuto.
Il coniuge era invece alquanto di malumore. Non gli piaceva affatto la terapia di coppia, la detestava! Aveva ceduto soltanto per far tacere lei, negli ultimi tempi non facevano altro che litigare e di malavoglia l’aveva accontentata.
Sperava solo che quella tortura finisse il prima possibile. Era stufo che non ne poteva più!
Con atto rabbioso sfilò gli stivali: il caldo gli aveva gonfiato i piedi in maniera impressionante.
Non aveva ancora finito, quando vide il segnale lampeggiante sul muro. Re Vega lo voleva subito da lui.
Imprecando corse fuori correndo, e attraversò il lungo corridoio scalzo.
Bussò alla porta della sala del trono che gli venne subito aperta.
“Oh, eccoti qua! Ho appena finito di parlare con Zuril, il quale chiede aiuto. Si trova nella base sottomarina in Giappone e dice che l’apertura improvvisa di una falla sta seriamente mandando a monte tutta la struttura. Ha bisogno di rinforzi, quindi devi andare da lui subito. Quella base ci è costata e ci sta costando un occhio della testa, bisogna immediatamente correre ai ripari. Fila da lui veloce come un razzo, sono stato chiaro?”
“Certamente sire, corro!”

Gandal entrò nella nave e accese il motore. La spia del carburante segnava rosso, quindi era agli sgoccioli.
“Dannazione alla crisi! Qui rischio di rimanere a piedi! Se volo a ritmo costante ce la posso fare… veloce come un razzo non sarà possibile però.”

Molte ore dopo, il Comandante atterrò sul litorale giapponese. Si mise quindi in contatto con Zuril.
“Era ora che arrivassi!” lo aggredì in malo modo il Ministro delle Scienze.
“Scendi subito in fondo al mare e vieni ad aiutarmi!”
Gandal trovò una situazione peggiore di quanto aveva immaginato. L’interno della nave semi allagato, i motori erano arrugginiti e molto danneggiati, mentre altra acqua entrava da una grossa crepa sul pavimento.
“Mmm… è un grosso guaio… molto grosso… come mai? Credevo che uno scienziato del tuo calibro, fosse in grado di costruire una base più solida. Non sei un dilettante, mi chiedo perché…”
“Taci! Quello che vedi non dipende certo da me. Avevo detto più di una volta a re Vega che occorreva un materiale diverso e a più strati. Non ne ha voluto sapere, mi ha risposto che bisogna pensare a risparmiare e io da solo dovevo essere in grado di fare tutto e per bene. Come vedi invece, la bassa qualità non giova a niente. Io non faccio miracoli! E quando dico che ci vuole una certa cosa e in un certo modo, c’è sempre una più che valida ragione!”
Così Zuril aggredì verbalmente il Comandante; non gli era sfuggita la perfida ironia che aveva usato quando aveva sottolineato il disastro in cui versava la base sottomarina.
“Che facciamo adesso? Immagino sia necessario smontare tutto e rifare daccapo… con nuovi materiali…”
“Non hai capito niente! Se rifacciamo tutto, presto saremo nelle condizioni in cui siamo adesso, no? Di quali nuovi materiali parli? Ti ho appena detto che non ci sono! Ci vai tu a bussare cassa dal re? Invece di sparare ancora idiozie, cerca di aiutarmi. Sei venuto per questo, no? Segui i miei ordini!”
Mortificato, Gandal abbassò il capo e si mise all’opera.
Dopo alcuni minuti, Zuril iniziò a muovergli altri rimproveri.
“Sei capace di lavorare o no? Prendi quella trave e dei chiodi, quindi copri subito la falla sul pavimento!”
“Calma! Presto e bene non stanno insieme.”
Il Comandante si mise di malavoglia al lavoro; oltretutto, la forte umidità gli provocava dolori articolari.
Provò a svitare un tappo, ma era molto scivoloso, quindi si tolse l’ampio mantello e con quello lo avvolse: dopo alcuni istanti riuscì nell’impresa. Soddisfatto, si asciugò il sudore.
Zuril, che era nell’altro vano, pensò di andare a controllare come procedevano i lavori, ma quello che vide, lo lasciò pietrificato e senza parole.
Il suo computer oculare registrò questa visione in una frazione di secondo: Gandal non era più Gandal… ma… cosa? Cioè, la testa e i lineamenti erano sempre i suoi, maschili, ma il fisico… oooohhhhh!
Una figura longilinea e sinuosa con tutte le curve al posto giusto! Ma per una signora, non per un uomo e men che meno per un Comandante agguerrito e sanguinario come lui!
La pelle era chiara e diafana, le unghie lunghe, arcuate e vermiglie quelle che esibiva sulle mani.
I piccoli piedi di fata erano in bilico su vertiginosi tacchi a spillo e le lunghe gambe affusolate sembravano terribilmente sexi con quelle calze nere a rete fermate da un reggicalze in raso.
Ma non era finita: il corpo flessuoso e armonioso era strizzato in un body semi trasparente rosso di pizzo, dal quale traboccava un prosperoso decolletè.

Zuril cadde sulla sedia e rimase a bocca aperta alcuni minuti. Non riusciva a spiccicare parola.
L’altro se ne avvide, e pensò bene di sottolineare perfidamente la sua inerzia.
“Che c’è? si batte la fiacca qui? Devo fare tutto io? Può anche essere, sono il più in gamba”, disse ridendo con gusto.
“In… in… in gamba, dici? Ma… si può sapere che hai fatto? Non ricordavo avessi gambe simili.”
“Eh, che ci vuoi fare! Mi mantengo in forma! Faccio tanto moto, lunghe corse per tutta la base… tu invece, stando sempre al computer diventi flaccido!” gli rispose gonfiandosi come un pallone.
Sempre ridendo, passò nella stanza adiacente e per caso, vide la sua figura riflessa nel vetro della nave.
Non si rese subito conto della realtà: il vetro era piuttosto sporco ed era quasi buio.
“Ehi, Zuril! Questa base è talmente messa male, che ho avuto l’impressione di vedermi vestito da donna, pensa un po'! Sapessi… anche…”
“Gandal… non è una tua impressione, ma la realtà vera! Guarda qui!”
Lo scienziato aprì l’anta di un armadio dove all’interno c’era un grande specchio, e accese tutte le lampadine.
A quel punto, il Comandante dovette ammirarsi in tutto il suo “splendore”.
“Aiutooooo!!! Ma… cosa…. Cos’è questa roba? Sarò mica io quello? E’ un brutto sogno, non è possibile!” disse gridando spaventatissimo. Dopo il primo attimo di smarrimento, puntò il dito verso Zuril con fare accusatorio.
“Ho capito, sei stato tu! Sì, hai fatto degli esperimenti di nascosto su di me, dillo! L’hai fatto per mettermi in ridicolo… quindi… come sei riuscito a fare questo, ti ordino di farmi tornare subito come prima… altrimenti…”
“Gandal… non sono stato io, te lo giuro, non ne so niente. E poi… in questo clima drammatico in cui versiamo ora, ti pare che io possa avere l’idea e la voglia di fare cose simili?”
L’altro dovette arrendersi alla logica: ma allora, cos’era successo?

Prima che i due potessero avanzare delle ipotesi, suonò l’allarme. Era la base di Vega.
Gandal si coprì di nuovo col suo vecchio mantello.
“Sì?” chiese Zuril con voce tremante.
La muta risposta, fu il viso livido e spaventato di Lady Gandal apparso sul monitor.
“Tornate subito qui, presto! Re Vega vuole uccidermi…” disse disperata con voce rotta dal pianto.
Dopo questa breve e tragica frase, si interruppe ogni comunicazione.

I due si guardarono senza capire. Non dissero niente, però tornare indietro era un’impresa! Non avevano quasi più carburante. Accidenti alla crisi e al risparmio! Dovevano andare sulla terraferma e rubare il necessario: non sarebbe stata una cosa veloce.

Con tutta la fantasia possibile, non potevano neanche lontanamente pensare a quanto era accaduto durante quelle ore.

Quando Lady Gandal aveva inviato le sue foto sexi al giornale di moda, questo, senza dirle nulla aveva pubblicato il tutto e scritto un lungo e dettagliato articolo nella rubrica dei pettegolezzi.
Re Vega, era stato il primo a ricevere la rivista. Vedendo sulla copertina il Comandante Gandal vestito da spogliarellista consumata, dapprima non ci aveva creduto, poi leggendo bene l’articolo, aveva visto ciò che nessuno e men che meno un re, avrebbe mai voluto leggere.

“… grandi feste alla corte del Re… il sovrano e i suoi cortigiani se la passano alla grande…” il tutto condito con frasi oscene e chiare allusioni alla promiscuità, ai trans, i vizietti vari, insieme a qualche frecciata velenosa anche verso la sua erede.
Quando Lady Gandal aveva visto il disastro, aveva provato a spiegare la cosa al sire, di come e quando lei si era fotografata e aveva spedito il materiale, ma non capiva perché nelle immagini non appariva il suo viso, bensì quello del consorte.
Il re allora aveva preso un bastone e l’aveva rincorsa per tutta la reggia.
Invano lei l’aveva supplicato di fermarsi: “Maestà, ricordate che una donna non si tocca nemmeno con un fiore…”
“E… e voi sareste una donna? E Gandal un uomo? Vi ammazzo tutti!!! Delinquenti, traditori, vi siete messi d’accordo coi terrestri per defenestrarmi, lo so, ma vi faccio a pezzi. La butto su di voi la bomba al vegatron, questa volta!”
“Non si può… il vegatron è finito… esaurimento totale delle scorte…”
“Vi ammazzo con queste mie stesse mani!!!”

La scena era durata per quasi mezz’ora: infine, la donna era riuscita a salire su un minidisco scassatissimo ed era volata via. Se proprio doveva morire, era meglio in volo, piuttosto che dalle mani di quell’orco.

Era stata la sua fretta a causare il disastro.
Il celebre scienziato che tentava di separare per qualche ora quei due, e rendere loro la vita più respirabile, si era sempre raccomandato con queste parole:
“… ciò che sto facendo su di voi è in via sperimentale, quindi, non prendete mai iniziative senza prima consultarmi. Quando avete bisogno di una breve separazione, telefonatemi prima, vi dirò come agire. E’ una situazione molto delicata la vostra, è la prima volta che tratto un caso simile… il fare da soli, può provocare anche danni irreversibili su voi due e sul prossimo…”

Parole profetiche le sue, ma la vanità di Lady Gandal aveva prevalso su ogni prudenza. A farne le spese infatti, non era solo lei, ma tutto l’impero di Vega. Chi mai avrebbe preso più sul serio un re, che esibisce i suoi sudditi in intimo succinto, ambiguo e provocante? Ritratti per giunta sulla carta patinata con tanto di articolo esaustivo in un giornale da vip? E se lo fanno loro, chissà che non abbia anche lui ceduto alla tentazione…

La fretta è sempre una cattiva consigliera.


FINE

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ETOILE

7_4

Il Teatro Comunale della cittadina bagnata dal mare Adriatico si andava riempendo di persone.
Era una limpida e fresca sera di inizio di giugno: il periodo in cui di solito va in scena il saggio delle allieve di una delle tante e tante scuole di danza sparse per l’Italia.
Il pubblico era in gran parte formato dai genitori delle allieve con fratelli e sorelle al seguito, zii e nonni, col perenne sorriso stampato sul viso che tradiva emozione e orgoglio.
Quasi sempre, facevano la loro comparsa insegnanti di altre scuole: venivano invitati, oppure decidevano loro stessi di andare a vedere lo spettacolo. Osservare, criticare, godere dell’impaccio e degli inevitabili errori delle più piccole, fare confronti e malignare era il loro scopo primario.
I camerini pullulavano di bambine, adolescenti, ragazze più grandi e navigate, con ricchi abiti di scena e tutù da sogno. I grandi occhi stupefatti, ammirati e attoniti delle più piccole erano perennemente fissi su quelle ballerine meravigliose, dal fisico perfetto e dalla disinvoltura con la quale volteggiavano sulle punte.
“Su bambine, in fila indiana, siete le prime, quindi ora che il sipario è ancora calato, andate a mettervi ai vostri posti, forza!” La voce alta e imperiosa dell’insegnante e il rumore secco del battito di mani, aveva il magico potere di riportarle alle realtà.
Ridacchiando e bisbigliando tra loro, a piccoli passi si accomodavano sul palcoscenico al proprio posto segnato da un nastro adesivo a forma di X.
Chiuse in quei piccoli tutù soffici come nuvole, i capelli tirati indietro e adornati di fiori e brillantini, la calzamaglia rosa e i minuscoli piedi fasciati in scarpine di pelle, erano una gioia per gli occhi.
Vederle ballare, era gradevole soltanto per i loro genitori: all’apertura del sipario, apparivano composte e sedute a terra con le gambe incrociate. Il lungo e sentito scroscio di applausi, mitigava le prime note della musica.
Dopo una serie de port de bras alquanto noiosi e ripetitivi, le piccole, con l’occhio fisso dietro le quinte per vedere i suggerimenti della maestra, si alzavano in piedi per un lungo girotondo.
Lungo scroscio di applausi e risate, quasi sempre sottolineava questa parte.
Un’altra serie di noiosi esercizi coi piedi eseguiti in precario equilibrio, poi la capofila le guidava all’uscita, prendendo quasi sempre la quinta sbagliata, guadagnandosi così una serie di improperi del gruppo successivo al quale avevano intralciato il passaggio.
Se i genitori delle debuttanti erano in visibilio e avrebbero fatto carte false per ammirarle in un altro numero, il resto del pubblico esalava uno spontaneo sospiro di sollievo. La parte più noiosa era finita, meno male!
Era il turno delle mezzane, di solito composto da ragazzine in età preadolescenziale. I loro numeri vantavano musica allegra e veloce, orecchiabile e vivace, la quale aveva il magico potere di far passare inosservati alcuni errori di ritmo e passi sbagliati.

Intervallo


“La nostra Irene è stata grandiosa, vero Gianni?”
“Sì” annuiva il padre con orgoglio e un sorriso che arrivava fino alle orecchie.
“Il prossimo anno, ho deciso che la mia bambina seguirà un corso presso un’altra scuola molto prestigiosa e altolocata. Voglio che presto sia in grado di sostenere la prova di ammissione alla Scala” dichiarava con severità una signora dai biondi capelli ricci e piena di gioielli.
“Qui sono tutti così provinciali”, aggiunse con una smorfia di evidente disgusto e superiorità.
“Fai bene, è così brava e carina… qui è sprecata” le rispose l’amica sprofondata nella poltrona di velluto rosso, con un sorriso tra il divertito e il compassionevole, mentre pensava:
Ma dove vuoi che vada? Alla Scala? Nel sottoscala forse.
“Vado un momento nel ridotto, hai bisogno di qualcosa, cara? Hai sete?” chiese un signore dall’aria distinta alla moglie.
“No, amore, ma fai presto che tra poco lo spettacolo ricomincia e c’è la nostra Agnese. Non vorrai perdere il suo numero?” disse la donna con un filo di apprensione, mentre con la mano sinistra tormentava il filo di perle che portava al collo. Era in ansia per l’esibizione della figlia quindicenne. Quell’anno, grazie al suo impegno, era riuscita a far parte del gruppo delle più grandi, e ne era stata molto felice. Un mese e mezzo prima del saggio, una brutta tendinite l’aveva costretta a settimane di riposo, terapia al laser e svariate pomate medicamentose. A detta del medico era stata dichiarata completamente guarita, ma sua madre temeva che, complice l’emozione, la caviglia non la sostenesse bene sulle punte. Sentiva, benchè non li vedesse, puntati su di sé gli occhi non propriamente benevoli delle altre madri, quelle che non avevano avuto la soddisfazione di vedere le proprie ragazze fare quel salto di qualità in avanti. Indubbiamente speravano in un fiasco così impara a fare la presuntuosa…
“Vado e torno” rispose il marito.

Terzo squillo del campanello, penombra e buio in sala

Dietro le quinte intanto, in un piccolo camerino fatto per una persona sola, una giovane donna si guardava allo specchio. Era anche lei un’allieva, ma di un’altra scuola, invitata come ballerina ospite.
Ancora non ci credeva. Quello che le era successo aveva dell’incredibile.
Indossava un degas corto, colore del cielo, tutto tempestato di brillantini.
“Che ne dici Rita? Ti piace? Vedi che ho avuto ragione ad invitarti?” le chiese il giovane guardandola dentro lo specchio, mentre finiva di sistemarle l’acconciatura.
Lo chignon era intrecciato con raso turchese e una coroncina completava quella meraviglia.
“Sì… ma… oh, chissà cosa diranno quelle due!”
“Se ti riconosceranno, e questo non è detto, ti assicuro che perderanno per un bel po’ di tempo il dono della favella! Si consumeranno le unghie a forza di mangiarsele e torneranno a casa nere e cattive!”
“Beh, quello lo sono già, ma possono fare di meglio” gli rispose Rita con un sorriso ammiccante.
“Emozionata?”
“No, felice e riconoscente” gli rispose.
“Bene, ora che se pronta, andiamo a riscaldarci e rivedere qualche passaggio”, concluse Guido.
Rita aveva appena 30 anni, e aveva iniziato a studiare danza con grande passione e impegno da quando ne aveva nove, ma nell’aprile dei suoi vent’anni aveva smesso.
Non perché le fosse passata la voglia, tutt’altro! Le erano successe una serie di cose sgradevoli e non ne poteva più.
L’anoressia iniziata prima dei sedici anni, aveva lasciato il posto ad una fame incontenibile e il suo fisico armonioso, in pochi mesi era cambiato, facendola vergognare di sé. E quando la sua insegnante glielo aveva fatto notare, lei era tornata a casa triste e avvilita, ma ad un tempo quasi sollevata. Sapeva che non ci sarebbe più andata; non ne poteva più di pensare sempre al cibo, alle diete, al peso, ai commenti della gente.
Era comunque snella, perché la sua costituzione era sempre stata longilinea, ma lei non si piaceva più. Tentava di mettersi a dieta, ma non c’era niente da fare. Il solo pensiero di rivedere i suoi ostili parenti, le frasi cattive contro i suoi genitori, la loro ossessione nel criticare l’aspetto fisico, la facevano sprofondare nel baratro e mangiava perché non si sentiva amata e capita da nessuno.
Con un enorme sforzo di volontà, in capo a due anni, tornò ad essere la ragazza socievole di un tempo e, in fondo al suo cuore c’era sempre il pensiero di tornare a danzare.
Quando provò a contattare la vecchia scuola di danza, le dissero che le ragazze erano impegnate con degli esami, a lei non restava altro che mettersi a studiare con le bambine piccole, se proprio ci teneva a ricominciare. Lasciò perdere, e intanto gli anni passarono.
Sapeva che nella sua località avevano aperto una scuola, glielo aveva detto la sua amica che sempre aveva studiato con lei, ma Rita non ne volle sapere.
Un giorno di novembre, qualcosa scattò nella sua mente, e la voglia di andarci le entrò dentro con prepotenza. Prese subito contatto con l’amica e dopo alcuni giorni era in palestra.
L’insegnante era una sua coetanea, si chiamava Luisa, aveva studiato nella stessa scuola, ma avendo orari differenti non si erano mai conosciute.
Quando alcuni anni prima aveva aperto la palestra, subito aveva incaricato le più grandi ad insegnare alle piccole, benchè non avessero in realtà l’esperienza e gli studi per fare questo.
Anche l’amica di Rita, Anna, insegnava con l’aria di vantarsene.
La prima lezione fu stupefacente! Era come non avesse mai smesso di danzare e glielo dissero.
“Sei brava, hai delle buone basi, complimenti, non sembra che tu abbia smesso!”
Addirittura, poche settimane dopo aver iniziato, Anna telefonò a Rita dicendole che l’insegnante avrebbe avuto piacere che facesse qualche spettacolo, ma temeva che lei non volesse.
“Certo che lo voglio!” esclamò Rita al colmo della gioia.

Passarono le feste natalizie e arrivò gennaio, il mese in cui si preparano i saggi. Quell’anno sarebbe stato in aprile, un po’ prima delle date canoniche.
“Facciamo Coppelia, i tanghi di Piazzolla, i moderni.”
Da un istante all’altro, Rita si aspettava una parola, la conferma della promessa di alcuni mesi prima.
Tutti tacevano. Allora si fece avanti lei: “Posso fare anch’io il tango?”
“E’ pesante e difficile sulle punte, ma prova” rispose Luisa.
Il lunedì successivo, Rita disse all’amica: “Lo sai che faccio i tanghi?”
“Non lo fai mica. Ti puoi fare male, Luisa ha detto che non lo fai.”
“E quando?”
“Ieri. Vai a dirglielo che non lo fai, diglielo subito.”
Rita rimase totalmente spiazzata, ma rinunciò e Anna le stava appresso per accertarsi che non facesse quel pezzo.
A fine anno era avvenuto un altro fatto strano e increscioso, che contraddiva tutto.
Rita e Anna erano in treno, stavano parlando del più e del meno. Ad un tratto era saltata su Anna, dicendo: “Non capisce mica niente Luisa. L’altra sera hai fatto quella cosa sulle punte e lei non ti ha detto niente, ma è pericoloso. Io sono stata zitta, però… non farlo più, non farlo capito?”
“Veramente, stavo sulle mezze…”
“Non farlo più.”
Se Rita fosse stata pronta, avrebbe risposto che intanto lei non era la sua insegnante, poi non le avevano detto e ripetuto che era tanto brava?
Tacque, tenendosi tutto dentro, era ancora in bilico tra la realtà e quella promessa – tra l’altro da lei non richiesta – di ballare.

Iniziarono le prove di Coppelia, Rita chiese se poteva fare qualcosa.
“Di classico? chiese Luisa, anche lei dimentica di quanto affermato pochi mesi prima.
Alla fine, Rita fece una parte con delle ragazzine di un corso inferiore.
I suoi parenti le dissero che era stata brava, ma che non contasse su quelle due, perché mai le avrebbero dato di più. Era vero, ma ancora non ci credeva, viveva sempre sospesa in quella promessa.

Durante le prove ebbe una grande soddisfazione. L’addetto alla registrazione del saggio entrò in camerino per salutarla, dato che non la conosceva.
“Complimenti, complimenti per l’interpretazione. Come ti chiami?”
Quella che faceva la prima ballerina sorrise, credendo stesse parlando di lei.
“Quale interpretazione?”
“La sua, ho fatto le prove con lei, oggi.”
“Ah…”
Quel dialogo rimase registrato, così tutti i familiari di Rita lo videro e ne furono soddisfatti.
Sì, lei ci metteva il cuore, tutti lo sentivano, aveva inoltre una grazia innata e straordinaria.

Passarono alcune settimane, la scuola era ancora aperta. Una sera, Luisa e Anna dissero che sarebbero state a vedere un saggio.
“Ci hanno invitate.”

Beh, anche Rita era stata invitata e non come spettatrice. Non lo sapeva nessuno.
Un pomeriggio si era recata in città per fare alcune compere, ed era stata fermata da un ragazzo.
“Scusa, tu una volta frequentavi il Dance Studio, o sbaglio?”
“Sì, mi ricordo vagamente di te, a volte venivi a prendere lezioni.”
“Sono Guido. Ballo e insegno. Tu che fai? Balli ancora?”
“Ho ripreso da poco, ma non mi piace quello che faccio.”
“Mmm… me lo faresti un piacere? chiese dopo alcuni istanti di esitazione. “Se non ti va, puoi sempre dire di no.”
“Quale?”
“Mi hanno chiesto di fare un balletto ad un saggio in qualità di ospite, però non da solo. Tu saresti il tipo adatto, sei tale e quale alle ballerine di Degas.”
“Mi piacerebbe da matti, però ho smesso per molti anni, quindi non so…”
“Non ha importanza, i passi li adattiamo, mi interessi tu, perché so che quando entri in scena bruci la telecamera, sei unica.”
“E quando, dove proviamo?” chiese Rita col morale salito alle stelle.

Si scambiarono i numeri di telefono e presero accordi.
Avrebbe ballato sulle punte, che gioia!
La coreografia prevedeva che Rita sarebbe entrata più volte in scena da sola, durante alcuni momenti del saggio, mentre le altre ballavano. Come ultimo pezzo, un passo a due con Guido.

Quando sentì che quelle due streghe avrebbero presenziato al suo stesso spettacolo, l’adrenalina l’invase tutta e comprese che finalmente la giusta vendetta si sarebbe consumata, e senza colpo ferire.
Alle ore 21,30 del 3 giugno, le note dell’Adagio di Albinoni furono degnamente celebrate da due ballerini che lasciarono il pubblico in estasi. Il devoto silenzio del pubblico accompagnò l’ultima nota, poi seguì un interminabile applauso, richieste di bis, ovazioni.

Nel fondo della sala, due donne immobili come statue non si persero un istante del balletto, ma non applaudirono, né dissero una parola. Se ne andarono in silenzio, mentre lo stupore, l’ammirazione che pur a malincuore non avevano potuto fare a meno di provare, lasciava posto ad un rancore, un odio incontenibile che avrebbero scaricato sul primo malcapitato.
Anzi, i primi malcapitati: i loro rispettivi consorti, i quali mai compresero perché quelle due pazze si fossero messe a gridare in mezzo alla strada accusandoli di essere ineleganti, maleducati, e, siccome non avevano voluto vedere il saggio insieme a loro, era stato certamente per andare a caccia di donne, soli e indisturbati.
Il marito di Luisa si beccò un occhio nero, il fidanzato di Anna, una mano stritolata dentro la portiera dell’auto. Per questi quattro, la notte li vide in fila al Pronto Soccorso, mentre Guido e Rita a fare un brindisi sulla spiaggia.


FINE

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ZUCCHERO SALATO

1_275

La principessa Rubina si avvicinava sempre di più alle soglie della preadolescenza, e suo padre, Re Vega, non aveva ancora deciso un regalo degno di lei per festeggiare il suo imminente undicesimo compleanno.
“Di che cosa ha bisogno? Vestiti? No, assolutamente, la sarta le ha appena rinnovato il guardaroba. Libri? Nemmeno. Computer? Lo snobba in toto. Giocattoli? Bah! Se qualcuno gliene regala ancora, dovrò aprire un negozio per la rivendita.”

Così ragionava tra sé il sovrano piuttosto preoccupato: il suo malcontento era dovuto ad un insieme di fattori. Sua figlia era sì, ancora una bambina, ma tra pochi anni sarebbe diventata una ragazza, e fin qui, nulla di male, intendiamoci. Il vero problema che nella testa del re prendeva sempre più forma concreta, era questo: Rubina, oltre ad essere la sua unica erede, ancora non dava il minimo segno di desideri espansionistici, dittatori, predatori, insomma, a dirla schietta, non sembrava sua figlia, ecco!

“Devo far qualcosa prima che sia troppo tardi”, pensò, quindi premette il tasto per le chiamate urgenti.
Pochi minuti dopo, il ministro Zuril, faceva la sua comparsa nello studio del re.
“Ai suoi ordini sire”, disse lo scienziato dopo un breve inchino. Il suo sguardo intelligente e perspicace, indusse Vega ad andare subito al sodo senza tanti giri di parole.

“Zuril… ho bisogno del vostro aiuto. Tra pochi giorni sarà il compleanno di Rubina, ha quasi undici anni, mi sembra ieri quando tentava i primi passi, è incredibile come il tempo voli, ma non voglio divagare, non è questo il punto: il vero problema è un altro.”
Si schiarì la voce per prendere tempo e darsi un contegno.
“Ecco… vedete… mia figlia è troppo zuccherosa, leziosa, ama le cose belle e delicate, legge solo storie carine e non tollera quelle che finiscono male. Sapete, una volta ebbi l’idea di regalarle la favola del lupo e dei sette capretti con un finale diverso dall’originale: sì, ecco, il lupo se li mangiava tutti a piccoli morsi, alcuni crudi e ancora vivi che strillavano, oppure infilzati in uno spiedino e cotti a fuoco lento, altri appena saltati in padella, al sangue insomma. In questo modo li aveva digeriti tutti, quindi non gli si poteva più aprire la pancia per farli uscire sani e salvi come la vera fiaba vuole.”

Con gli occhi bassi continuò: “Purtroppo me ne sono pentito amaramente, perché per molti giorni Rubina non ha fatto altro che piangere e avere incubi notturni, non voleva più uscire né stare sola e per calmarla mi sono dovuto inventare una scusa, mi pare di averle detto che avevano sbagliato nel copiare la storia, che quella vera aveva un bellissimo lieto fine, e la casa editrice aveva chiuso i battenti per fallimento.”

“Vi prego di scusarmi sire, ma… dov’è il punto?”
“Avete ragione, scusate, ma per me non è semplice affrontare la cosa. Io voglio che mia figlia diventi come me!” disse il sovrano ad alta voce, sbattendo un pugno sul tavolo.
“Basta con tutte queste moine, vestitini di pizzo, a pois, frappe, volants, fronzoli vari, bambole carine e ben vestite, carillon, canzoncine stupide e stucchevoli, cartoni animati con tutti quegli animaletti mezzi scemi, ginnastica artistica coi nastri colorati e la pallina.
Come farà a diventare una vera regina come dico io, se va avanti così? Deve essere prepotente e aggressiva, anche maleducata quando serve, deve già avere il desiderio della roba altrui, aria di superiorità, di dominio. Capite cosa voglio dire?”
“Perfettamente maestà, solo che questo “modo di essere”, non può esserle imposto, perché non essendo nella sua indole, lo rifiuterebbe subito e dopo non ci sarebbe più nulla da fare. Bisogna essere cauti e pazienti: ecco, forse mi è venuta un’idea. Avete detto che tra poco sarà il suo compleanno, vero? Lasciate fare a me e non ve ne pentirete.”

Re Vega lasciò il suo studio e uscì a prendere una boccata d’aria in giardino. Da lontano vedeva Rubina che con fare materno portava il suo bambolotto nel passeggino, gli dava da bere col biberon, gli sistemava bene il berretto sulla testa in modo che il sole non lo scottasse, gli cantava la sigla dei Puffi, lo faceva ridere, gli metteva la copertina, poi con calma lo riportava in casa.
Davanti a questo sdolcinato spettacolo pieno di zucchero e glucosio, al re cascò subito la mascella.
“Uuhhh, qui la vedo dura anche per uno come Zuril, ma non ho altra scelta, speriamo bene.”

Alcuni giorni dopo, il Ministro delle Scienze, bussò alla porta del re.
“Avanti! Ah, siete voi…”
“Eccomi qua maestà, ecco davanti a voi il frutto delle mie fatiche, ci ho pensato una notte intera, per ore e ore ho lavorato solo a questo progetto.”
Come un abile prestigiatore, Zuril pose sulla scrivania una bellissima bambola tutta vestita di rosa, i capelli di seta, gli occhi chiari che si aprivano e chiudevano, la bocca rossa si muoveva per parlare… sembrava viva.
Fu solo il grande rispetto che Vega aveva per lo scienziato, a frenarlo dalla voglia quasi irrefrenabile di investirlo con parole davvero poco ortodosse.
Ma che roba era quella? Rubina aveva almeno un armadio pieno di bambole fatte così, forse quella era più bella delle altre, ma con un regalo del genere, erano a punto e a capo. Che cosa aveva capito Zuril, gli mancava qualche rotella per caso?

“Sire, questa non è una bambola come le altre. Nel fondo della scatola c’è un libretto con delle istruzioni molto dettagliate, Rubina dovrà leggerle e metterle in pratica. Le diremo che ormai è grande e piuttosto intelligente, quindi l’uso di questa magnifica bambola sarà didattico, e dovrà mettercela tutta per capire bene cosa farne.”


Finalmente arrivò il tanto atteso giorno della festa: Rubina era tutta vestita di rosa confetto, si era pettinata con due codini trattenuti da nastri di seta ed era felicissima.
Appena ebbe soffiato sulle candeline, iniziò il rito dell’apertura dei regali: un set di quaderni, pennarelli e biro tutti griffati, dei dvd con cartoni animati, libri e un piccolo tablet.
Il regalo di re Vega fu l’ultimo ad essere aperto, era il pacco più grosso e più bello: quando dalla scatola venne fuori quel delicato viso di porcellana, Rubina credette di sognare. Scartò tutto con frenesia e si mise a saltare e battere le mani per la gioia, poi stampò un grosso bacio a padre e mostrò a tutti gli invitati la bellezza di quella bambola meravigliosa.
“Rubina!”
“Sì?”
“Leggi anche il biglietto.”
La ragazzina aprì la busta e vide un cartoncino con scritti i soliti auguri, ma in fondo c’era una frase che diceva così: “questa non è una bambola come le altre, dovrai capire da sola a cosa serve e come funziona.”
Piuttosto perplessa fissò il proprio genitore che le sorrideva, poi si fece avanti anche Zuril.
“Cara Rubina, quando avrai letto bene le istruzioni, ci mostrerai il lavoro che devi fare. Sappiamo che sei brava e intelligente, non ci deluderai di certo. Tanti auguri, cara.”
“Vi ringrazio molto” disse lei con riconoscenza e con tono perfettamente educato.

Il pomeriggio seguente, Rubina era nella sua camera e si decise a leggere con attenzione quel libretto di istruzioni che era nella scatola della bambola.
“Vediamo… allora, qui dice: “Dietro la testa e sotto i capelli, c’è un’apertura: in questa cavità sono contenute delle piccole bombe esplosive. Vanno maneggiate con cautela, una volta tolte da dove si trovano, esploderanno nell’arco di un’ora, quindi vanno collocate dove si desidera disintegrare qualcosa. Allontanarsi dal luogo di molti metri.”
“Eccole qui, trovate! Bene, dove posso metterle?” Rubina pensò alcuni istanti, poi ebbe una fantastica illuminazione: andò di corsa nello studio del padre e ne piazzò tre in vari punti della stanza, e lo stesso fece nella camera di Zuril.
“Chissà come saranno contenti! Loro mi hanno fatto il regalo, mi hanno detto che dovevo capire come funziona, e quando vedranno l’esplosione nei loro appartamenti mi diranno brava, perché ho capito tutto!” Battè le manine tutta contenta, poi decise che dopo quelle ore di “studio”, meritava di fare solo le cose che più le piacevano.
Prese il bambolotto e la bambola nuova, li pose sul tavolo della sua stanza e, con abilità da chirurgo professionista, iniziò a tagliarli, farli in minuscoli pezzi con piacere sadico.

Quello che re Vega e Zuril non avevano ancora lontanamente capito di Rubina era che lei, già dalla nascita aveva in sé tutte le caratteristiche del padre: solo che, furbescamente le nascondeva a tutti.
Quando aveva visto il contenuto nella testa della bambola, aveva compreso subito il suo uso. E di proposito fatto esplodere le bombe negli appartamenti dei suoi donatori, e questo per trasmettere loro un duplice messaggio: “Non sono mai stata un’acqua cheta come sono sempre riuscita a farvi credere e anche perché non intendo sottomettermi a nessuno. Guai a chi oserà impormi qualcosa, soprattutto un fidanzamento di Stato!”
Aveva infatti sentito parlottare suo padre e Zuril circa il suo futuro matrimonio senza farne cenno con lei. Da lì, aveva cominciato a covare rancore per entrambi, quindi aveva sempre tenuto tutti i cinque sensi all’erta. E il suo impegno, unito all’intelligenza innata, erano stati “premiati”.
Nessuno avrebbe potuto muoverle rimproveri per ciò che aveva fatto: erano stati i grandi a lasciarle campo libero e lei li aveva subito accontentati.

“Come sono scemi gli adulti… si lasciano abbindolare come dei bambocci… meglio così…”, pensò tra sé la ragazzina sorridendo, mentre buttava nell’inceneritore i pezzi di bambole che aveva tagliato prima.


FINE
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LA NAVE DELLE OTTO E TRENTA

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Davanti al rosso di un tramonto suggestivo e pieno di colori, il dottor Procton, Actarus e Alcor, traevano le conclusioni dopo l’ennesimo ed estenuante combattimento veghiano.
Il nuovo mezzo progettato e pilotato da Alcor, il Goldrake2 e da poco collaudato, si era rivelato fondamentale per la vittoria finale; senza questo nuovo veicolo in grado di agganciarsi al robot di Actarus, sarebbe stato impossibile sconfiggere il mostro veghiano e soprattutto sperare di affrontare le nuove battaglie che di certo sarebbero arrivate.
Il dottore fissava il cielo con uno sguardo pieno di preoccupazione, poi, senza volgere lo sguardo verso i due giovani che gli stavano a lato, disse: “Abbiamo la certezza che d’ora in avanti, i veghiani non ci attaccheranno solo per la conquista della Terra, ma per la loro stessa sopravvivenza, quindi la lotta si farà sempre più aspra.”
Tacque alcuni istanti, aspirando una lunga boccata di fumo, poi aggiunse: “Dopo il combattimento di pochi mesi addietro avvenuto nel sottosuolo, credo sia indispensabile la progettazione di un altro veicolo che si agganci a Goldrake, capace di arrivare sottoterra in modo facile e senza impedimenti”.

Actarus non rispose nulla, dentro la sua mente era ben chiara e definita la preoccupazione del suo padre adottivo che poi era anche la sua. Quante volte si erano capiti con un solo sguardo d’intesa: tranne che in circostanza particolari, non erano mai stati necessari lunghi discorsi tra loro due.
Alcor stava per replicare con tutta l’irruenza che sentiva dentro, ma poi tacque. Era convinto che il nuovo disco da lui stesso progettato, avrebbe per sempre tenuto alla larga i veghiani, ma, a quanto pareva, la situazione era ben più pressante.

Pianeta Vega

“Voglio sapere perché per l’ennesima volta, vi siete fatti battere!” gridò re Vega dall’alto del suo trono, dopo aver convocato Gandal e Zuril.
“Mi avevate giurato che questa volta la vittoria era già nostra! Mi volete dire cosa non ha funzionato, cosa non avete previsto, di quali distrazioni venite sempre rapiti, o coosaaa??!!!”
“Maestà, dopo aver verificato che Goldrake non sa volare e perde molti secondi prima di diventare offensivo, ero sicurissimo di batterlo, ma quel nuovo veicolo che i terrestri hanno costruito a tempo di record, ha annullato le mie ricerche certosine” rispose prontamente Zuril al sovrano.
“Come potevamo immaginare questo inconveniente?”
Il re tacque per lunghi istanti, rimanendo pensieroso.
“Vorrà dire che da oggi il vostro impegno sarà doppio: studierete mezzi imbattibili da lanciare contro i terrestri, e allo stesso tempo vi dovrete procurare le materie prime che ci servono all’istante. E’ una questione di vita o di morte, ve ne rendete conto? Gandal, cosa ne pensate?”
“Ce la metteremo tutta e vinceremo, glielo giuro, maestà.”

Zuril e Gandal si ritirarono nella sala ricerche e presero posto ai rispettivi tavoli. Erano piuttosto amareggiati e confusi, la situazione era molto seria, con l’aggravante che il re non dimostrava grande fiducia in loro, anzi, quasi nessuna. Non si era espresso direttamente, però l’aveva fatto intendere molto bene con l’atteggiamento, gli sguardi, la mancanza di fiducia nei loro progetti.
Accesero il computer e navigarono a lungo in cerca di ispirazioni valide e immediate.
Zuril si soffermò per osservare con perizia tutte le stelle da loro conquistate: erano vuote e praticamente inospitali. Le avevano saccheggiate in modo vandalico facendo terra bruciata, quindi non c’era più niente da prelevare. All’improvviso, una lampadina si accese nella sua mente.
“Gandal, ho avuto un’idea, vieni qui.”

Dopo circa un’ora di scambio di vedute, i due furono d’accordo sul progetto da attuare immediatamente. L’unico inconveniente era che nessuno di loro aveva voglia di recarsi di persona da una stella all’altra per fare il minatore.
“Se almeno Hydargos non avesse avuto la brillantissima idea di lanciarsi in quel frontale contro Goldrake, ora ci sarebbe utilissimo in qualità di operaio di bassa manovalanza, non potrebbe certo rifiutarsi” mormorò Gandal in preda allo sconforto.
“Io da qui non posso muovermi… devo anche recarmi presto su Skarmoon… potrei studiare un modo per clonarmi, da solo non riesco a fare tutto, ho sempre un mare di impegni.”
“Pallone gonfiato che non sei altro, sei qui da poco e non hai mai rischiato la vita in combattimento, mentre io invece…” masticava Gandal a denti stretti, cercando di soffocare la rabbia.
“Devo farmi venire un’idea… ecco, forse ci sono…”


Il soldato delle Guardie Imperiali di Vega, prendeva tutte le mattine un mezzo pubblico, una navetta molto affollata alle 7,30 per recarsi al lavoro.
Si chiamava Agor, era un giovane di circa vent’anni ed era al servizio del re da quando ne aveva sedici.

Una mattina, il Comandante Gandal l’aveva chiamato nel suo ufficio per affidargli un nuovo incarico.
“Ti informo che da oggi, il tuo lavoro non sarà più qui su Vega, ma farai il pendolare. Ogni giorno ti recherai sulla stella Delta, la quale, benchè sia quasi inospitale, ha ancora un sottosuolo piuttosto ricco, quindi sarà tuo compito estrapolare le materie prime ancora in buone condizioni e portarle qui ogni sera. Una volta che avrai finito questo lavoro su Delta, ti attende lo stesso impegno sul pianeta Lupo. Mi sono spiegato?”
Il giovane era sull’attenti, con voce bassa e sottomessa, chiese: “Va bene Comandante, quale mezzo di trasporto posso usare per i miei spostamenti?”
“Quello pubblico, naturalmente”, gli disse Gandal con un moto di fastidio.
“Ma…”
“Ma, cosa? Allora, sia ben chiaro questo. La nave madre non si tocca, tutti gli altri mezzi sono pochi e messi male, siamo in un periodo di grossa crisi per scarsità di vegatron, le risorse che abbiamo non bastano mai, quindi, eccoti qui l’abbonamento per prendere la navetta pubblica. Ho anche ritoccato la tua età anagrafica per motivi di sconto: a diciassette anni la tassa è più conveniente, poi tu sembri più giovane, quindi tutto a posto. Domani partirai subito per il nuovo lavoro, intesi?”
“Agli ordini, Comandante!”

All’alba del giorno seguente, Agor aveva già fatto un’abbondante colazione e riempito lo zaino con gli utensili per estrapolare le preziosissime e rare materie prime: il cuoco gli aveva messo dentro due scatolette di cibo prossime alla scadenza e del tipo più economico che teneva in dispensa. Da bere, una bottiglia di acqua torbida.
Col sacco in spalla attendeva il mezzo pubblico alla fermata che distava oltre un chilometro dalla reggia del suo sovrano.
Dopo circa un’ora, atterrò su Delta e si mise subito al lavoro.
Iniziò il lavoro con forza e tanta buona volontà, poi, per associazione di idee, si ricordò all’improvviso della sua infanzia, quando con sua nonna andava nei campi a spigolare…
“Agor, andiamo a raccogliere dalla terra quello che gli uomini hanno lasciato.”
Lui correva felice per quei campi immensi e deserti. Sua nonna si chinava e gli mostrava quanti tesori erano stati trascurati dagli operai addetti ai raccolti. Erano piuttosto poveri, quindi per loro era una gioia poter prendere patate, cavolfiori, broccoli, della squisita frutta matura caduta a terra e ancora calda di sole; una volta a casa, com’erano buoni quei minestroni e le conserve che la nonna gli preparava.
Quelle scatolette infilate dentro il suo zaino erano spazzatura al confronto! Del resto, da quanto era stato arruolato nell’esercito, tutto il cibo per la truppa era decisamente insipido e cattivo.

Il lavoro che gli aveva ordinato Gandal non lo esaltava e non lo annoiava, era comunque un diversivo, un’evasione dalle solite mura, dal quel fastidioso e permanente rumore di sottofondo, dagli addestramenti, dal contatto dei soldati più anziani che amavano molto sottomettere e comandare i più giovani come lui.

Da alcuni giorni però, era successo qualcosa che gli rendeva il risveglio più piacevole del solito; salendo verso il fondo della navetta, trovava seduta in un angolo una ragazza dal profilo delicato, grandi occhi celesti, i lunghi capelli biondi raccolti dietro la nuca in una semplice e severa acconciatura, il viso pallido e senza trucco. Aveva sempre l’espressione assorta, pareva non vedere chi le stava attorno e nonostante il suo vestire per nulla appariscente, era molto notata da tutti.
Col passare dei giorni, la curiosità provata per la ragazza si era tramutata dapprima in interesse e poi, gradualmente, in qualcosa di più.
Una mattina, Agor aveva deciso di sedersi di fronte a lei, però la ragazza non pareva averci fatto alcun caso, anzi. Vestiva quasi sempre allo stesso modo, solo la sciarpa che portava attorno al collo, di tanto in tanto era di colore diverso.
Doveva essere un’impiegata che ogni mattina si recava al lavoro, una maestra forse, intanto lui, dopo circa un mese di viaggi, sentiva di essersi affezionato a quella ragazza e non poteva più fare a meno della sua presenza.

Cominciava anche a chiedersi che cosa sarebbe successo se un giorno lei non fosse stata al suo solito posto. Si diceva che avrebbe dovuto parlarle per evitare questo rischio, ma la sua timidezza era tanta e l’atteggiamento di lei, per nulla incoraggiante.
Una mattina, fu per ben due volte sul punto di parlarle, il cuore gli era balzato in gola, poi aveva rinunciato agitato e confuso. Decise comunque che il mattino successivo le avrebbe parlato, sì, non poteva più indugiare oltre.

Ma le cose andarono diversamente, perché il giorno dopo, Agor non potè alzarsi dal letto per colpa di un febbrone da cavallo che si era preso su Delta, quando era scoppiato un forte temporale e dal cielo era scesa acqua a catinelle che l’aveva inzuppato fino alle ossa e lui non era riuscito a trovare riparo: aveva solo potuto aspettare per ore la solita navetta che lo riportava su Vega.

Il Ministro Zuril gli aveva somministrato una dose massiccia di antibiotico ultima generazione, ma nonostante le cure tempestive, solo dopo otto giorni, il ragazzo era riuscito ad appoggiare i piedi a terra per pochi istanti; era debolissimo, la stanza sembrava una trottola e si sentiva svenire.
Era sicuro che non avrebbe più rivisto quella ragazza, la guarigione gli sembrava un lontano miraggio e nei deliri di febbre acuta, la vedeva andarsene lontana, avvolta in una fitta nebbia nel buio della notte.

Due settimane dopo, Agor fu in grado di alzarsi e mangiare qualcosa: volle subito tornare al lavoro, lasciando stupefatti Gandal e Zuril, abituati com’erano ai soldati che si solito si improvvisavano malati immaginari, alle loro latitanze, alle scuse puerili per evitare gli impegni più gravosi.

“Quel ragazzo è una vera forza della natura!” disse Gandal “Non l’avrei mai detto!”.
“E’ vero, teniamocelo ben stretto, ogni sera ci porta ottimi prodotti e mai che si lamenti di qualcosa: non ci chiede collaboratori, non sbuffa per il troppo lavoro, il salario… un ragazzo d’oro. Sto pensando seriamente di aumentarlo di grado… finito questo lavoro potrebbe essere addestrato per pilotare i minidischi, ad esempio” concluse Zuril decisamente convinto.

Il giorno dopo, il giovane era alla fermata mezz’ora prima dell’orario solito. Fremeva di impazienza e appena arrivò la navetta, salì e correndo andò al posto abituale. Si avvicinò alla ragazza esitando un attimo, poi la guardò in viso.
“Posso sedermi accanto a lei?” chiese.


Erano le nove di sera. La ragazza aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle e il viso era più morbido e dolce. Indossava un abito scuro aderente che metteva in risalto la sua splendida figura, mentre un filo di perle le adornava il collo candido. Sedevano a un tavolino d’angolo, un poco appartati; parlavano sottovoce, guardandosi negli occhi e tenendosi le mani.
“Non credo occorrerà più di un mese” disse la ragazza. “Mi ha già raccontato i dettagli del suo lavoro e parlato delle abitudini dei suoi superiori.”
Il bel giovane elegante che sedeva al suo fianco le sorrise.
“Sei stata bravissima: e pensare che per qualche tempo il tuo imbecille si era volatilizzato.”
“Non avrai pensato che avrei abbandonato l’idea, dopo tutto il tempo perso a individuare le sue abitudini mattutine, a vestirmi in quel modo austero e a prendere quella dannata navetta delle sette e trenta per oltre un mese…”
La ragazza sorrise, e tutto il viso divenne radioso, gli occhi brillanti, mentre sulle guance comparivano due deliziose fossette: “Vedrai… dammi ancora un paio di settimane e saprò tutto sulle loro armi, le formule segrete, dove porta quei tesori di materie prime ogni sera.”
Il giovane alzò il calice.
“Al nostro colpo e al tuo imbecille.”
“Al mio imbecille delle sette e trenta” rise la ragazza.
E dopo il brindisi, si scambiarono un bacio lunghissimo e appassionato.


FINE

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