COME, QUANDO E PERCHE’Hydargos: come ha preso il vizio di alzare il gomito?Il profondo Sud della stella Vega. Famiglie non troppo agiate e altre sull’orlo dell’indigenza. Molti figli e spazi angusti. La piaga del semi analfabetismo e il lavoro minorile al limite consentito.
Epidemie, scarsa assistenza sociale, furti e delitti impuniti erano situazioni abituali e quasi all’ordine del giorno. Ma per quanto gli abitanti fossero in difficoltà economica, nessuna famiglia era priva della domestica a mezzo tempo.
Si contentava di guadagnare quel tanto per mantenersi e, mentre cucinava, lavava i panni, stirava, sorvegliava i marmocchi, i padroni di casa uscivano all’alba per recarsi al lavoro e rientravano al tramonto.
In questa regione dal clima mite e piuttosto umido, molto ricca di prodotti vegetali e povera di materie preziose, era nato e vissuto Hydargos fino alla sua prima giovinezza.
La sua casa era fatta di fango e mattoni crudi. Un rudere abbandonato da decenni che, i due fidanzati avevano pensato di sistemare per renderlo abitabile e anche accogliente.
Aris e Ellie, quelli che poi divennero i genitori di Hydargos, non avevano dote, né un lavoro decente, ma si erano voluti sposare molto giovani, perché non sopportavano più di vivere pigiati come sardine dentro le loro rispettive e soffocanti famiglie.
Ellie era l’unica femmina nata dopo tre maschi e, fin dalla preadolescenza, aveva dovuto subire in un silenzio imposto dalle ipocrisie e dell’indifferenza, le molestie dello zio abitava in quella casa insieme alla bisnonna demente e un numero imprecisato di animali domestici e non, i quali, avevano libero accesso a tutte le stanze dell’abitazione.
I locali erano pochi ma ampi; nessuno aveva uno spazio proprio per vivere qualche momento da solo, mancavano i servizi igienici, l’acqua calda, chiazze di umidità si allargavano sul soffitto a vista d’occhio e le ragnatele si moltiplicavano di giorno in giorno senza che nessuno pensasse a rimuoverle, come pure spolverare, dipingere le pareti di chiaro, mettere allegri vasi di fiori sul balcone o piantare l’erba in quel rettangolo di terra fangosa in cui inciampavano sulla soglia di casa.
I suoi genitori badavano solo ai bisogni di prima necessità: mangiare, bere, dormire, avere un tetto sulla testa e studiare quel minimo indispensabile per non farsi fregare al mercato e distinguere la targhetta che indicava l’amido di mais, col disinfestante per gli insetti.
Per loro la vita era solo sopravvivenza: non avevano gusto per il bello, mangiare quello che c’era senza preoccuparsi di variare le pietanze. Per vestirsi andava bene qualunque cosa, purchè riparasse dal caldo o dal freddo. Vedere un film, ascoltare musica, leggere un buon libro, erano solo perdite di tempo e denaro, oltrechè inutile e dannose.
Ma Ellie era diversa e verso i sedici anni, la sua personalità esplose con prepotenza in tutte le sue forme. All’inizio dentro di sé, portandole un senso di insoddisfazione e un dolore sordo che non riusciva a reprimere.
Non sopportava più i muri grigi e tetri delle stanze, i denti della bisnonna dentro il bicchiere posto sulla mensola vicino allo scolapiatti, l’odore acre degli animali, non poter disporre di una stanza propria o, almeno, una tenda che dividesse il suo letto da quelli dei fratelli. Voleva studiare, uscire con le amiche e non subire mai più la mano molesta e ipocrita dello zio che la sfiorava ogni qualvolta erano soli.
Andava quasi ogni giorno a fare compere al mercato, e fu proprio lì che conobbe Aris.
Al posto del solito fruttivendolo di mezza età e coi denti radi e guasti, c’era un bel ragazzo bruno e gentile, dalla parlantina sciolta.
Nel porgerle il cesto che aveva riempito di frutta e verdura, le aveva tenuto la mano nelle sue per alcuni istanti, poi le aveva detto con premura: “E’ troppo pesante da portare a casa da sola, ti aiuto io.”
Lei si era schernita, imbarazzata e lusingata a un tempo: “No, ci sono abituata, poi tu sei al lavoro e…”
“Il mio turno finisce tra poco. Sono venuto oggi per alcune ore, dato che il titolare si è dovuto assentare. Ah, eccolo che arriva. Attendi ancora qualche minuto, per favore.”
Da lontano videro l’uomo che da sempre gestiva quel banco avanzare verso di loro. Sembrava un ippopotamo: camminava a fatica, inciampando ogni poco e il dente in mezzo alla bocca dondolante.
Vestiva male, il lungo grembiule verde toccava quasi a terra, ed era sempre sporco di fango.
Ellie l’aveva sempre visto così, fin quando, ancora bambina, accompagnava la madre a fare la spesa.
Ora che aveva visto quel ragazzo, tutto il rifiuto per quella vita che non le piaceva le salì fino alla gola provocandole un forte senso di nausea e soffocamento.
“Mi chiamo Aris, e tu?” le chiese il giovane tendendole la mano destra, mentre con l’altra aveva afferrato il pesante cesto.
Ellie trasalì, poi gli porse la mano e si presentò.
“Non è troppo pesante per te? Teniamo un manico per uno” propose lei.
“Ma che vuoi che sia? Faccio il traslocatore e nel tempo libero mi alleno coi pesi massimi” le rispose con semplicità.
Arrivano a casa di Ellie troppo presto: avevano parlato tutto il tragitto e ancora avevano tanto da raccontarsi.
Lei non lo invitò ad entrare: si vergognava della sua dimora e poi era tarda mattinata, non certo l’orario buono per ricevere ospiti.
“Domenica pomeriggio c’è la partita di pallacanestro, vieni?” le propose Aris.
“Hai i biglietti?”
“Certo, in prima fila” le rispose estraendoli dalla tasca.
“Ci sarò” gli disse con un sorriso radioso.
I due giovani cominciarono a frequentarsi e dopo alcuni mesi di conoscenza, già pensavano a costruire un futuro insieme.
Per le loro rispettive famiglie questo era un fatto del tutto normale, la logica conseguenza della vita. Non c’era l’usanza del corredo, né della dote; tutti i giovani fidanzati si arrangiavano da soli a procurarsi un alloggio e fare in modo di mettere insieme il pranzo con la cena; da quel momento in poi, i rapporti con la famiglia d’origine, in pratica si interrompevano o quasi.
Ellie e Aris avevano da tempo adocchiato un rudere abbandonato nei pressi di un piccolo ruscello attorniato dal verde. Quel che era rimasto della casa era fatiscente, ma si armarono di buona lena e in poche settimane la resero non solo abitabile, ma riuscirono a rendere quel luogo carino e romantico.
Dipinsero l’esterno di rosa chiaro, poi, il gestore di un negozio di carte da parati, regalò loro alcuni metri che erano gli avanzati e non servivano più a nessuno.
Con quelle carte a fiori, benchè tutte diverse tra loro, resero le stanze molto fresche e piacevoli.
Piantarono l’erba e alcuni fiori. Nei pressi del ruscello, la terra era adatta per la coltivazione dei tuberi.
Con entusiasmo si lanciarono in quell’impresa e ben presto furono in grado di vendere nei mercati alcuni prodotti.
Dopo due mesi di matrimonio Ellie si accorse di essere in dolce attesa. Aris le prese la mano e gliela baciò.
“Sono tanto felice, cara.”
“Anch’io.”
Nacque loro un maschio, che chiamarono Hydargos.
I due giovani sapevano che un bambino comportava molte spese, anche perché volevano per lui il meglio. Le cure adatte, abiti decorosi, istruzione completa: per tutte queste cose, la coltivazione in proprio degli ortaggi non poteva bastare.
Così Ellie, appena terminato lo svezzamento, andò a lavorare presso una fabbrica di tessuti, mentre Arsi si adattava a qualsiasi attività anche precaria, era in grado di trovare.
Assunsero una domestica a tempo pieno. Era stata appena licenziata da una coppia di anziani, i quali, data l’età e gli acciacchi, avevano deciso di trasferirsi in un pensionato.
Era una donna di mezza età, dalla pelle scura e con una grossa treccia nera in mezzo al capo. Aveva le gambe sempre gonfie e deformate dalle vene varicose; ai piedi portava delle enormi ciabatte e la bocca sempre in movimento per masticare qualcosa.
Arrivava al mattino presto, giusto in tempo per vedere i padroni uscire di casa.
“Mi raccomando il bambino, Marta. Deve mangiare agli orari stabiliti e fare il riposino ogni pomeriggio” le raccomandava Ellie con un filo di apprensione nella voce.
Lei annuiva col capo senza degnarsi di rispondere, mentre si avviava sul retro della casa con le braccia colme di panni da lavare.
Hydargos era un bambino piuttosto tranquillo ma, come tutti i neonati soffriva di coliche e a metà mattina iniziava a piangere e lamentarsi. I sui strilli si mescolavano alle vecchie canzoni che provenivano dalla radio sempre accesa, infastidendo Marta.
Il latte era forse non adatto a lui, ma la domestica si guardò bene di farne parola coi suoi padroni. Dalla tasca del grembiule estrasse una bottiglia di vino nero e spesso. Riempì il biberon con quello e lo diede al neonato. Dopo nemmeno mezz’ora, il pargolo era nel mondo dei sogni con la piccola bocca socchiusa, i piccoli pugni stretti e l’aria beata.
Così Marta non doveva più badare a lui, ma solo alle faccende domestiche.
Alcuni mesi dopo, Aris tornò a casa verso mezzogiorno. Gli avevano annullato il turno pomeridiano in qualità di magazziniere, si disse quindi che quella era l’occasione buona per stare con suo figlio.
Aprì la porta fischiettando, vide Marta che stirava i panni, mentre il piccolo, dentro la sua culla tracannava vino nero dal biberon.
Sulle prime Aris non realizzò nulla. Pensò che forse aveva dato al piccolo un succo di mirtillo, però doveva essere il pediatra a dire quando e come somministrare quella bevanda.
Si avvicinò al figlio con un sorriso, poi l’occhio gli cadde sulla bottiglia che era sul tavolo.
Capì subito di cosa si trattava: vino nero, quello forte e pesante che bevevano gli scaricatori di porto nelle bettole e dopo non erano più in grado di riconoscere la via di casa e uscivano con passo incerto e pesante.
“Marta!” urlò Aris.
Lei continuò a stirare e masticare tabacco.
“Marta! Che cosa hai dato al bambino?”
“Cosa?”
“Voglio sapere perché mio figlio beve quel liquido… non vorrai dirmi che si tratta di questo, vero?” le chiese porgendole la bottiglia.
“Certo! Si è sempre fatto così quando i bambini non dormono e si lamentano. Guardi che amore” aggiunge con sguardo carezzevole, dolce e materno.
Aris non ci vide più. Spaccò la bottiglia e buttò fuori dalla porta quella disgraziata.
“Sparisci e non ti azzardare a venire mai più qui, chiaro? Pazza, delinquente, omicida!” urlò al colmo della disperazione.
Chiuse la porta a chiave, poi crollò sulla sedia e si prese il capo tra le mani.
Come era potuto succedere questo? E perché lui e la moglie non si erano mai accorti di nulla?
Con passo cauto si avvicinò alla culla e vide che Hydargos aveva lasciato il biberon e si stava assopendo. Adesso bisognava portarlo da un dottore, sapere che conseguenze poteva portare l’aver fatto ingerire a un bambino di pochi mesi tutto quell’alcol.
“Come spiegherò tutto questo a Ellie?” si chiese angosciato.
Decise di far venire il pediatra a casa prima che la moglie tornasse dal lavoro.
Il dottore arrivò un’ora dopo e, dopo aver ascoltato con attenzione tutta la storia, lo visitò minuziosamente.
Alla fine, alzò lo sguardo verso Aris e disse con tono serio: “Non vedo gravi conseguenze nel suo fisico, e questo è un fatto già di per sé eccezionale. I danni dell’alcol sono spesso irreversibili, spesso portano al coma etilico. Suo figlio ha una tempra molto forte, per fortuna il dramma è stato scongiurato. Adesso deve bere molta acqua, succhi di frutta allungati e riposare. Se ci sono novità, non esiti a chiamarmi” gli disse congedandosi.
Aris tirò un sospiro di sollievo e decise di non dire nulla a Ellie, almeno per il momento.
Quando lei gli chiese perché Marta se ne era andata senza avvertire, lui accennò al fatto che non era brava nelle faccende domestiche e lasciava il bambino troppo solo.
“E’ meglio che ce ne occupiamo noi, Ellie. E’ ancora molto piccolo e ha bisogno di cure materne. In questi mesi sono riuscito a mettere via un po’ di soldi, quindi dico che puoi lasciare il tuo lavoro per stare con lui. Quando sarà cresciuto, ne riparleremo.”
Ellie guardò con riconoscenza il marito, poi, mentre tutto l’affetto materno traboccava dai suoi occhi, assentì col capo.
Passarono gli anni e venne per Hydargos il momento di andare a scuola.
I suoi genitori non lo avevano mandato alla materna, perché sembrava loro fosse un bambino non troppo socievole, riservato e non gli piaceva giocare con gli amici. Quando nelle feste di compleanno ne invitavano qualcuno, lui se ne stava in disparte silenzioso.
Ora, i genitori lo fissavano pieni di orgoglio, vedendolo così dritto e fiero dentro il grembiule blu e la cartella sulle spalle.
“Preferisco andare solo, mamma.” Lei era rimasta male sulle prime, ma poi si era detta che in fondo era un bambino molto più maturo della sua età, ed era normale il suo desiderio di indipendenza.
Del resto la scuola era a pochi isolati dalla loro dimora, quindi lo seguirono con lo sguardo, mentre si univa ad un gruppo di coetanei.
Aris e Ellie non sapevano nulla di lui, in realtà. Quel germe vizioso dell’alcol che gli era stato somministrato nei suoi primi mesi di vita, era stato fatale. Hydargos si attaccava di nascosto ai fondi delle bottiglie di vino che trovava, trangugiava gli avanzi nei bicchieri delle osterie e quando non c’era altro, beveva aceto o alcol purissimo. Nel suo animo era attecchito un odio feroce, un bisogno di fare del male a qualcuno, mentre un istinto omicida germogliava dentro di lui.
Finchè frequentò la scuola dell’obbligo, nulla di tutto questo fu palese agli altri.
Un giorno, quando da poco aveva compiuto diciassette anni, ebbe il permesso di uscire di sera con gli amici. Andarono in un locale da ballo e, per la prima volta, Hydargos vide sopra lo scaffale del banco adibito a bar, una lunga serie di bottiglie pieni di superalcolici.
Non resistette e chiese al barista un calice per ogni tipo.
“Non possiamo servire alcolici ai minorenni”, gli aveva detto l’uomo.
Il ragazzo gli assestò un pugno in testa, poi scavalcò il banco e prese tutto quello che voleva.
Vennero chiamate le forze dell’ordine, quindi Hydargos venne portato al Comando.
Quando vide che il poliziotto stava per comporre il numero di telefono per avvertire i suoi genitori, lui, con guizzo fulmineo uscì dalla porta e scappò lontanissimo.
Si imbarcò su una navetta pubblica e prese il volo per Vega nord est. Sapeva che cercavano giovani per arruolarli nell’esercito, quindi si presentò e, dopo un esame attitudinale, ebbe la possibilità di frequentare i corsi.
Non contattò mai più la sua famiglia, pensò solo a coltivare odio per il prossimo e distruggere.
Dopo anni di allenamenti durissimi, venne a sapere che il sovrano del suo pianeta, cercava nuove leve.
Si presentò alla reggia in un mattino d’inverno e il Comandante Gandal decise che poteva essere dei loro.
Divenne suo subordinato e partecipò alle prime invasioni del re per conquistare stelle e galassie.
Il vizio del bere era una costante; questo gli faceva perdere colpi, collezionare sconfitte e subire reprimende dai superiori. Mai si arrese, anzi, il suo odio si inasprì sempre di più fino al giorno in cui, dopo le innumerevoli sconfitte terrestri contro Goldrake e le reprimende dei superiori, gonfio di rabbia e di tutto l’alcol dell’universo, in mezzo al cielo si battè contro Goldrake in uno scontro kamikaze e lì finì la sua vita.
Fritz: quando e in che circostanze, è nato il figlio di Zuril?Il pianeta Zuul era famoso per le ricerche scientifiche, gli atenei universitari, la tecnologia moderna e avanzata. Molti erano gli scienziati stranieri che si recavano lì per perfezionare i loro studi.
In questa fiorente stella era nato Zuril, quello che poi sarebbe divenuto il Ministro delle Scienze a servizio di re Vega.
Frequentava l’università con molta passione; si laureò in pochi anni, quindi si iscrisse subito ad un’altra facoltà e in contemporanea ad un numero indefinito di master.
Era da poco sbocciata la primavera, quando una mattina, una giovane di nome Lin si avvicinò timidamente sulla porta dove si tenevano i corsi universitari.
Era di bassa estrazione sociale, e a malapena aveva finito le scuole dell’obbligo. La sua famiglia l’aveva subito mandata a lavorare come domestica presso famiglie benestanti.
Quel giorno, il suo turno di lavoro era finito prima del previsto e, vista la bella giornata, aveva deciso di fare una lunga passeggiata senza seguire una meta precisa.
L’imponente palazzo dell’università, così massiccio e severo le fu di fronte; dal portone accostato si intravedeva un chiostro col giardino. Lei era entrata a piccoli passi, incantata da quelle sculture arabeggianti, dalle colonne di marmo e dai fiori appena sbocciati dentro grandi olle.
Trasalì all’improvviso udendo i passi affrettati degli studenti che si apprestavano a uscire.
Un gruppo di giovani ben vestiti e dall’aria ricercata le passarono davanti, ma uno di loro si fermò vicino a lei. Dapprima la fissò a lungo senza parlare, poi le tese la mano e si presentò.
“Piacere, signorina, mi chiamo Zuril. E’ una nuova studentessa? Non l’avevo mai notata prima.”
Lei si alzò imbarazzata lisciando le pieghe del vestito, poi gli tese la mano.
“Mi chiamo Lin e non sono una studentessa… passavo di qui per caso” gli rispose mentre scostava i lunghi capelli ramati dalla fronte.
Aveva due grandi occhi color ruggine, il colorito di un verde molto pallido.
Lui sorrise e indugiò ad osservarla, perché la trovava splendida.
“Io per oggi ho finito i corsi, tu hai impegni?” le chiese fissandola.
“Devo essere a casa prima di sera, ma non…”
Prima che Lin potesse terminare la frase, lui l’aveva già presa sottobraccio e condotta verso la periferia della città dove aveva parcheggiato la sua navetta.
“Sali, ti mostrerò luoghi incantevoli.”
Nello squallido e trasandato monolocale di periferia, Lin allattava il piccolo Fritz di appena due mesi.
La sua mente tornava di continuo al ricordo di quell’incontro fugace con Zuril, brillantissimo universitario e grande amatore dai modi suadenti e diretti.
Quando lei aveva accettato di salire sul suo disco, mai avrebbe immaginato cosa l’aspettava e di come la sua vita monotona e insulsa sarebbe cambiata.
Con fare cavalleresco le aveva aperto lo sportello e poi si era messo alla guida, dimostrando una grande abilità da pilota esperto.
In meno di un’ora, erano arrivati dalla parte opposta della costellazione. Lin era rimasta a bocca spalancata dallo stupore: i pianeti luccicavano come brillanti e abbagliavano la vista. Era tutto meraviglioso, fiabesco e romantico: non aveva mai visto nulla di più bello.
Zuril l’aveva invitata a scendere e, nell’istante in cui lei aveva teso la mano per toccare il terreno che sembrava fatto di marmo, l’aveva baciata con passione.
Lin non era stata capace di sottrarsi a quell’impeto passionale, perché era ciò che desiderava con tutta sé stessa. Si lasciò andare senza remore né sensi di colpa; si sentiva viva e donna per la prima volta.
Tornò a casa a notte inoltrata: aprì l’uscio senza fare rumore, sembrava che i genitori non si fossero accorti della sua prolungata assenza.
Quando la luce dell’alba entrò dalla finestra dell’angusta e squallida cameretta, sentì che il passato non le apparteneva più, lei era totalmente cambiata in quelle poche ore. La monotonia della vita, la sua casa, il lavoro quotidiano erano un insulto a quanto aveva assaporato il giorno prima accanto a quell’uomo così colto e affascinante che sentiva di amare con tutta sé stessa.
Nei giorni successivi si era recata nei pressi dell’università per incontrarsi ancora con Zuril. Lo vedeva uscire dal portone in gran fretta insieme ad un gruppo di studenti; la degnava di un saluto veloce perché era molto impegnato con gli studi, le diceva.
“Devo specializzarmi in fretta, Lin, ora ho poco tempo per te, ma presto tutto sarà diverso”, spiegava di sfuggita accelerando il passo.
Lei lo guardava con occhi lucidi e si sforzava di credergli. Ogni giorno sperava in un suo cenno, una lettera o una telefonata.
Quando la ragazza si accorse di essere incinta, venne presa dal panico. Cosa avrebbe fatto? Doveva subito parlarne con lui, quindi di buon mattino si recò al bar vicino all’università e lo aspettò: sapeva che ogni giorno si fermava lì prima delle lezioni.
Appena Zuril entrò nel locale, si accorse subito di Lin. Provò un moto di fastidio, ma lei gli andò incontro.
“Devo parlarti subito, è qualcosa di molto importante” gli disse con voce decisa.
“Ora non è possibile, questa mattina ho un importante esame scritto da sostenere e…”
“No!” gridò lei afferrandolo per la manica.
Qualcuno alzò gli occhi dal giornale incuriosito dalla scena che si stava svolgendo, altri ascoltavano facendo finta di nulla.
“Non c’è tempo… aspetto un bambino” sussurrò lei abbassando lo sguardo.
La osservò senza espressione, poi la prese per il gomito e la guidò verso l’uscita.
“Ne sei sicura?” le chiese una volta fuori.
“Sì” gli rispose con semplicità.
“Bene. Per ora non possiamo pensare a sposarci, ma ti prometto che provvederò a tutte le necessità: le tue e quelle del bambino.”
“Ma cosa racconto ai miei? Non capisci che non posso tornare da loro in queste condizioni e senza una promessa di matrimonio…”
“Non dirai nulla a casa. Andrai ad abitare in un posto che ti indicherò io e quando avrò un lavoro stabile ci sposeremo. Ai tuoi genitori puoi sempre dire che hai trovato servizio a tempo pieno presso una famiglia benestante e che ti stabilirai da loro.”
Lin non gli rispose, aveva un groppo in gola e gli occhi gonfi di lacrime, ma non aveva scelta.
Lui tirò fuori un biglietto con sopra un indirizzo e un numero civico: era quello di un palazzo fuori città e lì possedeva un piccolo appartamento.
“La chiave è in portineria, devi mostrare questo foglio e ti daranno tutto. Ogni volta che avrò tempo sarò da te” le disse sbrigativamente. Poi guardò l’ora: era tardi, la sessione d’esame stava iniziando. Se ne andò quasi correndo e lei rimase a lungo sul marciapiede, incapace di muoversi e di pensare.
Il piccolo Fritz, ormai sazio si addormentò e Lin lo pose delicatamente nella culla. Lo guardò con affetto, mentre l’apprensione circa l’incertezza della sua vita l’afferrò di nuovo stringendola in una morsa di dolore.
Si scosse all’improvviso, qualcuno aveva bussato alla porta.
Era la sua vicina, una signora di mezza età vedova da anni. I suoi due figli maschi si erano sposati ed erano andati ad abitare lontano. Quando aveva visto che quella giovane era andata ad abitare nel suo stesso pianerottolo era stata ben felice di avere una compagnia. Spesso si offriva di tenerle il bambino, così Lin poteva uscire per la spesa e svolgere qualche lavoro come domestica. Zuril le passava un piccolo mensile; la busta color avorio arrivava con precisione ogni primo lunedì del mese.
Non era molto, ma lei era da sempre abituata alle ristrettezze, quindi non le pesava.
Quello che invece non sopportava più era la sua incertezza circa il rapporto con quel giovane, il padre di Fritz. Non veniva mai a farle visita come promesso, aveva visto il figlio solo un paio di volte.
“Ciao, cara. Sono venuta a farti compagnia, vuoi? Se hai bisogno di uscire ci penso io al tuo piccolino.”
“Sì, devo fare alcune spese, ti ringrazio. Si è addormentato da poco e fino a stasera non deve più mangiare.”
Lin uscì svelta, e corse decisa nei pressi dell’università. Doveva subito affrontare Zuril, non si poteva più continuare così. Entrò nel cortile, sapeva che entro dieci minuti le lezioni finivano e lui sarebbe passato di lì per forza.
Poco dopo infatti, un gruppo di giovani uscì quasi correndo. Lei si alzò lentamente ed entrò nell’atrio avvolto nella penombra. In un angolo, Zuril e una ragazza bellissima dai lunghi capelli biondi e ricci, si scambiavano effusioni e parole sussurrate. Riconobbe subito il modo suadente che aveva anche con lei, i modi gentili e accattivanti: emanava un fascino irresistibile, quel fascino torbido e pericoloso che l’aveva da subito conquistata.
Per alcuni istanti ebbe l’impressione che il suo cuore si fosse arrestato. Rimase pietrificata ad osservarli ancora, fino a quando si allontanarono a piccoli passi.
Lin uscì dal palazzo incapace di formulare un pensiero compiuto. Salì sulla prima nave pubblica senza guardare la destinazione.
Per tutto il viaggio rimase con gli occhi incollati sul vetro e quando riconobbe lo stesso fiabesco paesaggio dove un giorno era stata felice, scese a quella fermata.
Camminò a lungo su quel marmo come in una trance di sogno, rivedendo con gli occhi della mente il suo amato e non si fermò mai, finchè il vuoto cosmico la inghiottì.
Fritz crebbe per alcuni anni accanto al padre, il quale gli ripeteva di continuo che mai doveva piangere e aveva l’obbligo di essere coraggioso.
Non si sentì mai del tutto accettato e sempre gli mancò la presenza materna.
Quando fu più grande, per dimostrargli che era diventato il figlio che voleva, si scontrò nel cielo contro Goldrake, nonostante Zuril, via radio, gli supplicasse di non farlo, di tornare da lui.
Finì la sua vita da eroe, e con finalmente la prova e la certezza che il padre l’amava davvero.
Rigel: perché ha la passione per gli UFO?Arizona. Grand Canyon, paesaggi incantevoli, natura incontaminata e clima arido. Pianure sterminate e catene montuose.
All’estrema periferia di Mesa, aveva abitato Rigel fino a quando la figlia maggiore Venusia, aveva all’incirca dieci anni. Si era trasferito in Giappone dopo che il suo vecchio amico, il dottor Procton, era andato a fargli visita e, tra un sorso di cognac e una boccata di fumo, gli aveva proposto di andare ad abitare da lui.
“Ho costruito un grande e moderno laboratorio: lì vicino c’è un ranch immenso, molto più ampio e di certo prospero di questo dove abiti.”
Sulle prime, Rigel non era stato molto persuaso: Venusia era nata e vissuta in America, poi sua moglie stava per avere un altro bambino.
Diede un’occhiata fuori dalla sua abitazione: in effetti quella fattoria versava in condizioni pietose e non c’era spazio per allevare altro bestiame. I guadagni erano scarsi e il fatto che la sua famiglia crescesse, era per lui fonte di gioia e tormento insieme.
“Non so, ci devo pensare. Però se quel ranch è come dici tu, si tratterebbe di un vero affare.”
Rigel si alzò un momento e con occhio critico osservò il cortile sterrato, la staccionata di legno consunto, lo spazio limitato. Più in là, sua moglie innaffiava alcune piante, poi, col passo reso pesante dalla prossima ed evidente maternità, era entrata in casa.
“Tra pochi mesi Venusia inizierà a frequentare le scuole medie inferiori e da qui alla città c’è un lungo e dispersivo viaggio in autobus.”
“E la qualità degli studi che ci sono in Giappone, non sono nemmeno paragonabili a questi”, aggiunse Procton con tono pratico e convincente.
Gli mostrò alcune istantanee che aveva con sé.
Un immenso e modernissimo edificio creato appositamente per un appassionato di astronomia quale era. Altre immagini raffiguravano prati verdi pieni di alberi, ruscelli, una natura lussureggiante.
La fattoria era enorme e bellissima: non mancava proprio nulla, bisognava solo trasferirsi e continuare lo stesso lavoro che Rigel e la sua famiglia avevano sempre svolto, solo che questo era più in grande, moderno, meno faticoso e più redditizio.
Quella sera, dopo una cena semplice e frugale, decisero di comune accordo che la soluzione più conveniente per tutti era di trasferirsi in Giappone.
Prima di mezzanotte, il ranchero uscì per chiudere bene la stalla. Aveva con sé una lampada e quando ormai stava per tornare verso casa, ci fu qualcosa di insolito che catturò la sua attenzione.
In un angolo dove era ammucchiata la paglia, una piccola figura verde mela, che di certo non doveva essere più alta di un metro, si muoveva e gesticolava. Sulla sommità del capo esibiva due antenne e aveva occhi piccoli e tondi.
Rigel rimase a fissarlo pietrificato. Non aveva mai visto niente di simile, era sorpreso ma non impaurito e, man mano che i secondi passavano, iniziò a provare curiosità.
Le antenne di quello che doveva per forza di cose essere un alieno si mossero e, dopo alcuni istanti, i due stabilirono un contatto telepatico.
Trascorsero lunghi minuti di “scambi di vedute”, poi il piccolo alieno scomparve nel nulla.
Rigel, Rigel
lui agli UFO ci sorride
Rigel, Rigel
grida al cielo “Dai venite!”
La fattoria Betulla Bianca
vive serena perchè
è una famiglia
di gente onesta
che grilli in testa non ha.“Papà scendi! Vieni a darci una mano, la vuoi smettere con quegli ufo? Tutte scuse per non fare niente! Mizar! Fa qualcosa, digli anche tu di scendere!”
Sono bei figli Venusia e Mizar
Rigel è il loro papà
ara la terra il grano verrà
ma un'astronave è là.
Batte le mani
si accende si esalta
e nella pelle non sta
“Extraterrestri - lui grida - venite!”
“Rigel vi aspetta, sta qua”.Rigel di tutti è amico però
però di Vega, oh no
tagliamo il grano, il pane verrà
ma l'astronave è là.
Rigel, Rigel
lui agli UFO ci sorride
Rigel, Rigel
grida al cielo “Dai venite!”La fattoria Betulla Bianca
vive serena perchè
si vive in pace
si ama e lavora
e lo spreco di un'ora non c'è.“Vieni subito ad aiutarci, è dall’alba che io e Actarus facciamo anche il tuo lavoro.”
“Lascialo stare Venusia, in fondo si diverte, qui ci sarebbe d’impaccio.”
“Dici?”
Sono bei figli Venusia e Mizar
Rigel è il loro papà
cade la neve Natale è già qua
ma un'astronave è là.
Batte le mani
si scalda e si esalta
e nella pelle non sta
il comitato è pronto vi aspetta
una gran festa farà.Evviva gli UFO evviva però
sono di Vega, oh no
sempre la Terra in pace starà
ma un'astronave è qua.Rigel di tutti è amico però
però di Vega, oh no
tagliamo il grano, il pane verrà
ma l'astronave è là.Quando la famiglia Makiba si trasferì definitivamente in Giappone e andò ad abitare e lavorare al ranch Betulla Bianca, la prima cosa che Rigel pretese dal caro vecchio amico Procton, fu di avere un’altissima torre munita di un potente telescopio. Il tutto doveva essere collocato proprio adiacente alla fattoria.
Non disse mai a nessuno di quel suo breve incontro col piccolo alieno, e tenne per sempre custodito nel suo cuore quanto gli aveva comunicato telepaticamente.
Ci sono tanti mondi oltre al tuo pianeta Terra… tanti meravigliosi pianeti abitati… desidero esserti amico e un giorno venirti a trovare insieme ad altri come me. Aspettami, vedrai cose meravigliose, ti porterò sulla mia nave a visitare stelle sconosciute. Non dimenticarti mai di me.
DISCLAIMER
Le parti in corsivo sono il testo della canzone sotto descritta:
TITOLO: Rigel
CANTANTE: Actarus
AUTORE: Fabio Concato
DURATA: 3'12
ANNO: 1978FINE
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