| L' Inceneritore
Singolare "thriller" d'ambientazione padovana che nasce come tale per trasformarsi invece quasi subito nel ritratto strampalato d'una vita di campagna che ricorda l'Avati bucolico più fuori controllo e in parte certe digressioni cittiane. Abbondante l'uso del dialetto veneto, disinvoltamente alternato in molti dialoghi allo spagnolo della bella Fedora (Delli Colli) quasi a suggerire la ben nota somiglianza fonetica tra le due "lingue". E' lei la proprietaria di una tenuta di campagna dalla quale si gode la lontana vista della chiesa di Padova e dell'inceneritore del titolo (la cui centralità è quantomeno dubbia). In apertura la voce narrante sembra voler addebitare ai cupi fumi di quest'ultimo le vaghe responsabilità di una strana epidemia che circola in città mentre invece, lo si capisce un minuto dopo, i tanti decessi sono il risultato degli incessanti delitti compiuti da un killer che lascia come segno distintivo un anello con appese le proverbiali tre scimmiette (non vedo, non parlo, non sento). La prima sequenza in cui vediamo questa sorta di Jack lo squartatore accoltellare una delle sue tante vittime è montata e musicata seguendo lo stile dei nostri thriller Anni Settanta e promette bene (azzeccatissima la colonna sonora di Richard Benson); perché allora deviare immediatamente sulle disavventure degli occupanti del sopracitato casolare dando l'avvio a un film tanto schizofrenicamente slegato nelle sue parti? Al di là di qualche momento azzeccato e di un paio di follie che davvero viene da ricondurre ai tempi della mazurka avatiana (Bucci, ingobbito, a metà tra il medico e lo stregone che conduce esperimenti sulle galline, un nonno alle prese con due nipoti incestuosi e altri personaggi bislacchi), la qualità complessiva latita alquanto. Certo, il grottesco qui immerso tra l'erba, l'ignoranza, la semplicità e la superstizione trova spunti talvolta originali, ma è troppo poco per appassionarsi a vicende che lasciano il tempo che trovano, spesso diluite senza motivo, alternate poi a puntate notturne in città tra giovani che vi si aggirano in abiti dark e trucco vampiresco. Finisce che gli sparuti omicidi del killer, ripresi alternando l'azione delittuosa a primi piani di statue sacre, si trasformano in semplice riempitivo, dal momento che la gran parte delle scene, di tutt'altro tenore, è ambientata in campagna. E anche per questo non si capisce proprio dove il film voglia andare a parare; almeno fino agli ultimi sei minuti che d'improvviso, senza una vera ragione, si aprono su splendidi scenari di una Padova “postatomica”, devastata dagli scontri e dagli incendi, che risulta difficile legare a quanto visto fin lì: commentate da musiche che sembrano uscite dalle partiture horror di Bixio/Frizzi/Tempera sono sequenze prive di dialoghi e di grande forza immaginifica, che stupiscono per cura realizzativa ed efficacia visiva, veleno atmosferico in coda a un film bizzarro, incatalogabile, in più momenti semidilettantescamente sperimentale o post-decamerotico, in altri indecifrabile scheggia impazzita che si nasconde all'ombra di un caotico blob fitto di richiami regionali (si sentono a lungo "La fameja dei Gobon", "Me compare Giacometo"...) e goffe figure strapaesane. M.M.Davinotti E gli ha voluto bene.... Intravisto ieri sul tubo io amo il cinema ma.questo film nn si fa amare... Il cinema d genere italiano (ma quello vero veramente) muore un paio d anni prima (e sono stato un pò largo) la realizzazione d questo patchwork
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