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Luce's fanfiction gallery

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view post Posted on 23/4/2023, 06:36     +1   +1   -1
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Professore della Girella

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UN RE ALL’ULTIMA MODA

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Questa fanfiction prende spunto dalla famosa fiaba di Andersen.

I vestiti nuovi dell'imperatore - fiaba di Andersen


Molti anni fa, viveva un imperatore che amava tanto avere sempre bellissimi vestiti nuovi da usare tutti i suoi soldi per vestirsi elegantemente.
Nella grande città in cui abitava, una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all'altezza della loro carica e a quelli molto stupidi.

"Sono proprio dei bei vestiti!" pensò l'imperatore. "Con questi potrei scoprire chi nel mio regno non è all'altezza dell'incarico che ha, e riconoscere gli stupidi dagli intelligenti. Sì, questa stoffa dev'essere immediatamente tessuta per me!" e diede ai due truffatori molti soldi, affinché potessero cominciare a lavorare.


“Ecco cosa resta del nostro pianeta”, mormorò desolato re Vega osservando coi suoi stessi occhi la prossima fine della sua stella natale.
Il perdurare ormai da anni di un eccessivo inquinamento al vegatron, aveva segnato immancabilmente la sua condanna a morte. E pensare che proprio un’esplosione di quello stesso materiale aveva distrutto Fleed e tutta la sua gente. Quel pianeta che invece gli avrebbe fatto molto più comodo vivo, dato che era così ricco di risorse e di una tecnologia avanzatissima, molto più avanti della sua.
Ora era fondamentale per i veghiani occupare al più presto la Terra: questa volta era in ballo la loro stessa sopravvivenza. Dovevano intanto trasferirsi sulla base lunare, l’unico luogo vuoto e abitabile. Non ci sarebbe stato spazio per tutta la popolazione ovviamente, bisognava quindi fare una selezione, mandare avanti quelli più sani, giovani e intelligenti.
“Come posso essere sicuro di scegliere i soldati giusti?”, chiese il sovrano a Zuril. Erano soli nell’immensa e sconfinata sala d’ingresso del palazzo reale, rimasta ormai quasi vuota; le loro voci rimbombavano alte e con un eco di sottofondo.
“Molti mesi addietro, se ben ricordate sire, ho fatto un test specifico su tutta la popolazione: ho i risultati nel mio studio, se permettete…”
“No! Lasciate stare! Quello è un sistema ormai superato, perché i sopravvissuti all’inquinamento vegatron, non sono più nello stato di salute fisico e mentale dell’anno scorso. E non sappiamo niente delle condizioni future dei loro prossimi eredi, quindi…” Re Vega posò la mano sotto il mento e iniziò a pensare.

Il suono improvviso delle chiamate urgenti lo fece sobbalzare.
Sul grande schermo del computer, apparve un sito pubblicitario coloratissimo. Si trattava di una nuova e grande sartoria di lusso, adatta a vestire persone importante e di ruolo… anche un re ad esempio. Tutte le scritte invogliavano a dare almeno un’occhiata.

“SEI STANCO DEL TUO SOLITO LOOK? VIENI DA NOI!
NON TROVI I CAPI GIUSTI PER TE? POSSIAMO SODDISFARE OGNI TUA RICHIESTA.
BASTA COLORI E STOFFE MONOTONE. ABBIAMO TUTTO IN ESCLUSIVA!”

Un’allegra musica di sottofondo, invitava ad entrare nella pagina.
Zuril non seppe resistere: ci teneva molto all’eleganza, specie da quando aveva iniziato a frequentare di nascosto il bel mondo del teatro durante le sue incursioni sulla Terra.

“Non perdete tempo con quella roba Zuril! I nostri attuali problemi sono troppo grandi per preoccuparci dell’eleganza, non vi pare?”
“Avete ragione, scusate. Però…”
“Niente! Mettetevi subito in contatto con Skarmoon e insieme a Gandal organizzate il viaggio.”
“Vado!”
Lo scienziato andò di corsa nel suo studio.
Re Vega invece, per non pensare troppo ai suoi problemi, entrò nel sito e lesse avidamente ogni dettaglio.
Alla fine, decise di fare una telefonata, giusto per farsi un’idea del tutto.
Al terzo squillo, rispose una gentile e suadente voce femminile, la quale invitava ad esporre la richiesta.
Superato il primo momento di incertezza, il re si decise a chiedere informazioni dettagliate.
“Dunque… io sono un re… voglio cambiare il mio look, nel senso di renderlo più adatto al mio ruolo. In pratica, chiunque mi veda, deve sapere di avere davanti a sé un imperatore, quindi sentirsi sottomesso e in soggezione. D’ora in avanti, le mezze calzette devono sparire dal mio regno e dall’esercito: sono stato chiaro?”
“Chiarissimo! Attenda un attimo in linea, la metto subito in contatto con lo stilista”, rispose la voce sicura e gentile della ragazza.
Dopo alcuni secondi, un uomo dai toni caldi e dalla perfetta dizione, si mise in linea.
“I miei ossequi maestà. Sono molto lieto di fare la Sua conoscenza anche se soltanto telefonica. Spero vivamente di poterLa servire in ogni Sua esigenza. Lei è un re e che re! Il numero che leggo sopra l’apparecchio mi dice che è padrone assoluto di tutta la nebulosa di Vega, giusto?”
“S… sì… è così… ma da cosa…” balbettò il sire sentendosi lievemente a disagio.
“Lo capisco tramite il centralino: qui abbiamo uno speciale strumento che ci consente di localizzare tutte le chiamate. Veniamo dunque a noi… vediamo… domani pomeriggio, due miei collaboratori vengono dalle sue parti per servire dei clienti. Dico loro di passare da Lei… diciamo… alle 14,00. Va bene, vero? A domani, riverisco, i miei ossequi Maestà e grazie per averci scelto, Le assicuro che non avrà modo di pentirsi. Di nuovo, arrivederci.”
Vega chiuse lentamente la comunicazione sentendosi totalmente spiazzato. Era praticamente diventato cliente di quella sartoria prima che potesse dire sì o no.
Con gli occhi della mente riusciva ad immaginare il suo interlocutore: un uomo giovane e distinto, buon gusto, maniere gentili ma ferme, abituato a muoversi con eleganza, certamente capace di farsi obbedire dai suoi lavoranti.

“Beh, che vengano pure… non sono certo obbligato a comprare nulla. Anche se…”
Anche se non lo voleva ammettere neppure con sé stesso, il sovrano era molto stuzzicato dall’idea di un guardaroba tutto nuovo, ricco e che potesse dimostrare il suo potere, incutere una maggiore soggezione nei suoi sudditi.
Dal vetro della portafinestra ammirò la sua figura; si immaginò con un ampio mantello di velluto ornato di ermellino, scarpe dorate, una corona preziosa… accessori lussuosi.

Un leggero bussare alla porta lo distolse da quelle fantasie. Era Zuril con un foglio pieno di appunti.
“Ho stilato una lista delle cose più urgenti, maestà. Se volete dare un’occhiata, così mi metto poi subito al lavoro.”
Con aria distratta e quasi sognante, gli rispose: “Mettete sul tavolo, ne riparleremo più tardi. Ora potete andare.”
Piuttosto confuso, lo scienziato ubbidì e si recò nel grande magazzino che fungeva da deposito per i minidischi. L’intero quadro non era molto incoraggiante, poiché molti di essi erano seriamente danneggiati e irrecuperabili, altri andavano rottamati… e mancavano i mezzi per produrne di nuovi.
“Faremo con quel che abbiamo, pazienza. L’importante è riuscire a conquistare la Terra, dopo non avremo più problemi di sorta”, borbottò tra sé Zuril alquanto di malumore.

Una notte senza stelle giunse all’improvviso e senza che si fossero fatte migliorie o nuovi progetti nella reggia per ordine del re, il quale rimase tutta la sera alquanto pensieroso nel suo studio.

Il nuovo giorno vide un sovrano alquanto distratto e svogliato. Non aveva ancora mosso alcun rimprovero a Gandal, né incarcerato un soldato che aveva intravisto rubare qualcosa nella dispensa.

Nel primo pomeriggio, re Vega e Zuril, videro un’elegante navetta parcheggiare nell’ampio cortile.
Scesero due uomini molto distinti, i quali con disinvoltura, suonarono al portone del palazzo.
Venne loro aperto tramite il telecomando e Gandal corse a riceverli.
“Buongiorno”, dissero con un grande sorriso “siamo i sarti della Ditta Newlook Superlook, abbiamo appuntamento con il re più potente dell’universo”, aggiunsero con un inchino.
“Prego… da questa parte…”, balbettò il comandante.

Come fossero i padroni di casa, i due entrarono senza tanti complimenti nel salone al pianterreno, il quale, così privo di arredo, sembrava una piazza d’armi.
Re Vega era assiso sul trono; appena li vide fece cenno di avvicinarsi.
“Sua Maestà, è un onore”, dissero con gentilezza estrema e quasi stucchevole.
“Permetteteci di mostrarvi il nostro catalogo di stoffe, eccolo qua.”
Chi aveva parlato era Alex, un uomo sulla trentina vestito in maniera impeccabile: doppiopetto in seta blu scuro e capelli brillantinati.
Il suo aiutante era invece Alan, dimostrava qualche anno in meno del collega e, benchè vestisse sportivamente, era comunque elegantissimo ed entrambi vantavano un fisico scultoreo.
In meno di un quarto d’ora, Alex aveva imbottito la fantasia di Vega con un repertorio vastissimo sulle stoffe, dalle più semplici alle più preziose, nozioni basilari sull’ordito e la trama, le cuciture invisibili, i bottoni in oro zecchino e pietre preziose, il look notturno che doveva essere elegante almeno quanto quello da giorno, gli accessori e le calzature.
Parlava a macchinetta, intanto mostrava i campioni dal catalogo e voleva che il re toccasse tutto con mano, se aveva delle domande, prego che chiedesse pure, i tempi di consegna e il servizio a domicilio.
Alan intanto, aveva preso il metro e con quello verificava le misure esatte del sovrano, le scriveva sul tablet e le inviava in tempo reale alla Ditta Newlook Superlook.

Dopo tutto questo lavoro, durante il quale Vega era rimasto inerme e totalmente spiazzato, i due sarti si appartarono alcuni istanti per parlare.
Con un sorriso da concorso pubblicitario, esposero il programma al loro nuovo cliente.
“Molto bene, maestà. Le facciamo i nostri complimenti per la sua splendida figura; eh sì, potreste fare il modello, sembrate un figurino”, gli disse Alex in modo accattivante.
“Dunque… voi avete bisogno di un guardaroba che vi vesta 24 ore su 24: mattino, pranzo, pomeriggio, sera, mezza sera, abiti per le riunioni importanti e look notturno in seta e raso.”
“Look notturno? Che significa”, balbettò lui.
“Il riposo notturno è importantissimo, specie per un uomo come voi. Pigiama e lenzuoli di seta, vi faranno fare sempre dei sogni dorati, ci potete credere”, disse Alan con un piccolo inchino.
Nel frattempo, Alex gli porse un foglio con alcune diciture e numeri scritti.
“Ecco qua tutto l’occorrente e il costo.”
Appena lette quelle cifre, a re Vega mancò il respiro. Barcollando si sedette sul trono e con l’aiuto di una lente, riguardò meglio quei numeri.
Prima che potesse fare domande, Alex lo prevenne subito.
“Scusate maestà, vi devo subito far notare che si tratta di stoffe di prima qualità, le quali verranno lavorate da noi in una specialissima maniera, quella cioè che meglio si adatta ad un illustre personaggio come siete voi.”
“In che senso?”
“Nel senso direi… magico…” disse il giovane muovendo le mani come avrebbe potuto fare un abile prestigiatore.
“So che avete un esercito di tutto rispetto, comandanti e scienziati. Ecco, come sapete, non tutti sono affidabili o all’altezza del loro compito, giusto? Bene, con il nostro sistema, avrete modo di saperlo senza ombra di dubbio.”
“Ah, ma…”
“Alan, dal tuo tablet, entra nella pagina dove è scritta la procedura selettiva.”
“Quella che spiega come rendere i capi visibili solo alle persone speciali e con intelligenza superiore alla media?”
“Esatto. Si trova nel sito nascosto, per entrare devi usare la password. Ti ricordi?”
“Dunque… il programma sta facendo gli aggiornamenti, ci vorranno alcuni minuti di attesa.”
“Non c’è problema, io intanto spiego a Sua Eccellenza come funziona.”
Alex si sedette su uno sgabello ai piedi del re e con fare che stava tra il servile e il disinvolto, spiegò nel dettaglio come funzionava quel suo programma geniale.

“… in questo modo, avrete un sistema di selezione automatico e quindi, un risparmio eccezionale, perché eliminando tutti i subordinati mediocri, ci sarà un immediato riscontro positivo nel Bilancio e nelle strategie, mi capite?” gli diceva con fare accattivante e complice.
Re Vega diveniva sempre più entusiasta man mano che conosceva quel sistema. Quei due ragazzi erano davvero in gamba, accidenti! E se anche il conto era piuttosto salato per un rinnovo di guardaroba, il risultato finale era molto vantaggioso. Via per sempre i mangia pane a tradimento, le mezze calzette, gli stupidi e incapaci… e forse anche i traditori.
Come gli avesse letto nel pensiero, lo stilista precisò: “Chiunque abbia anche solo la vaga idea di tradirvi lo scoprirete subito, perché ai suoi occhi, gli abiti confezionati da noi non li vedrà.”
“Molto bene, mi avete convinto, cominciate subito a lavorare!”
I due si inchinarono all’unisono e gli strinsero la mano.
“Non avevamo dubbi circa la vostra ottima scelta: non ve ne pentirete, sire.”
“Di cosa avete bisogno, oltre al fatto che già avete preso le mie misure?”
“A noi serve un acconto del 50% e una firma qui, su questo foglio, dove dichiarate di accettare le nostre condizioni”, replicò Alex porgendo al re un foglio e la sua stilografica.
“Quanto tempo ci vorrà per avere almeno un abito? Voglio subito capire quali dei miei uomini siano i migliori e sbattere fuori da tutte le galassie gli inetti!”
“Domani siamo in grado di farvi avere il primo completo da usare per le riunioni importanti. Manderò la mia collaboratrice, è la ragazza che si occupa delle consegne immediate.”
Con questa sua ultima frase, Alex raccolse il tablet e la valigetta, fece segno al collega di uscire e un ultimo inchino a Vega.

Appena se ne furono andati, il sovrano fece subito venire nel suo studio Gandal e Zuril e spiegò loro quanto avvenuto poco prima con quei due stilisti.
“… da domani in poi, gli incapaci saranno buttati fuori da questo pianeta e da tutte le galassie conquistate, ci siamo capiti?!!” tuonò re Vega spaventandoli.
I due balbettarono alcune parole di consenso, poi si ritirano nei loro appartamenti. Dentro di loro, pensavano con terrore al fatto che, se i loro occhi non avessero visto gli abiti confezionati dal quella Ditta, sarebbe stata la fine.
In cuor loro, decisero che comunque fossero andate le cose, avrebbero di certo ammesso di vederli. Non potevano assolutamente permettersi di essere buttati fuori. Anche Lady Gandal conversò a lungo col coniuge e si misero d’accordo su come si sarebbero comportati.

Il giorno successivo, in tarda mattinata, arrivò un grande pacco consegnato da una giovane commessa.
Elegantissima nel suo tailleur bianco, volle parlare con Vega. Zuril le fece strada e ne approfittò per sfogare l’occhio: il suo lato donnaiolo non veniva mai a meno.
La porta dello studio era aperta e i due entrarono senza invito.
“Buongiorno sire”, disse lei con un sorriso smagliante. “Sono qui per la prova del suo primo vestito; le spiace provarlo subito? così se ci sono delle modifiche provvedo”, disse aprendo la carta.
Con garbo e delicatezza mise sopra al manichino il completo elegante lisciandolo per bene.
“Appena lo ha indossato mi chiami, così vedo se cade bene.”
Vega e Zuril avevano lo sguardo fisso nel punto dove la ragazza aveva mostrato di sistemare l’abito: ma non lo videro. C’era solo un vecchio manichino in velluto scuro e liso.
“Vi aiuto maestà, così fate prima”, propose Zuril interrompendo quel silenzio imbarazzato.
Il re, molto perplesso accettò: da un lato era sollevato dal fatto che per lo scienziato il tutto era ben visibile, dall’altro era in crisi nera, perché se lui non vedeva niente, significava che il suo quoziente intellettivo era al pari di quello di una gallina.

Dopo alcuni minuti, lo sentì dire: “State benissimo e quel colore vi dona. Guardatevi allo specchio.”
Nel frattempo, la ragazza bussò alla porta chiedendo se poteva entrare. Il suo sorriso a trentadue denti, faceva intendere che anche lei, come Zuril, di certo non ammirava un re vestito solo di un paio di boxer a pois rossi taglia extra large come di fatto si vedeva lui riflesso nel vetro, ma un uomo alto e imponente che, con quel completo blu scuro faceva un figurone senza pari.
“Ma è meraviglioso, semplicemente perfetto!” esclamò lei battendo le mani dalla gioia.
“Telefono subito ai miei principali per informarli che va tutto bene, così potranno continuare a confezionare tutti gli altri capi.”
Dopo alcuni minuti di conversazione, la ragazza informò re Vega che, se per lui non era un problema, poteva saldare il conto, così loro, acquistando le stoffe e i preziosi, avrebbero fatto molto prima con la consegna del tutto.
Il re non osava dire che era quasi al verde e che gli spiccioli rimasti servivano per gli spostamenti, ma non volendo fare un’orribile figura, si appartò un attimo con Zuril.
“Mi dovete dare tutti i vostri risparmi, presto…”
“Ma sire, io… io…”
“Anche quelli di Gandal e spostare di quindici giorni i pagamenti di tutti i soldati.”
“Non possiamo… qui si rischia un’insurrezione.”
“Niente! Fate subito come dico; ne avremo un tornaconto incredibile, credeteci.”
Era abbastanza difficile per uno scienziato del suo calibro, credere a simili calcoli quando uscivano dalla bocca di un re senza corona e vestito solo con dei boxer a pois, ma tanto altezzoso come fosse ricoperto di diamanti.
“Un attimo, chiamo Gandal, così…” gli rispose cercando di prendere tempo.
Arrivò subito Lady Gandal, la quale, vista la scena, trattenne con molta fatica un Oooohhh di stupore. Si appoggiò allo stipite della porta e tirò fuori tutta la classe e il sangue freddo di cui era capace.
“Mio marito sta arrivando, maestà… ma voi, cioè volevo dire… come…”
“Che ne dite del mio nuovo completo blu di seta per le riunioni importanti? Siete una donna, il vostro giudizio è fondamentale. Coraggio, ditemi cosa ve ne pare.”
“M… mi pare sia tutto a posto…” rispose sorridendo a denti stretti, incoraggiata dall’espressione estasiata della commessa della sartoria. Capiva bene che se avesse ammesso di vedere il suo sovrano col solo l’intimo addosso, sarebbe stata defenestrata seduta stante.
Zuril le sussurrò qualcosa all’orecchio e lei corse subito ad aprire la cassaforte; insieme presero tutto il contante e lo portarono alla ragazza.
“Molto bene, così abbiamo saldato tutto e dopodomani vi consegneremo il guardaroba nuovo, arrivederci.”
Partì velocissima con la sua navetta, mentre Vega andava a riporre l’abito prezioso dentro l’armadio e rimetteva i suoi vecchi panni.

Puntuali come orologi svizzeri, due giorni dopo tornarono gli stilisti con le braccia pieni di pacchi.
Li ricevette Gandal e li condusse verso il guardaroba.
“Eccoci qua, abbiamo lavorato giorno e notte lasciando indietro gli altri clienti: non potevamo certo favorire loro anziché il re! E che re!”
Cordiali e gentili salutarono tutti i presenti. Lady Gandal ebbe un galante baciamano che la lasciò senza fiato; nessuno l’aveva mai trattata con raffinatezza e decise che forse non si sarebbe più lavata la mano. Peccato che fosse comunicante con quella di lui, altrimenti… beh, ora aveva solo una voglia matta di ammirare quei capi lussuosi, augurandosi di vederli davvero, stavolta.
Gandal e Zuril erano con tutti i cinque sensi bene all’erta.

“Dove possiamo stendere gli abiti perché non si sciupino?” chiese Alan guardandosi intorno.
“Nella mia camera, prego”, disse Vega. “C’è un enorme letto a baldacchino, poltrone e divani in quantità”, continuò facendo loro strada.
Alex andò avanti e iniziò ad aprire un pacco molto voluminoso.
“Ecco, come vedete questo è il mantello regale tutto in ermellino. Di solito è solo il bordo fatto con la pelliccia, ma noi abbiamo voluto strafare, quindi questi trenta metri sono tutti di animale pregiatissimo. Prego signora, venga a sentire che meraviglia.”
Lady Gandal avanzò circospetta, si stampò sul viso un’aria sicura di sé e con modi da vera esperta tastò quella pelliccia invisibile. L’accostò anche sul viso per gustare meglio la sensazione e tutti i presenti furono persuasi della sua reale presenza. Nessuno però vedeva niente.

“Alan, fai provare il mantello al re, così vede come gli sta.”
Subito il ragazzo allungò le braccia verso il nulla e quel niente lo mise con delicatezza sulle spalle di Vega.
“Si guardi nello specchio maestà! Lo vede come scende bene, la pelliccia è molto sottile e slancia la figura. Questa va portata con corona preziosissima e scettro in mano. Dico bene?”
Gandal si chinò a terra per raccogliere qualcosa di invisibile.
“Vi è caduto il fazzoletto di seta, fate attenzione.”
“Ah, vi ringrazio” rispose distrattamente il sovrano fissando la sua immagine nello specchio. Si vedeva coperto solo di un body in lycra color carne e la faccia da ebete: si persuase ancora di più di essere un perfetto idiota, mentre i suoi subordinati degli estratti di intelligenza purissima.

Intanto Alan, stava sistemando tutti gli altri capi dentro gli armadi, sopra i divani e sul letto.
“Hai finito?” gli chiese Alex.
“Con questo sì. E’ il pigiama in seta e raso viola. Bene, noi abbiamo finito.”
“Sì, esatto e se non avete altro, noi ce ne andiamo.”
“Vi accompagno alla porta”, disse Zuril molto perplesso.
I due stilisti si profusero in inchini e ringraziamenti infiniti, dicendo che se avessero ancora avuto bisogno di loro, chiedessero pure.
“Se un giorno vorrete rinnovare anche le divise dei vostri militari, noi abbiamo un tessuto innovativo e ultraresistente. Mise eleganti anche per comandanti e scienziati, ovviamente.”
“Grazie, arrivederci.”

Il Ministro delle Scienze tornò nelle stanze del re per vedere cosa stavano facendo tutti quanti.
Era in corso una piccola discussione per stabilire il giorno e l’ora in cui re Vega, vestito di tutto punto, avrebbe presenziato dal balcone più alto del palazzo per essere ammirato da tutta la popolazione.
Era la giusta occasione per la selezione: chiunque avesse osato accennare che lui non era come gli altri lo vedevano, quindi elegantissimo, sarebbe stato eliminato.
Gandal stava consultando il calendario e vide che, quello stesso giorno, poco prima del tramonto, le truppe dei soldati e gran parte degli abitanti, si sarebbero riuniti nel grande cortile per un piccolo rinfresco.
“E’ perfetto maestà” disse Zuril, “L’occasione d’oro per farvi ammirare in tutta la vostra potenza.”
“Lo dico anch’io: vado a darmi una rinfrescata prima di vestirmi.”

Due ore dopo, il re presenziava sull’alto terrazzo della reggia.
Era di uno strano e insolito effetto vederlo coperto solo con un paio di boxer e maglietta in tinta color malva, con quella sua aria superba e arrogante, i toni di voce imperiosi. La nota stridula della situazione, proseguiva nell’osservare con attenzione i suoi fedeli subordinati di lato a lui, tutti seri e impettiti che non si perdevano una parola: sembravano sottomessi e paurosi vicino a quel re dalla voce alta e a tratti minacciosa.
Un fine brusio si sparse nell’aria, ma poi tutti tacquero imbarazzati.
“… e per finire, vi dico che, in questa feroce selezione presenzierà anche mia figlia Rubina, la quale, non potendosi assentare da Rubi, sarà in contatto col megaschermo alle mie spalle. Tra pochi istanti la vedrete.”
Tutti tacquero e attesero col fiato sospeso. Dopo alcuni minuti, il video si accese e la principessa apparve vestita come una vera regina. Aveva uno sguardo serio e austero, fissava ognuno dei presenti come per valutarli, farne una stima. I suoi occhi sembravano di ghiaccio e le labbra strette dimostravano superbia.
Quando ebbe finito di scrutare tutta la plebe, lo sguardo si posò sul proprio genitore, ed ella, benchè così algida, non potè trattenere un grido di spavento e stupore.
Zuril se ne accorse subito e andò vicino al video per parlarle da vicino.
“Che c’è principessa? Non vi sentite bene?”
“No… m… ma…. C… cosa… siete tutti scemi? Ma che avete fatto?”
“Non capisco, spiegatevi meglio.”
“Ma… oh, ma si può sapere cosa vi è saltato in testa? Perché mio padre si è vestito, o meglio svestito così? Siete pazzi?” gridò.
Qualcuno aveva sentito e non potè trattenere un sorriso, il quale si estese a tutta la piazza ed esplose in una grande risata contagiosa e interminabile.

Re Vega si avvicinò al video per parlare con Rubina.
“Che c’è cara? Qualcosa non va?”
“A me lo chiedi? Ti sei bevuto il cervello per caso? Ma ti sei visto?”
“Non ti piace il mio nuovo look? Ho speso una fortuna sai, è una lunga storia…”
“Hai speso una fortuna per quei due pezzi di intimo da bancarella? Allora sei davvero un idiota e un demente a tutto tondo; tu e quegli altri tre scemi che sono con te. Ti saluto sai, dopo questa figuraccia che ho fatto anch’io per colpa tua, dico che non ti voglio vedere mai più. Addio!”
La comunicazione si interruppe all’istante e Vega si guardò, poi osservò i suoi collaboratori e vide che avevano gli occhi e il viso illuminati dalle risate a stento trattenute; da ciò capì il senso del discorso di Rubina.
Con la velocità del fulmine rientrò nel palazzo e in quel mentre, tutto il pubblico non si trattenne più dal ridere e quella risata contagiosa, continuò fino a tarda sera.

Il re era nudo, e tutti lo vedevano così.



FINE

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SAN VALENTINO

1_277

Il 14 febbraio è il giorno di S.Valentino, la giornata di tutti gli innamorati. Tutti sì, e di qualunque cosa o persona.
Ad esempio al ranch Makiba, Rigel spera che sia davvero il giorno adatto perché i suoi amatissimi extraterrestri arrivino finalmente a trovarlo e insieme festeggino, poi lo portino in giro per le galassie.
Mizar può trovare un nido di volatili e volerli tenere tutti per sé amandoli alla follia.
Il dottor Procton, quando ormai non ci sperava più, si vede arrivare l’invito per l’esclusivo convegno in Europa riservato solo a pochi.
Hayashi spera di ottenere il tanto sospirato permesso per andare a trovare Stella, la sua storica fidanzata.
E gli altri? Actarus, Venusia, Alcor e Maria? Vediamo più avanti… ma in ogni caso, ognuno di loro vuole un regalo, una sorpresa stupefacente, qualcosa di romantico e inaspettato.


“Ecco qua, manca solo l’ultima vite, poi sarà pronto per il primo volo”, disse Alcor sorridendo soddisfatto mentre finiva di montare il nuovo velivolo.
Le macchie nere di grasso e polvere che aveva sul viso e ancora di più nella vecchia tuta da lavoro, mostravano la fatica per il lungo lavoro da lui svolto.
“Adesso Maria non potrà più lamentarsi di essere l’ultima ruota del carro. La sua Trivella Spaziale è al massimo della potenza e velocità; quando ci salirà sopra, non le sembrerà più quella di prima. Mi sarà per forza riconoscente, eh sì! Un così bel regalo per S.Valentino non se lo aspettava di certo!”

Esatto, Maria si aspettava ben altra cosa; anche se all’apparenza non era una ragazza romantica, in realtà ci teneva molto alle finezze, alle cose belle e femminili, le sorprese.
Voleva sempre primeggiare ed era in eterna competizione coi maschi, ma in fondo al suo cuore, teneva anche alle premure, un mazzolino di fiori, un piccolo gioiello. Non lo ammetteva con sé stessa, ma quell’ansia di essere sempre la numero uno, a tratti la stancava ed era sempre alla ricerca del suo vero IO. Questo era dovuto in gran parte al fatto che, fin dalla più tenera età non aveva avuto una famiglia e quando colui che si era spacciato per il nonno adottivo le aveva rivelato la sua vera identità, per lei era stato come dover nascere una seconda volta. Certo, ritrovare il fratello creduto morto aveva colmato molto vuoti, ma allo stesso tempo ne aveva aperto altri, forse ancora più grandi.
Era stata subito attratta da Alcor e lui era stato lo stesso, ma i loro caratteri facevano scintille, non era facile trovare punti di incontro tra loro, ed entrambi faticavano ad esternare l’interesse reciproco.
Sarebbe stato meglio che lui avesse potenziato la Trivella in un altro momento, e in occasione di quella festività invitarla in un posto carino andandoci con le rispettive moto.
Ma tant’è, le cose andarono diversamente e, data la loro giovane età, di tempo per recuperare ce n’era d’avanzo.

Venusia era diretta verso il centro di Tokio per fare una montagna di acquisti: per la casa, per il Centro e la fattoria. Era andata via sola, perché tutti gli altri dovevano stare all’erta in caso di un improvviso attacco veghiano. Lei non si era certo persa d’animo, nonostante il traffico e i negozi pieni di gente, si era sbrigata piuttosto in fretta.
Stava per mettere in moto l’auto e tornare indietro, quando si ricordò che aveva dimenticato di ritirare il materiale per Procton. Doveva andare all’ufficio postale nel reparto magazzino, dove giacevano i pacchi appena arrivati. Parcheggiò in sosta vietata sperando di far presto, ma appena scese, si fermò stupefatta. Vide infatti uscire qualcuno che reggeva qualcosa di molto voluminoso.
“Oh, ma…” mormorò sorpresa.
“Che ci fai qui, Actarus?”
Il giovane le sorrise senza risponderle, poi le tese la mano.
“Non dovevi essere al Centro? Avevi detto che…”
“Non ti avevo detto che ti avrei fatto una sorpresa: spero ti piaccia. Aspetta, carichiamo in macchina il nuovo computer, poi ti dico tutto.”
Venusia era felicissima e anche sollevata: era stata una mattina infernale, tutta di corsa e adesso… oh, non l’avrebbe mai detto.
“Ecco, ora è a posto”, le disse chiudendo il portabagagli. Salì al posto di guida e mise in moto.
Una volta usciti dal centro, si trovarono in aperta campagna, quindi Actarus rallentò la corsa e guardò Venusia dritta negli occhi.
“Procton mi ha detto di seguirti perché di certo avevi bisogno di aiuto, poi ha aggiunto che per tutta questa giornata io e te siamo liberi: possiamo fare quello che vogliamo.”
“Oh, è bellissimo, mi sembra un sogno… non avrei mai immaginato una cosa tanto bella. Grazie.”
Lui staccò qualcosa che era nell’erba e lo avvicinò a lei.
“Questo bel fiore sta meglio tra i tuoi capelli, ti dona molto sai?” le sussurrò in modo complice.
Lei non disse più nulla, non aveva bisogno d’altro… forse era questo uno dei più bei giorni della sua vita.


“Dunque… il 14 febbraio è il giorno delle coppie, mentre il 15 dedicato ai single…” borbottava tra sé Zuril molto scontento seduto alla scrivania del suo studio.
“Che nessuno abbia mai a credere che io sia single… sarebbe la disfatta totale”, pensò tenendosi il capo tra le mani.
Il fatto grave era che, la bellissima ragazza con la quale usciva da alcuni mesi, improvvisamente l’aveva scaricato senza alcuna spiegazione. Lui l’aveva ovviamente presa malissimo e la sua autostima era crollata a picco. Non riusciva a capire il motivo: tra loro c’era intesa mentale e soprattutto fisica. E allora perché? La rivide con gli occhi della mente con quella sua lunga e folta chioma viola scuro, dove le ciocche più chiare e corte creavano un contrasto piacevolissimo. Quando camminava sembrava fluttuare, aveva un fascino senza pari, il modo provocante e sinuoso di tutta la sua persona era semplicemente irresistibile.
“Non deve saperlo nessuno, domani me ne andrò via tutto solo, così qui alla base crederanno che sia andato a fare stragi di cuori come sempre.”

Zuril, da che aveva avuto l’età della ragione, aveva sempre fatto stragi: le sue specialità erano programmare le invasioni su altri pianeti e mandare in briciole i cuori femminili.
Avrebbe dovuto pensare che prima o poi, la vita ti presenta sempre il conto.


Incredibili a dirsi, ma anche su Rubi, una ragazza giovane, nobile e molto avvenente era più o meno nello stesso stato d’animo di Zuril.
Il ragazzo che aveva preso l’impegno con lei per la serata del 14 febbraio si era improvvisamente volatizzato. Non rispondeva alle sue chiamate, ai video messaggi… sparito nel nulla!
Beh, non proprio nel nulla, perché quella pettegola della sua cameriera, le aveva riferito di averlo visto in compagnia di una… una… diciamo una ragazza vistosa, a voler essere gentili.
“… li ho visti abbracciati stretti come ventose… si baciavano in mezzo alla strada… hanno preso la via di quel certo motel… quello dove ci vanno le coppie anonime e ovviamente clandestine”, le aveva detto con perfidia e gusto sadico quella donna scialba di mezza età, la quale non sopportava i nobili e tantomeno il suo lavoro di domestica.
Rubina aveva perso il controllo e, tirandole un cuscino, l’aveva sbattuta fuori dal palazzo.
“Sei licenziata, sparisci!”
Una volta chiusa la porta della sua stanza, aveva dato sfogo a tutte le sue lacrime di rabbia repressa.
Non essendo però il tipo da stare tanto a piangersi addosso, dopo neanche mezz’ora era andata a lavarsi la faccia e truccarsi per bene.
“Che m’importa”, aveva sussurrato “Sono libera e faccio quello che voglio. Adesso mi vesto per bene ed esco, sia quel che sia. Un cretino di quella portata, meglio perderlo che trovarlo.”
Un semplice ma sofisticato tubino in raso scarlatto e sandali a stiletto, la facevano irresistibile.
Ma per chi? Semplice, per uno come Zuril, no? Arrivato su Rubi quasi per caso, completo nero in seta e scarpe di vernice.
Sul marciapiede si scontrarono, lei perse l’equilibrio e lui le tese la mano con galanteria d’altri tempi.
“Buonasera Altezza… se mi posso permettere, vi dico che siete strepitosa, un vero schianto.”
“Ma… che ci fate voi qui?”, chiese stupefatta la principessa.
“Quello che fate voi, no?” le rispose con malizia.
“Io faccio che voglio e non devo renderne conto a nessuno. Voi invece, che ci fate qui? Siete in permesso o clandestino? Re Vega lo sa?”
“Ooohhh, ma quante domande! Non siamo mica in Sala Udienze!” le disse con sfacciataggine fissandola bene negli occhi. Dopo alcuni istanti e con disinvoltura elegante la prese sottobraccio.
“Ma che fate, si può sapere?”
“Vi conduco verso quel locale elegante come voi”, rispose con naturalezza estrema.
“Cosa? Io non sono sola, ho un appuntamento con…”
“Con? Con chi? Dite, forza!”
Lei non ebbe più la forza di reagire, né di recitare una parte, ma si appoggiò al muro di un palazzo antico e abbassò lo sguardo.
“Con nessuno…” disse in un soffio.
“Non è vero, siete con me.”
Gli occhi molto lucidi di lei si sollevarono a guardare lo scienziato.
“Vogliamo andare?” le sorrise tendendole la mano.
“Sì.”

Rubina avrebbe voluto dire e chiedergli tante altre cose, come quella di non rivelare mai a nessuno che lei era stata indubbiamente scaricata, ma comprese che non ve ne era alcun bisogno.
Erano entrambi nella stessa singletudine forzata, ma nel condividerla, ora soli non lo erano più.


FINE

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DIETRO LE QUINTE

1_278

Il ranch Makiba con tutti i personaggi al loro posto, ed esattamente nel periodo in cui Venusia ha appena saputo la vera identità di Actarus.
Nel lavoro in comune che svolgono alla fattoria e senza farsi capire dagli altri, entrambi si raccontano le proprie vite, quelle cioè che erano rimaste nascoste l’uno all’altra. E’ un reciproco conoscersi per la seconda volta, un bisogno di sapere e far sapere all’altro tutto ciò che era prima oscuro.
Naturalmente, la cornice della fattoria dove si raccolgono queste confidenze sussurrate, può avere scene e risvolti assurdi o comici, dato che Rigel, Mizar, Hara e Banta nulla sanno di tutto ciò.



“Chi ha versato questa montagna di carbone davanti a casa?!!! Chi??! Io non l’ho ordinato! Fuori il colpevole, avanti!”
Di buon mattino, Rigel aveva aperto la porta principale e si era trovato davanti agli occhi un’enorme montagna nera. Un camion aveva scaricato lì tutto quel materiale senza che nessuno lo avesse chiesto.
Dopo una mezz’ora di grida e corse per tutta l’aia, il ranchero aveva visto da lontano avvicinarsi un turbine di polvere. Erano Hara e Banta a cavallo di un unico puledro e con sguardo cagnesco stavano puntando in direzione della fattoria. Prima ancora di scendere dal cavallo mezzo morto per la fatica di sostenere il considerevole peso di quei due, Hara aggredì Rigel a male parole.
“Perché hai fatto scaricare a casa tua il nostro carbone? Volevi fare il furbo e tenerlo per te, vero?” disse la donna minacciandolo col pugno chiuso. L’ho saputo dall’autista che ci ha avvertito al telefono. Banta, portiamo subito via la nostra roba, abbiamo dei ladri come vicini!”
“Cosaaaa??! Osi dare del ladro a me? Non te lo permetto! Non so che farmene di quella montagna nera, non la uso mica! Raccogliete subito tutto o inforco il forcone, vi infilzo tutti e due e vi cuocio alla griglia come spiedini! Se hanno scaricato a casa vostra, è perché chiamare strada quella mulattiera, è un eufemismo! Nessuno riesce a passare di lì, perfino i cavalli rischiano di azzopparsi!”
“Subito! E poi ce ne andiamo via di corsa!” disse Banta molto alterato. Si era messo dei bermuda gialli coi pois rossi, mentre Hara sfoggiava una salopette verde bottiglia di due taglie più piccole della sua.

“Ehm… Rigel… ci presti la tua jeep, vero?” chiese il ragazzo con tono finto umile e sottomesso. Aveva visto che il suo quadrupede aveva la lingua fuori per la fatica della corsa di poco prima; sapeva che mai avrebbe potuto portare a casa quella tonnellata di roba.
“Non ho capito bene…” disse Rigel ringhiando e mostrando i denti “Pulite subito e sparite dalla mia fattoria, mi sono spiegato?”


Venusia intanto, portava i bidoni di latte appena munto sopra il carro.
Da lontano, Actarus la osservava in silenzio mentre spazzolava un puledro.
Per un istante i loro occhi si fissarono ed entrambi andarono coi ricordi a quanto si erano detti la sera prima a piccole puntate tra il recarsi a chiudere le stalle, rigovernare la cucina, chiudere porte e finestre.

“… non sono nato sulla Terra… il mio regno era il pianeta Fleed…”.
Per molti giorni, Venusia aveva sentito solo questa frase ripetersi nella sua testa. In seguito, usando la logica e il ragionamento, i successivi colloqui col ragazzo, era in un qualche modo riuscita a sistemare il disegno di quel puzzle prima scomposto e a tratti incomprensibile.

“… io ero ancora in America in quel periodo…”, pensò Venusia “ed ero in un ranch, anche se più piccolo di questo.”

Vide gli occhi di lui che la fissavano intensamente e in quelle iridi celesti, come in uno specchio, capiva che lui vedeva lei stessa in quel maneggio in una regione americana ai confini col Messico. Fin da bambina era andata a cavallo e subito aveva imparato. Ben presto le era divenuto facile come camminare, l’empatia tra lei e il quadrupede era quasi sempre immediata.

“Anche su Fleed ci sono gli stessi animali che avete sulla Terra… alcuni hanno delle differenze: da noi i cavalli sono tutti di colore chiaro e non diventano mai troppo grandi.”
“E’ per questo che il tuo cavallo preferito è quello bianco, vero?”, gli domandò lei con occhi velati di una strana e inconcepibile nostalgia. Avrebbe voluto essere là, su quel lontano pianeta e conoscere ogni cosa e persona; con le ali della fantasia ci provava in ogni modo, anche aggrappandosi ai ricordi vecchi e nuovi, i libri illustrati della sua infanzia, quello che lui aveva descritto. Succede così quando si ama davvero qualcuno.
Venusia si chiese ancora una volta, come avesse fatto un principe, ad adattarsi perfettamente e in breve tempo ad una vita come quella: governare gli animali, pulire le stalle… e stare sempre all’erta quando la radio che portava al polso mandava quel segnale inequivocabile che un mostro di Vega stava minacciando la Terra e il ranch dove loro abitavano.

Rigel intanto era entrato nel garage dove era parcheggiato il TFO di Alcor. Lo fissava con occhi lucidi di desiderio… salirci sopra e spiccare il volo tra le nuvole e correre ad incontrare i suoi amici extraterrestri. Che cosa meravigliosa!
“Chi l’ha detto che io non posso usarlo? Nessuno! Basta solo che riesca ad aprire lo sportello e il gioco è fatto! Alcor è fuori, quindi è il momento giusto!”
Il ranchero prese il forcone e con quel mezzo rudimentale riuscì nell’impresa: la forza del desiderio si era impossessata di lui e niente l’avrebbe fatto desistere.
“Ecco fatto, non mi resta che accendere il motore e correre per tutte le galassie! Ho visto come si fa, è un gioco da ragazzi.”
Infatti, una volta preso posto sul disco e tirata la leva per decollare, il motore si accese facendo un gran polverone e il mezzo uscì a gran velocità.
“Evviva, ce l’ho fatta! UFO sto arrivando, aspettatemiii!”
Nessuno degli abitanti del ranch aveva visto nulla, dato che stavano tutti dalla parte opposta, cioè nelle stalle.
Rigel volava basso, dato che non sapeva come fare per spiccare il volo e prese quindi la strada che conduceva alla fattoria di Banta.
Hara stava giusto uscendo di casa per raccogliere i panni, quando si accorse del velivolo diretto verso di lei. Spaventatissima si buttò a terra e quando riaprì gli occhi, vide uno strano essere tutto coperto di polvere e fango venirle incontro. Alcuni metri più in là, i resti di quello che un tempo doveva essere stato un disco volante giacevano sparsi nel prato. Fumo nero e denso, odore di plastica bruciata, completavano quel quadro desolante.
“M… ma chi sei? Cosa vuoi?” balbettò Hara impaurita.
“Come chi sono? Viene ad aiutarmi piuttosto, guarda che disastro!”
Lo riconobbe subito dalla voce, quindi lo aggredì in malo modo.
“Ah, sei tu! E meno male che eravamo io e Banta quelli che venivano a far danni a casa tua! Quel macinino ha rovinato tutto l’orto, non lo vedi? Ma cosa ti è saltato in testa? E da quando in qua sei diventato un pilota? E da quando in qua, la mia fattoria è diventata una pista d’atterraggio?”
La donna lo minacciava col pugno chiuso avanzando verso di lui, mentre Rigel indietreggiava e tentava qualche vaga scusa. Tutta la sua baldanza era sparita in mezzo a quei rottami e non osava pensare al momento in cui Alcor avrebbe visto il disastro.

“Su Fleed c’è sempre stata l’usanza che in certi periodi della vita, qualunque sia la tua età, capacità, ed estrazione sociale, tu debba provare a fare e imparare anche le cose più comuni. Essere indipendente in qualsiasi situazione e soprattutto provare sulla propria pelle cosa significhi essere nobile o plebeo, ricco o povero, solo o con famiglia numerosa, laureato o semianalfabeta, con amici o senza…” disse Actarus a Venusia sorridendo.
Lei rimase a bocca spalancata, ma al contempo molto le era chiaro di lui.
“Voi avevate una tecnologia avanzatissima… per noi terrestri è inimmaginabile…”
Lui abbassò lo sguardo e non disse nulla. I ricordi dolorosi insieme ai rimorsi arrivarono improvvisi, ma furono subito mitigati osservando la bellezza e semplicità di quel fiore solitario nato in mezzo a piccole rocce.
Venusia comprese che qualcosa di spiacevole si era destato in lui, allora gli prese la mano e per un istante se la portò alle labbra. Si fissarono negli occhi, comprendendosi senza parlare.
“Dobbiamo portare l’acqua a tutta questa fila di cavalli e sistemare la paglia nuova”, disse Venusia con tono dolce.
“Finisco io qui, so che hai ancora tanto da fare in casa e…”
“Ti aiuto, così finiamo prima e a casa ci andiamo insieme.”
“Sì, e dopo il tramonto…”

“Senti Hara, cerchiamo di aiutarci da buoni vicini quali siamo: so che Banta ha fatto un corso da meccanico, quindi può riparare il disco prima che Alcor lo sappia. Ti assicuro che vi pagherò tutto…”
“Il mio Banta ha da fare tutto il giorno per le sue faccende e non ha certo il tempo per sistemare i tuoi disastri, chiaro?!!! Intanto inizia subito a vangare la terra e rifare tutto l’orto andato in fumo per colpa tua”. Lo zittì Hara alquanto su di giri. Gli mise in mano una zappa e rientrò in casa sbattendo la porta. Mentre stirava i panni che aveva raccolto poco prima, mandava improperi di ogni tipo a quel suo strampalato vicino di casa sempre fissato con gli UFO, scansafatiche e combinaguai.

“Venusia! Sai dov’è papà? E’ da almeno un’ora che non lo vedo, mi aveva detto che dovevamo andare insieme al villaggio a fare delle spese” chiese Mizar.
“No, oggi l’ho visto pochissimo”, gli rispose la sorella, mentre dentro di sé avvertiva il grande sollievo di aver potuto lavorare e parlare con Actarus senza le solite interferenze del padre.
Era stato tutto dolce e bellissimo in quelle piccole, ma importanti cose: com’era bella la vita in certi momenti!
“… dopo il tramonto, a cavallo, possiamo salire su quel monte e vedere chiaramente la Via Lattea. E’ la sera giusta… ti dirò anche altre cose…” le sussurrò Actarus all’orecchio con un sorriso carico di promesse.
Lei annuì estasiata… sapeva che tanti misteri non sarebbero più stati tali, e che, in un certo qual modo, lei sarebbe stata la protagonista di un mondo magico. Anche se quel mondo era stato inghiottito dalla bomba al vegatron di un volgare usurpatore, c’erano anche tanta bellezza e poesia da guardare attraverso lenti non convenzionali.

“Sono tornato, scusate il ritardo!” gridò Alcor arrivando alla fattoria a bordo della jeep.
Appena sceso a terra, tirò fuori alcuni pacchi voluminosi che servivano per gli addetti al centro ricerche.
“Ma non li hai portati da Procton? Erano urgenti” gli chiese Actarus.
“Pensavo di andare là col mio disco, perché voglio che Hayashi dia un’occhiata ai comandi.
Alcor si recò nel garage e quando aprì la porta, vide che era vuoto. Costernato si guardò attorno per vedere se per caso l’aveva parcheggiato altrove.
Prima che potesse formulare un nuovo pensiero, vide in lontananza, planare raso terra, un qualcosa che nei colori e nella forma gli ricordava vagamente il suo disco.
Lo strano velivolo malamente rattoppato parcheggiò al ranch Makiba, e dopo un istante uscì il pilota tutto baldanzoso e con aria tra il supponente, l’altezzoso e il riprovevole.
“Rigel! Ma si può sapere che hai fatto? Come hai osato guidare il mio TFO e come l’hai ridotto? Io… io… sono…”
“Alt! Non dire niente Alcor, ti spiego tutto io”, lo bloccò Rigel con le mani e, stando a braccia conserte, ostentando aria di superiorità, iniziò il suo discorso.
“Caro ragazzo, se il capolavoro da te progettato e costruito è ancora agibile, è solo merito mio. Sì, è così!” disse affermando col capo.
“Ti giuro che non capisco niente!” masticò Alcor tra i denti, facendo sforzi eroici per non arrabbiarsi.
“Questa mattina, Hara e Banta, essendo rimasti appiedati, senza dirmi niente, sono entrati in casa mia e sono saliti sul tuo disco caricandolo di alcune tonnellate di carbone. Siccome non sanno guidare, sono malamente atterrati vicino alla loro fattoria, distruggendo il tuo disco. Dopo alcune ore, siccome non sapevano come fare, sono venuti a cercarmi e pregarmi di aiutarli a rimediare il guaio.
Non ne volevo sapere all’inizio, ma siccome sono di animo buono, armato di chiodi e martello, ho rimesso insieme tutti i pezzi che erano volati in svariati punti nei verdi campi.
Gli ho promesso che ti avrei spiegato tutto io e che non ti saresti arrabbiato con loro. Vero?”
“Io… io… io dico che siete un branco di pazzi, ecco cosa siete! Quante volte ho detto che il TFO non si tocca nemmeno con lo sguardo?”
“Infatti io l’ho sempre lasciato stare, ma quei due delinquenti sono entrati furtivamente approfittando che io ero lontano con le mandrie. Sono sicuro che i tecnici di Procton te lo faranno diventare nuovo” rispose Rigel imperturbabile con calma serafica.
“Rimani a cena con noi?” gli chiese gentilmente, cambiando abilmente discorso.
“NO! Io non mangio e me ne vado subito al Centro!” gridò il ragazzo con tutta la voce che aveva.

La cena fu rapida e silenziosa. Rigel e Mizar salirono subito nelle loro camere per leggere e cercare gli UFO col cannocchiale.
Venusia lasciò tutto com’era: avrebbe rigovernato l’indomani mattina, ora c’erano cose più importanti da scoprire.

Nuovi mondi lontani ma anche così vicini, usanze sconosciute, studi all’estero, principesse aliene, scambi diplomatici, gelosie, conflitti, tradimenti. Lei non era più una semplice ragazza che cavalcava e mungeva le capre in un’anonima fattoria lontana dalla città, ma la sintesi di ciò che è terrestre e non, la protagonista di un romanzo di guerre stellari vicine e lontane, a volte parallele… e altro ancora.
E mentre si svolgeva il lungo nastro di quell’incredibile storia, la mano di un principe alieno teneva la sua… e da quel momento non l’avrebbe mai più lasciata.



FINE

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APPUNTAMENTI AL BUIO

1_279

EP.47 “L’insidia sotto il lago”.
Dalla luna vengono inviati sulla terra cinquanta piccole sfere che atterrano sul fondo di un lago, alle rive del quale sono accampati Actarus e gli altri. Soldati di vega travestiti da motociclisti terrorizzano e cacciano dalla zona chiunque incontrano.
I diversi punti di vista di Alcor e Actarus, uniti alla gelosia del primo per Venusia dividono i due amici. Mentre Alcor si ferma a fare conoscenza con delle ragazze, gli altri, avvisati dal Centro, rientrano per un'emergenza. Le sfere in fondo al lago contengono i frammenti di un robot, che si uniscono e iniziano l'attacco missilistico al centro spaziale. Actarus e Venusia intervengono, ma il mostro si nasconde nel sottosuolo. Alcor viene finalmente contattato e grazie alla Trivella Spaziale il mostro viene sconfitto. Il ragazzo comprende che l'amicizia è la cosa più importante.




“E’ vero, l’amicizia è più importante di tutto”, ripensò Alcor quella sera rientrando a casa.
Dopo un istante, si disse: “ma è anche vero che nulla mi vieta di cercare altre ragazze, eh! Quelle due al lago, si sono molto divertite con me, quindi…”
Buttò lo sguardo sul quotidiano che stava sopra la scrivania della sua camera da letto e avidamente lo sfogliò tutto; nelle ultime pagine, una lista di annunci per cuori solitari. Ragazze ventenni o poco più, che cercavano compagnie maschili.
Decise di stilare una lista e fare un programma ben preciso.
“Ora che è piena estate, possa invitarle in quel grazioso locale all’aperto… sì, così tra una portata e l’altra avrò modo di conoscerle bene.”

Il giorno dopo, telefonò a una che si descriveva come una biondina acqua e sapone, dall’aspetto rassicurante.
La ragazza accettò di buon grado e per l’ora di cena, i due si incontrarono nel giardino di una trattoria senza pretese, ma molto graziosa e accogliente. Piccoli tavoli erano apparecchiati con cura con tovaglie a quadretti bianchi e rossi, mentre le siepi fiorite ai lati del cortile, contribuivano a rendere l’atmosfera ancora più piacevole.
“Prego, accomodati”, le disse con fare cavalleresco spostando la sedia per farla passare.
Una volta accomodatisi a tavola, Alcor diede qualche breve notizia di sé: laureato in America, tecnico generico e sperimentale.
“Ma non parliamo di me, dimmi di te piuttosto, cosa fai di bello nella vita?” le chiese con un largo e accattivante sorriso.
La ragazza si stava arrotolando distrattamente una ciocca di capelli nell’indice e, masticando una gomma, disse in tono neutro a quasi annoiato.
“Mah, di bello niente. Faccio quello che fanno le ragazze della mia età. Ho diciannove anni, mi prostituisco e prendo 700 yen a botta!”
“Cameriere? Il conto…” sussurrò Alcor con un filo di voce e l’umore caduto all’improvviso sotto il tavolo.

Due sere dopo, stessa scena nel locale, stavolta con una ragazza alta e bruna.
Finito l’antipasto, le chiese: “A te cosa piace fare? Mi sembri una sportiva… almeno a prima vista…”
“E’ vero! gioco a baseball a livello agonistico, poi vado a pesca, faccio un mucchio di grigliate sulla spiaggia. Il pesce mi piace tanto, anche l’odore, pensa un po'!”
“Cosa penso? Il conto!!!!!”

Nei giorni che seguirono ci fu molto da fare al Centro, quindi Alcor tralasciò di organizzare altri incontri a sorpresa.
Era comunque deciso a non darsi per vinto: mica era il tipo di arrendersi per così poco, no?

La terza ragazza era una bionda elegante ma slavata, dall’aria indifferente e snob. Arrivati al dolce, lo gelò con questa sua teoria.
“Mio padre, al suo terzo divorzio ci ha rimesso un pacco di soldi. Dopotutto, il matrimonio è solo un contratto di interesse… tu che ne dici?”
“Che ne dico? IL CONTO!”
Alcor lasciò una banconota sul tavolo e corse via senza nemmeno salutare.

All’ora di pranzo del giorno seguente, si incontrò con una ragazza dall’aria semplice e quasi ruspante. Senza tanti complimenti, appena accomodatasi a tavola, iniziò a scartare tutti i grissini e divorarli insieme al pane inzuppandolo nell’olio. Quando il cameriere portò la lista, ordinò tutte le portate, insieme a una bottiglia di Sangiovese. Una volta tracannato un bicchiere che non finiva più, chiese:
“Che dici? La faranno la trippa, qui?”
“IL CONTO!”

Alcor, per principio, non si arrendeva mai! Nemmeno i mostri di Vega gli facevano paura, figuriamoci cos’erano per lui queste cose. Inezie! Pochi giorni dopo quindi, era seduto al tavolo di fronte a una giovane dai grandi occhi celesti e l’aria romantica. Una ragazza d’altri tempi, si sarebbe detto, se non avesse pronunciato una frase ad effetto doccia ultra gelata.
“Sai… con i miei ex andavamo in barca e nuotare al largo tutto il giorno, poi la sera erano sempre notti di fuoco. A letto facevamo faville fino all’alba. E tu? tieni questo ritmo?” gli chiese con voce bassa e suadente, la testa inclinata di lato, mentre i morbidi riccioli le incorniciavano il viso di porcellana.

“Eh che? Devo portare il conto?” lo prevenne subito il cameriere.

Questa volta il ragazzo si arrese per davvero. Non aveva più senso quello che stava facendo.
Che ragazze frivole e superficiali, vuote e leggere c’erano in giro (a usare un aggettivo gentile).
Strappò con rabbia il giornale con gli indirizzi e lo buttò nel camino di Rigel.
Lo stato depressivo dovuto all’indifferenza di Venusia nei suoi confronti, si stava trasformando in rabbia. Si sentiva solo e forse inutile, ma il pensiero di frequentare una sola di quelle cretine che aveva incontrato nelle ultime settimane, gli faceva venire voglia di stare single per il resto della sua vita.
“Bè, meglio soli che male accompagnati, dice il proverbio, no? Niente di più vero, e da oggi in poi, questo sarà il mio motto.”

Davvero un pensiero saggio ed equilibrato; Alcor era molto maturato in pochi giorni e si sa che, quando non cerchi e non ti aspetti più niente… qualcosa puntualmente arriva.
L’estate stava per finire e Maria, del tutto ignara di essere una principessa e men che meno la sorella di Actarus, per uno strano e complicato disegno del destino, stava per arrivare alla fattoria.
Avrebbero gareggiato in moto, battibeccato e litigato, lottato contro i veghiani, combinato guai, competitivi sempre e amici per la pelle, pronti a sacrificare la propria vita.
Senza che nessuno dei due lo avrebbe ammesso nemmeno con sé stesso, sarebbero fin da subito attratti l’uno dall’altra, finchè è la vita che decide per te, anche se non vuoi.

Così è la vita… e se ti delude, aspetta… perché ha sempre un regalo nascosto per te.


FINE
 
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NOBILI E IMPERI DECADUTI

1_280

In tutta la serie di Goldrake, si vede molto chiaramente che, in questa guerra interplanetaria voluta da re Vega, il risultato non è stato altro che un impoverimento per tutti: nobiltà e ricchezza, hanno lasciato posto al degrado morale e fisico.
I predatori sono quelli che l’hanno avuta peggio di ogni altro; in questo racconto semitragico e a tratti umoristico, vediamo le tappe fondamentali dell’anime nei loro risvolti a livello socio-economico.

Quando il principe di Fleed approdò sulla Terra per rimanerci poi ad abitare, durante i quattro anni dalla sua fuga dal pianeta distrutto, aveva dovuto arrangiarsi per sopravvivere.
I veghiani avevano bombardato senza pietà la sua stella, abitanti vivi non ne erano rimasti, quindi, dopo aver combattuto con coraggio fino alla fine, se ne era andato per lo spazio infinito.
Il suo disco era stato ben rifornito di tutto dagli stessi nemici, dato che avevano deciso di appropriarsene. Infatti, avevano costretto Duke Fleed a potenziarlo con armi molto offensive e con quello, avevano in mente di conquistare tutte le galassie. In un attimo di loro distrazione era scappato e volato via nel cielo stellato.
Dopo alcune settimane, le scorte iniziavano ad esaurirsi, così il principe si era fermato in prossimità di una costellazione poco abitata. Era una popolazione piuttosto povera, ma gli avevano offerto con piacere quel che potevano e lui, per sdebitarsi, aveva dato loro dei semi provenienti da Fleed, i quali avrebbero generato piante molto fiorenti e in grado di risolvere i loro bisogni primari.

Tra una sosta e l’altra in pianeti più o meno accoglienti, arrivò finalmente al Pianeta blu, precisamente in Giappone, in condizioni fisiche molto disperate. A trovarlo fu un certo dottor Procton, celebre scienziato che lo portò a casa sua.
Era proprietario di un luogo immenso ai margini della Capitale. Il suo studio di ricerche spaziali era uno dei più moderni e all’avanguardia di tutto il mondo; lì vicino c’era un grande ranch gestito dal suo caro e vecchio amico Rigel.
Quando il ragazzo si fu rimesso in salute, il dottore lo presentò a tutti, facendolo passare per suo figlio rimasto a studiare in America per oltre due anni.
Ben presto il giovane, al quale era stata data anche una nuova identità, fu messo a governare le stalle insieme ai figli di Rigel: Venusia e Mizar.
Il motto del ranchero era sempre quello: “Chi non lavora non mangia, qui i fannulloni non entrano.”
Actarus quindi, relegate in fondo all’armadio le nobili abitudini lussuose, si era vestito come un comunissimo terrestre e lavorava dalla mattina alla sera.
Accanto a lui c’era sempre Venusia e quando era libero dagli impegni scolastici, anche Mizar.
Nei suoi primi due anni di vita alla fattoria, i veghiani non si erano fatti sentire e la sua vita trascorreva, se non proprio nel lusso, almeno nell’agiatezza. Non gli mancava niente insomma, e il dottore, non avendo mai avuto figli suoi, era ben felice di fargli spesso qualche regalo.
I problemi veri, arrivarono quando i nemici si fecero vedere e soprattutto sentire.

Per una strana coincidenza, non appena Alcor apparve al ranch col suo TFO nuovo di zecca e da lui stesso progettato, i veghiani ebbero la felice idea di attaccare la Terra.
“La luna è rossa… presto ci attaccheranno”, disse una sera Actarus in preda allo sconforto più totale.
“Ma no, sono i colori dell’atmosfera, cosa dici!” rispose Alcor tutto baldanzoso e siccome sprizzava ottimismo da tutti i pori, si rivolse a Procton con questa frase intelligentissima.
“Si potrebbero instaurare rapporti amichevoli con gli spaziali, così le risorse aumenteranno…”
Il dottore, sempre gentile e corretto, lo fece scendere con molto garbo dalla nuvoletta rosa: “sarebbe bello Alcor, ma non sappiamo le loro reali intenzioni. Bisogna stare in guardia.”

Quando tre formazioni di minidischi vennero segnalate dai collaboratori del Centro, Actarus si rese conto che non poteva più stare a guardare, quindi si decise a togliere le ragnatele dal suo disco.
Fin qui tutto bene, solo che il robot, era stato messo sotto un pavimento di cemento armato e antisismico, per uscire quindi, si ruppe tutto il pianterreno, i tubi, l’impianto elettrico, nonché l’area vastissima dove giaceva il disco. Si formarono grosse crepe nei muri, facendoli divenire pericolanti.
Una volta che Duke Fleed ebbe disintegrato il mostro bellico e Procton tirato un sospirone dato che erano tutti salvi, si dovette però arrendere al fatto increscioso che i danni andavano comunque riparati e anche alla svelta.
Telefonò a una ditta specializzata e si fece fare un preventivo; quando lo lesse, si sentì svenire.
“Scusi dottore, vediamo di venirci incontro… magari senza fattura, eh?” gli suggerì il titolare che aveva capito al volo.
“A quanto ammonta l’importo senza IVA?” gli chiese Procton quasi senza voce.
“A fare bene bene… così!”
Nessuna risposta dall’altra parte del filo: lo scienziato si era accasciato sulla poltrona e non ragionava più. Davanti ai suoi occhi, vedeva solo una marea di numeri in uscita che si moltiplicavano a vista d’occhio, mentre le entrate erano pressochè nulle.
Anni prima, coi suoi soli mezzi aveva fatto costruire il Centro di Ricerche e il ranch. Dato che Rigel era un vecchio amico, non aveva preteso nessun compenso per l’uso della casa, delle stalle e dei campi. Ora se ne stava pentendo amaramente. Pensò che forse poteva chiederli un piccolo aiuto: del resto, sapeva che capre e mucche producevano molto latte, le compravendite col bestiame erano sempre andate bene.
“Che male c’è se ora gli chiedo di venirmi incontro? Si tratta solo di uno scambio di favori… vado da lui per fargli un saluto, poi cerco di entrare nel discorso.”

Procton arrivò col furgone in prossimità delle stalle e non vide nessuno. Come sempre, Rigel era appostato sull’altissima torre di controllo per vedere se qualche UFO aveva accolto il suo invito.
Non appena lo vide, scese di corsa per andargli incontro.
“Caro Procton, qual buon vento? Mi dici come faccio per avvisare gli UFO che voglio parlare con loro? Perché non provi tu, eh? Anzi, facciamo così, vengo con te al Centro, i tuoi mezzi forse funzionano meglio, che ne dici?”
“Ma… non so… ti dispiace se mi fermo un momento qui? Volevo sapere…”
“Certo, vieni dentro che ci prendiamo un sakè per uno, così ti racconto le ultime novità.”
Tutto pimpante, Rigel accese la pipa e iniziò uno dei suoi soliti e interminabili monologhi. Dopo una mezz’ora di discorsi strampalati saltando di palo in frasca, concluse con una frase che non lasciava speranze.
“… quindi ho deciso di utilizzare tutti gli ultimi lauti guadagni per allargare le stalle, aggiustare lo steccato e acquistare una partita di purosangue”.
A quel punto, ancora più a terra di prima, il dottore si alzò e decise di congedarsi dall’amico; aveva capito che non era il caso di avanzare certe richieste.
“Adesso però dovrò rinunciare a quel viaggio in Europa… e dire che quel congresso mi interessava davvero… erano anni che aspettavo. Pazienza!”

Nelle settimane successive, riuscì in un qualche modo a riparare i danni maggiori, anche se la vera preoccupazione erano gli attacchi veghiani che iniziavano a farsi sempre più insistenti.
Alcor, dal canto suo, era sempre pieno di buona volontà e col suo disco rudimentale e i soli missili come armi, credeva da solo di poter fare a pezzi i mostri di Vega.

Su Vega, il sovrano aveva inasprito il conflitto e la sua brama di conquista cresceva di giorno in giorno. Per ottenere i suoi scopi, aveva dato incarico a centinaia di soldati di saccheggiare i pianeti vicini, ma molti di questi, dopo aver fatto man bassa del bottino, erano scappati lontano senza lasciare traccia.
Quando Gandal e Hydargos si erano finalmente resi conto di come stavano le cose, le perdite erano davvero cospicue e il disastro si allargava a macchia d’olio. Il re li aveva ripresi brutalmente e loro si erano accaniti con forza, rabbia e frustrazione sempre in crescendo nell’intento di conquistare la Terra.
Non sopportavano il fatto di essersi fatti fregare da quelle matricole, ma non solo: le risorse energetiche scarseggiavano sempre di più, ma al tempo stesso era necessario avere a disposizione stormi di minidischi e mostri armati di tutto punto. Ci voleva un miracolo per riuscire nell’impresa!

“La nostra vera e unica risorsa era il pianeta Fleed!” disse un giorno Gandal a Hydargos in preda allo sconforto. “Quel cretino di Vega, cosa aveva nella testa quando ha pensato di bombardarlo a forza mille con tutto quel vegatron? Nemmeno un filo d’erba è rimasto vitale e se penso a quelle risorse che potevano essere nostre, mi sento male. E poi ha il coraggio di rimproverare noi! Anche lui sbaglia e di grosso!”
“Parla piano”, gli suggerì Hydargos mentre si versava da bere. “Forse il re è collegato con noi.”
“Me ne frego! Ohhhh! Sono stanco e non ne posso più!” rispose battendo il pugno sul tavolo.
“Invece di piangerti addosso, pensa a fare qualcosa!”, gli disse gridando Lady Gandal, aprendogli il cranio e uscendo con tutta la violenza di cui era capace.
“Ma cosa possiamo fare?” chiese sconsolato.
“Vai a controllare che il nuovo disco da combattimento sia finito, poi spediscilo dove sai!”
“Agli ordini!” rispose Gandal con tono tra l’ironico e l’esasperato.

Sulla Terra intanto, venivano progettate nuove armi contro gli invasori. Alcor aveva capito che c’era bisogno di aiuto economico, quindi, il giorno che il suo TFO venne letteralmente disintegrato, si diede da fare a costruire qualcosa di nuovo e coi suoi soli mezzi.
Non subito riuscì nell’impresa; si mise di buona lena a produrre un velivolo, ma al primo attacco veghiano, era già da buttare.
Si mise in contatto col suo Boss, spiegandogli le recenti disavventure. Appena ebbe letto la lettera di Alcor, partì verso il ranch Makiba per regalargli il suo nuovissimo robot.
Purtroppo i veghiani attaccarono proprio quel giorno, quindi Boss si unì a Goldrake per aiutare nella battaglia e il robot finì semi distrutto.
Alcor era di nuovo a piedi, ma Procton non stava certo a guardare le stelle, quindi si decise a dare fondo ai tuti i suoi risparmi e progettare un velivolo di tutto rispetto, il quale divenne poi Goldrake2, capace di agganciarsi al robot e volare sicuro.

I veghiani intanto, si mangiavano le mani.

Al ranch Makiba, anche Venusia venne a sapere col tempo della doppia identità di Actarus e, comprendendo le difficoltà economiche in cui versavano, si diede molto da fare per essere di aiuto.
Quando all’alba mungeva le capre, tratteneva una parte di latte di nascosto a suo padre, poi lo vendeva in nero presso alcune fattorie che confinavano con la sua.
Economizzava su ogni cosa, ma un bel giorno, si rese conto che lei e Actarus non avevano quasi più niente da mettersi.
“I nostri abiti cadono a pezzi” gli disse lei una sera.
“E’ vero, anche perché lavorando e andando a cavallo si consumano di più.”
“Dobbiamo trovare una soluzione subito.”
“Senti Venusia, ho un’idea; mi è rimasta la medaglia reale di Fleed in oro e pietre preziose, se la impegno potremmo disporre di una certa autonomia e rifarci il guardaroba.”
“Lo so, ma poi va riscattata e se non lo facciamo, rischi di perderla e io non voglio” gli rispose lei alquanto preoccupata.
“Ma no, ci vogliono sei mesi e in tutto quel tempo troveremo una soluzione.”
“Mmm… va bene, ma darò anche il mio contributo.”
Venusia aggiunse una buona dose d’acqua al solito latte che vendeva di nascosto, così nel pomeriggio, lei e Actarus andarono nel centro di Tokio per rifarsi il guardaroba.
Fecero le cose in grande. Capi all’ultima moda per entrambi da usare tutti i giorni, ma anche abiti estivi, costumi da bagno, pantaloncini corti e tutti coi colori e modelli in sintonia tra loro due.
“Prendiamo anche questo?” chiese lei indicando un corto abito rosso che fungeva da prendisole.
“Sì, ti sta benissimo, ed è della stessa tonalità della mia maglia a maniche corte.”
“Lo so, ho fatto apposta e voglio anche quel vestito di seta lì” gli disse strizzandogli l’occhio.
“Te lo volevo dire anch’io, sembra stia aspettando solo te” le disse sorridendo.
Arrivarono verso il tramonto con la jeep che traboccava di pacchi.
Nelle settimane successive, Venusia si aggiudicò il primo premio assoluto alle gare di ginnastica, quindi, oltre alla medaglia in oro zecchino, riscosse anche una certa somma di denaro.
Nemmeno il tempo di versarlo nel suo esiguo conto bancario, che lo dovette investire per il velivolo che lei avrebbe guidato nelle battaglie contro i veghiani: il Delfino Spaziale.
Quegli ingordi, con l’aiuto di Zuril, avevano capito che Goldrake non sapeva volare e che in acqua era in grosse difficoltà. Investirono tutte le rimanenti risorse in mostri capaci di metterlo in serie difficoltà, poi costruirono una base sottomarina nel mare del Giappone.
Ma Procton era tutt’altro che sprovveduto e, all’insaputa di tutti, ipotecò il Centro e la fattoria per costruire una base a prova di bomba e tre nuovi velivoli di tutto rispetto: Goldrake2, Delfino Spaziale e Trivella Spaziale.
Venusia iniziò il duro allenamento come pilotessa, quindi accantonò il giro del mercato nero con latte annacquato.
Stavano scadendo i sei mesi per riscattare la medaglia reale di Fleed; decise il tutto per tutto.
Si alzò a notte fonda e prese una delle capre più in forma: all’alba era già al mercato del villaggio per venderla al miglior offerente.
“Ecco Actarus, sbrigati ad andare in banca”, gli disse mettendogli in mano le banconote.
“E come hai fatto?” le chiese perplesso.
“Lascia stare, tu pensa ad andare a riprenderla.”
Rigel si accorse della capra alcuni giorni dopo e iniziò a sbraitare a voce alta contro tutto il vicinato accusandoli di furto. Quando si fu calmato, si buttò a dormire nel prato sotto un albero.

Il riscatto della medaglia avvenne al momento giusto. Maria, la sorella di Actarus, aveva appena saputo dal nonno adottivo di essere la principessa di Fleed.
“Devi cercare Goldrake, quando sarai vicina a lui, il tuo ciondolo manderà dei segnali… fai presto, Maria…”, le sussurrò l’uomo moribondo.
“Lo farò nonno, hai la mia parola!”
Maria corse nei pressi del Centro e vide tre giovani che discutevano.
“Ecco i traditori che hanno rubato Goldrake, devo ammazzarli.”
Feroce come un leone, con la spada iniziò a colpire a casaccio. E la fortuna volle che il medaglione che Actarus aveva riscattato in mattinata e messo al collo, venisse fuori.
I due fratelli si riconobbero e tutti furono felici.

Procton, che aveva visto la scena semi nascosto, aveva fatto due più due; quella ragazza andava bene per guidare la Trivella, così nessun mezzo sarebbe rimasto fermo.
Maria era certamente piena di voglia di combattere, ma non aveva il senso del risparmio. Le piaceva gareggiare in moto consumando moltissimo carburante, voleva vestiti all’ultima moda, ma non possedeva nessun conto in banca.
Cercarono di accontentarla come poterono, poi il conflitto si inasprì, quindi essendo anche lei impegnata a respingere i veghiani, si adeguò ad una vita più modesta.

In tutto quel periodo, il pianeta Vega era esploso causa eccessivo inquinamento vegatron. Re Vega, i comandanti e i soldati rimasti erano accampati sulla base lunare.
Tutti cominciarono a dare profondi segni di insofferenza. Il posto era buio, brutto e sporco, spazi ridotti, cibo schifoso, paga ridicola, aria irrespirabile.
I militari litigavano tra loro, alcuni erano arrivati al suicidio e gli insuccessi bellici erano all’ordine del giorno.
Il re era una furia, non sopportava più Gandal e Zuril, perché ogni volta promettevano la vittoria sui terrestri e invece mietevano sconfitte.
“Vi farò sostituire, incapaci! Siete degli inetti!” ruggiva quasi ogni giorno.
E a forza di promettere, un giorno arrivò davvero un certo Dantus dall’aria molto sprezzante, affermando di avere l’arma risolutiva contro Goldrake.
Quando sul monitor fu visibile un mostro gigantesco, il King Goli, tutti arretrarono per la paura e si convinsero che non solo era la fine per i terrestri, ma anche per i comandanti storici.
Quella era una bestia viva oltre che enorme, poteva ingoiare Goldrake e i veicoli come cioccolatini.
“No!”, gridò Zuril con voce isterica.
“Non lo permetterò!” E così avvenne.
Gandal e Zuril, pugnalarono Dantus a tradimento distruggendo anche i comandi elettronici. Falsi, ipocriti e bugiardi, con aria mesta, dissero al re che i terrestri avevano vinto anche questa volta.

Re Vega, in quel frangente cadde in depressione e rimase a letto e al buio per una settimana.
A svegliarlo ci pensò sua figlia, la quale, diretta verso Skarmoon lo aggredì a male parole.
“Perché non mi hai detto che Duke Fleed è ancora vivo? Padre degenere! Devo venirlo a sapere dagli abitanti di Rubi?”
Il sovrano balbettò qualche vaga scusa, poi decise che sua figlia doveva essere proprietà di Zuril.
“Sì, pensateci voi, io ho da fare”.
“Come volete maestà, che onore”, disse lui con sguardo porcino.
La principessa, saputo il fattaccio si vestì con abito sfarzoso e corona. Suo padre ci doveva ripensare.
Niente, lui non cambiò di un millimetro la decisione presa, quindi lei scappò via da quel luogo di depravati.
“Presto, mia figlia ha lasciato qui dei preziosi, bisogna venderli subito. Gandal, pensateci voi”.
Il comandante prese il lungo e ricco abito, mise la corona dentro una scatola di velluto e andò alla ricerca di una gioielleria.
Tornò a notte fonda con le tasche vuote e l’umore sottoterra.
“Allora Gandal, cos’è questo ritardo? Mostratemi il ricavato”.
Uscì svelta Lady Gandal e senza giri di parole, disse:
“Maestà, vostra figlia indossava dei falsi, perché ci hanno detto che quella roba è buona per le bancarelle al mercato”.
“Cosaaaa??! Non è possibile, io so bene quanto vale il tutto, io…”
“Sì, lo so, ma evidentemente la principessa navigava anche lei in brutte acque, quindi deve aver venduto l’originale e usato una falsa copia dell’abito e gioielli”.
“E allora non è più mia figlia, anzi, non lo è mai stata! gridò pestando pugni dappertutto.
“Scusate sire, ma non vi conviene darvi del cornuto da solo… capite anche voi che…”
“Silenzio! Adesso mi conviene e lo dico! Quella è solo una miserabile cretina, un’irrecuperabile idiota, una demente a tutto tondo, ecco!”
“Va bene, ma adesso che facciamo?”, chiese la donna puntando sul pratico.
“Niente! Niente di niente, che vada a morire ammazzata quella scema! Io la ripudio, ecco!”
“Come volete, maestà… e… se posso cambiare argomento, cosa si mangia stasera?”
“Perché? Ci pensa il cuoco come sempre, no?”
“Ehm… no, si è licenziato portando via tutta la dispensa”, lo informò Gandal con imbarazzo.
“E allora sparite tutti! Perché non ve ne siete accorti, imbecilli? Che non vi veda mai più, sparite!”
Il re cominciò a dare in escandescenza come mai aveva fatto prima, quindi i coniugi, spaventati, si ritirano nel seminterrato.
“Tira una bruttissima aria, qui”, disse lui.
“Lo so da molto tempo e ti dico che voglio la pace e chiedere asilo sulla Terra”, rispose lei.
“Ma che dici? Ti sei bevuta il cervello per caso?”
“No, io sono solo pratica e vedo la realtà, a differenza di tutti voi”.
“Siamo rimasti soli, andiamo via da qualche parte? Mi sono depressa a stare qui”, disse dopo qualche istante.
“C’è la nave madre, ma non so quante riserve abbia ancora.”
“Ne ha quanto basta per uscire da questa tomba.”
In silenzio partirono e Vega rimase solo.

I due coniugi atterrarono in un isolotto sperduto in mezzo all’oceano indiano, e siccome era pieno di alberi da frutto, decisero che avrebbero abitato lì per sempre. Non mancava niente e soprattutto non c’era più nessuno a rimproverarli dalla mattina alla sera.
“Che paradiso!” Dicevano ogni mattina appena si svegliavano al canto degli uccelli.
Si erano costruiti una capanna e vivevano di pesca e frutta esotica. Nuotavano e prendevano il sole; non erano mai stati tanto in pace e felici.
Zuril tentò di contattare la base lunare, ma non rispose mai nessuno. Rubina doveva essere sparita nello spazio infinito, su Rubi nessuno seppe mai più niente di lei.
Decise che la laurea in Scienze ce l’aveva, quindi un lavoro lo poteva sempre cercare. Col computer oculare mandò il suo curriculum in svariati punti della galassia e in meno di un’ora aveva già avuto decine di offerte.
Re Vega invece, morì d’inedia nel suo letto e solo come un cane: su Skarmoon non c’era più nessuno.

E i terrestri?
Man mano che gli attacchi veghiani andarono esaurendosi, ripresero lentamente la via della prosperità. In meno di un anno, Procton aveva già riscattato dall’ipoteca tutti gli immobili, riprendendo intanto la sua antica passione, quella di capire i misteri dell’Universo restando sempre in contatto con i suoi colleghi scienziati di tutto il mondo.
Alcor di tanto in tanto faceva qualche viaggio in America con Maria, ma lì si stancavano presto perché sentivano una gran nostalgia del ranch e degli amici.
Venusia prese tutta per sé una parte della proprietà del padre e in quella, insieme ad Actarus iniziò una speciale coltivazione di erba medica e alberi da frutto.
Rigel continuava ad allevare il bestiame e Mizar aveva mille attività. Dopo la scuola aiutava il padre a governare le stalle, poi andava al Centro dove stava ore e ore a guardare il cielo con il cannocchiale.
La vita di tutti era sempre più prospera, mentre UFO, mostri e minidischi lontani dalla Terra e anche dai ricordi di tutti.


FINE

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L’UNICA STELLA

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Il cielo notturno era pieno di stelle, e fra tutte, una che splendeva più di ogni altra: la Stella di Fleed.
“Grazie, Rubina… grazie al tuo sacrificio, ora sappiamo dov’è la base di Vega”… mormorò Actarus con voce commossa e piena di rispetto per una persona che non c’è più.

Era uscito da solo, dopo che il satellite messo a punto da Procton era stato in grado di localizzare l’esatta posizione della base lunare.
La commovente e suggestiva bellezza del panorama, lasciava presagire nell’animo del giovane la prossima e decisiva vittoria.
“L’ultima battaglia… e dopo non ci saranno più guerre.”


FINE

Edited by .Luce. - 20/11/2023, 13:52
 
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STRATEGIE

2_73

“I vostri collaboratori, maestà, non conquisteranno un bel niente con quei mostri giocattolo, ci vuole ben altro. Io sì, che ho gli strumenti giusti!”
Quelle frasi pronunciate da Dantus con estrema sicumera e arroganza nella sala del trono, rimbombavano ancora nella mente di Gandal e Zuril. Non sapevano darsi pace: era molto evidente che quel nuovo comandante li avrebbe molto presto rimpiazzati e loro dovevano impedirlo ad ogni costo. Pena, l’eliminazione in toto dal ruolo di comando.
“No, non possiamo permetterlo!”, gridò Gandal battendo un pugno sul tavolo.
“Agitarsi in questo modo non servirà a nulla: dobbiamo mantenere la calma e pensare a qualcosa di concreto”, suggerì Zuril.
Nei momenti più duri riusciva a mantenere una lucidità razionale, anche se questa volta gli sembrava di essere sull’orlo di un baratro.
Gandal si sentì osservato e quindi a disagio. Vide infatti lo sguardo dello scienziato prendere una luce ironica che non gli piaceva affatto, si sentì ridicolo in modo indefinito. Reagì alla muta provocazione, aggredendolo a parole.
“Se hai tutte queste belle idee, è meglio che ti spicci a metterle in atto: il tempo vola”, disse con gli occhi stretti e cattivi, mentre con le mani simulava il gesto del volatile che si libra nel cielo.
“Siete solo capaci di dire sciocchezze e non mettere nulla in pratica”, esordì con calma glaciale Lady Gandal. Il tono serio, saccente e professionale si scontrava decisamente col suo look: era senza un’ombra di trucco, i capelli avvolti in minuscoli bigodini e sul viso aveva applicato alcune sottili fette di cetriolo.
“Toh, è arrivata anche lei! Mi pareva mancasse qualcosa”, ironizzò il consorte.
“Silenzio, sento dei passi provenire dal corridoio”, disse Zuril in un sussurro.

Dantus entrò nello studio ostentando superiorità estrema. Non si degnò di sfiorare con lo sguardo i presenti e si diresse subito al computer. Con abilità digitò i tasti, e sullo schermo ci fu un susseguirsi di immagini: mostri animaleschi, formule complicate, robot fiammanti e pieni di armi letali.
All’improvviso, apparve davanti agli occhi di tutti un video in diretta, il quale riproduceva Hydargos che guidava l’astronave zigzagando in direzione pianeta Terra.
Aveva la testa fasciata con delle bende chiazzate di sangue e l’ago della flebo infilato in vena.
Si era ferito in volo alcuni giorni prima scontrandosi con una flotta di minidischi, ma volendo fare l’eroe, non aveva ascoltato le prescrizioni del medico che gli aveva raccomandato una settimana di riposo, mangiare in bianco e bere acqua a volontà per disintossicarsi.
Una volta che era stato curato in infermeria, questi era sceso dal letto con baldanza e sotto gli occhi esterefatti dell’infermiera, era uscito correndo con le bende svolazzanti e il boccettone della flebo con carrello annesso.

“Distruggerò Goldrake, vedrete di cosa sono capace io! Sono un eroe, tutti si inchineranno davanti a me, solo io riuscirò a polverizzare quel maledetto!”
Così gridava per tutta la base lunare, masticando improperi in svariate lingue. Conciato in quel modo era salito sulla nave, ingranato la marcia e volato via senza ascoltare nessuno.
I soldati ridevano tra loro dandosi di gomito, il cuoco che era apparso un momento sul corridoio, alla vista di quella scena teatrale era rimasto scioccato, si era asciugato le mani nel grembiule, poi aveva scosso la testa in segno di diniego.

Dantus commentò la scena fischiettando e battendo il piede a ritmo di musica, poi, con uno schiocco delle dita, ordinò: “Subito qualcosa di forte da bere!”
Gandal e Zuril, fortemente a disagio, pieni di ira e umiliazione, si guardarono con sguardo interrogativo. “Noi? Mica siamo i suoi domestici, ma che vuole!” dissero sottovoce.

“Ma certo Comandante, ai suoi ordini!” esordì a sorpresa Lady Gandal.
“Ecco qua una bevanda squisita, propria adatta ad un genio come voi”, disse cinguettando, mentre metteva sopra un vassoio un bicchiere colmo di liquido scuro.
“Bevetelo tutto in un fiato e vi sentirete pieno di energia.”
Dantus non se lo fece ripetere e, senza staccare gli occhi dallo schermo, ingollò il liquido.
“Noi usciamo, non vogliamo disturbare…”

“Ma… insomma, si può sapere che significa questo? Perché lo tratti coi guanti? Ancora non capisci che ce ne dobbiamo liberare?” le chiese Zuril allibito.
Lady Gandal emise un lunghissimo respiro, poi disse: “Lo so da me, quindi ho pensato come fare.”
“Parla, siamo curiosi.”
“L’unica cosa buona che ci lascia quel deficiente di Hydargos, è l’estratto puro distillato di alcol che ingoia di nascosto per dimenticare i rimproveri e le sconfitte. L’ho preso e mischiato a tre cucchiai colmi di zucchero, insieme a due caffè molto concentrati e qualche goccia di vegatron che tengo per le emergenze.
A questo punto non ci resta che andarcene alla svelta. Tra poco questa base diventerà un unico ed enorme fuoco d’artificio.”


FINE

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CUORI SOLITARI

1-17004846710020


A volte la vita di coppia è davvero soffocante, insopportabile e asfissiante!
Chi, in cuor suo, specie dopo anni e anni di convivenza e matrimonio con lo stesso partner, non ha pensato ad una simile frase? Per almeno un nanosecondo tutti, e chi lo nega è un bugiardo.
Questo sentimento è provato anche nei casi in cui l’altra metà è la persona giusta, la conosci fino in fondo all’anima al punto da creare a volte contatti telepatici e non potresti vivere senza la sua presenza, quella con la quale hai giurato di voler condividere ogni istante della tua esistenza, che ti ha fatto battere il cuore e poi perdutamente innamorare e che saresti disposto a dare la vita per lui o lei.
Se il fastidio periodico o sporadico dello stare in coppia è un fatto normale per le persone in genere, ancor di più lo è nel caso singolare della coppia Comandante Gandal e signora.
Quell’unico corpo che imprigiona senza pietà due menti, due opposti, due cervelli distinti. Un’unica testa che racchiude l’uomo e la donna, i quali hanno però idee, personalità, gusti molto diversi ed entrambi vogliono prorompere e invadere lo spazio altrui, specie nei momenti di crisi esistenziale.
Il corpo è maschile in tutto e per tutto, quindi la donna deve reprimere ogni civetteria, qualsiasi idea per quanto recondita di un abito alla moda, osare i tacchi a spillo, passare un’intera giornata dall’estetista per sistemare unghie, eliminare peli superflui, usare profumi francesi molto femminili.
Ma sopra ogni cosa, nessuno dei due può tradire l’altro: su questo non ci sono dubbi.
“Non ce la faccio più… voglio un uomo, un uomo vero! Che sia per una notte e via, o per una lunga e segreta storia lo voglio!” sussurrava fremente con rabbia mal dissimulata stringendo i pugni Lady Gandal in una grigia alba invernale, dopo una lunga e agitata notte insonne.
“Chi lo dice che ciò non sia possibile? Anche se condivido lo stesso corpo con quello là, la scienza fa miracoli e io ho già in mente qualcosa.”
Nel frattempo, quello là dormiva ancora della grossa, russando così forte da far tremare i vetri.
Ronfava beatamente come un neonato; nulla di quello che passava per la testa della moglie lo sfiorava. La sua principale occupazione era compiacere il suo sovrano evitando bruschi rimproveri come quasi sempre avveniva, tenersi buono Zuril, ma al tempo stesso fare in modo che non si prendesse tutti i meriti in caso di attentati andati a buon fine. Quanto alla sua dolce metà: bè, era già tanto che tollerasse la sua ingombrante presenza senza lamentarsi. Che doveva fare di più? Il suo compito era riuscire a distruggere Goldrake, conquistare la Terra e nient’altro; il dovere coniugale, il romanticismo, le cene a lume di candela, sono quelle cose che si fanno durante il fidanzamento e la luna di miele. Dopo non hanno più senso, sono cose frivole, inutili e anche ridicole, secondo lui.

“Voglio un uomo e l’avrò” decise lei vinta dal senso di solitudine, ma determinata a uscire da quella routine che non tollerava più. Temeva di scivolare dentro la pericolosa spirale della depressione e non lo voleva permettere.
Accese il computer e decisa andò nella pagina “Cuori solitari”. Sotto il titolo, c’erano altre scritte più in piccolo.
“Sei stanco della tua vita da single? Il tuo partner ti ha scaricato? Poco male, chiodo schiaccia chiodo: vieni da noi, abbiamo quanto fa per te.”
“No, io cerco una cosa diversa, vediamo…” disse lei mentre continuava febbrilmente la ricerca.
“Ecco, forse ci sono.”
Un annuncio scritto in piccolo e in fondo alla pagina, indicava persone che desideravano avventure senza pretese, del genere mordi e fuggi. C’erano tipi di ogni genere: single da una vita, quelli di ritorno, separati, fedifraghi e addirittura alcuni ben disposti a rapporti a tre e anche di gruppo.
Sotto, ancora più in piccolo, c’erano scritte che elencavano con precisione certosina ogni sorta di perversione, ma alle quali, la signora scandalizzata non dedicò nemmeno un secondo.
La sua attenzione fu catturata da un annuncio di poche righe che riportava queste parole: “Sono quasi sempre stato solo perché il lavoro mi porta via tanto tempo. Desidero una donna con la quale passare alcune notti. Non prometto romanticismo e cose simili dato che sono un tipo piuttosto rude, però sono leale, sincero, dai modi spicci e diretti.” La firma riportata era: Cavaliere senza meta.
“Benissimo, è proprio ciò che desidero” pensò lei.
Lady Gandal mandò il suo messaggio: “Sono una donna infelicemente sposata da troppi anni, vorrei poterti incontrare. Non ho grandi pretese, ho solo bisogno di una compagnia maschile per qualche tempo.” La sua firma era: Una donna a metà.
Alcuni minuti dopo le arrivò la risposta: “Quando ci possiamo incontrare? Io oggi sono libero.”
“Anch’io! Che bellezza! Dove? E a che ora?” scrisse lei torcendosi nervosamente le mani.
“Mi trovo nelle miniere di Giove, ecco la piantina. Alle ore 14 può andare?”
“Va benissimo! Ho capito dove sei, conosco quella zona come le mie tasche. A più tardi, sarò puntualissima.”
La signora fece una rapida toilette, si spruzzò di profumo senza parsimonia, poi corse nel grande magazzino dove giacevano i minidischi.
“Levati bamboccio, quello serve a me!” disse spostando con la mano il giovane che stava collaudando il disco.
“Ma… ma… veramente suo marito mi ha dato l’incarico di preparare la solita formazione di minidischi, se ne manca uno verrò licenziato” mormorò il giovane.
“Bene, sei licenziato!” gli gridò. Con foga salì sulla navetta, accese il navigatore e partì a tutto gas, lasciando un gran polverone nero.
In meno di mezz’ora arrivò a destinazione. I due sconosciuti si erano messi d’accordo sul come fare per riconoscersi. Ognuno di loro avrebbe esibito una targhetta riportante il nome col quale si erano iscritti nel sito online.
Lady Gandal atterrò su Giove Ovest, la zona delle miniere infernali, dove spesso mandavano Hydargos dopo i suoi ripetuti fallimenti bellici.
Il vasto piazzale era quasi deserto e dal suolo, a tratti, vedeva salire nuvole di zolfo dall’odore pestilenziale. Attese alcuni minuti accanto alla sua navetta; si sentiva strana, nervosa e piuttosto a disagio, ma non voleva tornare indietro. Si era lanciata in questa avventura e l’avrebbe vissuta fino in fondo, costasse quel che costasse!
Dall’ingresso di una caverna, intravide una figura maschile che lentamente avanzava verso di lei e la prima cosa che le balzò all’occhio era la targa riportante il nome di lui scritto bene in grande.
Allora gli andò incontro con decisione, anche lui aveva letto il nome di lei e sorrideva, pur tenendo il capo abbassato. La donna aveva sulla testa una grande foulard che le copriva gran parte del viso.
Quando furono vicini tesero entrambi la mano tremante, poi lui disse: “E’ un piacere per me incontrarla, signora. Venga dentro la grotta, così potremo presentarci meglio.”
Lei lo seguì a piccoli passettini e vide che l’ingresso era debolmente illuminato da un candeliere posto sopra un tavolo di legno rustico con annesse due sedie dello stesso materiale. Di lato, e semi celata da una tenda violacea, c’era un’alcova con sopra alcuni cuscini di velluto scuro e consunto ricamati in oro. All’origine dovevano essere stati oggetti alquanto preziosi, ma ora il loro aspetto tradiva l’usura del tempo ed erano certamente pieni di polvere.
L’insieme era piuttosto angusto e tetro, ma a lei non importava più di nulla, voleva arrivare al dunque, quindi con decisione buttò indietro il fazzoletto e fissò l’uomo che aveva di fronte.
Quando entrambi si videro, fecero un balzo indietro spaventati.
“Ma… ma… voi… siete…”
“Hydargos!” disse la donna, soffocando un grido portando una mano alla bocca.
“Mia signora… ma voi… voglio dire… non sapevo… non avevo capito… io…”
Lady Gandal riprese quasi subito il controllo della situazione e senza mezzi termini lo affrontò senza remore, né pudori di sorta.
“Sei l’ultima persona che pensavo di incontrare, ma il destino ha deciso così, quindi tra noi non esistono ruoli di nessun genere. Io voglio un’avventura, un uomo vero che mi faccia provare ciò che nella mia sciagurata vita matrimoniale non ho mai avuto!”
“Siete sicura? Non ve ne pentirete?” chiese lui abbassando lo sguardo.
“Mai stata così sicura in vita mia!” gli rispose.
Gli prese il viso tra le mani e lo baciò con forza e foga repressa, poi entrambi rotolarono nell’alcova in un sottofondo di musica tetra, odore di zolfo, di liquori scadenti, di perdizione, di sfacelo, gusto del proibito, desideri repressi e mai confessati.

Un’ora dopo, la chioma rossa e spettinata della signora, riposava sull’ampio petto di Hydargos e i loro respiri si alzavano e abbassavano in perfetta sincronia.
Nei loro occhi era riflesso tutto l’appagamento vissuto in quegli istanti e la promiscuità della situazione segreta e proibita, era per loro quanto di più bello ed eccitante potessero vivere.
La vera gioia era l’incontro al buio, aver fatto qualcosa di nascosto a tutti, valicato quel cerchio tracciato di inchiostro vermiglio che i loro ruoli non ammettevano nemmeno nei sogni più arditi e segreti.
Hydargos non era un granchè come amante, se si vuole guardare la cosa da questa angolazione: la soggezione che da sempre nutriva per la sua Comandante, quella che lo rimproverava e punzecchiava più di tutti e che ora giaceva accanto a lui senza artigli né difese, che gli si era donata senza condizioni e la sua intemperanza nel bere, non favorivano di certo le sue prestazioni fisiche. Ma tutti questi inconvenienti erano inezie per questa coppia che il fato aveva predisposto in un incontro al di fuori da tutti gli schemi e le convenzioni sociali.
La loro gioia era quella di aver violato le leggi e i confini stabiliti dai ranghi per sentirsi finalmente liberi di fare ciò che volevano senza remore.
Lui si alzò per primo e, indossato un ampio mantello consunto, versò un liquido bruno rossiccio in due calici. Ne porse uno alla donna che stava languidamente distesa sui cuscini ricamati e brindarono alla loro salute.
“Alla tua, cara.”
“Alla prossima volta, e a tutte le volte che ne avremo voglia” gli rispose con voce roca e sensuale.


Nella sala riunioni di Skarmoon, re Vega aveva fatto chiamare il Comandante Gandal e Zuril per avere notizie riguardanti la base sottomarina sulla Terra.
“La sua signora non è venuta oggi?” chiese con deferenza il sire a Gandal.
“Non sta molto bene, si è svegliata con gran un cerchio alla testa e mi ha detto che vuole stare in camera da sola e al buio. Domani starà certamente meglio.”
“Oh, non la disturbate. Per oggi non ci sono cose urgenti.”
“Maestà, la settimana scorsa mi sono recato alla base e ho visto che mancano ancora alcune cose…” sottolineò Zuril.
“Cose di che genere?” chiese Vega preoccupato.
“Si tratta di materiali molto costosi…”
“In questo momento non possiamo permetterci spese extra, quindi rimandiamo al mese venturo, quando Hydargos ci porterà le materie prime da Giove.”
“Può anche darsi che sia già riuscito a procurarsi il tutto, proviamo a contattarlo” disse lo scienziato.
“Buona idea!”
Gandal accese il monitor che lo collegava alla base dove era Hydargos.
Per diversi secondi il video rimase buio. Zuril si avvicinò alla tastiera del computer e digitò alcuni numeri; finalmente il collegamento dove stava Hydargos venne attivato.
Dallo schermo videro una serie di bottiglie semivuote sparpagliate sul tavolo. Sospirarono tutti. Il vizio del bere mai avrebbe avuto fine, pensarono.
“Facciamo suonare l’allarme, forse Hydargos è lontano e non ci può vedere” disse Gandal.
Prima che potessero fare questo, l’alta figura dell’uomo fu davanti a tutti. Era visibilmente alticcio, sulle gote esibiva due chiazze vermiglie e rubizze, aveva le mani occupate da un bicchiere e una bottiglia. Stava in piedi con scarso equilibrio e, appena li vide, alzò il calice in segno di saluto.
Re Vega era in piena ebollizione, ma non sapeva che il peggio doveva ancora vederlo.
Zuril fu il primo a riprendersi, quindi gli domandò come andavano le cose. “Sei a buon punto con gli scavi? Quante materie prime sei riuscito ad estrarre?” chiese in tono professionale, ignorando lo stato alterato di Hydargos. Questi gli rispose con un largo sorriso, poi lasciò tutti a bocca aperta, intonando alcune note.

Sire,
quel vino è generoso, e certo
oggi troppi bicchieri
ne ho tracannati ...
vado fuori all'aperto.


Solo Zuril non si sorprese. In quell’aria, aveva subito riconosciuto la celebre romanza dell’opera lirica “Cavalleria Rusticana”. Però, alcuni istanti dopo, anche al celebre scienziato cascò la mascella.
Con passo lento, sinuoso e felpato, decisamente brilla e seminuda, apparve Lady Gandal!
Sorridendo in modo sensuale e conturbante come mai aveva fatto prima, prese il bicchiere dalla mano di Hydargos, se lo portò un istante alla bocca e proseguì a cantare, modificando il testo per adattarlo al suo consorte, fissandolo come fosse un cretino integrale.

Ma prima voglio
che mi benedici
come quel giorno
che ti ho sposato.
E poi ... sire ... sentite ...
s'io ... non tornassi ...
Voi dovrete fare santo il mio Gandal…


Smise subito, perché fu presa da una tale ondata di ilarità, che la fece piegare in due dalle risate e a quelle risa isteriche si unì anche Hydargos. E mentre i due ridevano senza posa, indicavano con l’indice in tono di scherno i tre personaggi che stavano attoniti e allibiti sulla base lunare.
Re Vega con un pugno deciso e ben assestato interruppe il collegamento, poi si accasciò sulla poltrona e si prese il capo tra le mani. Era un brutto sogno quello che aveva appena visto, non era possibile che fosse vero. Quando ebbe ritrovato un briciolo di coraggio, osò appena levare lo sguardo verso Zuril e Gandal, ma le loro espressioni non lasciavano scampo a dubbi: ciò che avevano appena visto e udito era tutto vero, purtroppo. Ma com’era stato possibile tutto ciò?
La porta della sala si aprì senza rumore e all’istante, l’elegante figura della principessa Rubina apparve.
I tre la fissarono costernati.
Lei aveva in mano un voluminoso pacco di documenti, che posò sulla scrivania del padre.
“Dato che ero in zona, vi ho portato personalmente i documenti da Rubi. Mi avete detto che sono urgenti” disse fissando i presenti ad uno ad uno con aria perplessa.
“E da quando in qua non si saluta? Avete perso la favella? Si può sapere che avete?”
“Ciao, Rubina e grazie per essere venuta fin qui” le disse il padre con voce bassa e mesta.
“Bè, ora vedo che sei ancora in grado di parlare. Ma che sono queste facce? Sembrate degli zombie.”
“Siediti qui, cara, ora provo a spiegarti” le disse il re con premura cedendole la sua poltrona.

Un’ora dopo, Rubina percorreva con passo celere il lungo corridoio che portava all’uscita. La sua Quenn Panther sembrava attenderla nel vasto piazzale di Skarmoon.
Re Vega le correva dietro parlandole senza posa in un sussurro, ma lo sguardo altero e sdegnato della ragazza lo intimoriva. Alla fine, trovò il coraggio di chiederle: “Che ne pensi? Dici che è un fatto isolato, o…”
Rubina gli piantò in faccia i suoi grandi occhi celesti, freddi e cattivi. In quella strana luce spettrale sembravano metallici e facevano paura.
“Ti dico di chiudere baracca e burattini e dichiarare fallimento!”
“C… cosa hai detto?”
“Ho detto che da anni quei bastardi che ti ostini a definire comandanti, scienziati, validi collaboratori, ti fanno le scarpe. Intendi?”
“No, io…”
“Infatti. Sarò semplice e diretta, apri bene le orecchie perché non ho voglia di ripetermi. Quando Zuril ti dice che si reca sulla Terra a piazzare bombe, in realtà va a studiare canto lirico e si reca a teatro in dolce compagnia. Fin qui ci sei?”
Re Vega non rispose nulla, ma la sua espressione ebete diceva tutto.
“Gandal e signora, vogliono levarti di mezzo e Hydargos serve loro come specchio per le allodole.”
“No, non ci credo, questo è impossibile.”
“Liberissimo di non crederci, ma il fatto che mi hai raccontato questa sera, spiega tutto. Tu ti sei meravigliato di questa cosa, mentre io no. E adesso, visto che non intendo mischiarmi in questo ciarpame, me ne torno su Rubi a governare come si deve, non da imbecille come te! Io non vi conosco più e mi dissocio, non intendo farmi ridere dietro da nessuno!”
“Aspetta Rubina, non andare via così, ho bisogno di te!” gridò il re correndole dietro e incespicando nella lunga veste regale.
“E io no!” gli rispose chiudendogli in faccia lo sportello della sua nave, mentre partiva a tutto gas.

Tutta la base lunare Skarmoon, era diventata all’improvviso un’immensa ed enorme nuvola di fumo nero.


FINE

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Edited by .Luce. - 20/11/2023, 13:51
 
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DISERBANTI

1_283

Pochi giorni dopo la fine del conflitto finale con Vega, Actarus e Venusia, pensarono di fare una bella passeggiata per i boschi in un limpido mattino di inizio estate.

“Cara Venusia, sai che ti dico…”
“Che mi dici?” chiese lei fissandolo con occhi languidi e dolci.
“La guerra contro Vega è finita… e per sempre.”
“Lo so, c’ero anch’io nell’ultimo scontro.”
“Vuoi che non mi ricordi? Tu e Maria avete lanciato certi missili: l’ultimo gli è stato fatale e se non fosse stato per voi due, non so come avrei fatto.”
“Bene Actarus, ora che non ci sono più mostri, dischi volanti, minidischi, quelle cose che ci hanno reso la vita difficile per anni…”
“Molto vero.”
“Credo sia il momento di pensare a noi due.”
“Mi hai letto nel pensiero, ma come hai fatto?”
“Come ho fatto? Beh, le tue ex sono volate via, l’unica ad esserti rimasta accanto e per giunta viva e vegeta sono io. Se segui la logica dell’eliminazione lo vedi da te.”
“Lo so, è anche una bellissima giornata e siccome non abbiamo niente da fare in casa, né alla fattoria, né tantomeno al Centro, dico che l’alternativa sia quella di fare una lunga corsa a cavallo nella prateria. Ecco qua i due purosangue, sono già ferrati e ben foraggiati. Al galoppo, forza!”

I due giovani presero una salita e si avviarono coi quadrupedi, fino ad arrivare al ruscello.
“Sono almeno due ore che corriamo Venusia, dico che è meglio se ci fermiamo in prossimità di quel laghetto e facciamo riposare gli animali.”
“Eh sì, anch’io sono cotta, si sta facendo davvero caldo adesso.”
“Sai cosa penso, cara?”
“Non saprei.”
“Che insieme siamo una coppia vincente, la coppia ideale.”
“Sì, l’ho sempre pensato, però io…” sussurrò Venusia abbassando lo sguardo.
“Tu? Coraggio, siamo soli e non ci sente nessuno” le rispose il ragazzo con sguardo intenso.
“E’ che non va bene parlare di chi ora non c’è più, ma… quella ragazza del tuo paese, Naida non è che le mancasse qualche rotella per caso?”
“In che senso?”
“Mah, aveva certi occhi e poi, non è per criticare, ci mancherebbe, ma quei capelli color verde spinacio, che erano? Non le stavano bene… bella era comunque bella niente da dire. Non voglio essere meschina, scusami tanto” disse Venusia con imbarazzo velato da un sottofondo di perfidia.
“Che ti posso dire, cara? Sono cose lontane, siamo cresciuti insieme e poi ha visto la sua famiglia morire davanti ai suoi occhi, capisci bene.”
“Lo so, deve essere stato terribile; mi vengono i brividi solo a pensarci.”

Dopo qualche istante di silenzio, Venusia tornò all’attacco.
“Mi viene in mente un’altra cosa: quella Shira che venne qui in un freddo giorno d’inverno, che ti sembrava? Era molto carina da quanto ricordo.”
“Shira? Sì, bellina e aveva la fissa del fratello: ha fatto una gran brutta fine anche lei, povera ragazza.”
“Ti piaceva?”
“Chi?”
“Shira, no?”
“Volevo solo che si salvasse, ma Vega era un mostro senza cuore, anzi, aveva il cuore di pietra.”
“E’ vero, e Maria ha sofferto tanto quella volta, mi ricordo bene.”
Actarus le rispose dopo un lungo respiro: “Maria ha dovuto poi affrontare il trauma del sosia di nostro padre e qualche giorno dopo, ritrovare il suo amico d’infanzia Kein, per poi perderlo un istante dopo.”
“E’ vero, si suicidò davanti a lei… temevo non si riprendesse più da quella brutta esperienza.”

I due giovani tacquero all’istante e decisero di bagnarsi nel ruscello, ma mentre camminavano sui sassi, Venusia ricominciò a ricordare.
“E da poco anche Rubina è finita male. La tua fidanzata, la tua promessa sposa, ed era bella come un fiore. O no?”
“Bellissima, ma ora non c’è più” le rispose a voce bassa.
“Si vedeva una gran tristezza negli occhi, anche se l’ho solo intravista.
Bè, ora il fiore appassit… cioè il fiore rosso, dov’è che vive?” chiese Venusia con un lieve tremito nella voce.
“Dappertutto, anche in questo bellissimo prato che vedi davanti a noi. Se ne vedi uno rosso, è lei” le disse Actarus indicando col dito.
“E ogni primavera tornerà da te?”
“Da me, da te, su Fleed, su tutti i pianeti, basta solo cercarla.”
“Bene, ci penserò io a lei!” disse Venusia tutta fremente.
“E come?”
“Con questo.”
Dalla tasca tirò fuori una bomboletta spray.
“E’ un diserbante potentissimo, capace di distruggere la radice, tutto! Sparirà per sempre dalla faccia della Terra e da tutti i pianeti di tutte le galassie!” decise lei con voce e sguardo febbrili.
“Ah, però forse adesso è un prodotto vietato, anzi, credo sia stato eliminato dal mercato. Il buco nell’ozono è una cosa seria” disse Actarus fissando perplesso il prodotto.
“Il buco nell’ozono non mi riguarda, io quella smorfiosa non la voglio da nessuna parte e nemmeno sentire il suo nome, mai più!” gridò la ragazza.
“Come vuoi tu, cara…Ehi, ma quelli sono Alcor e Maria. Ci hanno raggiunto fin qui.”

I due giovani frenarono le motociclette nella vasta pianura.
“Ciao!” dissero i quattro in coro, salutandosi con la mano.
“Ma come avete fatto a trovarci?” chiese Venusia correndo incontro a Maria.
“Abbiamo fatto una scommessa” disse Alcor.
“E chi ha vinto?”
“Io, naturalmente!” gridò Maria saltando di gioia.
“Non barare, lo sai benissimo com’è andata, dillo se sei onesta” la corresse Alcor con fervore.
“Cosa vuoi dire?” chiese la ragazza cascando dal pero.
“Cosa voglio dire? Sentitela l’innocentina! Maria, ti conviene dire la verità!”
“E quale sarebbe?” lo apostrofò lei mostrandogli la lingua per quanto era lunga.
“Neghi anche l’evidenza? Bene, ora parlo io. Devi sapere Actarus, che tua sorella, proprio ieri sera, ha ascoltato dietro la porta quello che dicevi a Venusia, cioè dove volevate andare oggi. Prova a negarlo se ci riesci!”
“Cosa ne so? Ero lì per caso, mica per sentire quel che dicevano loro” gli rispose Maria ostentando superiorità.
“Bene, ora che ci avete raggiunto, che ne dite di una bella nuotata fino al largo? Questo laghetto che sembra solo una pozzanghera, è in realtà molto vasto, lo si vede se ci spingiamo oltre la radura” sottolineò Venusia con entusiasmo ritrovato.
“Io non ne ho voglia” mormorò Maria improvvisamente triste e gli occhi fissi a terra.
“Ma che hai? Sembravi tanto allegra un minuto fa” le chiese il fratello con preoccupazione.
“No… non è niente… solo che…”
“Solo che?” chiesero gli altri in coro.
“Io… io… non so come dirlo…” mormorò lei.
“Inizia a parlare, quello che non ti viene da dire lo aggiungiamo noi” disse Alcor con malcelata ironia, sistemando meglio la sua moto.
Quella fu la classica goccia che fece esplodere Maria. Con un forte moto di stizza, buttò a terra il suo casco, poi iniziò a pestare i piedi, frignare e imprecare a casaccio. Dopo alcuni minuti di sfogo, la ragazza si avviò verso la riva del lago mantenendo uno sdegnato silenzio.
I tre rimasero a bocca aperta e occhi spalancati.
Dopo alcuni minuti, Venusia le andò vicino e, senza dire una parola si sedette accanto a lei.
Osservandola di sbieco, vide che Maria aveva gli occhi lucidi e languidi, ma al contempo, un’espressione dura e impenetrabile sul viso.
Con cautela, le posò una mano sulla spalla.
“Che ti succede, Maria?” le chiese con dolcezza.
L’altra scosse il capo in segno di negazione, mentre con la mano distrattamente raccoglieva la ghiaia, poi la ributtava a terra.

Ci pensò Alcor ad interrompere l’imbarazzato silenzio che si era creato e la sua frase infelice, dal tono saccente e sprezzante, provocò una specie di esplosione al vegatron.
“Scusa Maria, ma prima che si faccia sera, è meglio che ti decidi a muoverti di lì. In ogni caso, per me non c’è problema, me ne vado a fare un bel tuffo anche da solo. Anche senza di te, stiamo bene lo stesso, sai?”
L’altra si alzò di scatto e, come una furia, si avventò verso quel ragazzo davvero insopportabile.
“Lo so che stai bene senza di me! L’ho sempre saputo, non sono scema, io!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Fece l’atto di colpirlo col pugno chiuso, ma Venusia fu pronta a fermarla.
“Calmati Maria, spiegaci perché sei così arrabbiata…” le disse con voce ferma.
L’altra si asciugò una lacrima di rabbia col dorso della mano, mentre dalle sue labbra usciva un infinito rosario di amarezze.
“Per tutto il tempo che ho combattuto con voi nella lotta contro Vega, ho sempre saputo che di me non avevate fiducia e cercavate di tenermi in disparte.”
“E quando mai?” le chiese il fratello sbalordito, e subito aggiunse: “Non ti ricordi che hai iniziato a combattere pochi giorni dopo il tuo arrivo alla fattoria?”
Lei si strinse nelle spalle senza rispondere, mentre la sua espressione prendeva una piega amara.
“Addirittura hai debuttato usando il disco di Alcor, visto che quel giorno lui stava a letto tutto ammaccato” aggiunse Venusia. “Volevo andare io, ma tu hai corso molto più di me, dicendo che era tuo dovere rischiare. Ricordi, vero?”
La giovane teneva il capo abbassato, le braccia conserte e non si degnava di rispondere mantenendo lo sguardo altero e sprezzante. Il lieve tremito delle labbra lasciava intendere ira repressa e lacrime di rabbia a stento trattenute.
“Lo so! Ma c’è dell’altro, ed è un qualcosa che mi avete sempre tenuto nascosto, pensando che io non lo sapessi!” esplose ad un tratto gridando con tutta la voce che aveva.
D’istinto, i tre arretrarono di un passo.
“Cos’è che abbiamo fatto di nascosto a te, Maria? E quando?” chiese Alcor fissandola con serietà.
Lei si asciugò una lacrima col dorso della mano, e con voce ferma si decise a parlare.
“E’ avvenuto alcuni mesi dopo il mio arrivo. Procton ci aveva fatto andare al Centro con urgenza, siete corsi via e io non ho sentito subito la chiamata.”
Tacque un istante, per poi riprendere il discorso.
“La camera di Alcor era aperta, e di sfuggita ho intravisto una fotografia posta sulla scrivania. Allora sono entrata per vedere chi fosse e l’ho presa.”
Con atto febbrile, Maria estrasse dalla sua tasca un’istantanea tutta stropicciata.
“Sayaka! La tua ragazza e pilota di Afrodita A, tua compagna di battaglie…e tanto altro!”
Maria aveva pronunciato l’ultima frase quasi gridando, ma le ultime parole sottovoce, perché si era improvvisamente resa conto che la sua gelosia era palese a tutti. Di questa cosa se ne era tanto vergognata, che era fuggita di corsa fino ai piedi di una collina.

Gli altri erano rimasti muti e perplessi; Venusia invece aveva compreso bene lo stato d’animo della ragazza e le andò dietro.
“Maria!”
“Vattene per favore, non voglio vedere più nessuno, ti prego” sussurrò lei, nascondendo il viso tra le mani.
Alcor e Actarus si avvicinarono lentamente, restando però a debita distanza.
“Ascolta Maria, queste tue paure sono solo fantasmi: il passato non torna, credimi! Alcor vuole bene a te, questo è evidente a tutti!”
La ragazza alzò lentamente gli occhi su Venusia, la quale, con un enigmatico e malizioso sorriso le disse: “Sai cos’è questo?”
L’altra negò col capo.
“Un diserbante potentissimo, capace di distruggere tutto il nostro passato!”
Maria continuava a non capire, allora Venusia prese la foto di Sayaka e la cosparse di quel liquido. I colori sbiadirono poco a poco, finchè non fu più possibile riconoscere il ritratto originale.
“E adesso tocca a Rubina!”
“Ma che dici, Venusia?” chiese Maria sempre più confusa.
Senza risponderle, prese un fiore rosso che stava ai loro piedi; era bello, grande e profumato. In pochi secondi venne disintegrato anche quello con lo stesso prodotto che aveva usato prima.
“Ho capito adesso, brava!” rise Maria alquanto sollevata.

“Tutto a posto, ragazze?” chiese loro Actarus con un sorriso complice.
“Certo! E abbiamo una voglia matta di fare un bel tuffo. Venite anche voi?”
“Sicuro! Prima però faccio sparire questa bomboletta; è da anni vietata per legge e se ci beccano ci fanno una multa coi controfiocchi! Diciamo che per pagarla bisognerebbe accendere un mutuo” disse Alcor mentre faceva sparire il prodotto dentro il bagagliaio della sua moto.

La guerra era finita, Vega sconfitto per sempre insieme al suo strascico di fantasmi, gelosie, incomprensioni che da sempre i conflitti portano con loro.
Il cielo era azzurro e senza minacce, così come i cuori dei nostri eroi.


FINE


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MIRAGGI

1_284

L’episodio della serie è il 32 “Un miraggio mortale”, così riassunto:

Zuril mette a punto un generatore di miraggi e lo applica ad un mostro pilotato dalla sosia della regina di Fleed. Il piano consiste nel trarre in inganno Goldrake con un miraggio della città di Fleed per farlo uccidere al tocco di un anello che emette raggi protonici. Actarus si accorge appena in tempo dell'inganno e distrugge il generatore di miraggi, ma durante la battaglia i raggi protonici emessi dal mostro risvegliano la ferita sul braccio. Immobilizzato Actarus verrà salvato da Alcor grazie al raggio ciclonico, montato per l'occasione su una jeep.

E un fuori onda secondo me

Dopo quell'ennesima sconfitta dove la vittoria era già in pugno, re Vega si era chiuso nelle sue stanze e non voleva parlare né vedere nessuno.
Mariene era morta nello scontro, ma ciò che davvero faceva uscire dai gangheri il sire era il fatto che non fosse stato Goldrake e il suo pilota, anzi, lui stava davvero vedendo la fine.
Era stato Alcor, dannazione, con un mezzo anche rudimentale da come lo aveva visto sullo schermo; però grazie a quel sistema che sparava un raggio ciclonico distruggendo il mostro, i terrestri avevano vinto anche quella volta.
“Non è possibile questo epilogo, era un piano infallibile… messo a punto da Zuril. Se nemmeno con questo sistema ci siamo riusciti, non so come sarà possibile una prossima vittoria”. Così ragionava tra sé il sovrano percorrendo la stanza a grandi passi. La rabbia gli si era accesa dentro e si alimentava di continuo come una fiamma inestinguibile.
Il senso di fallimento per quella battaglia finita male lo aveva riversato sui comandanti, anche se, obiettivamente, questa volta non ne erano i diretti responsabili.
Hydargos era stato spedito nelle cucine a fare lo sguattero, Gandal e signora nell’immensa soffitta della base lunare a pulire e riordinare. C’era così tanta polvere che subito iniziarono a tossire a più non posso, mentre vedevano delle fitte ragnatele nere che ricoprivano tutto il soffitto.
Il pragmatico Ministro delle Scienze non se l’era passata certo meglio degli altri: re Vega gli aveva inviata una mail strapiena di improperi e parole poco ortodosse.
… e se volete continuare a lavorare per me, vi dico da subito di cambiare registro, altrimenti vi licenzierò senza ripensamenti…
Zuril rivedeva sullo schermo del computer quelle parole e intanto meditava un nuovo sistema contro Goldrake.
Riguardò il progetto da lui ideato per i miraggi: un capolavoro! Un qualcosa che doveva essere infallibile! Maledizione! Quel che più gli bruciava dentro, era stato il fatto di essere stato battuto dal quel “rudimentale” raggio ciclonico che quel terrestre aveva puntato contro Mariene. Mancavano solo pochi secondi... Duke Fleed era prossimo alla fine.
Aveva tanto goduto vedendolo soffrire e la successiva bruciatura dell’umiliazione per la sconfitta, era stata di pari intensità.
“Non posso buttare via questa geniale idea, ci deve essere per forza un modo per riutilizzare i miraggi e averne un vantaggio per noi! E’ un sistema fantastico, devo ritentare!”

Chiamò Hydargos, ma era sorvegliato a vista dai soldati mentre era intento a pelare patate.
“Per quanto ne hai?” gli chiese indicando la montagna di tuberi sul tavolo.
“Secondo te?” gli rispose di rimando guardandolo in cagnesco.
“Mi sono anche tagliato un dito, accidenti!” imprecò mostrandoli il pollice fasciato.
“Allora hai bisogno di una fasciatura fatta meglio, vieni con me”.
“Non ho il permesso di assentarmi, io…”
“Mi prendo la responsabilità, vieni con me, è importante”.
“Dove credete di andare?” li minacciò il cuoco con aria truce.
“Pensa a cucinare che è meglio! Levati di mezzo palla di lardo, noi abbiamo da fare!” gli rispose Zuril in malo modo, spingendolo di lato con forza.
Correndo, i due percorsero il lungo corridoio che conduceva allo studio: si chiusero dentro a doppia mandata.
“Il dito mi fa male e ricomincia a sanguinare…” piagnucolò Hydargos.
“Questo ti fa passare tutti i mali”, gli disse lo scienziato indicando una bottiglia.
“Ohh… ma è un cognac pregiatissimo… della migliore annata per giunta. L’etichetta non mente”.
Con occhi lucidi di desiderio, Hydargos fissava il vetro. Non potendosi contenere, tese la mano per assaggiarla.
“Bevine un bel sorso, poi dimmi come ti sembra”.
Non se lo fece ripetere due volte, erano giorni che viveva di solo pane scuro e acqua chiara. Si attaccò direttamente alla bottiglia e in pochi istanti ne vuotò quasi la metà.
Quando si rese conto del pessimo sapore che aveva, sputò tutto sul lavandino e iniziò a tossire.
“M… ma… s… si… può… sapere…. C... cosa… che roba è quella… Puà, è amaro, che schifo! Sarà mica veleno?”
Con calma serafica, aria soddisfatta e braccia incrociate, Zuril si godeva la scena.
“E’ sciroppo per la tosse”, gli disse scandendo bene le parole.
“Non è possibile! Ma il colore del liquido, l’etichetta, il vetro… io me ne intendo, quello è il cognac più pregiato che ci sia!”
“Illusione!”
“Cosa?!”
“Un miraggio. E’ stato un miraggio; l’esperimento è ben riuscito, no?”
“Non ti azzardare mai più a fare una cosa del genere, chiaro? Da giorni sono incarcerato in quella dannata cucina, e tu mi fai di questi scherzi!”
“Vediamo se funziona ancora. Di sopra c’è Gandal, perché non andiamo a fargli una visitina?”
“Lasciami fuori da questi intrugli, torno di là, almeno un sorso di vino annacquato lo rimedio”, borbottò Hydargos e, con l’umore sotto i tacchi prese la strada che conduceva alla dispensa.
Zuril invece, salì in cima alla soffitta.
“Qual buon vento?” lo investì con malcelata ironia Lady Gandal, coperta di polvere e ragnatele dalla testa ai piedi.
“Non dirmi che ti sei degnato di venire qui ad aiutarci! Il grande scienziato che si mette a fare le pulizie… roba da far ridere i polli”.
“Forse il Ministro delle scienze ha inventato un nuovo metodo aspiratutto. Le sue genialate sono all’ordine del giorno ormai”, lo stuzzicò Gandal con perfidia, lasciando intendere con quella frase i recenti fallimenti bellici.
Zuril non si scompose affatto, ma osservò attentamente i due che stavano in mezzo a quella stanza nera e grigia, dove i ragni sembravano moltiplicarsi a vista d’occhio; lei brandiva un preistorico piumino per la polvere, lui in bilico su una scala a pioli intento a vuotare armadi.
“Perché fate tutto a mano? Ci sono i robot, no? Dove li avete lasciati?”
“Ma sentilo l’intelligentone! Re Vega si è talmente arrabbiato, che ci ha lasciato senza mezzi elettronici! Vuole tutto pulito, presto e bene. Capito? Invece di stare lì con le mani i mano e quel sorrisetto idiota stampato in faccia, aiutaci che sarebbe ora! Non sei stato tu forse a ideare quella cretineria dei miraggi?” lo aggredì la donna arrabbiatissima.
“Sono venuto apposta per questo…” le rispose Zuril con un enigmatico sorriso.
“Uscite per alcuni minuti… vi chiamerò io”.
I due coniugi, tossendo a più non posso se ne andarono nel corridoio piuttosto sollevati. Non capivano cosa stesse succedendo, ma il solo fatto di poter prendere una boccata d’aria senza polvere, era un grosso sollievo per loro.

Cinque minuti dopo, videro la porta che si apriva, quindi entrarono. Quello che videro aveva dell’incredibile.
Quella soffitta sembrava ora una stanza da re! Tutta bianca e profumata di lavanda. Sulla finestra c’erano alcune piante di gerani, il pavimento in legno pregiato e lucidissimo, i mobili laccati e moderni. Erano sparite le cose inutili, tutto era in ordine meticoloso, l’aria respirabilissima.
“Visto? Che ve ne pare?” chiese ai due che erano rimasti inebetiti.
“Ma… come hai fatto?” chiese lady Gandal con soggezione.
“Non ha importanza, vi basti pensare che ho svolto io il vostro lavoro. Adesso siete liberi”.
Non se lo fecero ripetere due volte e corsero come razzi nei loro appartamenti.
Il re li intravide nel corridoio e li bloccò subito.
“Dove andate? Vi siete forse dimenticati che voglio tutto il piano superiore pulito e tirato a lucido come uno specchio?” li aggredì a voce alta.
“Tutto a posto maestà! Se volete, potete controllare di persona”.
“Mmm…” borbottò Vega per niente persuaso.
“Come avete fatto in così poco tempo? Vado subito a vedere, non mi fido”.
“Veniamo anche noi…”
“No! Restate qui, c’è tutta la sala dei computer da tirare a lucido”.
Nella stanza c’era Zuril che stava comunicando col pianeta Zuul.
“Di qui devi sloggiare: dobbiamo far pulizia”, gli dissero senza mezzi termini.
Lo scienziato rimase impassibile a scrivere le sue formule, poi senza guardarli: “ci penso io come ho fatto con la soffitta, voi due aspettatemi nel seminterrato, nell’ala dove si fabbricano i mostri”.
Un quarto d’ora dopo, re Vega scendeva al pianterreno visibilmente meravigliato. Possibile che in così poco tempo, quei due avessero fatto quel magnifico lavoro con in mano un vecchio piumino e uno straccio di tela?
“Mah… forse si sono presi paura… hanno pensato che li buttassi fuori… meglio così! Come ho sempre detto, le maniere forti servono! Sono sicuro che adesso fileranno sempre dritto e la prossima volta ridurranno Goldrake come una sfoglia. E la Terra sarà nostra”.
Guardò in giro e non vide nessuno: si avviò spedito nella sala dove avrebbero dovuto esserci i coniugi Gandal per riordinare.
Era vuota, ma pulita e ordinatissima! Come avevano fatto?
Alquanto confuso, il re pigiò un tasto, quello per le chiamate urgenti.
In pochi secondi, Gandal e Zuril si presentarono sull’attenti nella Sala del Trono.
“Dove vi eravate cacciati? Non dovete assentarvi senza il mio permesso, chiaro? Voglio sempre essere aggiornato su ogni vostra mossa, vi proibisco di prendere iniziative!” ruggì battendo il pugno sul tavolo.
Dopo un lieve e ossequioso inchino, Zuril prese la parola.
“Maestà, la scorsa settimana ci avevate detto di portare a compimento quel mostro lasciato a metà… ricordate?”
“Sì, e allora?”
“Ricorderete anche di quel soldato che vuole fare carriera…”
“Perfettamente”.
“Bene, se voi siete d’accordo, abbiamo pensato di lasciare a lui quel lavoro. E’ un ragazzo forte e volenteroso, oltre a vantare un coraggio fuori del comune”.
“Andiamo al sodo”, gli disse il re impaziente.
“Quel giovane, ora è giù in magazzino e dopo alcune nostre dritte, sta lavorando di buona lena per la costruzione di quel disco bellico. Sono certo che verrà fuori qualcosa di speciale… fidatevi maestà”.
“Andiamo a vedere, sono io che decido!”.
Si avviarono insieme nel seminterrato e Vega rimase a bocca spalancata per lo stupore.
Un altissimo robot dai colori fiammanti esibiva una figura di acciaio ricoperta di lame taglienti: gli occhi mandavano raggi letali, dalla bocca uscivano scosse elettriche potentissime.
Lo osservò bene da ogni lato e si convinse di non aver mai visto nulla di così potente.
Il ragazzo che doveva guidarlo stava in disparte visibilmente imbarazzato. Il sovrano gli si avvicinò e con un gran sorriso gli strinse la mano.
“Se hai fatto tu questo lavoro, sei davvero un giovane fuori dal comune. Mai visto niente di simile!”
“Beh, diciamo che il robot era già quasi pronto, io ho aggiunto le armi e se Sua Maestà lo permette, vorrei guidarlo e scendere sulla Terra per battermi contro Goldrake”.
“Te la senti? I miei comandanti non sono mai stati capaci di una cosa simile”, disse volgendo lo sguardo sprezzante verso Gandal e Zuril.
“Sì, anche subito!”
“E sia! Gandal, invia tre formazioni di minidischi, poi al tuo segnale, il ragazzo scenderà in campo. Questa volta sei finito Goldrake!” gridò il re saltando per la gioia.
Gli ordini vennero seguito a puntino. Il primo ad avvistare l’ufo fu Rigel, dalla sua torre di controllo: ormai sapeva che non erano amici come aveva creduto per tanto tempo, quindi prese il winchester e lo colpì in pieno abbattendolo sul colpo.
“Evviva! Maledetti ufo, vi riduco in polpette, sloggiate di qui!” e per essere certo di non avere altre noie, continuò per alcuni minuti a sparare nel cielo turchino.
Su Skarmoon regnava un silenzio di tomba. Re Vega si era chiuso nelle sue stanze e non voleva vedere nessuno.
Nella sala riunioni, Gandal interrogava Zuril sul come e perché il disco non aveva funzionato.
Lo scienziato prese un lungo sigaro e, dopo aver aspirato una boccata di fumo, gli rispose con calma serafica.
“E’ stato un miraggio, non hai capito?”
“In che senso?”
“Nel senso che il perfetto robot da combattimento, così come appariva agli occhi di tutti, altro non era che un ammasso di rottami in demolizione… ma con l’effetto del sistema che produce miraggi, l’ha fatto sembrare una grande e potentissima arma da guerra”.
“E perché una cosa simile? Non ti interessa più conquistare la Terra?” chiese Gandal con sguardo ebete.
“Certo che mi interessa, ma ho bisogno di tempo per inventare una nuova e valida strategia. E di tempo, il re sembrava non volesse più concederne a nessuno di noi, giusto?”
“S… sì, ci ha messo a fare i domestici…”
“Esatto! Avendo nel frattempo sacrificato una inutile e insignificante leva, possiamo pensare di elaborare qualcosa di intelligente; e di questo fallimento, noi non ne siamo responsabili. Almeno per quanto crede Sua Maestà”.
Lady Gandal uscì senza preavviso e avanzò le sue ragioni.
“Mi sta bene… però voglio essere io l’artefice assoluta del prossimo attacco; solo così terrò la bocca cucita con chi so io”, strillò con voce perforante.
Zuril e Gandal assentirono in silenzio.


FINE


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Professore della Girella

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COME, QUANDO E PERCHE’

Hydargos: come ha preso il vizio di alzare il gomito?

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Il profondo Sud della stella Vega. Famiglie non troppo agiate e altre sull’orlo dell’indigenza. Molti figli e spazi angusti. La piaga del semi analfabetismo e il lavoro minorile al limite consentito.
Epidemie, scarsa assistenza sociale, furti e delitti impuniti erano situazioni abituali e quasi all’ordine del giorno. Ma per quanto gli abitanti fossero in difficoltà economica, nessuna famiglia era priva della domestica a mezzo tempo.
Si contentava di guadagnare quel tanto per mantenersi e, mentre cucinava, lavava i panni, stirava, sorvegliava i marmocchi, i padroni di casa uscivano all’alba per recarsi al lavoro e rientravano al tramonto.
In questa regione dal clima mite e piuttosto umido, molto ricca di prodotti vegetali e povera di materie preziose, era nato e vissuto Hydargos fino alla sua prima giovinezza.
La sua casa era fatta di fango e mattoni crudi. Un rudere abbandonato da decenni che, i due fidanzati avevano pensato di sistemare per renderlo abitabile e anche accogliente.
Aris e Ellie, quelli che poi divennero i genitori di Hydargos, non avevano dote, né un lavoro decente, ma si erano voluti sposare molto giovani, perché non sopportavano più di vivere pigiati come sardine dentro le loro rispettive e soffocanti famiglie.

Ellie era l’unica femmina nata dopo tre maschi e, fin dalla preadolescenza, aveva dovuto subire in un silenzio imposto dalle ipocrisie e dell’indifferenza, le molestie dello zio abitava in quella casa insieme alla bisnonna demente e un numero imprecisato di animali domestici e non, i quali, avevano libero accesso a tutte le stanze dell’abitazione.
I locali erano pochi ma ampi; nessuno aveva uno spazio proprio per vivere qualche momento da solo, mancavano i servizi igienici, l’acqua calda, chiazze di umidità si allargavano sul soffitto a vista d’occhio e le ragnatele si moltiplicavano di giorno in giorno senza che nessuno pensasse a rimuoverle, come pure spolverare, dipingere le pareti di chiaro, mettere allegri vasi di fiori sul balcone o piantare l’erba in quel rettangolo di terra fangosa in cui inciampavano sulla soglia di casa.
I suoi genitori badavano solo ai bisogni di prima necessità: mangiare, bere, dormire, avere un tetto sulla testa e studiare quel minimo indispensabile per non farsi fregare al mercato e distinguere la targhetta che indicava l’amido di mais, col disinfestante per gli insetti.
Per loro la vita era solo sopravvivenza: non avevano gusto per il bello, mangiare quello che c’era senza preoccuparsi di variare le pietanze. Per vestirsi andava bene qualunque cosa, purchè riparasse dal caldo o dal freddo. Vedere un film, ascoltare musica, leggere un buon libro, erano solo perdite di tempo e denaro, oltrechè inutile e dannose.
Ma Ellie era diversa e verso i sedici anni, la sua personalità esplose con prepotenza in tutte le sue forme. All’inizio dentro di sé, portandole un senso di insoddisfazione e un dolore sordo che non riusciva a reprimere.
Non sopportava più i muri grigi e tetri delle stanze, i denti della bisnonna dentro il bicchiere posto sulla mensola vicino allo scolapiatti, l’odore acre degli animali, non poter disporre di una stanza propria o, almeno, una tenda che dividesse il suo letto da quelli dei fratelli. Voleva studiare, uscire con le amiche e non subire mai più la mano molesta e ipocrita dello zio che la sfiorava ogni qualvolta erano soli.
Andava quasi ogni giorno a fare compere al mercato, e fu proprio lì che conobbe Aris.
Al posto del solito fruttivendolo di mezza età e coi denti radi e guasti, c’era un bel ragazzo bruno e gentile, dalla parlantina sciolta.
Nel porgerle il cesto che aveva riempito di frutta e verdura, le aveva tenuto la mano nelle sue per alcuni istanti, poi le aveva detto con premura: “E’ troppo pesante da portare a casa da sola, ti aiuto io.”
Lei si era schernita, imbarazzata e lusingata a un tempo: “No, ci sono abituata, poi tu sei al lavoro e…”
“Il mio turno finisce tra poco. Sono venuto oggi per alcune ore, dato che il titolare si è dovuto assentare. Ah, eccolo che arriva. Attendi ancora qualche minuto, per favore.”
Da lontano videro l’uomo che da sempre gestiva quel banco avanzare verso di loro. Sembrava un ippopotamo: camminava a fatica, inciampando ogni poco e il dente in mezzo alla bocca dondolante.
Vestiva male, il lungo grembiule verde toccava quasi a terra, ed era sempre sporco di fango.
Ellie l’aveva sempre visto così, fin quando, ancora bambina, accompagnava la madre a fare la spesa.
Ora che aveva visto quel ragazzo, tutto il rifiuto per quella vita che non le piaceva le salì fino alla gola provocandole un forte senso di nausea e soffocamento.

“Mi chiamo Aris, e tu?” le chiese il giovane tendendole la mano destra, mentre con l’altra aveva afferrato il pesante cesto.
Ellie trasalì, poi gli porse la mano e si presentò.
“Non è troppo pesante per te? Teniamo un manico per uno” propose lei.
“Ma che vuoi che sia? Faccio il traslocatore e nel tempo libero mi alleno coi pesi massimi” le rispose con semplicità.
Arrivano a casa di Ellie troppo presto: avevano parlato tutto il tragitto e ancora avevano tanto da raccontarsi.
Lei non lo invitò ad entrare: si vergognava della sua dimora e poi era tarda mattinata, non certo l’orario buono per ricevere ospiti.
“Domenica pomeriggio c’è la partita di pallacanestro, vieni?” le propose Aris.
“Hai i biglietti?”
“Certo, in prima fila” le rispose estraendoli dalla tasca.
“Ci sarò” gli disse con un sorriso radioso.
I due giovani cominciarono a frequentarsi e dopo alcuni mesi di conoscenza, già pensavano a costruire un futuro insieme.
Per le loro rispettive famiglie questo era un fatto del tutto normale, la logica conseguenza della vita. Non c’era l’usanza del corredo, né della dote; tutti i giovani fidanzati si arrangiavano da soli a procurarsi un alloggio e fare in modo di mettere insieme il pranzo con la cena; da quel momento in poi, i rapporti con la famiglia d’origine, in pratica si interrompevano o quasi.

Ellie e Aris avevano da tempo adocchiato un rudere abbandonato nei pressi di un piccolo ruscello attorniato dal verde. Quel che era rimasto della casa era fatiscente, ma si armarono di buona lena e in poche settimane la resero non solo abitabile, ma riuscirono a rendere quel luogo carino e romantico.
Dipinsero l’esterno di rosa chiaro, poi, il gestore di un negozio di carte da parati, regalò loro alcuni metri che erano gli avanzati e non servivano più a nessuno.
Con quelle carte a fiori, benchè tutte diverse tra loro, resero le stanze molto fresche e piacevoli.
Piantarono l’erba e alcuni fiori. Nei pressi del ruscello, la terra era adatta per la coltivazione dei tuberi.
Con entusiasmo si lanciarono in quell’impresa e ben presto furono in grado di vendere nei mercati alcuni prodotti.
Dopo due mesi di matrimonio Ellie si accorse di essere in dolce attesa. Aris le prese la mano e gliela baciò.
“Sono tanto felice, cara.”
“Anch’io.”
Nacque loro un maschio, che chiamarono Hydargos.

I due giovani sapevano che un bambino comportava molte spese, anche perché volevano per lui il meglio. Le cure adatte, abiti decorosi, istruzione completa: per tutte queste cose, la coltivazione in proprio degli ortaggi non poteva bastare.
Così Ellie, appena terminato lo svezzamento, andò a lavorare presso una fabbrica di tessuti, mentre Arsi si adattava a qualsiasi attività anche precaria, era in grado di trovare.
Assunsero una domestica a tempo pieno. Era stata appena licenziata da una coppia di anziani, i quali, data l’età e gli acciacchi, avevano deciso di trasferirsi in un pensionato.
Era una donna di mezza età, dalla pelle scura e con una grossa treccia nera in mezzo al capo. Aveva le gambe sempre gonfie e deformate dalle vene varicose; ai piedi portava delle enormi ciabatte e la bocca sempre in movimento per masticare qualcosa.
Arrivava al mattino presto, giusto in tempo per vedere i padroni uscire di casa.
“Mi raccomando il bambino, Marta. Deve mangiare agli orari stabiliti e fare il riposino ogni pomeriggio” le raccomandava Ellie con un filo di apprensione nella voce.
Lei annuiva col capo senza degnarsi di rispondere, mentre si avviava sul retro della casa con le braccia colme di panni da lavare.
Hydargos era un bambino piuttosto tranquillo ma, come tutti i neonati soffriva di coliche e a metà mattina iniziava a piangere e lamentarsi. I sui strilli si mescolavano alle vecchie canzoni che provenivano dalla radio sempre accesa, infastidendo Marta.
Il latte era forse non adatto a lui, ma la domestica si guardò bene di farne parola coi suoi padroni. Dalla tasca del grembiule estrasse una bottiglia di vino nero e spesso. Riempì il biberon con quello e lo diede al neonato. Dopo nemmeno mezz’ora, il pargolo era nel mondo dei sogni con la piccola bocca socchiusa, i piccoli pugni stretti e l’aria beata.
Così Marta non doveva più badare a lui, ma solo alle faccende domestiche.
Alcuni mesi dopo, Aris tornò a casa verso mezzogiorno. Gli avevano annullato il turno pomeridiano in qualità di magazziniere, si disse quindi che quella era l’occasione buona per stare con suo figlio.
Aprì la porta fischiettando, vide Marta che stirava i panni, mentre il piccolo, dentro la sua culla tracannava vino nero dal biberon.
Sulle prime Aris non realizzò nulla. Pensò che forse aveva dato al piccolo un succo di mirtillo, però doveva essere il pediatra a dire quando e come somministrare quella bevanda.
Si avvicinò al figlio con un sorriso, poi l’occhio gli cadde sulla bottiglia che era sul tavolo.
Capì subito di cosa si trattava: vino nero, quello forte e pesante che bevevano gli scaricatori di porto nelle bettole e dopo non erano più in grado di riconoscere la via di casa e uscivano con passo incerto e pesante.
“Marta!” urlò Aris.
Lei continuò a stirare e masticare tabacco.
“Marta! Che cosa hai dato al bambino?”
“Cosa?”
“Voglio sapere perché mio figlio beve quel liquido… non vorrai dirmi che si tratta di questo, vero?” le chiese porgendole la bottiglia.
“Certo! Si è sempre fatto così quando i bambini non dormono e si lamentano. Guardi che amore” aggiunge con sguardo carezzevole, dolce e materno.
Aris non ci vide più. Spaccò la bottiglia e buttò fuori dalla porta quella disgraziata.
“Sparisci e non ti azzardare a venire mai più qui, chiaro? Pazza, delinquente, omicida!” urlò al colmo della disperazione.
Chiuse la porta a chiave, poi crollò sulla sedia e si prese il capo tra le mani.
Come era potuto succedere questo? E perché lui e la moglie non si erano mai accorti di nulla?
Con passo cauto si avvicinò alla culla e vide che Hydargos aveva lasciato il biberon e si stava assopendo. Adesso bisognava portarlo da un dottore, sapere che conseguenze poteva portare l’aver fatto ingerire a un bambino di pochi mesi tutto quell’alcol.
“Come spiegherò tutto questo a Ellie?” si chiese angosciato.
Decise di far venire il pediatra a casa prima che la moglie tornasse dal lavoro.
Il dottore arrivò un’ora dopo e, dopo aver ascoltato con attenzione tutta la storia, lo visitò minuziosamente.
Alla fine, alzò lo sguardo verso Aris e disse con tono serio: “Non vedo gravi conseguenze nel suo fisico, e questo è un fatto già di per sé eccezionale. I danni dell’alcol sono spesso irreversibili, spesso portano al coma etilico. Suo figlio ha una tempra molto forte, per fortuna il dramma è stato scongiurato. Adesso deve bere molta acqua, succhi di frutta allungati e riposare. Se ci sono novità, non esiti a chiamarmi” gli disse congedandosi.
Aris tirò un sospiro di sollievo e decise di non dire nulla a Ellie, almeno per il momento.
Quando lei gli chiese perché Marta se ne era andata senza avvertire, lui accennò al fatto che non era brava nelle faccende domestiche e lasciava il bambino troppo solo.
“E’ meglio che ce ne occupiamo noi, Ellie. E’ ancora molto piccolo e ha bisogno di cure materne. In questi mesi sono riuscito a mettere via un po’ di soldi, quindi dico che puoi lasciare il tuo lavoro per stare con lui. Quando sarà cresciuto, ne riparleremo.”
Ellie guardò con riconoscenza il marito, poi, mentre tutto l’affetto materno traboccava dai suoi occhi, assentì col capo.

Passarono gli anni e venne per Hydargos il momento di andare a scuola.
I suoi genitori non lo avevano mandato alla materna, perché sembrava loro fosse un bambino non troppo socievole, riservato e non gli piaceva giocare con gli amici. Quando nelle feste di compleanno ne invitavano qualcuno, lui se ne stava in disparte silenzioso.
Ora, i genitori lo fissavano pieni di orgoglio, vedendolo così dritto e fiero dentro il grembiule blu e la cartella sulle spalle.
“Preferisco andare solo, mamma.” Lei era rimasta male sulle prime, ma poi si era detta che in fondo era un bambino molto più maturo della sua età, ed era normale il suo desiderio di indipendenza.
Del resto la scuola era a pochi isolati dalla loro dimora, quindi lo seguirono con lo sguardo, mentre si univa ad un gruppo di coetanei.
Aris e Ellie non sapevano nulla di lui, in realtà. Quel germe vizioso dell’alcol che gli era stato somministrato nei suoi primi mesi di vita, era stato fatale. Hydargos si attaccava di nascosto ai fondi delle bottiglie di vino che trovava, trangugiava gli avanzi nei bicchieri delle osterie e quando non c’era altro, beveva aceto o alcol purissimo. Nel suo animo era attecchito un odio feroce, un bisogno di fare del male a qualcuno, mentre un istinto omicida germogliava dentro di lui.
Finchè frequentò la scuola dell’obbligo, nulla di tutto questo fu palese agli altri.
Un giorno, quando da poco aveva compiuto diciassette anni, ebbe il permesso di uscire di sera con gli amici. Andarono in un locale da ballo e, per la prima volta, Hydargos vide sopra lo scaffale del banco adibito a bar, una lunga serie di bottiglie pieni di superalcolici.
Non resistette e chiese al barista un calice per ogni tipo.
“Non possiamo servire alcolici ai minorenni”, gli aveva detto l’uomo.
Il ragazzo gli assestò un pugno in testa, poi scavalcò il banco e prese tutto quello che voleva.
Vennero chiamate le forze dell’ordine, quindi Hydargos venne portato al Comando.
Quando vide che il poliziotto stava per comporre il numero di telefono per avvertire i suoi genitori, lui, con guizzo fulmineo uscì dalla porta e scappò lontanissimo.
Si imbarcò su una navetta pubblica e prese il volo per Vega nord est. Sapeva che cercavano giovani per arruolarli nell’esercito, quindi si presentò e, dopo un esame attitudinale, ebbe la possibilità di frequentare i corsi.
Non contattò mai più la sua famiglia, pensò solo a coltivare odio per il prossimo e distruggere.
Dopo anni di allenamenti durissimi, venne a sapere che il sovrano del suo pianeta, cercava nuove leve.
Si presentò alla reggia in un mattino d’inverno e il Comandante Gandal decise che poteva essere dei loro.
Divenne suo subordinato e partecipò alle prime invasioni del re per conquistare stelle e galassie.
Il vizio del bere era una costante; questo gli faceva perdere colpi, collezionare sconfitte e subire reprimende dai superiori. Mai si arrese, anzi, il suo odio si inasprì sempre di più fino al giorno in cui, dopo le innumerevoli sconfitte terrestri contro Goldrake e le reprimende dei superiori, gonfio di rabbia e di tutto l’alcol dell’universo, in mezzo al cielo si battè contro Goldrake in uno scontro kamikaze e lì finì la sua vita.

Fritz: quando e in che circostanze, è nato il figlio di Zuril?

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Il pianeta Zuul era famoso per le ricerche scientifiche, gli atenei universitari, la tecnologia moderna e avanzata. Molti erano gli scienziati stranieri che si recavano lì per perfezionare i loro studi.
In questa fiorente stella era nato Zuril, quello che poi sarebbe divenuto il Ministro delle Scienze a servizio di re Vega.
Frequentava l’università con molta passione; si laureò in pochi anni, quindi si iscrisse subito ad un’altra facoltà e in contemporanea ad un numero indefinito di master.

Era da poco sbocciata la primavera, quando una mattina, una giovane di nome Lin si avvicinò timidamente sulla porta dove si tenevano i corsi universitari.
Era di bassa estrazione sociale, e a malapena aveva finito le scuole dell’obbligo. La sua famiglia l’aveva subito mandata a lavorare come domestica presso famiglie benestanti.
Quel giorno, il suo turno di lavoro era finito prima del previsto e, vista la bella giornata, aveva deciso di fare una lunga passeggiata senza seguire una meta precisa.
L’imponente palazzo dell’università, così massiccio e severo le fu di fronte; dal portone accostato si intravedeva un chiostro col giardino. Lei era entrata a piccoli passi, incantata da quelle sculture arabeggianti, dalle colonne di marmo e dai fiori appena sbocciati dentro grandi olle.
Trasalì all’improvviso udendo i passi affrettati degli studenti che si apprestavano a uscire.
Un gruppo di giovani ben vestiti e dall’aria ricercata le passarono davanti, ma uno di loro si fermò vicino a lei. Dapprima la fissò a lungo senza parlare, poi le tese la mano e si presentò.
“Piacere, signorina, mi chiamo Zuril. E’ una nuova studentessa? Non l’avevo mai notata prima.”
Lei si alzò imbarazzata lisciando le pieghe del vestito, poi gli tese la mano.
“Mi chiamo Lin e non sono una studentessa… passavo di qui per caso” gli rispose mentre scostava i lunghi capelli ramati dalla fronte.
Aveva due grandi occhi color ruggine, il colorito di un verde molto pallido.
Lui sorrise e indugiò ad osservarla, perché la trovava splendida.
“Io per oggi ho finito i corsi, tu hai impegni?” le chiese fissandola.
“Devo essere a casa prima di sera, ma non…”
Prima che Lin potesse terminare la frase, lui l’aveva già presa sottobraccio e condotta verso la periferia della città dove aveva parcheggiato la sua navetta.
“Sali, ti mostrerò luoghi incantevoli.”

Nello squallido e trasandato monolocale di periferia, Lin allattava il piccolo Fritz di appena due mesi.
La sua mente tornava di continuo al ricordo di quell’incontro fugace con Zuril, brillantissimo universitario e grande amatore dai modi suadenti e diretti.
Quando lei aveva accettato di salire sul suo disco, mai avrebbe immaginato cosa l’aspettava e di come la sua vita monotona e insulsa sarebbe cambiata.
Con fare cavalleresco le aveva aperto lo sportello e poi si era messo alla guida, dimostrando una grande abilità da pilota esperto.
In meno di un’ora, erano arrivati dalla parte opposta della costellazione. Lin era rimasta a bocca spalancata dallo stupore: i pianeti luccicavano come brillanti e abbagliavano la vista. Era tutto meraviglioso, fiabesco e romantico: non aveva mai visto nulla di più bello.
Zuril l’aveva invitata a scendere e, nell’istante in cui lei aveva teso la mano per toccare il terreno che sembrava fatto di marmo, l’aveva baciata con passione.
Lin non era stata capace di sottrarsi a quell’impeto passionale, perché era ciò che desiderava con tutta sé stessa. Si lasciò andare senza remore né sensi di colpa; si sentiva viva e donna per la prima volta.
Tornò a casa a notte inoltrata: aprì l’uscio senza fare rumore, sembrava che i genitori non si fossero accorti della sua prolungata assenza.
Quando la luce dell’alba entrò dalla finestra dell’angusta e squallida cameretta, sentì che il passato non le apparteneva più, lei era totalmente cambiata in quelle poche ore. La monotonia della vita, la sua casa, il lavoro quotidiano erano un insulto a quanto aveva assaporato il giorno prima accanto a quell’uomo così colto e affascinante che sentiva di amare con tutta sé stessa.
Nei giorni successivi si era recata nei pressi dell’università per incontrarsi ancora con Zuril. Lo vedeva uscire dal portone in gran fretta insieme ad un gruppo di studenti; la degnava di un saluto veloce perché era molto impegnato con gli studi, le diceva.
“Devo specializzarmi in fretta, Lin, ora ho poco tempo per te, ma presto tutto sarà diverso”, spiegava di sfuggita accelerando il passo.
Lei lo guardava con occhi lucidi e si sforzava di credergli. Ogni giorno sperava in un suo cenno, una lettera o una telefonata.
Quando la ragazza si accorse di essere incinta, venne presa dal panico. Cosa avrebbe fatto? Doveva subito parlarne con lui, quindi di buon mattino si recò al bar vicino all’università e lo aspettò: sapeva che ogni giorno si fermava lì prima delle lezioni.
Appena Zuril entrò nel locale, si accorse subito di Lin. Provò un moto di fastidio, ma lei gli andò incontro.
“Devo parlarti subito, è qualcosa di molto importante” gli disse con voce decisa.
“Ora non è possibile, questa mattina ho un importante esame scritto da sostenere e…”
“No!” gridò lei afferrandolo per la manica.
Qualcuno alzò gli occhi dal giornale incuriosito dalla scena che si stava svolgendo, altri ascoltavano facendo finta di nulla.
“Non c’è tempo… aspetto un bambino” sussurrò lei abbassando lo sguardo.
La osservò senza espressione, poi la prese per il gomito e la guidò verso l’uscita.
“Ne sei sicura?” le chiese una volta fuori.
“Sì” gli rispose con semplicità.
“Bene. Per ora non possiamo pensare a sposarci, ma ti prometto che provvederò a tutte le necessità: le tue e quelle del bambino.”
“Ma cosa racconto ai miei? Non capisci che non posso tornare da loro in queste condizioni e senza una promessa di matrimonio…”
“Non dirai nulla a casa. Andrai ad abitare in un posto che ti indicherò io e quando avrò un lavoro stabile ci sposeremo. Ai tuoi genitori puoi sempre dire che hai trovato servizio a tempo pieno presso una famiglia benestante e che ti stabilirai da loro.”
Lin non gli rispose, aveva un groppo in gola e gli occhi gonfi di lacrime, ma non aveva scelta.
Lui tirò fuori un biglietto con sopra un indirizzo e un numero civico: era quello di un palazzo fuori città e lì possedeva un piccolo appartamento.
“La chiave è in portineria, devi mostrare questo foglio e ti daranno tutto. Ogni volta che avrò tempo sarò da te” le disse sbrigativamente. Poi guardò l’ora: era tardi, la sessione d’esame stava iniziando. Se ne andò quasi correndo e lei rimase a lungo sul marciapiede, incapace di muoversi e di pensare.

Il piccolo Fritz, ormai sazio si addormentò e Lin lo pose delicatamente nella culla. Lo guardò con affetto, mentre l’apprensione circa l’incertezza della sua vita l’afferrò di nuovo stringendola in una morsa di dolore.
Si scosse all’improvviso, qualcuno aveva bussato alla porta.
Era la sua vicina, una signora di mezza età vedova da anni. I suoi due figli maschi si erano sposati ed erano andati ad abitare lontano. Quando aveva visto che quella giovane era andata ad abitare nel suo stesso pianerottolo era stata ben felice di avere una compagnia. Spesso si offriva di tenerle il bambino, così Lin poteva uscire per la spesa e svolgere qualche lavoro come domestica. Zuril le passava un piccolo mensile; la busta color avorio arrivava con precisione ogni primo lunedì del mese.
Non era molto, ma lei era da sempre abituata alle ristrettezze, quindi non le pesava.
Quello che invece non sopportava più era la sua incertezza circa il rapporto con quel giovane, il padre di Fritz. Non veniva mai a farle visita come promesso, aveva visto il figlio solo un paio di volte.

“Ciao, cara. Sono venuta a farti compagnia, vuoi? Se hai bisogno di uscire ci penso io al tuo piccolino.”
“Sì, devo fare alcune spese, ti ringrazio. Si è addormentato da poco e fino a stasera non deve più mangiare.”
Lin uscì svelta, e corse decisa nei pressi dell’università. Doveva subito affrontare Zuril, non si poteva più continuare così. Entrò nel cortile, sapeva che entro dieci minuti le lezioni finivano e lui sarebbe passato di lì per forza.
Poco dopo infatti, un gruppo di giovani uscì quasi correndo. Lei si alzò lentamente ed entrò nell’atrio avvolto nella penombra. In un angolo, Zuril e una ragazza bellissima dai lunghi capelli biondi e ricci, si scambiavano effusioni e parole sussurrate. Riconobbe subito il modo suadente che aveva anche con lei, i modi gentili e accattivanti: emanava un fascino irresistibile, quel fascino torbido e pericoloso che l’aveva da subito conquistata.
Per alcuni istanti ebbe l’impressione che il suo cuore si fosse arrestato. Rimase pietrificata ad osservarli ancora, fino a quando si allontanarono a piccoli passi.
Lin uscì dal palazzo incapace di formulare un pensiero compiuto. Salì sulla prima nave pubblica senza guardare la destinazione.
Per tutto il viaggio rimase con gli occhi incollati sul vetro e quando riconobbe lo stesso fiabesco paesaggio dove un giorno era stata felice, scese a quella fermata.
Camminò a lungo su quel marmo come in una trance di sogno, rivedendo con gli occhi della mente il suo amato e non si fermò mai, finchè il vuoto cosmico la inghiottì.

Fritz crebbe per alcuni anni accanto al padre, il quale gli ripeteva di continuo che mai doveva piangere e aveva l’obbligo di essere coraggioso.
Non si sentì mai del tutto accettato e sempre gli mancò la presenza materna.
Quando fu più grande, per dimostrargli che era diventato il figlio che voleva, si scontrò nel cielo contro Goldrake, nonostante Zuril, via radio, gli supplicasse di non farlo, di tornare da lui.
Finì la sua vita da eroe, e con finalmente la prova e la certezza che il padre l’amava davvero.

Rigel: perché ha la passione per gli UFO?

3_47

Arizona. Grand Canyon, paesaggi incantevoli, natura incontaminata e clima arido. Pianure sterminate e catene montuose.
All’estrema periferia di Mesa, aveva abitato Rigel fino a quando la figlia maggiore Venusia, aveva all’incirca dieci anni. Si era trasferito in Giappone dopo che il suo vecchio amico, il dottor Procton, era andato a fargli visita e, tra un sorso di cognac e una boccata di fumo, gli aveva proposto di andare ad abitare da lui.
“Ho costruito un grande e moderno laboratorio: lì vicino c’è un ranch immenso, molto più ampio e di certo prospero di questo dove abiti.”
Sulle prime, Rigel non era stato molto persuaso: Venusia era nata e vissuta in America, poi sua moglie stava per avere un altro bambino.
Diede un’occhiata fuori dalla sua abitazione: in effetti quella fattoria versava in condizioni pietose e non c’era spazio per allevare altro bestiame. I guadagni erano scarsi e il fatto che la sua famiglia crescesse, era per lui fonte di gioia e tormento insieme.
“Non so, ci devo pensare. Però se quel ranch è come dici tu, si tratterebbe di un vero affare.”

Rigel si alzò un momento e con occhio critico osservò il cortile sterrato, la staccionata di legno consunto, lo spazio limitato. Più in là, sua moglie innaffiava alcune piante, poi, col passo reso pesante dalla prossima ed evidente maternità, era entrata in casa.
“Tra pochi mesi Venusia inizierà a frequentare le scuole medie inferiori e da qui alla città c’è un lungo e dispersivo viaggio in autobus.”
“E la qualità degli studi che ci sono in Giappone, non sono nemmeno paragonabili a questi”, aggiunse Procton con tono pratico e convincente.
Gli mostrò alcune istantanee che aveva con sé.
Un immenso e modernissimo edificio creato appositamente per un appassionato di astronomia quale era. Altre immagini raffiguravano prati verdi pieni di alberi, ruscelli, una natura lussureggiante.
La fattoria era enorme e bellissima: non mancava proprio nulla, bisognava solo trasferirsi e continuare lo stesso lavoro che Rigel e la sua famiglia avevano sempre svolto, solo che questo era più in grande, moderno, meno faticoso e più redditizio.
Quella sera, dopo una cena semplice e frugale, decisero di comune accordo che la soluzione più conveniente per tutti era di trasferirsi in Giappone.

Prima di mezzanotte, il ranchero uscì per chiudere bene la stalla. Aveva con sé una lampada e quando ormai stava per tornare verso casa, ci fu qualcosa di insolito che catturò la sua attenzione.
In un angolo dove era ammucchiata la paglia, una piccola figura verde mela, che di certo non doveva essere più alta di un metro, si muoveva e gesticolava. Sulla sommità del capo esibiva due antenne e aveva occhi piccoli e tondi.
Rigel rimase a fissarlo pietrificato. Non aveva mai visto niente di simile, era sorpreso ma non impaurito e, man mano che i secondi passavano, iniziò a provare curiosità.
Le antenne di quello che doveva per forza di cose essere un alieno si mossero e, dopo alcuni istanti, i due stabilirono un contatto telepatico.
Trascorsero lunghi minuti di “scambi di vedute”, poi il piccolo alieno scomparve nel nulla.


Rigel, Rigel
lui agli UFO ci sorride
Rigel, Rigel
grida al cielo “Dai venite!”
La fattoria Betulla Bianca
vive serena perchè
è una famiglia
di gente onesta
che grilli in testa non ha.


“Papà scendi! Vieni a darci una mano, la vuoi smettere con quegli ufo? Tutte scuse per non fare niente! Mizar! Fa qualcosa, digli anche tu di scendere!”

Sono bei figli Venusia e Mizar
Rigel è il loro papà
ara la terra il grano verrà
ma un'astronave è là.
Batte le mani
si accende si esalta
e nella pelle non sta
“Extraterrestri - lui grida - venite!”
“Rigel vi aspetta, sta qua”.


Rigel di tutti è amico però
però di Vega, oh no
tagliamo il grano, il pane verrà
ma l'astronave è là.
Rigel, Rigel
lui agli UFO ci sorride
Rigel, Rigel
grida al cielo “Dai venite!”

La fattoria Betulla Bianca
vive serena perchè
si vive in pace
si ama e lavora
e lo spreco di un'ora non c'è.


“Vieni subito ad aiutarci, è dall’alba che io e Actarus facciamo anche il tuo lavoro.”
“Lascialo stare Venusia, in fondo si diverte, qui ci sarebbe d’impaccio.”
“Dici?”

Sono bei figli Venusia e Mizar
Rigel è il loro papà
cade la neve Natale è già qua
ma un'astronave è là.
Batte le mani
si scalda e si esalta
e nella pelle non sta
il comitato è pronto vi aspetta
una gran festa farà.


Evviva gli UFO evviva però
sono di Vega, oh no
sempre la Terra in pace starà
ma un'astronave è qua.


Rigel di tutti è amico però
però di Vega, oh no
tagliamo il grano, il pane verrà
ma l'astronave è là.



Quando la famiglia Makiba si trasferì definitivamente in Giappone e andò ad abitare e lavorare al ranch Betulla Bianca, la prima cosa che Rigel pretese dal caro vecchio amico Procton, fu di avere un’altissima torre munita di un potente telescopio. Il tutto doveva essere collocato proprio adiacente alla fattoria.
Non disse mai a nessuno di quel suo breve incontro col piccolo alieno, e tenne per sempre custodito nel suo cuore quanto gli aveva comunicato telepaticamente.

Ci sono tanti mondi oltre al tuo pianeta Terra… tanti meravigliosi pianeti abitati… desidero esserti amico e un giorno venirti a trovare insieme ad altri come me. Aspettami, vedrai cose meravigliose, ti porterò sulla mia nave a visitare stelle sconosciute. Non dimenticarti mai di me.





DISCLAIMER
Le parti in corsivo sono il testo della canzone sotto descritta:

TITOLO: Rigel
CANTANTE: Actarus
AUTORE: Fabio Concato
DURATA: 3'12
ANNO: 1978




FINE

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ORIZZONTI

1_286

Quando videro avvicinarsi i due splendidi esemplari purosangue appena acquistati da Rigel, Venusia e Mizar rimasero senza fiato.
Entrambi stesso fulvo colore, la testa ben modellata, il collo lungo e asciutto, la pelle sottile e morbida, i due magnifici cavalli differivano solo in altezza.
Il loro mantello era lucido, liscio e vigoroso, la lunga criniera scura sembrava accendersi dei colori simili a certi tramonti estivi.
Mizar fu il primo ad andare verso di loro, entusiasta come non mai.
“Voglio cavalcarlo subito! Andiamo a fare un lungo giro per la prateria?” chiese il ragazzo al padre.
“No, meglio di no. Sono appena arrivati, devono ancora ambientarsi e siccome sono in viaggio da molte ore, devono per forza avere fame e sete” concluse Rigel.
Entrambi si avviarono verso le stalle per provvedere in tutto e per tutto ai nuovi arrivati.

Venusia era rimasta in disparte. All’improvviso si era sentita estranea e indifferente a tutto ciò che era intorno a lei. Il suo sguardo si era velato di nostalgia, malinconia, voglia di essere diversa, sapere di più, la mente vagava altrove, vedeva luoghi conosciuti e non, la fantasia la portava lontano, sempre più lontano…

Era diventata improvvisamente una donna, il mondo le aveva aperto le porte, ma non tutto era come lei se lo aspettava. Com’era difficile essere sé stesse, ma lei non avrebbe mai rinnegato ciò che era, non importava quanta sofferenza avrebbe dovuto sopportare, sarebbe diventata fedele a sè stessa.

Non sono nato sulla Terra, la mia patria è il pianeta Fleed.


Ah! E solo ora glielo diceva. Dopo quasi due anni di duro lavoro fianco a fianco, aveva deciso di rivelarsi in quel frangente. In una frazione di secondo aveva rivisto tutti i momenti della sua vita, come succede in punto di morte. E davvero, in quel giorno aveva rischiato di morire per ben due volte, ma lui l’aveva salvata.
E più tardi, di fronte ad un languido tramonto dolce come l’infanzia, il puledro disperso e poi ritrovato in mezzo a loro, lei aveva capito ogni cosa. Lui non sapeva come dirglielo, perché era sicuro che l’avrebbe persa… e se non le avesse detto la verità, lei lo avrebbe di certo lasciato. Ora toccava lei rassicurarlo che tutto era a posto.
“Adesso capisco perché ogni tanto scomparivi dalla fattoria. Actarus, tu sei il difensore della Terra.”
“Sono felice che tu mi comprenda, Venusia, ma il mio nome non è Actarus, è Duke Fleed.”
“A me piace Actarus è così che ti ho conosciuto e sarai sempre Actarus per me.”
“Come vuoi tu.”

Non era riuscita a bearsi in pieno di quella prima vittoria, perchè subito dopo aver dato consistenza a quell’idea di donna, quasi inconsciamente, aveva capito che le mancava qualcosa, qualcosa che la completasse.
Fu così che si accorse di essere ancora sola, comprese che la ricerca dell’anima gemella non poteva bastarle.
Con un’energia e una grinta che non sapeva di avere, si buttò con ancora più impeto negli allenamenti di atletica leggera, decisa a vincere, a superare sé stessa. Alcuni mesi dopo vinse la gara nazionale a Tokio, ed ebbe la soddisfazione di vedere la sua immagine in prima pagina su alcuni importanti quotidiani.
Ora che aveva trovato sé stessa, nella sua mente andò sempre più sbiadendo l’immagine vera e reale di quella ragazza dalla lunga chioma verde, piovuta dal cielo un giorno di fine inverno. Sono l’ex fidanzata di Duke Fleed le aveva detto, aggiungendo poi: lo amo più di te.
Era sparita come una meteora, ma per alcuni giorni, Venusia aveva temuto che lui preferisse Naida a lei. Non era così, e nelle settimane successive ebbe delle prove che dimostravano il contrario. Lui le aveva confidato molte cose del suo passato davanti al rosso di un tramonto o sul balcone ad ammirare il cielo notturno, tenendosi per mano.

D’un tratto ricordò tutte quelle favole che l’avevano fatta sognare nei giorni dell’infanzia, ma adesso il tempo di sognare era finito, voleva vivere e nella mente rimbombava una sola frase: “E vissero per sempre felici e contenti.”
Era vero quel lieto fine che imperava nell’ultima pagina dei libri di favole? Chi le assicurava che La Bella Addormentata, Cenerentola, Biancaneve, Pelle d’asino, avrebbero davvero vissuto felici e contente con i loro principi azzurri? Quanto sarebbe durata quella felicità?
Sapeva di essere diventa una donna e nonostante la nostalgia per quella che era stata, non avrebbe mai rinnegato quella che era diventata, doveva solo scoprire il suo nuovo obiettivo e andare avanti. Sapeva che i ricordi, per quanto importanti, non bastavano per affrontare il mondo, anche le favole della sua infanzia vivevano in quei ricordi, ma ora i suoi occhi le vedevano in modo del tutto diverso.
Lei non avrebbe mai potuto essere la protagonista di una di quelle favole, lei non avrebbe atteso di essere salvata da un ipotetico principe, no!
Di una cosa era certa, non voleva qualcuno che la trascinasse sulle sue orme, né che la spingesse sul sentiero che lui aveva scelto, voleva qualcuno con cui affrontare il mondo. Con questo pensiero si addentrò di più in quel mondo che già le aveva spalancato le porte e che l’aveva accolta sola e forse indifesa, ma che l’avrebbe vista camminare mano nella mano con quello che magari non sarebbe stato il principe azzurro, ma l’uomo che lei aveva scelto e che la avrebbe resa felice ogni giorno della sua vita.
La guerra intergalattica si inaspriva ogni giorno di più e lei non poteva più limitarsi a guardare il recinto del ranch, mungere le capre, sbrigare le faccende domestiche fingendo che tutto andasse bene. Doveva diventare parte attiva del conflitto, entrare in guerra e difendere la sua famiglia, la sua casa, il suo pianeta.
Non sarebbe stato semplice imparare a pilotare un disco come quello di Alcor ad esempio, ancor più difficile convincere Actarus di questa sua intenzione, ma lei voleva farcela ad ogni costo.
“Ci riuscirò” disse ad alta voce, fissando il cielo azzurro e senza nuvole “Non ci sono principi azzurri e ragazze di campagna, ma solo un uomo e una donna che si amano l'un l'altro e lottano contro il destino nel mantenere in vita i loro sentimenti.”

Il mio fiore sei tu

Primavera inoltrata, fiori multicolori, la fresca brezza portatrice di profumi e ricordi.
La stagione degli amori, quelli ancora in boccio e altri che non temono il passare del tempo, ma si rinvigoriscono in questa stagione di rinascita e bellezza senza eguali.
Ci sono anche fiori che si spengono per sempre, recisi da una crudele guerra che non conosce la pietà. Come Rubina, la figlia di Vega, morta nel fiore degli anni, quando la vita ti tende le braccia cariche di sogni e promesse.
In quell’alba di aprile, aveva pronunciato le sue ultime parole.

Rubina: Duke, la base delle Forze Alleate di Vega si trova dall’altra parte della Luna.
Duke Fleed: Perché dici a me una cosa simile?
Rubina: Perché volevo che mi credessi almeno tu.
Duke Fleed: Sono venuto così proprio perché ti credo, lo sai, Rubina?
Rubina: Sì.
Rubina: Duke, voglio chiederti una cosa.
Duke Fleed: Che cosa?

Rubina: Quando tornerà il verde nel pianeta Fleed, il primo fiore rosso che sboccerà, puoi chiamarlo Rubina?
Duke Fleed: Il fiore rosso?
Rubina: Sì, quello sarò io e ogni volta che viene la primavera, sboccerò e tornerò da te.
Duke Fleed: No, non devi morire! Torniamo insieme al pianeta Fleed! Torniamoci insieme!
Rubina: Duke, io non morirò. Diventerò un fiore rosso, e starò sempre vicino a te.


E per alcuni giorni, Venusia aveva sempre avuto queste frasi nella mente, non era stata capace di pensare ad altro, perché le sentiva ancora esattamente come quando erano state pronunciate.
Lui non era più suo, anche se la principessa ormai non c’era più. Questo le era chiaro come il sole del mattino. Così pensava con mestizia, mentre con la mano scostava lievemente la tenda della finestra che dava sul prato. Rimaneva il più possibile nella sua stanza e non parlava quasi con nessuno. Rivedeva quei momenti, lui aveva sofferto tanto per la morte di Rubina. Era voluto rimanere solo, mentre lei, Alcor e Maria erano tornati alla base coi loro dischi.
Il dolore che Venusia sentiva nel cuore era male fisico, ed era così intenso da non riuscire a versare nemmeno una lacrima.
D’un tratto si scosse e pensò di mettersi in ordine, cambiarsi d’abito, anche se non ne aveva voglia. Lentamente aprì l’anta dell’armadio, quando ad un tratto i suoi grandi occhi castani si dilatarono per lo stupore, perché avevano visto che dentro un piccolo vaso di cristallo, c’era un bellissimo fiore rosso vivo, freschissimo e profumato, ed era stato messo in mezzo al tavolo rotondo della sua toeletta.
Che strano. Nessuno era entrato lì da giorni, ne era sicura. La lieve tenda mossa dal vento primaverile arrivò ad accarezzarle il viso, e provò una gioia assurda quanto inaspettata.
Pochi istanti dopo, una mano calda e virile si univa alla sua, mentre con l’altra mano le infilava un fiore tra i capelli. Un fiore uguale all’altro. Lui l’attirò a sé e le disse qualche parola all’orecchio e lei si abbandonò senza paura né riserve.

Quando le ultime luci del giorno lasciarono il posto ad una notte stellata e senza luna, Venusia già sapeva tutto ciò che era avvenuto su Fleed.

“Il mio fiore sei tu”, le aveva detto infine Actarus, fissandola negli occhi.
E nelle ore che erano seguite, lei aveva capito che il suo passato, il fidanzamento con la principessa di Vega, non era stato nulla che avesse avuto a che fare con l’amore. E nel buio, le sue lacrime di gioia e sollievo, bagnarono come rugiada, quel fiore rosso e profumato.


FINE

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MARCHIO DI QUALITA’

1_287

Manuale della Qualità
Base lunare Skarmoon

Organigramma
Presidenza: Re Vega
Segretario Generale: Ministro Zuril
Ufficio di Controllo: Comandante Gandal
Organismo Indipendente di Valutazione: Lady Gandal
Sistema Informativo: Generale Hydargos
Logistica: Magazziniere Generale Aris
Segreteria: Sua Altezza Principessa Rubina

Politica per la qualità

Conquistare il pianeta Terra e tutte le galassie dell’universo con minima spesa e massima rendita.
Coesione sociale e sostegno ai più deboli e ai dipendenti dall’alcol.
Miglioramento della “qualità della vita”: ridare vita e vigore al pianeta Vega dopo esplosione per inquinamento-vegatron.
Innovazione del sistema locale: cambiare in modo radicale l’arredamento alla base lunare. Giardini pensili con rose e fiori, arbusti e siepi.
Potenziamento della mobilità e del sistema viabile: niente formazioni di minidischi, tanto vengono sempre abbattuti.
Promozione dello sviluppo del territorio: far capire a tutti, con le buone o con le cattive che i padroni dell’universo sono i veghiani.
Ascolto del territorio e dei suoi attori istituzionali, economici, sociali e dei cittadini: sono solo dei sudditi. Zitti e mosca!
Sviluppo di relazioni esterne: terra bruciata degli abitanti di tutte le stelle e galassie.

Al fine di sostenere il Sistema di Gestione per la Qualità e la Politica per la Qualità dell’organizzazione, la Direzione ha nominato un Responsabile Gestione Qualità per la definizione ed implementazione del sistema secondo le prescrizioni della norma UNI EN ISO 9001, utilizzando gli indicatori di performance più appropriati.
Elenco macroprocessi: eliminare le mezze calzette e con quali sistemi.
Elenco servizi: quanti servizi igienici conta, la base lunare?

Procedure Gestionali
Gestione della Documentazione e delle Registrazioni: mostri in attivo, in giacenza, in deperimento.
Gestione Non Conformità e Reclami: solo il Re ha diritto a fare reclami.
Azioni Correttive e Preventive: buttare nella fornace ardente i traditori, i festaioli, i mangia pane a tradimento.
Gestione Approvvigionamenti e Fornitori: vegatron, acciaio, lega, super lega.
Gestione Progettazione: quando e come si fabbricano mostri e minidischi.
Pianificazione Strategica: quando e come attaccare.
Visite Ispettive Interne: Esame col Certificatore di Qualità!


Da molti mesi, alla base lunare Skarmoon c’era un gran fermento. Dopo una lunga serie di fallimenti e ingenti spese nel tentativo di conquistare la Terra, i veghiani avevano deciso che bisognava cambiare tattica. Ma come?
Il ministro Zuril, al ritorno da un lungo viaggio di ricognizione, aveva avuto modo di constatare che molte attività aziendali sparse nella galassia, avevano acquisito il Marchio di Qualità.
Deciso a saperne di più sull’argomento, si era iscritto al sito e studiato il tutto nei minimi particolari. Ben presto, la situazione generale gli era stata molto chiara: se speravano di tornare in pista forti e vincenti, dovevano subito darsi una regolata. Le spese superflue per costruire mostri di scarto, la bassa qualità di molte formazioni di minidischi, personale in esubero e altro; erano costi inutili e andavano eliminati. Occorreva una vera e propria messa a punto di tutto il sistema se volevano essere i conquistatori numero uno.
Re Vega non era stato subito d’accordo.
“Ma che qualità? Noi siamo i più agguerriti dell’universo e basta. Andiamo avanti come sempre e conquisteremo tutto ciò che vogliamo.”
Zuril se lo aspettava, quindi gli mostrò i punti deboli del loro sistema e perché le loro armi belliche venivano sistematicamente sconfitte dai terrestri.
“Mi sono permesso di far venire qui oggi stesso un certificatore esperto, il quale ci seguirà passo passo fino al giorno dell’esame, anzi, della Visita Ispettiva.”
“Della cosa??!” domandò il sire strabuzzando gli occhi.
“Visita Ispettiva. Se saremo conformi ci verrà dato il Marchio di Qualità, altrimenti torneranno dopo alcuni mesi per vedere su tutto è a posto”, gli rispose lo scienziato.
Prima che il sire avanzasse altre obiezioni, tirò fuori dal cassetto alcune dispense.
Gandal apparve nel vano della porta per annunciare che l’Ispettore era già arrivato.
Re Vega si rese conto che i suoi sudditi avevano fatto progetti senza consultarlo e questo lo mandava in bestia. Al tempo stesso, non poteva negare che c’era davvero bisogno di mettere a posto molte cose.
Mentre rimuginava tra sé, ecco apparire nella sala di comando un uomo di mezza età, brizzolato e dall’aspetto distinto e severo. Si avvicinò al re e gli porse la mano, poi si accomodò sulla poltrona vicina alla scrivania e, come fosse a casa sua, tirò fuori dalla borsa un grande quaderno, biro multicolori e dei fascicoli.
“Buongiorno” disse non appena si fu accomodato.
“Benvenuto…” balbettò re Vega sentendosi molto a disagio.
In meno di mezz’ora, il dottor Koshimo aveva stilato una lunga lista di cose urgenti da fare, definito il ruolo degli addetti ai lavori, poi aveva preteso di vedere il magazzino.
“Qui c’è troppo materiale di scarto e i suoi operai sono allo sbando” sentenziò in tono diretto.
“Coosaaa??!”
“Maestà, lei per primo deve darsi una regolata, altrimenti come pensa di mandare avanti il suo impero?”
“Una cosa? Ma regolata di che? Sono io il re, sono io che dò gli ordini, io comando, posso e voglio!!!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
L’Ispettore non fece una piega, si rivolse invece a Zuril: “La segretaria dove la trovo?”
“Ehm… è a casa, ma possiamo contattarla in video chiamata, venite nel mio studio.”
Zuril digitò alcuni numeri sulla tastiera del computer e, pochi secondi dopo, apparve nel monitor una graziosa ragazza dai lunghi capelli rossi.
“Buongiorno, signorina, come va? C’è qui l’Ispettore della Qualità e ha bisogno di lei” le disse lo scienziato in tono serio e professionale.
La principessa Rubina strabuzzò gli occhi. Che cosa stava dicendo quel cretino? Quale ispettore?
“Ecco qua la nostra segretaria, dottore. E’ efficientissima, bravissima, una vera perla, glielo garantisco io”, gli disse con un sorriso affettato.
“La perla rara, ha finito di battere a macchina il Manuale della Qualità e le Procedure Gestionali?” chiese il dottore con tono di sufficienza senza guardarla, mentre intanto sfogliava i fogli sparsi sulla scrivania, leccandosi il dito ogni volta.
“Di cosa state parlando? Chi è quell’uomo e cosa vuole?”
L’uomo si era un attimo allontanato per riprendere la sua borsa, quindi Zuril ne approfittò per spiegare brevemente la situazione.”
“… voi siete la segretaria e dovete venire qui a scrivere, poi essere presente il giorno dell’esame” sussurrava lui in fretta e sottovoce.
“La segretaria di che? Tu hai bevuto, sei fuori come un balcone” gli rispose arrabbiatissima.

Segretaria? Scrivere a macchina? Manuale? Procedure? Erano tutti impazziti in quella base?
Il dottor Koshimo intanto, si stava congedando sulla porta.
“Torno la prossima settimana e mi aspetto che tutto sia a posto.”

Rimasti soli, il ministro spiegò a Rubina i dettagli della Qualità e che c’era bisogno della sua presenza.
“Siamo messi male, troppe sconfitte e perdite ingenti. Mi sono reso conto che l’unica strada per riprendersi, sia mettere a punto ogni cosa e per fare questo occorre l’aiuto di un esperto.”
“Ma… ma… io non voglio scrivere, perché non lo fa quella scansafatiche di Lady Gandal, piuttosto?”
“La signora ha già il suo ruolo.”
“Quale? La stura lavandini?” ribattè lei con tono feroce e un fondo di sarcasmo.
“Organismo Indipendente di Valutazione” le rispose scandendo bene le sillabe, mentre le mostrava il foglio dove c’erano scritte le funzioni di ognuno.
“A domani mia cara e fate sogni d’oro” le disse mellifluo, mentre tosto interrompeva la comunicazione.

Il giorno dopo, una Rubina rassegnata prendeva il volo verso Skarmoon.
Ancora non aveva parcheggiata la navetta nel vasto piazzale della base lunare, che già vedeva dai vetri dell’edificio, due grandi zampe verde brillante agitarsi e farle cenno di sbrigarsi.
“Ma che vuole? E chi si crede di essere? Non comanda mica lui!” borbottò tra sé piuttosto scontenta.
Appena ebbe varcato l’ingresso, Gandal e consorte erano sulla soglia pronti a riceverla.
“Ha fatto buon viaggio, Altezza?” chiese il Comandante con premura.
Lei tirò dritto senza rispondere, ma non ebbe nemmeno il tempo di sistemare il bagaglio nella sua stanza, che Zuril le passò davanti uscendo improvvisamente dallo studio.
“Buondì! Pronta per consumare le dita sulla tastiera?” l’apostrofò con un largo e ironico sorriso.
“Credi di essere simpatico?”
“Non so, non è un problema. Se anche non sono un campione di simpatia, l’Ispettore per questo non ha titolo di mettermi una non conformità.”
“Fosse per me ti metterei dentro un missile con viaggio di sola andata” lo sfidò fissandolo bene in faccia.
“Ohh, vedo che la signorina si è svegliata con una o più lune per traverso. Non c’è problema, perché tutte quelle dispense che vedi sulla scrivania vanno messe in bella copia, poi ne devono essere stampate almeno un centinaio. Domande?”
“No! Esci, sparisci una dannata volta!” gridò lei, chiudendo la porta dello studio con un calcio ben assestato.
Rassegnata, si mise davanti al computer e iniziò a trascrivere tutti quei fogli pieni di svolazzi e scarabocchi spesso quasi incomprensibili. Non aveva voglia di chiedere aiuto a nessuno, quindi fece come meglio potè; se anche c’erano errori di battitura si sarebbe comunque potuto intervenire.
Verso il tramonto, la ragazza decise che ora venuto il momento di fermarsi. Non aveva finito, ma non ne poteva più. Aveva fame e vedeva tutto appannato.
Si ritirò nella sua stanza: premette un pulsante e si fece servire la cena in camera. Non aveva voglia di vedere né salutare nessuno. Ancora non le era ben chiara quella storia della certificazione di qualità e non sopportava i modi di comando che Zuril si era permesso con lei.
“Adesso ho solo voglia di riposare, ma domani lo faccio capire a tutti che la principessa sono io! E se non capiscono con le buone, userò il pugno di ferro!” pensò spegnendo la luce.

Si svegliò di buon mattino fresca e riposata. Appena si fu vestita, andò dritta negli appartamenti di suo padre. Il giorno prima si erano visti un attimo di sfuggita, ma adesso voleva parlare con lui per capire ogni cosa.
Nel corridoio vide passare alcuni operai addetti al reparto magazzino: erano tutti con la divisa grigia e camminavano a passo di marcia. Che strano. Mai viste uniformi del genere.
Nella grande Sala del Trono, re Vega stava conversando con Gandal e consorte. Zuril entrò dalla porta laterale e teneva in mano una scatola che mise sotto gli occhi del sovrano.
“Guardi bene maestà: questo è il campionario delle medagliette in oro a forma di Q.”
“Mmm…” borbottò di malumore “e quanto ci costeranno?”
“Mi sono fatto fare un preventivo e diciamo che ne occorreranno oltre un centinaio, quindi a fare bene, l’orefice mi ha detto…”
Si chinò verso l’orecchio di Vega e sottovoce gli disse l’importo.
“Ma come? E’ troppo! In questo momento non possiamo, lo sapete bene anche voi.”
“E’ un investimento” gli rispose con calma imperturbabile.
Il re divenne molto serio, mentre confuso prendeva in mano quei piccoli gioielli e li soppesava.
“Ohhh, Sua Altezza si è alzata di buon mattino. Buongiorno cara, avete riposato bene? Avete lavorato troppo ieri? Vi siete stancata? Dopo mi mostrerete il lavoro svolto” le disse guardandola con sguardo lascivo.
Rubina lo incenerì con lo sguardo e non gli rispose. Si accomodò sulla poltrona di velluto e attese di rimanere sola col padre.
“Cara, ben alzata! Tutto bene?” le chiese con premura.
“Sì, però ecco… io… volevo sapere…”
“Andiamo nello studio, così mettiamo a punto ogni cosa. Hai scritto l’Organigramma? L’Ispettore della Qualità ci farà delle domande a tutti. Dobbiamo studiare bene i nostri compiti. Tu sei la Segreteria Operativa, sono fiero di te!”
“Veramente io non ho ancora capito cosa…” balbettò la giovane alquanto spiazzata.
Re Vega l’accompagnò nella stanza vicina e aprì l’anta di un armadio a muro.
“Ecco qui l’abito giusto per il tuo ruolo. Ti piace? Provalo ora.”
Un grigio e severo abito a giacca stava appeso ad una gruccia. Rubina lo guardò con ripugnanza. Ma perché tutti avevano l’aria di sapere le cose senza spiegarle fino in fondo, perché le davano ordini?
Il re non si avvide della sua espressione triste, ma la guidò fino alla porta dello studio dove lei il giorno prima si era consumata la vista a furia di scrivere.
Zuril stava già esaminando i fogli tutto assorto e con cipiglio severo.
“Qui non hai messo la virgola, manca il punto 3, non si capisce il mio ruolo, ci sono errori di battitura” diceva senza guardarla.
“Solo per questi sbagli ci becchiamo almeno una non conformità. Sai cos’è, vero?” riprese fissandola.
“Zuril, mia figlia è qui per fare insieme il punto della situazione.”
“Questo è il minimo. Ah, ecco l’abito da segretaria, provalo subito. Dopo ti sistemo anche l’acconciatura.”
“Ma io…” mormorò lei sentendo un nodo alla gola.
Tuttavia, pur di non sentire altri rimproveri, prese quel brutto vestito e andò a provarlo.
“Perfetta! I capelli vanno raccolti in modo sobrio e completiamo il tutto con questi occhiali” affermò lo scienziato. Nel dirlo, estrasse da una scatola un paio lenti da miope e senza tanti complimenti li posò sopra gli occhi della ragazza.
“Anche la forma è importante. Visto come gli operai sono vestiti bene? Tutto organizzato da me, naturalmente” diceva Zuril senza ombra di modestia.

In capo a una settimana i lavori per ottenere il tanto sospirato marchio di qualità erano terminati.
La Visita Ispettiva era stata decisa. Il mattino successivo, alla base lunare, due ispettori avrebbero esaminato ogni particolare e deciso per la promozione o il rinvio.
Per tutti quei giorni Rubina aveva taciuto e fatto secondo le indicazioni, ma solo perché sapeva che quel momento presto sarebbe finito. Sembrava che il padrone fosse Zuril: correva da un punto all’altro della base come una saetta, non si stancava mai, controllava ogni particolare. Osservava suo padre, ma non vedeva in lui ombra di malcontento. Possibile che accadesse tutto ciò? Anche Gandal e signora erano su di giri, si sentivano importanti e davano ordini a destra e a manca.

Il pomeriggio del giorno prima dell’esame erano tutti e quattro davanti al computer per leggere l’email che riportava la data, l’orario, i nomi dei due ispettori. Erano un uomo e una donna.
Incuriositi, cercarono qualche foto sparsa in rete. La dottoressa si chiamava Blumarine e dal suo profilo si vedeva una giovane donna dalla folta chioma amaranto, i lineamenti delicati.
Il dottor Nivalis era un bell’uomo dall’aria sana e sportiva. Capelli a spazzola e sorriso accattivante.
I cuori dei veghiani respirarono sollevati. Zuril subito pensava come circuire la ragazza e invitarla a cena, mentre Rubina già fantasticava su quel dottore tanto affascinante.
Andarono a dormire contenti; avevano fatto del loro meglio e non sarebbero mancate soddisfazioni… di molti generi. Così pensarono prima di sprofondare nel sonno ristoratore.

Alle sette del giorno dopo erano già tutti in piedi, vestiti, lavati e profumati.
Rubina si era rassegnata a quel vestito da signora di mezza età, ma sotto la giacca portava solo due gocce di profumo e non aveva allacciato tutti i bottoni.
I coniugi Gandal avevano fatto peeling, pedicure e manicure. I chilometrici piedi di Gandal avevano le lunghe dita divise da cotone idrofilo. “Così lo smalto viene meglio, altrimenti si sbava tutto” asseriva la donna, limando bene le unghie delle mani.
Zuril aveva fatto un lungo bagno con acqua di colonia. Si era messo un abito nuovo, di gran taglio e gran classe. Verde come la sua epidermide, ma dai toni sfumati.
Re Vega era davvero un re in tutti i sensi. Lungo e ampissimo mantello scarlatto adornato di ermellino pregiatissimo. La corona aveva tutti i gioielli della casa reale; scettro in mano e cipiglio severo.

Verso le nove sentirono aumentare l’agitazione. Da un momento all’altro sarebbero arrivati i due certificatori e chissà se tutto ciò che avevano fatto era conforme.
Batticuore, sudori freddi, fine tremore per tutto il corpo si erano impadroniti di loro; almeno fossero arrivati subito, così forse la tensione si sarebbe placata.

Un quarto d’ora dopo, dalla grande vetrata videro una navetta atterrare nel piazzale della base.
Ognuno andò al proprio posto: Re Vega nella poltrona reale dello studio, Zuril ai comandi del computer, Rubina sulla soglia della porta, mentre Gandal e signora uscirono per riceverli con tutti gli ossequi.
Il Manuale della Qualità e il fascicolo delle Procedure Gestionali facevano bella mostra sul tavolo. Rubina li fissava con orgoglio; era stata lei a scrivere tutta quella roba, e benchè agli inizi avesse provato fastidio e insofferenza nel portare a termine quel compito, ora si sentiva diversa, il suo nuovo e insolito ruolo aveva finito per piacerle. Stava accarezzando l’idea di improntare quel sistema su Rubi, di certo le avrebbe procurato un mare di vantaggi positivi.
Zuril già sbavava all’idea del nuovo mostro fiammante DOC! Nella sua fertile immaginazione se lo figurava altissimo, rosso fiammante e con una grande Q sulla testa.
Tremate terrestri, tremate… la vostra ora è arrivata… siamo noi i padroni.
Re Vega era gonfio e tronfio come un tacchino ripieno. Avidità, cupidigia e smania di possesso invadevano la sua persona e lievitavano dentro il suo animo come una torta nel forno.
Gandal e la sua dolce metà stavano ognuno ai lati del portone d’ingresso. Erano seri e molto compresi nella parte, ci tenevano a fare una splendida figura.
Video due ombre delinearsi a terra e avanzare. Con timore alzarono lo sguardo all’unisono e come videro quei personaggi, per poco non stramazzarono a terra per lo spavento.
Un uomo altissimo, con occhi spiritati e per di più strabici li fissava. Capelli a raggiera molto voluminosi dalle punte variopinte. La lingua spuntava fuori dalla bocca sul lato sinistro, mentre un unico e grosso dente era appeso alla gengiva in alto. Avanzava coi lunghi piedi camminando a papera.
I due Gandal non si erano ancora ripresi dallo shock, che videro al seguito di quell’essere una donna bassa e larga, ricordava una poltrona marrone di cuoio. Occhiali da miope e i capelli multicolori a causa di tinture sovrapposte. Mani e piedi rosa molto corti, una vocetta di zanzara che chiedeva: “E’ questa la base Skarmoon?”
Il Comandante Gandal si riprese per primo, quindi li scortò fino alla porta dello studio.
Quando i presenti li videro, pensarono: Aiuto, i mostri, i mostri!
Fecero appello a tutto il loro self control, ma riuscirono a malapena a biascicare un buongiorno appena udibile.
“Buongiorno!” dissero i due in coro e ad alta voce.
“La Visita Ispettiva inizia ora e termina a mezzogiorno. Per prima cosa mostrateci i fascicoli.”
Con mani tremanti, Rubina porse loro i due libri.
L’uomo iniziò a sfogliarli umettandosi il dito ogni volta con la saliva.
“Prima non conformità: manca il numero del Manuale” poi, dopo aver letto altre pagine, alzò gli occhi verso la giovane e le chiese: “E’ lei la Segreteria Operativa?”
“S… sì…”
“Ha fatto degli errori, non è idonea al suo ruolo.”
“Anche l’abbigliamento non è idoneo: una segretaria deve avere un look molto più casto”, aggiunse quell’orribile donna con severità.

Intanto, tutti si chiedevano che ci facevano lì quei disgustosi personaggi, quando dalla ricerca fatta in rete, erano risultati due ispettori di ben diverso aspetto.
“La signorina ha fatto un buonissimo lavoro ispettore, credo che se lei legge meglio vedrà che…” balbettò Zuril sentendosi per la prima volta fuori posto e imbarazzato.
“Mi mostri il lavoro in magazzino” gli ordinò l’uomo.
“Prego, da questa parte.”
I soldati stavano tutti sull’attenti e sfoggiavano la divisa nuova. Gli addetti alla fabbricazione minidischi vennero interrogati uno per uno e sul notes vennero scritti i voti.

“Ancora non abbiamo parlato col Presidente, facciamolo ora”, decisero i due esaminatori.
“Gli operai non hanno risposto a tutte le domande, la maggior parte non è idonea e ci sono troppi scarti durante la produzione” dissero i due arroganti a Zuril lungo il tragitto che li portava alla Sala del Trono.
“E ciò significa una cosa sola: che lei, in qualità di Segretario Generale non li ha seguiti a dovere. Due non conformità! La Logistica, in arte Aris, non ha il magazzino aggiornato. Bocciato!”
Lo scienziato stava fremendo di rabbia mista a senso di ingiustizia e non sapeva cosa dire.
Da una porta laterale uscì Lady Gandal mentre teneva in mano un vassoio con sopra alcune tazzine di caffè.
“Prego, volete favorire?” chiese tutta mielosa.
“Lei non è forse l’Organismo Indipendente di Valutazione?” le chiese quella poltrona semovente.
“S… sì, perché?”
“Non ha valutato un bel niente, quindi si becca subito una non conformità!”
Da dietro, la donna le fece una lingua chilometrica per la rabbia. Gandal aggiunse anche un paio di corna, ma prima ancora che rimettesse le dita al suo posto, l’esaminatore gli chiese dov’era l’addetto al Sistema Informativo.
“Leggo che si chiama Hydargos. Dove trovo questo personaggio, di grazia? Essendo lei il responsabile dell’Ufficio di Controllo deve per forza saperlo.”
“E’ in cantina.”
“Prego?” chiese l’ispettore strabuzzando quei terribili occhi strabici e sporgenti.
“In c-a-n-t-i-n-a- Ha capito?”
“E per fare cosa?”
“Per bere, ubriacarsi e dimenticare” spiegò Lady Gandal tutta inviperita.
“Bocciato e cancellato dal registro” annotò la donna-poltrona.

Finalmente il lungo corridoio finì e si trovarono di fronte al sovrano. Rubina stava in una piccola sedia posta in un angolo, occhi a terra, tutta confusa e dispiaciuta.
Vega si alzò e mostrò ai due ispettori la scatola con le Q in oro zecchino che gli erano costate un occhio.
“Accomodatevi, prego. Sono certo che la nostra organizzazione vi avrà entusiasmato, ci siamo così impegnati che per forza ci meritiamo il Marchio Qualità. Ho già fatto preparare le spille in oro, e se mi permettete, voglio che siate i primi ad aver l’onore di questo piccolo omaggio.”
Così dicendo, il sovrano estrasse dalla scatola due Q e le porse a quei due arroganti e disgustosi personaggi.
“Ne faccia a meno! Questa inutile spesa poteva risparmiarsela, dato che da quanto abbiamo esaminato, si evince che non navigate certo nell’oro, non siete conformi a nulla, quindi il marchio di qualità ve lo sognate!” setenziò quell’orribile donna, mentre il collega afferrava la valigetta e s’incamminava verso l’uscita.
“Noi ce ne andiamo” disse ai presenti una volta sulla soglia “se vi impegnate seriamente, fra un paio di anni forse ce la farete, ma non ci giurerei. Quello che ho visto oggi, mi ha fatto capire che ancora non ne avete un’idea. Nessuno di voi ha capito niente, nemmeno lei maestà. Addio!”
A grandi e veloci passi arrivò alla navetta; la sua collega invece, con quei piccoli e grassi piedi camminava piano e a fatica.

I veghiani erano davvero a terra e senza parole. Mai avrebbero creduto di non essere promossi. Quello che non sopportavano era il modo spiazzante e antipatico con cui erano stati trattati da quei personaggi.
“Sono dei mostri!” gridò Rubina alzatasi e scaraventando la sedia a terra con rabbia.
“Non capiscono niente!” aggiunse Zuril.
“E chi dice che davvero siano qualificati?” insinuò Gandal.
“Io so solo una cosa” mormorò il sire meditando.
“Cosa?” chiesero tutti in coro.
“Che sono dei mostri. Capite cosa intendo?”
A quelle parole del re, i visi dei presenti si illuminarono tutti all’unisono.
“E allora che mostri siano! Usiamoli come mostri!” gridò Zuril.

Detto e fatto. La donna-poltrona ancora arrancava per uscire, mentre il collega già aveva acceso il motore della nave per partire.
Tutti e quattro - cinque con Lady Gandal che si era dissociata dal consorte – corsero verso di loro, li agguantarono in men che non si dica, poi chiamarono il capo reparto perché portasse un carrello elevatore.
In pochi minuti, i due ispettori, impacchettati come salami, giacevano nel reparto “Fabbricazione mostri contro i terrestri.”

“Ce l’abbiamo fatta” disse Zuril.
“Entro domani il mostro da lanciare contro Goldrake dovrebbe essere pronto.”
“Bene, sono sicuro che non se l’aspettano” gli rispose Gandal strizzandogli l’occhio.
“Questo no! Vorrei vedere la faccia di Procton quando nel monitor gli appariranno le facce di quei due!” esclamò ridendo la consorte.
“Quando mai si sono visti arrivare un mostro DOC?” concluse re Vega stappando una bottiglia.


FINE

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CORRISPONDENZA

1_288

Come ogni mattina, per prima cosa il comandante Hydargos leggeva la posta a lui destinata.
Ancora abbastanza sobrio in quell’ora, si sedeva alla scrivania, accendeva il computer per entrare nella sua casella di posta elettronica: [email protected], poi digitava la password: lacantinasemprepiena.
Quel giorno si avvide che la prima email, segnata come importante tra l’altro, era del suo sovrano:
[email protected]
Rabbrividì in tutto il corpo avvertendo sentore di seri guai in arrivo.

Infatti…

Il guerriero Gorman, guardia imperiale con stemma a forma di stella sul disco, verrà al tuo posto per distruggere Goldrake. Sarà alla base lunare prima di mezzogiorno…

“Non è possibile!” gridò battendo un pugno sul tavolo.
“Quella è un’arma imbattibile, io finirò nell’ultima fila dell’esercito, sono rovinato!” gridò tenendosi il capo tra le mani in preda alla disperazione più nera.
In quel mentre entrò Gandal.
Ecco, ci mancava pure l’altro guastafeste pensò Hydargos accarezzando l’idea di tracannare una bottiglia di cognac e finirla in frantumi sul quel cranio turchino. Una volta aperto, la sua dolce metà sarebbe uscita sputando ordini e sentenze con voce stridula trapanatimpani.
“No, no… non resisto più in questo incubo senza fine” mormorò mentre dava fondo ad un calice colmo di liquido ambrato.
“Tutta colpa di quel dannato Goldrake, maledizione!” gridò spaccando il vetro in preda ad una rabbia feroce.
“Ben alzato Hydargos” lo apostrofò il Comandante ostentando superiorità, mentre il suo sguardo restava vacuo e privo di intelligenza. Almeno così sembrava a Hydargos, godendo perfidamente dell’ottusità vera o presunta di Gandal.
Troppo intelligente non è se re Vega ha deciso di inviare un comandante che non fa parte del nostro esercito concluse il pensiero, sentendosi un filo più sollevato.
“Sono pronti i moduli?” gli chiese il suo superiore.
“Di cosa parli?”
“Sta parlando delle dispense con l’elenco in ordine alfabetico dei soldati” sottolineò la cattiveria fatta donna: Lady Gandal, di rosso vestita, uscita dal cranio del coniuge in meno di un battito di ciglio, molto sveglia già di primo mattino e perfida come mai. Nello sguardo, nella voce, nei modi, in tutto il suo essere.
Hydargos provò l’istinto irrefrenabile di allungare la sua grande mano, afferrarla prima che lei avesse tempo di rientrare. Strangolarla, buttarla giù per il lavandino, vederla sparire nelle fogne.
Bello, meraviglioso sarebbe pensò, mentre un sorriso inconsapevole gli allargava il viso.
Odiava quella donna con tutto il suo essere.

“Dai fogli che vedo sul tavolo, deduco non hai fatto nulla e nemmeno te lo sei ricordato” sottolineò Gandal.
“E dall’odore di alcol si evince che già ti sei scolato una bottiglia”, aggiunse la cattiveria fatta donna riuscendosi a farsi sentire senza uscire.
Tra un rimprovero e un’imprecazione le ore passarono veloci, era ormai prossimo mezzogiorno, quando un uomo alto e ben piantato dalla carnagione turchese entrò senza farsi annunciare nella sala principale della base lunare.
Aveva un sorriso perennemente stampato sul viso: arrogante, altero e superbo, totalmente sicuro di sè. In una parola: era semplicemente odioso.
Gandal e Hydargos lo avevano fatto accomodare indicandogli la poltrona più comoda, chiesto se aveva fatto buon viaggio e se aveva sete o bisogno di altro.
“Sono a posto così, grazie. Pronto per la mia missione vincente! Sconfiggerò Goldrake e il merito sarà tutto mio!” gridò battendosi il petto con orgoglio.

Su Rubi, la principessa Rubina da sempre seguiva la corrispondenza della base Skarmoon. Controllava che fosse stata letta, si assicurava che tutto filasse in perfetto ordine, dava sue notizie.
Quel mattino, un Hydargos non perfettamente lucido, aveva per errore inviato anche a lei la lettera di re Vega, quella che parlava di Gorman.
Strabuzzando i grandi occhi celesti, aveva visto che volevano uccidere il suo ex fidanzato.
“Goldrake… ma allora è vivo, qui dice che verrà distrutto, quindi anche il suo pilota. Ohhhh” si portò la mano sulla bocca per soffocare un grido, poi decise che doveva salvarlo. Ma come?

“Non conosco il suo indirizzo di casa, ma se anche l’avessi la mia lettera arriverebbe troppo tardi. Non ho il suo numero di telefono, accidenti!
Quale sarà la sua email? Vediamo… un principe… voglio cercare su internet, forse la trovo” pensò la giovane in preda allo sconforto.
“Allora… qui vedo: [email protected]. Sarà certamente questa. Devo avvertirlo del pericolo e in fretta.”
La ragazza entrò nella sua casella di posta elettronica: [email protected] e rapida digitò la password che da tempo remoto era rimasta sempre uguale: sempreinnamoratadite.

Sono la principessa Rubina e da poco ho saputo che mio padre sta per inviare sulla Terra un mostro potentissimo, ti prego di stare attento, è molto forte. Desidero incontrarti, così a combattere saremo in due. E intanto che siamo in argomento, ti chiedo una cosa: se ci rimane del tempo, facciamo un’altra gita in barca su un lago terrestre come avvenne molti anni fa sul tuo pianeta?
Ciao, Duke. A presto. Il tuo fiore rosso.


“Dottor Procton, dal mio computer vedo che è stata inviata una email per Actarus” disse Hayashi preoccupato.
“Strano” mormorò il dottore. “E’ difficile che qualcuno gli scriva, chi è il mittente? Ora lo avverto via radio.”

Al ranch il lavoro era raddoppiato. Rigel non faceva nulla, tranne l’osservatore avvista UFO.
“Sì padre, che c’è?” chiese il ragazzo all’orologio che teneva al polso.
“Una email per te… vieni a vedere?”
Actarus osservò i covoni di fieno che andavano riposti nelle stalle prima di sera, toccava tutto a lui perché Venusia era uscita a fare compere, quindi disse che la poteva leggere il dottore.
“Va bene, se non hai niente in contrario. La tua password?”
“sonostufodicombattere!!!!!”

Il dottore aprì la lettera, decise che non c’era tempo da perdere, quindi mandò a chiamare Actarus.
“Leggi qui. Strana email davvero; questa Rubina manda un avvertimento, ma potrebbe essere una trappola. Chi la conosce? Quello che non si capisce, è la frase sul lago, la barca…” osservò Procton perplesso lisciandosi i baffi.

“Ehm… si tratta di cose vecchie e decrepite. Le rispondo subito.”

Cara Rubina,
grazie dell’avvertimento. Non occorre assolutamente che tu scenda sulla Terra per aiutarmi, ho armi potenti in quantità. Per la gita sul lago niente; siamo in autunno e fiori rossi non ce ne sono. Stai a casa tua che è meglio.


“Ora dobbiamo raddoppiare la sorveglianza. Questo nuovo disco mostro potrebbe arrivare da un momento all’altro.”
“Col mio TFO tutti i nemici voleranno lontano, li farò pentire io di essere venuti fin qui!” tuonò Alcor fremente e vendicativo.
Il dottore si schiarì un attimo la voce, mentre cercava le parole giuste per non offendere il ragazzo e allo stesso tempo metterlo in guardia. Conosceva la sua irruenza e generosità, ma il coraggio andava usato al modo giusto, non come faceva lui.
“Alcor, il nemico va affrontato con metodo e sangue freddo. Ognuno deve scendere in campo quando lo dirò io. Ok? Niente colpi di testa, siamo intesi?”
“Quando lo vedrò in faccia lo ridurrò in polpette!” esclamò il ragazzo sempre più euforico.

Procton scosse il capo con lo sguardo fisso a terra; Alcor era proprio di coccio, non c’era niente da fare.

Su Skarmoon intanto, il comandante Gorman era salito sul suo disco mostro e puntava come una freccia verso il pianeta Terra.
Hydargos era furibondo. Quel pallone gonfiato di certo sarebbe riuscito nella sua impresa, mentre di lui cosa ne sarebbe stato?
Finirai come recluta nell’ultima fila dell’esercito, oppure in clinica per alcolizzati cronici.
Sentì questa frase molesta all’orecchio e aveva pure lo stesso timbro di voce di Lady Gandal, accidenti a lei!
“Devo trovare il sistema per bloccare quel dannato Gorman! Ma come?”
Febbrilmente si mise a cercare nel computer. Annaspava alla cieca, si soffermò a guardare vecchi mostri ormai ridotti a inutili rottami, formule, minidischi.
Entrò nella sua casella di posta elettronica per cercare un’idea, qualcosa che potesse fermare quel prepotente.
Nella rubrica vide l’indirizzo della principessa: era quello che tutti potevano usare se lei non era reperibile. Serviva per coordinare i viaggi, gli spostamenti e acquistare beni di prima necessità. La firma della figlia di Vega intimoriva molto di più della loro.
Restava inteso che, una volta spedita l’email, era d’obbligo mandarne una copia anche a lei.
“Allora, eccola qui: [email protected]. Password… dunque, com’è già? Ah, ci sono: sonobellaemenevanto.”

Hydargos era in preda ad una rabbia folle e la sua mente annebbiata dall’odio, dalla frustrazione e dall’alcol, gli fece venire un’idea malefica.”

“Ora scrivo a Gorman e lo sistemo per le feste, così impara” gongolò tra sé:
[email protected]


Egregio Comandante,
in qualità di Principessa di Vega, Le ordino di venire subito su Rubi per una questione della massima urgenza. Non posso mettere per iscritto nient’altro, ma Le assicuro che è in relazione con la Sua spedizione terrestre. Il nemico è potente, non possiamo permetterci errori di sorta.

Sua Altezza Rubina


Gorman volava nel cielo azzurro, quando il segnale lampeggiante lo distrasse dai suoi pensieri di gloria e l’obbligò a leggere la posta.
Rimase un attimo perplesso, poi cambiò decisamente rotta e puntò dritto verso Rubi. Gli ordini sono ordini, che diamine!

Rubina intanto aveva letto l’email del suo principe ed era molto triste.
“Non vuole il mio aiuto, e nemmeno fare la gita in barca. Me infelice!” mormorò, mentre due grosse lacrime le scendevano dagli occhi.
Era nella vasta sala del soggiorno e sconsolata guardava fuori.
Vide all’improvviso un grande disco con sopra uno stemma a forma di stella colore dell’oro parcheggiare nel piazzale del suo palazzo.
Uscì un uomo alto e imponente, dalla carnagione turchina. Le parve avesse un sorriso aperto e sincero. Scostò un attimo la tenda per guardare meglio.
Sentì bussare alla porta e lei stessa andò ad aprire. Era lui!

“Buongiorno, Altezza” disse con un inchino e perfetto baciamano.
“Sono venuto qui per…”
Lei lo fissò in viso e lo trovò bello. Si sentì rimescolare tutta dentro, gli strinse la mano con forza e lo fece entrare.
“Lo so per cosa sei venuto, ti stavo aspettando” gli sussurrò con voce roca e sensuale.
La delusione per il recente rifiuto di Duke Fleed la rendeva audace.
“Scusate principessa, ma… per quella questione, dove andiamo?”
“Nella mia stanza da letto, naturalmente”, gli rispose facendogli strada.
“Ah…” sussurrò basito. La osservò attentamente, trovandola semplicemente divina. Quella lieve espressione di dolore sul viso e gli occhi lucidi, gli provocarono uno strano rimescolio interno.
Lei aprì la porta e la prima cosa che vide fu un enorme letto a baldacchino che pareva fatto apposta per ospitare loro.

Scese la notte su Rubi, su Skarmoon e sulla Terra.
Nessun avvistamento di dischi nemici al Centro Ricerche di Procton.
Hydargos stappò una delle migliori bottiglie che teneva sotto chiave e la gustò tutta a piccoli sorsi.
Sobbalzò sulla poltrona alla vista del segnale lampeggiante che indicava le chiamate del suo sovrano.
“Buona sera maestà.”
“Notizie di Gorman?” chiese senza preamboli.
“Non so nulla. E’ partito in missione nel primo pomeriggio e non ha più dato notizie di sé.”
“Dannazione! Ma non risponde alle chiamate? Hai provato a contattarlo?”
“Sicuro! E’ probabile sia stato battuto dai terrestri.”
“Impossibile! Comunque dammi sue notizie appena sai qualcosa.”
“Ma certo. Buonanotte.”

Hydargos chiuse la comunicazione e si abbandonò alle più audaci fantasie. Gorman non sarebbe mai uscito vivo da Rubi, questo era certo. Non sapeva con esattezza in quale modo, ma di una cosa era più che sicuro: nessuno gli avrebbe mai tolto il suo posto.



FINE

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DIRE, FARE, BACIARE, LETTERA, TESTAMENTO

1_289

Che aria di vacanza si respirava su Vega in quei giorni! I nostri amici erano partiti per una località marina situata all’estremo sud del pianeta.
Mara cobalto, sabbia fine come seta, la creme de la creme nell’albergo a 5 stelle dove Re Vega e la figlia Rubina erano alloggiati.

Per Zuril, Hydargos, Gandal e signora, una pensioncina senza pretese nelle vicinanze con alle spalle una vecchia e incolta pineta; di fronte a loro, il mare dal fondale torbido e la riva piuttosto piena di rifiuti.
Ad ogni modo, era pur sempre una vacanza, il che significava niente sconfitte terrestri per almeno due settimane, nessun rimprovero da parte del sire, nuotate, divertimento e relax assicurati. Buon cibo e compagnie piacevoli per completare il tutto.

I tre sottoposti a Vega, dopo i primi giorni di euforia, di bagni ad ogni ora del giorno, sub, esplorazioni del territorio, fecero amicizia con alcuni vicini di ombrellone e con loro organizzarono partite a racchettone, bocce e gare di corsa a piedi.
Un pomeriggio decisero per un gioco di società che tutti loro avevano fatto fin da bambini.
Bisognava preparare un’alta montagna di sabbia e sulla cima porre un bastoncino. Uno alla volta dovevano scartare con la mano un poco di sabbia e chi faceva cadere il bastoncino perdeva.
Il primo a perdere fu Hydargos, quindi la prima penitenza era che lui avrebbe dovuto dire una frase decisa dagli altri a qualcuno.
“Accidentaccio! E adesso?”
“Adesso devi andare da quella signora con quei quattro bambini, li vedi?” chiese il suo vicino di ombrellone. “Le devi dire perché si mette un costume così brutto, non si è vista allo specchio?”
A piccoli passi, Hydargos si avvicinò alla donna e disse la frase tutta in un fiato a voce bassa mangiandosi le parole, così lei non capì quasi nulla e scappò via come avesse avuto le rotelle sotto i piedi.
Poi fu la volta di Gandal: doveva fare una corsa a perdifiato fino allo stabilimento del re scavalcando il recinto, anche se era proibito.
I suoi chilometrici piedoni blu corsero sollevando un gran polverone e con un balzo fu dall’altra parte. Con la stessa rapidità tornò indietro, mentre la guardia fischiava a più non possono intimandogli di fermarsi.
Anche a Lady Gandal toccò la penitenza: baciare il suo consorte con passione e voluttà. Ci provò molte volte, ma il risultato fu pressochè disastroso e inutile. Anzi, entrambi rischiarono di soffocare.

Zuril perse anche lui e la sua penitenza era quella di scrivere una lettera.
“Devi scrivere una lettera a Sua Altezza dicendole che l’ami alla follia”, sogghignò Gandal.
“E come gliela consegno?” domandò Zuril serafico.
“A mano, con un profondo inchino e perfetto baciamano” intervenne la signora Gandal.
“Ecco carta e penna. Devi anche firmare” disse Hydargos premurosamente sadico.
Il ministro scrisse quelle poche righe, mentre a piccoli passi si dirigeva verso lo stabilimento dov’era alloggiata la principessa.
La giovane era semi distesa su una chaise longue, il viso semicelato da occhiali a forma di farfalla, aria snob a tutto tondo, schizzinosa, espressione imbronciata e annoiata.
“Che è sta roba, sei scemo anche in vacanza? Non cambi e non ti smentisci mai vedo!” esclamò disgustata.
“E’ una penitenza… un gioco di società, sai com’è vero? Da bambina lo avrai fato anche tu, credo…”
“Esatto!” esclamò lei alzandosi ed esibendo un fisico mozzafiato fasciato in un costume scarlatto che mandò in visibilio Zuril.
“E se ben ricordo, dopo la lettera c’è il testamento e quello lo voglio fare io, se mi permetti.”
“Non penso di avere altra scelta” balbettò lui.
“Bene, ora lo scrivo nero su bianco.”

A mio padre, Re e Imperatore di tutte le galassie dell’universo.

Io, Sua Altezza Rubina, nel pieno delle sue facoltà mentali lascio questo testamento.
A Hydargos la cantina da pulire ogni giorno.

A Gandal rassettare la cucina e la sua signora rigovernare sempre i piatti.
Zuril… mmm… single a vita e lavorare sempre come super visore.


Pianeta Vega,
li, 10 agosto 1975


E quando la vacanza fu terminata, quelli furono per sempre i loro compiti.


FINE

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