IL MOSTRO RIBELLE Dal punto di vista di MariaOGGI
“Chi sei? Rispondi! Sei troppo carina per essere cattiva!” grida Alcor alla giovane armata che, come una furia, è apparsa dal nulla sul balcone del Centro di Ricerche Spaziali, mentre lui, Actarus e Venusia stanno ancora discutendo del combattimento appena vinto contro il nuovo mostro di Vega.
“Se un altro avesse guidato la Trivella Spaziale, tutto sarebbe stato più semplice” ha appena concluso Alcor pensieroso e preoccupato.
Actarus nota subito il ciondolo verde che la ragazza porta al collo, è inconfondibilmente del tutto simile al suo, di certa appartenenza ai sovrani di Fleed.
“Chi sei? Quel gioiello è tuo? Dove l’hai preso? Dimmelo!”
“Sono Maria Grazia Fleed e sono venuta qui per riprendere Goldrake!” grida lei, mentre con la spada recide di netto la camicia di Actarus e il filo della catena. Il medaglione che porta al collo cade a terra. I due si fissano negli occhi senza parlare per alcuni lunghi istanti.
“Maria… non capisci? Sono tuo fratello…”
IERI
Nell’istante in cui ebbe pronunciato questa frase, improvvisamente la ragazza si rivide bambina in un luogo infernale, ed era attorniata dalle fiamme. Sola, piccola, impaurita, gli occhi sbarrati, incapace di parlare. D’un tratto le era apparso il fratello, lo aveva visto correre verso di lei. Allora come per magia le era tornata la voce e l’aveva chiamato con tutte le sue forze stringendo i piccoli pugni.
Lui l’aveva vista, si era fermato un istante, poi tra sé aveva mormorato: “Devo prendere Goldrake.” E lei era rimasta di nuovo sola, senza nessuno, col calore bruciante delle fiamme che si avvicinava sempre di più e non le dava scampo; ma subito due forti braccia di qualcuno senza volto l’avevano sollevata da terra e portata via correndo.
Era l’uomo che l’aveva vista nascere, quella presenza quasi silenziosa, costante e ad un tempo discreta che si aggirava nelle grandi stanze del palazzo reale. Quando lei era sola o triste, come per magia lui appariva e le raccontava una piccola storia, la portava a passeggiare in giardino e raccogliere fiori. E lei subito sorrideva, si sentiva amata e al sicuro.
Quando la città di Fleed, attaccata in massa dalle Forze Alleate di Vega era ormai divenuta un inferno di fuoco e gli abitanti erano stati sterminati senza pietà, lui senza esitare l’aveva portata sulla sua navetta e insieme avevano raggiunto il pianeta Terra. Avevano trovato una grande casa abbandonata in campagna, alla periferia di Tokio in Giappone e lì si erano sistemati.
A Toliman, così si chiamava il precettore che l’aveva salvata, pareva un miracolo che Maria non ricordasse nulla della tragedia, né chiedesse mai dei suoi genitori. Decise quindi di spacciarsi per suo nonno e lasciarla vivere come meglio desiderava. Era una bambina sveglia ed intelligente, aveva imparato presto il giapponese, frequentava la scuola con profitto, era sempre allegra e vivace.
Fin dalla prima giovinezza dimostrò interesse per le motociclette, le piaceva correre, stare all’aperto fino al tramonto, fare gare coi ragazzi.
Ce la metteva tutta per aiutare suo nonno nelle faccende domestiche, ma lui subito si era accorto che a lei non piaceva e non era portata, quindi faceva in modo di sollevarla dai lavori casalinghi, anche perché nel fondo del suo cuore, lui sapeva che, di fatto, lei era pur sempre una principessa e lui era stato a suo tempo un suddito fedele per il re e la regina di Fleed.
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Nella vasta e ampia camera degli ospiti piena di cristalli, tappeti, quadri, poltroncine, armadi, cassettoni, una specchiera e un tavolo zeppo di oggetti preziosi, la principessa Rubina aveva depositato il suo bagaglio ed era rimasta piacevolmente soddisfatta di quel che aveva potuto finora ammirare.
Il suo viaggio aveva uno scopo ben preciso: entro poche settimane, massimo due mesi, sarebbe divenuta la legittima consorte del Principe ereditario, nonché futura Regina di Fleed.
Aveva subito incontrato i genitori di lui, i quali l’avevano accolta molto bene, la sorella minore Maria che dimostrava già una forte simpatia nei suoi confronti; non le staccava gli occhi di dosso, la seguiva sempre come ipnotizzata con quei suoi occhi celesti enormi, dilatati per lo stupore e la bocca spalancata.
L’incontro col suo promesso sposo era fissato per il giorno seguente da soli, non sapeva ancora se nella residenza reale o altro luogo meno formale.
I sovrani l’avevano accompagnata a visitare il palazzo, i giardini, per poi congedarla cordialmente:
“Hai fatto un lungo viaggio, sarai stanca, vai pure nella tua camera per riposare; ti aspettiamo al pianterreno per la cena, fra circa due ore.”
Appena chiusa la porta dietro di sé, Rubina si era messa in contatto col padre, il quale l’aveva subito informata di notizie dettagliate.
“Ricordati bene, che tutto questo non è altro che una commedia, vedi quindi di recitare bene, mi raccomando. Questo fidanzamento è una farsa, è stato il Re di Fleed a volerlo, il nostro unico scopo è conquistare il pianeta, impossessarci della loro tecnologia avanzata, così saremo in grado di fare lo stesso con tanti altri pianeti dell’Universo.”
“Come? Non capisco… vuoi dire che sono qui per niente, nel senso che sono di passaggio, nessun fidanzamento, niente?”
“E’ così. Non te l’ho detto prima, in modo che una volta arrivata tu fossi il più spontanea possibile in modo da non destare sospetti; il nostro piano è attaccarli di sorpresa, senza difese.”
Nel monitor, si affacciò l’espressione soddisfatta del Ministro delle Scienze Zuril: il suo sguardo faceva intendere che era molto contento, e non solo per le prossime conquiste planetarie, ma per la concreta possibilità di avere un giorno tutta per sé quella giovane che per ora stava solo a portata di video, ma che presto…
Ogni cosa a suo tempo, ma chi ha tempo non perda tempo, si disse, mentre la sua fervida fantasia si stava già popolando di immagini e situazioni tutt’altro che caste e innocenti, aventi tutte come protagonista una ragazza dalla chioma rossa.
Una volta chiusa la comunicazione con la base di Vega, Rubina, alquanto perplessa e confusa, uscì dalla sua stanza comportandosi come niente fosse.
Il giorno seguente, nella tarda mattinata, ebbe finalmente modo di incontrare di persona il suo futuro sposo; si presentarono in modo corretto e formale, poi lui la invitò nei pressi dei giardini, ove passeggiarono e conversarono a lungo del più e del meno.
Dopo alcune ore, in prossimità di un laghetto, salirono su una piccola barca e, senza tanti giri di parole, Rubina gli disse a chiare lettere lo scopo della sua visita sul pianeta Fleed.
“Sono venuta qui perché mio padre desidera che ci sposiamo al più presto.”
“Come? Ma non è possibile!” si sentì rispondere da uno stupefatto e incredulo principe ereditario.
“Vuoi dire che non ne sai niente? Allora io non ti piaccio, vero?” mormorò lei delusa.
“No, assolutamente Rubina, tu mi piaci molto, anzi! Sei bella come questi fiori che circondano il lago.”
Verso sera, contemporaneamente, i due eredi conversarono coi rispettivi padri.
“Non sapevo di questa storia del fidanzamento, perché non mi hai detto niente? Credevo che la principessa fosse qui in viaggio di piacere” disse Duke Fleed al padre.
Dopo una pausa e un lungo respiro, il re di Fleed si decise a parlare.
“Si tratta di una cosa grave e molto delicata; questo matrimonio politico organizzato è l’unico tentativo per cercare di mantenere la pace. Da tempo mi sono accorto che re Vega vuole conquistare tutta la nebulosa, quindi gli ho fatto questa proposta sperando che funzioni, ma non è detto sia così. Dobbiamo fare il possibile per evitare il conflitto, o almeno essere pronti quando arriverà, perché so molto bene che la sua sete di potere è grande… temo abbia solo fatto finta di accettare la proposta. Però… ora la principessa di trova qui, e finchè resterà sul nostro pianeta, un attacco è praticamente impossibile.”
“Ho capito, va bene” gli rispose rassegnato il principe.
“Signor padre, oggi ho conosciuto il mio fidanzato e… mi piace, sì, mi piace e lo voglio! Fino a ieri mi andava bene la recita che mi avevi imposto di fare, ma ora io non posso più fingere, voglio stare con lui per sempre!” disse Rubina con prepotenza a re Vega.
“Non esiste, lo sai benissimo! A noi servono le materie prime di Fleed, la tecnologia avanzata e il loro potente robot da combattimento, chiaro?”
“Ma io… allora… diciamo che una volta attaccato il pianeta tu risparmierai Duke Fleed, vero?”
“Ci penseremo, ora torna da tutti come non ci fossimo parlati, fai presto, sei via da troppo tempo.”
Nei giorni a venire accaddero molte cose.
Maria era affascinata da Rubina, cercava sempre la sua compagnia. Ogni mattina apriva piano la porta della sua camera controllando che fosse già sveglia, poi le diceva: “Andiamo a giocare?”
Una volta, sullo spuntare dell’alba, era entrata armata di secchiello, stampini e paletta per correre subito alla spiaggia a fare castelli in riva al mare.
La principessa la seguiva molto malvolentieri; non le piacevano i bambini, tantomeno una rompiscatole come quella, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco e non tradirsi, quindi la sopportava e accontentava in tutto.
Quella mattina, Maria non la smetteva più di parlare e raccontare. Rubina seccata sbadigliava, ma ad un certo punto, la conversazione prese una forma molto più interessante e al tempo stesso scioccante. La bambina, con candore e innocenza senza eguali, mentre si apprestava a riempire le formine con la sabbia, livellandole bene con la paletta, le disse:
“In questo posto ci viene sempre mio fratello con Naida, la conosci? E’ tanto bella, non come te però. Nuotano per ore, poi passano tanto tempo dietro quelle siepi, oppure nel boschetto più indietro. Io e Sirius gli facciamo sempre degli scherzi, loro si arrabbiano, allora cambiano posto, ma noi li troviamo sempre.”
“Ma … e quando succedeva questo? Un po' di tempo fa immagino” chiese la ragazza tremando.
“No, sempre, anche l’altro giorno, quando tu eri andata a riposare perché non stavi bene, ti ricordi?”
Rubina sentì le viscere contorcersi in maniera incontrollata, mentre il cuore le martellava nel petto e delle gocce di sudore freddo le ricoprivano il viso.
“Mi aiuti a fare il ponte del castello? Io da questa parte non ci riesco, poi facciamo anche dei cavalli che entrano con la carrozza?” le chiese Maria con voce supplichevole.
“Proviamo pure, però… adesso vorrei andare a casa…”
“Ma siamo appena arrivate, aspettiamo l’ora di pranzo. Dopo mangiato mi fai provare i tuoi vestiti, le scarpe col tacco alto, mi metti lo smalto come il tuo?”
“C… come vuoi, però non so se…”
La principessa aveva gli occhi gonfi di lacrime trattenute; dolore e rabbia la devastavano, avrebbe voluto sapere di più, ma non osava chiedere per paura delle orribili notizie che avrebbe sentito.
Non ci fu bisogno di chiedere altro, perché sulla via del ritorno, appena Maria intravide da lontano il balcone facente parte delle camere da letto del fratello, indicò quel punto col dito, per poi gridare tutta eccitata: “Guarda! C’è la finestra socchiusa, vuol dire che quando sarà buio Naida salirà sul balcone per entrare. Lei non passa mai dalla porta, le piace scavalcare i muri, è bravissima e veloce. Vuoi vederla stasera?”
“No, no io non…” mormorò la giovane sconvolta.
Da lontano intravidero i genitori di Maria.
La bambina si staccò dalla mano della ragazza e corse verso di loro a braccia spalancate, gridando felice: “Mamma! Abbiamo fatto un castello enorme, domani ne facciamo un altro ancora più bello; Rubina ha detto che mi presta i suoi vestiti, posso mettermi lo smalto?”
“Certo tesoro, ma non vi stancherete troppo? Rubina… stai bene? Hai un’aria strana, forse avete preso troppo sole; venite dentro all’ombra, è quasi ora di pranzo. Dopo andrete a riposare, la giornata è lunga.”
“Sì, forse… nel pomeriggio vorrei rimanere a casa se non vi dispiace” rispose Rubina tenendo lo sguardo fisso a terra.
“Ma non andiamo al parco stasera?” interruppe con petulanza Maria.
“Questa sera no… dovevo uscire con tuo fratello… almeno credo…” mormorò la ragazza sconvolta.
La bambina non disse più nulla e per tutta la giornata rimase tranquilla, ma quando scesero le prime ombre, con fare complice, si avvicinò a Rubina in punta di piedi, sussurrandole: “Dopo ti faccio vedere una cosa bella dalla finestra della mia camera.”
La cosa tanto bella era quanto sotto descritto.
Da un terrazzino del palazzo, stando nascoste, ebbero modo di vedere una ragazza dai lunghi capelli verdi come la tenera erba primaverile che, con velocità impressionante e un balzo felino, entrava dentro una finestra, dalla quale si entrava in una certa camera da letto, appartenente ad un certo avvenente fidanzato della principessa che in quel momento sembrava essersi dimenticato di lei.
“Visto? Rimane lì fino a domani, poi se ne va senza dire niente.”
Rubina non riuscì a dire nulla, solo dopo parecchi secondi di silenzio, le uscirono alcune incerte parole: “Domani… io… e… lui… dobbiamo andare a fare compere e ordinare tante cose.”
“No, non credo, quando Naida viene passando per il balcone, lui il giorno dopo dorme tanto”, le rispose Maria col tono innocente dei bambini, dopo averci pensato qualche istante.
La voce della verità e dell’innocenza aveva rivelato con candore, senza sottintesi, né malizia, una cosa tanto sconvolgente che la principessa faticò a reggersi in piedi e non perdere i sensi.
Questo stato durò poco: di lì a pochi minuti le prese una rabbia così devastante che appena entrata nella sua camera buttò a terra tutto quello che c’era sul tavolo e prese a pestarlo coi piedi sconvolta, ferita e piena di odio.
Il padre la contattò in quel momento e, appena la vide con gli occhi fuori dalle orbite e i capelli scomposti, fece un passo indietro spaventato, poi le chiese:
“Cosa ti succede?”
“Mi succede… te lo dico io cosa succede: me ne vado subito, li voglio morti tutti morti. Hai capito??! Ammazzali tutti, li odio!!!”
Poi si buttò a terra scoppiando un pianto irrefrenabile e disperato, mentre re Vega tentava di calmarla, preoccupato dal fatto che qualcuno potesse sentirla.
Con un urlo disumano Rubina spaccò il monitor usando uno dei tacchi a spillo dei suoi sandali interrompendo la comunicazione; poi, così scarmigliata, col rimmel che le colava sulle guance, arrabbiata e piena di odio per quel pianeta, gli abitanti, l’ex fidanzato (se mai lo era stato), il palazzo reale, prese la sua Quenn Panther, vi salì in fretta e furia e in pochissime ore fece ritorno al suo pianeta natale.
La camera da letto che aveva ospitato Rubina per alcune settimane, era diventata la rappresentazione in miniatura, tale e quale, di come di lì a pochi giorni sarebbe stato il pianeta Fleed in seguito all’attacco di Vega, un preludio, un anticipo della sua futura rovina e distruzione.
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“Dov’è andata Rubina? Perché non viene più a giocare con me?” chiedeva spesso Maria sconsolata ai suoi genitori. Vagava per il grande palazzo come un’anima in pena, il pollice sempre vicino alle labbra, mentre con l’altra mano teneva, senza troppa convinzione, la zampa di quel cane di peluche che possedeva fin dalla nascita.
Loro tacevano, tentavano di distrarla, mentre venti di guerra sempre più minacciosi provenivano dalla nebulosa di Vega. La principessa era sparita all’improvviso, non aveva lasciato detto niente, nemmeno un biglietto.
Toliman, il precettore di Maria, comprese subito che la bambina in quel momento non poteva contare sulla presenza affettuosa dei genitori, i quali, preoccupatissimi, cercavano di mettersi in contatto coi sudditi di Vega nel vano tentativo di cercare un accordo amichevole.
Ogni mattina, prendeva per mano la piccola principessa e insieme passeggiavano per gli immensi giardini che circondavano il palazzo. Ogni poco si fermavano ad ammirare una statua, un albero, raccogliere fiori. Maria era molto intelligente e faceva domande su tutto.
Quell’uomo era un nobile decaduto, e da alcuni anni era rimasto solo al mondo.
Aveva trovato servizio presso la reggia di Fleed in qualità di tutore per gli eredi dei sovrani, ma sapeva anche gestire la servitù, aveva il dono innato di fare in modo che tutto filasse liscio e senza intoppi tra i dipendenti.
Tutto di lui tradiva la sua buona discendenza; il modo di parlare, di muoversi, l’educazione, la finezza degli abiti che portava, il suo mantenersi discreto e presente ad un tempo.
“Come si chiama questo fiore?” gli chiese Maria con lo sguardo rapito verso un bellissimo giglio.
“Si chiama Lilium martagon e si dice provenga da Marte.”
“Dov’è Marte?” domandò la piccola, incuriosita e confusa.
“E’ un pianeta molto lontano da qui.”
“Uguale al nostro?”
“No, cara. Nessun pianeta, è uguale ad un altro, anche se possono esserci delle similitudini.”
“Tu ci sei mai stato?”
“No.”
Nel cielo intanto, volavano formazioni di minidischi ogni giorno più numerose, le campagne venivano incendiate e anche le case dei contadini. Erano le prime avvisaglie, ormai era a tutti evidente che il conflitto bellico si sarebbe esteso a macchia d’olio.
Duke Fleed si trovava ad Altair, dall’amico Marcus, e la sua città venne attaccata dai sicari di Vega.
Dopo aver salvato la vita al suo amico ed essersi a sua volta ferito ad un braccio, il principe tornò precipitosamente su Fleed, quando la capitale era semi distrutta.
Ancora non avevano attaccato il palazzo reale, ma le ville dei nobili e di quelli di alto rango erano state prese d’assalto e saccheggiate.
Arrivò correndo verso la sala del trono, e lì vide i suoi genitori. Il loro viso era colmo di apprensione, ma ebbero entrambi un attimo di sollievo nel vedere il figlio sano e salvo.
Fu il padre a parlargli per primo: “Non c’è un attimo da perdere. Devi portare Goldrake lontano da qui, Vega vuole impadronirsene…”
“Non posso” replicò Duke Fleed chinando il capo. “Senza il robot, non posso salvare nessuno… io voglio battermi, voglio salvare la nostra patria.”
“E’ troppo tardi ormai” mormorò il padre chinando il capo.
“Perché?”
“La principessa è partita il giorno stesso in cui tu sei andato ad Altair. Se ne è andata senza dire nulla e da quel giorno, nel cielo sono comparsi i primi minidischi” gli rispose la madre cercando di dominare il tremito della voce.
Appena ebbe terminata la frase, il grande portone si spalancò all’improvviso e due guardie veghiane, armate di tutto punto, entrarono con prepotenza.
Senza dire una parola, andarono verso il principe ereditario e lo costrinsero a seguirli. Percorsero il lungo corridoio che portava nel seminterrato del palazzo. Entrarono in una enorme stanza e lì c’era Goldrake, l’angelo protettore del pianeta Fleed.
“Re Vega vuole che tu aggiunga nuove armi, armi potenti e letali al robot. Sa bene che solo tu puoi farlo. Quando avrai finito, sarà nostro” disse il veghiano alto almeno due metri dal colorito verdognolo e le orecchie a punta.
L’altro, di poco più basso di lui, teneva un’arma affilata verso il principe e non diceva nulla.
Chiusero il portone con pesanti catenacci e se ne andarono.
Duke Fleed si mise subito al lavoro e in capo a due giorni riuscì nell’impresa. Una guardia stava di vedetta fuori dalla porta e l’apriva soltanto per controllare, portare cibi e bevande al giovane.
Il ragazzo stava con occhio vigile e approfittando di un attimo in cui il soldato si era spostato di pochi metri, lo colpì in faccia con un calcio, salì sulla navetta e percorrendo il vastissimo e lunghissimo corridoio sotterraneo, uscì e volò nel cielo turchino, fino ad arrivare fuori dalle mura del palazzo, in una caverna lontana dal centro della città, un posto nascosto e isolato. Lì mise il suo robot, poi tornò verso casa, giusto in tempo per vedere il palazzo tra le fiamme. Entrò da una porta laterale, i suoi genitori erano in una piccola sala al pianterreno.
Tutto era stato devastato, il luogo irriconoscibile e pieno di polvere. Vide un uomo dal volto orribile e le orecchie a punta: un sorriso sadico e terrificante sembrava perennemente incollato al viso, e con quell’espressione sul volto, Camargo Istar colpì a morte il re e la regina.
Duke Fleed, dopo aver tentato inutilmente di soccorrere i genitori corse fuori, vide che la città era diventata un inferno di fuoco, anche il cielo era rosso; da lontano intravide la sua sorellina che lo chiamava disperatamente con le lacrime agli occhi. La mente del ragazzo era in quel momento incapace di formulare un pensiero logico e compiuto. Vedeva i suoi genitori massacrati, quell’uomo orribile, la sua risata sadica e crudele ancora gli rimbombava nelle orecchie frastornandolo.
In mezzo a tutto quell’orrore c’era sua sorella Maria, il simbolo dell’innocenza, sola e indifesa. In pochi secondi, gli apparvero come in un film, la serie di possibili cause che avevano portato quell’attacco veghiano improvviso e inaspettato.
La sua sorellina che giocava con Rubina, le parlava di tante cose… lui che approfittava di quei momenti per vedersi di nascosto con Naida, forse erano stati visti da qualcuno, perché la loro passione era irrefrenabile e non sempre erano stati accorti. La principessa era andata via senza dire niente, quindi per i veghiani lei non correva nessun pericolo.
“Devo andare da Goldrake” disse, e lasciò sua sorella lì dov’era, in mezzo a quel rogo.
OGGI
“Tu sei mio fratello? Sei vivo… e sei qui…” mormora la ragazza commossa e incredula.
Maria non sorride, ma piange e non certo di gioia.
Actarus ha uno sguardo serio che denota una certa tristezza e dispiacere. Lo sfondo del tramonto di fine estate, coi suoi colori cupi, sembra accentuare questa caratteristica. Non è un ritrovamento gioioso, nonostante l’apparenza.
Come per magia, le loro menti entrano in contatto telepatico: immagini e situazioni vissute da entrambi su Fleed e sulla Terra.
Maria che parlava con innocenza di Naida a Rubina, le diceva che entrava nel palazzo di notte e di nascosto.
Actarus, da quando ha abbandonato la sorella come qualcosa di inutile, rivede che dal quel momento in poi ha soccorso tutti, anche la vita di un solo cavallo è stata importante per lui, quanto la salvezza della Terra. Maria vede e vive tutto questo, anche quando per salvare Alcor ha rischiato il tutto per tutto.
Si parlano senza dire niente, nei loro occhi sono riflesse le loro precedenti vite e ora insieme ne vogliono costruire una tutta nuova.
E’ Maria che fa la prima mossa: tocca il petto del fratello con una mano con l’intento di perdonare e tentare di capire.
Solo dopo che Maria ha toccato Actarus, lui l’abbraccia, perché sente in qualche modo di essere stato perdonato.
I ciondoli verdi che i due fratelli portano al collo, risplendono di luce propria come due piccoli soli.
IL MOSTRO RIBELLEDal punto di vista di Procton
Grazie al cielo, anche questa volta i ragazzi sono tornati sani e salvi dalla battaglia. Devono essere sulla terrazza, vado subito da loro.
Era il pensiero del dottor Procton in quella sera di settembre, davanti ad uno splendido tramonto dai colori intensi e definiti. Il paesaggio era di una bellezza quasi commovente; spontaneamente lo associò alla ferocia di Vega e dei suoi sicari, sentendo uno strano rimescolio dentro di sé, un turbine di sentimenti contrastanti. Il senso di giustizia si scontrava con la paura del prossimo scontro e di quali armi avrebbero usato. Ne sarebbero usciti illesi? E quando la fine di questo incubo? Quei tre giovani rischiavano ogni volta la vita per salvare la Terra. Faceva abbastanza per loro? Pensava con lieve rimorso.
La ferita mortale di Actarus era per lui un dolore troppo grande da sopportare: quando riaffiorava nella sua mente, faceva il possibile per allontanare il pensiero, come se il fatto di ignorare il male, potesse essere speranza di guarigione. Pensieri assurdi per uno scienziato, ma non per un uomo che amava quel ragazzo come un figlio e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, anche sacrificato la sua stessa vita.
Mentre percorreva il lungo corridoio di marmo chiaro, a tratti illuminato dai rossi raggi del sole morente, li intravide e corse verso di loro, ma qualcosa lo bloccò sulla soglia.
Una giovane sconosciuta era tra la braccia di Actarus e lacrime che parevano inarrestabili le scendevano sul viso.
Venusia e Alcor stavano discosti ma partecipi, e nessuno dei due parlava; anche loro erano visibilmente commossi.
“Che cosa è successo?” chiese finalmente il dottore.
Dopo alcuni istanti, Alcor si decise ad articolare qualche frase sconnessa.
“Ecco… è successo… insomma, Actarus… Actarus… è… è… una cosa troppo bella da raccontare”, concluse trattenendo a stento le lacrime.
“Troppo bella?” chiese Procton.
Nessuno rispose, ma Actarus e quella giovane che in modo strano gli somigliava si ricomposero e, uno di fianco all’altra, fissarono un punto lontano e imprecisato verso il cielo, mentre un lieve sorriso illuminava i loro volti.
FINE
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