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ANNUSHKA's FICTION GALLERY, Solo autore

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view post Posted on 12/11/2015, 12:54     +2   +1   -1
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Inserisco anche io un indice delle mie fan fiction. Ho seguito l’ordine degli episodi della serie da cui i racconti prendono spunto, o a cui possono essere riferiti cronologicamente.

1- “Goldrake 40” (prima di iniziare la serie)
Il mio contributo al 6° Concorso di Go Nagai Net. In quanti modi si può raccontare un evento? Tantissimi, potenzialmente infiniti; tanti quanti ne sono gli spettatori. Per festeggiare il 40° anniversario dell’arrivo di Goldrake in Italia, quaranta diversi punti di vista sul tema.
#entry619664063

2- “Missione da Vega. Punto di vista di Hikaru” (episodio 7)
La prima volta che gli autori della sezione Fan Fiction giocarono a riscrivere un episodio, raccontandolo dal punto di vista di uno dei personaggi. Fu scelto quello in cui Grendizer viene quasi sconfitto da Gorman. Quella volta io decisi di mettermi nei panni di Hikaru.
#entry584576944

3- “Missione da Vega. Punto di vista di Marietta” (episodio 7)
La collaboratrice familiare della base Skarmoon dice la sua sullo stesso episodio e sul relativo gioco.
#entry586864121

4- “Dillo ancora” (episodio 23)
Un dietro le quinte, qualche giorno dopo la scoperta della reale identità di Daisuke da parte di Hikaru.
#entry582874015

5- “In cucina” (episodio 30)
Un altro dietro le quinte, nel periodo successivo all’incidente che riacutizza la ferita mortale di Daisuke.
#entry585014649

6- “Attenta Hikaru: pericolo in agguato!” (in un momento qualsiasi tra l’episodio 35 e il 49)
Un episodio inedito, da me inventato di sana pianta, mescolando alla fantasia anche una piccola dose di realtà. Hikaru lotta coraggiosamente per salvare sé stessa e un pavido vicino di casa da un rapimento molto particolare.
#entry659237860

7- “Il mostro ribelle. Il punto di vista del Principe” (episodio 49)
Rieccoci, gli autori della sezione Fan Fiction, a riscrivere un episodio dal punto di vista dei singoli personaggi; stavolta è quello dell’arrivo di Maria. In questa occasione io ho dato voce ai tormenti del Principe.
#entry645030685

8- “La favola” (episodio 49)
Non contenta, ho riscritto lo stesso episodio anche dal punto di vista di un altro personeggio. Quale? Si capisce alla fine!
#entry646967513

9- “Mortale minaccia dal mistero!” (in un momento qualsiasi, dopo l’episodio 49)
Un altro episodio inedito, con piccola dose di realtà; in realtà l’ho inventato per primo, ma in questa sequenza compare dopo. Grendizer affronta una minaccia globale, con l’aiuto di tutto il suo team.
#entry637304934

10- “La squadra” (episodio 59)
Prequel dell’episodio in cui un commando di adolescenti veghiani viene inviato sulla Terra a uccidere Duke Fleed. La storia dei cinque ragazzi, fino al loro tragico scontro con Grendizer.
#entry586532230

11- “La madre” (tra l’episodio 59 e il 70)
Seguito della fan fiction precedente, si svolge parallelamente alla continuity ufficiale. La madre di uno dei giovani soldati di Vega si mette in cerca del figlio, per riavere almeno un corpo su cui piangere.
#entry591430940

12- “Riscatto” (tra l’episodio 59 e il 70)
Terza e ultima parte del ciclo ispirato all’episodio 59, conclusione dei due racconti precedenti. Qui il destino del giovane veghiano e di sua madre si compie e nel frattempo si svelano diversi segreti dei coniugi Gandal.
#entry606116327

13- “Promesse” (episodio 72)
What if in 35 puntate. Se Rubina non fosse morta nello stesso episodio in cui appare? Lunga avventura fra i pianeti Terra, Ruby e Fleed, con finale alternativo a quello ufficiale.
#entry632201272

14- “Quarantacinque anni dopo” (molto tempo dopo la fine della serie)
Il mio contributo al 7° Concorso di Go Nagai Net. Sono passati ben nove lustri dalla sconfitta di Vega, ma i nostri eroi non dimenticano di aver vinto grazie al gioco di squadra.
#entry662481789





Vabbe’… mi butto. Se è da orticaria, non vi preoccupate, tanto è breve e non lo faccio più. Al limite, antistaminici per tutti.
L’idea viene da un’osservazione di Gerdha, sul finale dell’ep. 23. Bietola sì/bietola no? Secondo me, prima di passare alle vie di fatto, o almeno in corso d’opera, è necessario dirsi due paroline, specialmente con i passati ingombranti che si ritrovano quei benedetti ragazzi, soprattutto uno dei due… Mi piacerebbe che le paroline, per cominciare, fossero state più o meno queste.
Siamo un paio di sere dopo il salvataggio della diga.

“Dillo ancora”


Notte, luna piena, candida. Intorno, un chiarore tranquillo. Nell’aria, solo il canto dei grilli e le note della chitarra di Actarus.
Venusia è sveglia, l’ha sentito uscire. Ancora non si rende conto perfettamente della rivelazione. Ha bisogno di tempo per assorbirla, per lasciarsela scendere dentro. Ha bisogno anche di guardarlo e ascoltarlo, di sapere che è sempre lui, anche se d’ora in poi sarà tutto diverso.
Lo va a cercare.
Sa dov’è, la guida il filo dei suoni. Si ferma ad una certa distanza e si inginocchia, scivola piano sull’erba. Non vuole incrinare la quiete.
Rimane lì, senza sapere quanto. Ad un tratto le sfugge un sospiro, appena un sussurro:
“Daisuke…”
Lui trasale. Non si era accorto di non essere solo. La cerca con gli occhi:
“Dillo ancora!”
“Che… cosa?”
“Il nome, quel nome! – alza la voce – Chiamami ancora così: Daisuke, Umon Daisuke!”
Un gufo, in allarme, vola via lanciando un richiamo.
“Daisuke, ma…”
La interrompe concitato:
“Sai, avrei voluto essere solo Daisuke, per sempre, – ormai sta quasi gridando - ma i miei morti mi chiamano!”
“Ma, che cosa… che cosa significa?!”
E’ sbalordita, non l’ha mai visto così. Gli sfiora un braccio. Il tocco lo placa, ma è ancora alterato, il respiro affannoso.
Oh Daisuke! Che altro c’è nel tuo passato?
Ha paura di fissare i suoi occhi in quelli di lui. Quel colore del cielo d’estate, quando sorgono le prime stelle, è scomparso, ora si intuisce solo un abisso oscuro.
Ma è appena un momento, subito prende coraggio. Le labbra strette, si sforza di ricacciare il pianto che le serra la gola. Poi, tenera e ferma, scandisce:
“Soffri molto. Che cosa è successo?”
Anche lui riprende il controllo; il tono è piatto, distante, ma presto ritorna agitato:
“Quando le forze di Vega distrussero Fleed, migliaia di innocenti furono uccisi. Anche mia madre, mio padre e mia sorella, che era una bambina!”
La voce si spezza, deve interrompersi. Poi di nuovo, con rabbia:
“E io sono fuggito! Capisci? Sono fuggito!”
Sale ancora di tono:
“Dovevo farlo! Dovevo evitare che Goldrake cadesse nelle loro mani!”
Diventa roco:
“E ora, da quando è cominciata quest’altra guerra, i miei morti mi chiamano. Ogni notte sento le loro grida e non posso fare nulla per loro!”
Lo sguardo è assente, remoto, ora mormora:
“Non avrei voluto combattere ancora, sarei voluto restare Daisuke, per sempre.”
Poi, in un soffio:
“Ma non è possibile.”
Per la prima volta, lo guarda e si sente invadere dalla pena. E’ un’onda che nasce dentro, monta violenta, la scuote in tutte le fibre. Le parole le escono di getto:
“Daisuke, Daisuke! Tu sei Daisuke per sempre! Per me, per tutti noi! E’ per questo che ora combatti anche, per noi! I tuoi morti… Li porterai sempre con te! Ma tu sei vivo, Daisuke! Tu ogni giorno rischi la vita per noi! Ti prego, tu devi vivere!”
Anche la mano si muove da sola, col dorso gli sfiora una guancia, poi, aperta, gli accarezza i capelli fin sulla nuca, lo attrae a sé, lo invita a posare la testa sulla sua spalla. Si abbracciano a lungo, in silenzio.

“Dai torniamo, si è fatto tardi. Prenderai freddo…”.
Si avviano verso casa, un fruscio di passi leggeri nell’erba. Col braccio le circonda le spalle, se la stringe vicino, la mano scorre più volte sul braccio di lei, per riscaldarla.
Le è grato di aver dato ascolto alla sua disperazione. Anche lei, di non aver respinto la sua consolazione.

Per i vostri commenti: #entry582878397

Edited by Annushka18 - 2/2/2023, 23:09
 
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view post Posted on 22/12/2015, 12:06     +1   +1   -1
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CITAZIONE (shooting_star @ 18/12/2015, 15:21)
...conto che dopo il capitolo che sto per postare saranno altri a render viva la fan section :).

Ci provo! Ultimamente si è parlato un bel po’ della scomparsa della ferita di Daisuke. Qui, due parole sulla sua comparsa, anzi ricomparsa.
Come essere d’aiuto a una persona cara, che ha appena saputo di stare parecchio male? Se lo chiede una certa ragazza, nei giorni successivi all’episodio 30.

In cucina



Cucina deserta, tiepida. Tavola apparecchiata e colazione in caldo sul fornello. Solo la luce è spenta e tutto è immerso nel silenzio. Dietro le tendine della finestra, il cielo si tinge di rosa.
Danbei, Goro, Koji… niente di strano che non ci siano - soprattutto Koji - ma lei...
Comunque, accende la luce, si siede e fa colazione da solo. Oggi avrà molto da fare, sono giorni che lavora poco, alla fattoria. Non riesce a concentrarsi, è teso allo spasimo, in attesa del prossimo attacco. Ha poco tempo, deve riuscire! Deve!
Nella stalla i cavalli mangiano tranquilli; l’acqua è pulita, appena cambiata. Ma, cosa…? Bene, tra poco li farà uscire, così potrà abbandonarsi alla corsa e non pensare, non pensare… In attesa del prossimo attacco. Deve far presto, deve riuscire…
“Ehi! Forza, forza! Qui si batte la fiacca! Ah! Vi ho trovato finalmente, avanti, avanti, facciamo uscire i cavalli”. Danbei sbuca di gran carriera da dietro l’angolo della stalla e infila la porta sbraitando.
“Daisuke, basta perdere tempo! Hikaru! Hikaru! Dov’è Hikaru?” Danbei si guarda intorno. “Ehi, dove ti sei cacciata, eh? Cosa stavate facendo voi due, eh?” Nessuna risposta.
Hikaru! Ma dov’è? Non è in cucina, non è nella stalla, ma ci è stata. Sì, ci è stata prima di me. Ha lasciato tutto pronto e ha fatto anche il mio lavoro con gli animali.


Colpi ritmici da dietro la casa. Un ciocco cade sulla catasta.
Ancora un paio di pezzi, poi può bastare.
Hikaru si asciuga il sudore, riprende fiato un momento. In autunno inoltrato, con l’aria pungente e il buio che scende presto, accendere il camino è piacevole. Ma è meglio che se ne occupi lei, lui non deve correre rischi. Dopo l’incidente, non sopporta l’idea che per qualche sciocco motivo provi ancora dolore.
I colpi riprendono regolari, decisi.
Era lì, sul lettino dell’infermeria, stravolto, i lineamenti contratti. Il dolore così forte, da provocargli spasmi violenti. Lei è riuscita a trattenerlo, almeno quel tanto da permettere al professore di curarlo. Però…
Oh, Daisuke…
Rari i momenti di confidenza tra loro, preziosi, sempre sofferti. Ogni volta, scopre ferite mai del tutto sanate. Adesso, però, è diverso: adesso la ferita è sul corpo.
… ti hanno tolto tutto! Non puoi più contare nemmeno sulle tue forze… “Ma io ti aiuterò!” Pensa ad alta voce e rialza la testa, fiera.
“Ehi, ma sei qui! Ma che diavolo stai facendo? Questo è compito di quel buono a nulla di Daisuke!”
“Papà! Non ti intromettere! So io quello che devo fare! E non ti azzardare a …”. Si ferma a metà. Da dietro l’angolo è spuntato anche lui, lo sguardo smarrito.
“Hikaru, che fai? Tuo padre ha ragione, lascia, ci penso io.”
Si fa togliere di mano l’accetta, arrendevole, mentre sorride tra sé, soddisfatta di aver quasi finito il lavoro. Però, non le sfugge il tono apparentemente leggero di lui, in contrasto col volto teso e la mente lontana.


La giornata trascorre senza sorprese. Dietro ai cavalli si godono lunghi momenti di solitudine. Danbei si è calmato. Con Hikaru alla fattoria, non ha motivo di preoccuparsi e si abbandona volentieri ai ricordi. Alterna i racconti a generose sorsate dalla fiaschetta, finché non rimane altro che un sonoro russare e il ronzio delle mosche.
Fanno ritorno all’imbrunire. Sono ancora lontani, in cima alla collina di fronte casa.
“Papà, Daisuke, venite! E’ pronto!” La figuretta si staglia esile nel rettangolo luminoso della porta della cucina, con grandi cenni di saluto. Da dentro, arriva distinta la voce squillante di Goro, che scherza con Koji. I suoni, le immagini, come un soffio di aria pulita. La morsa si allenta, per un istante riesce a sorridere.


“Daisuke! Come è andata oggi con Taro?” Il puledro neonato è la novità degli ultimi giorni.
“Bene, Goro.”
“Oh, dai, non farti pregare! Per favore, raccontami! Si è allontanato un po’ dalla madre?”
“Sì, certo… vedrai, imparerà presto…”
“Goro, mangia! E non essere insistente!” L’intervento di Hikaru gli evita di continuare.
A tavola piomba il silenzio. La compagnia degli altri gli pesa: fingere la serenità di prima è superiore alle sue forze, ma con lei è più penoso ancora. Si sente scoperto. Anche senza guardarla, percepisce la sua domanda muta.
Dovrei parlarle, ma per dire che? Non saprebbe mentire e, del resto, il futuro è avvolto nella nebbia. Sa solo di avere poco tempo; vive in attesa del prossimo attacco. E poi, lei è già al corrente di tutto. Di quasi tutto.
Già, quasi…
Meglio andar via.
Finisce di cenare senza una parola, borbotta una scusa ed esce di corsa. E’ allora che lo sconforto lo assale, duro, improvviso. Inforca la moto e parte rombando.
“Ehi! Che maleducato! Andarsene senza neanche salutare!” Hikaru e Koji si riscuotono alla voce del vecchio. Incrociano un rapido sguardo, poi ognuno ricade nei propri pensieri.

***



Notte limpida, aria frizzante, il sangue affluisce alle guance e schiarisce le idee. Daisuke guida a lungo tra i boschi e arriva al lago, in cima alla scogliera. Smonta dalla moto, si guarda intorno, respira a pieni polmoni. Uno scenario stupendo! Per questo deve combattere, è questo che deve proteggere… Quando alza gli occhi, la visione gli mozza il respiro: miriadi di stelle, come granelli di sabbia! Le ha viste migliaia di volte, di molte conosce i segreti, ma ora gli parlano d’altro. Gli ricordano la sua debolezza. Improvvisamente si sente piccolo, di fronte all’immensità... E immenso è il compito sulle sue spalle. Devo farcela! Per questo cielo, devo farcela! Devo sconfiggere Vega.
Rientra alla fattoria a notte fonda, quietato. Da domani riprenderà in mano il lavoro; nei giorni passati ha vissuto come un sonnambulo, non si è accorto che ha fatto quasi tutto Hikaru.
Così non va. Posso ancora vivere una vita normale, sono ancora forte abbastanza.
La fragilità è nella mente, torturata da un pensiero ossessivo: il tempo che passa, in attesa del prossimo attacco… Che vengano, che vengano presto, quando ancora posso combatterli! Devo fare in fretta, devo sconfiggere Vega.


Ha avuto cura di spegnere il motore ad una certa distanza e di condurre a mano la moto nella rimessa, ma lei lo sente arrivare, perché lo ha aspettato.
Sei tornato. Un sospiro di sollievo. Ad occhi chiusi appoggia la fronte sul vetro della finestra.
La ferita ti ha sconvolto,lo so, ma… migliorerà! Vedrai che migliorerà. Intanto non devi stancarti. E che questi maledetti allarmi ti lascino in pace! …almeno per un po’, almeno il tempo di rimetterti.
Sente i passi nel corridoio ed è tentata di aprire la porta, ma si trattiene. Qualcosa le sfugge, lo intuisce, però non vuole forzarlo, teme di fargli del male.
Eppure… Che devo fare? Non posso andare avanti così!
Di colpo, capisce che fare. Ora può andare a letto.


“Ciao Hikaru! Hai dormito bene?”
“Sì, grazie! E tu?” Non riesce a mascherare un moto di sorpresa: l’ha preceduta!
Mangiano in silenzio, guardando nei piatti. Alla fine, lui alza gli occhi per primo:
“Perché ti sei messa a fare tutto senza di me?”
“Che intendi?”
“I lavori pesanti.”
Risponde decisa: “Non voglio che ti stanchi, non voglio che ti succeda qualcosa, mentre ti occupi di quelle sciocchezze.”
“Non sono sciocchezze. E’ la mia vita.”
Quello che rimane della mia vita.
“Non voglio perdere anche questo prima del tempo.”
Non voglio perdere i momenti con te.
Mentre lo pensa, le accarezza una mano.
“Prima del tempo? Ma… Daisuke! Perché?” Prende la mano di lui tra le sue, se la porta al volto e vi appoggia dolcemente la guancia.
Lui continua, fissandola: “Devi smettere, io posso farcela. Me lo prometti?”
La risposta si perde, sommersa da un diluvio di voci:
“Ritardatario! L’autobus sta per passare! O ti vuoi far superare da quel bestione di Banta? Sei o non sei un Makiba?!? Ah! Questi giovani! … Ai miei tempi! …”
“Ma papà, ho fame! La colazione!!!” Goro sfreccia verso la porta di casa, inseguito dal padre. Ai due giovani sfugge un sorriso. Uno sguardo d’intesa e Hikaru scatta per dare al fratello il pacchetto della merenda. Il tempo di un bacio, di sistemargli la sciarpa e torna in cucina, ma Daisuke è scomparso. E’ già nella stalla, insieme a suo padre.


“E questo è l’ultimo. Quattro bidoni da dieci litri ciascuno. Dovreste essere a posto per i prossimi giorni”. La consegna del latte alla mensa del Centro è completata. Ora può cercare il professore. Lungo la strada è stata assillata dall’incertezza, ma alla fine ha deciso. Per nulla al mondo vorrebbe disturbare il professore, tantomeno per motivi banali. Tuttavia non ha scelta. C’è qualcosa di grave che non è riuscita a capire da sola, o forse, non ha voluto. Un’eventualità che la sua mente ha respinto, prima ancora di contemplarla.
“Professore… mi scusi.”
“Buon giorno Hikaru, ben arrivata. Sei venuta da sola?”
“Ero qui per la consegna del latte. –Esita appena un istante – Se non la disturbo, avrei una cosa da chiederle…”
Sguardo a terra, voce bassa, mentre parla tormenta l’orlo della camicetta. Si vede che è in ansia.
“Tu non disturbi mai, Hikaru. Vieni, prendiamo un caffè.” La accompagna nello studio privato.
Attende che si trovi a suo agio, poi con un lieve sorriso, si mette in ascolto.
“Dì pure.”
“Si tratta di Daisuke!”
Lo immaginavo.
La ragazza prende un respiro profondo, si sforza di mettere ordine nel caos dei pensieri.
“Professore, dopo l’incidente è cambiato! Si è chiuso in sé stesso. Si sente… – cerca la parola giusta – si sente minacciato.”
Umon la lascia parlare.
“Non ha paura, no. Sembra piuttosto che un pensiero fisso si sia impossessato di lui. Professore, devo aiutarlo! Ma lui non vuole, dice che è forte abbastanza e che non vuole perdere nulla prima del tempo.”
Continua a sfogarsi e a tratti si torce le mani, per poi abbandonarle inerti nel grembo. Sembra così piccola, seduta davanti a lui a testa china, le spalle curve. Infine, alza lo sguardo, lo scruta con quei grandi occhi tristi e allarmati.
“Che significa, professore? Che devo fare?”
Brevemente, considera le alternative: lasciare che il segreto di Daisuke rimanga tra loro, tra padre e figlio? Forse sarebbe la cosa migliore. Di sicuro lo sarebbe per lei. Ma per lui? Il dubbio si insinua. Sa bene che suo figlio ha bisogno della forza tranquilla di questa ragazza minuta e tenace. La sua vicinanza lo ha rasserenato, lo ha reso più stabile… Ma ora non riesce a parlarle. Lo capisco. Anche per me sarebbe lo stesso.
Decide di essere franco.
Si alza, gira intorno alla scrivania, le si avvicina. La giovane si alza a sua volta.
Sceglie con cura le parole, non vuole nasconderle nulla, ma nemmeno ferirla inutilmente. Una mano sulla spalla, l’altra a sollevarle leggermente il mento, la guarda negli occhi: “Hikaru, Daisuke sarà con noi ancora per poco. La ferita lo porterà via in pochi mesi.”
E’ come uno schiaffo violento, che le strappa un grido. Ma il grido, feroce, lacera il cuore e la mente. Dalla bocca esce appena un filo di voce, un singhiozzo strozzato.
“Non è giusto! Professore, non è giusto! E’ così giovane!” Siamo così giovani!
Deglutisce a fatica. Avvampa a quel pensiero meschino. Il dolore è di Daisuke, la condanna è di Daisuke! Di nessun altro. Ed è lui che bisogna compiangere. Nessun altro.
“Professore, com’è possibile? Che cosa possiamo fare?”
La abbraccia paterno e in attesa che si acquieti il tremito che la scuote, le spiega pazientemente che quel tipo di contaminazione sulla Terra non esiste; non esistono studi riguardo agli effetti sugli organismi viventi e di conseguenza, purtroppo, non esistono nemmeno rimedi. Lui se ne sta occupando giorno e notte, ha coinvolto i suoi amici medici, gli stessi che hanno curato Daisuke al suo arrivo… Tutto quello che si può fare, al momento, è sfiammare la zona e lenire il dolore; ma la lesione progredirà…
La stacca da sé e la fissa, turbato a sua volta. Parla a voce bassa, precipitosa.
“Hikaru, stagli vicina. Ora il suo unico desiderio è sconfiggere Vega, finché ne ha le forze. Vive in attesa del prossimo attacco. Teme solo di non avere più tempo. Aiutalo a vivere il tempo che resta, lasciagli fare le cose che ama, le cose di sempre.”
“Sì, professore. Lo aiuterò.”


Sulla via del ritorno, gli zoccoli al passo la cullano a un ritmo che anestetizza il dolore. Ha tempo di meditare. La vita tornerà come prima, Daisuke. Te lo prometto. E il tempo che resta, ti basterà.
Le brillano gli occhi, mentre si fa strada un nuovo pensiero: Vega sarà sconfitto. E anche io farò la mia parte.

***



Dalla porta accostata filtra una lama di luce e rischiara debolmente le scale. Scendendo, sente il lieve rumore dei preparativi, poi tutto tace. Si ferma un momento prima di entrare; ad occhi socchiusi, la immagina. Seduta in cucina, Hikaru lo aspetta per colazione.

Per i vostri commenti: https://gonagai.forumfree.it/?t=71687755

Edited by Annushka18 - 22/12/2015, 12:49
 
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Nessuna novità, solo un rimando.

Missione da Vega. Punto di vista di Hikaru.

Vedi qui: https://gonagai.forumfree.it/?t=71597672
 
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view post Posted on 21/1/2016, 09:29     +1   +1   -1
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Facciamo una capatina nel campo degli avversari. Ricordate l’episodio 59? La prima volta che lo vidi, mi saltò agli occhi una certa somiglianza del giovane protagonista con Actarus: ripetitività di un prodotto seriale che doveva bruciare i tempi di realizzazione? Nooo! Questo sì, che sarebbe deprimente. Mi rimase anche impresso il fatto che il ragazzino fosse un vero e proprio leader, riconosciuto da tutta la squadra. Fissazione giapponese per le gerarchie? Non solo.
Dietro c’era una storia, quella che vado a raccontare. L’ho presa un po’ alla larga: comincio dalla mamma del protagonista, anzi, dalla nonna. Io mi sono divertita a scrivere, spero anche voi a leggere. Si fa per dire: date le premesse dell’anime, non ci sarà molto da ridere.
Avvertenza: Shooting riconoscerà un’ambientazione e alcune citazioni dirette della sua ff
Estate. Spero non se ne abbia a male. Altrimenti, me ne scuso.


La squadra



-capitolo 1-
Era una mezzosangue. Ecco cos’era. Sua madre era arrivata da Fleed, negli ultimi anni di Yabarn il Vecchio. Aveva seguito suo padre. A quei tempi il pianeta Vega intratteneva relazioni di buon vicinato con tutti; nessuno si sarebbe mai tirato indietro davanti ad una richiesta di collaborazione delle autorità veghiane. Per questo, lui aveva lavorato quasi un anno su Fleed, allo studio delle interazioni tra ecosistemi e della loro conservazione. Era un ingegnere ambientale. E lei era una biologa fresca di laurea. Si erano incontrati nelle grandi serre-laboratorio che punteggiavano le zone disabitate di Fleed. Per Vega quella era un’esperienza molto significativa. Apprendere quelle tecniche era considerato un obiettivo di primaria importanza, collegato alle residue speranze di riportare il pianeta a parametri ambientali compatibili con la vita. Ormai, le zone abitabili senza l’ausilio di supporti artificiali, si andavano sempre più restringendo, ma il governo, per volere del re in persona, profondeva enormi sforzi economici e scientifici, nel tentativo di invertire la tendenza.
Non era stato facile lasciare la sua terra così verde, per le lande desertificate e le soffocanti città di Vega, ma l’aveva fatto per seguire l’uomo che amava. Erano partiti insieme, pieni di entusiasmo e di speranze. Sacrificava la sua famiglia, il suo mondo, ma credeva fermamente di poter essere utile a lui e al suo popolo. Insieme, sognavano la rinascita di un intero pianeta.
Purtroppo, quei sogni presto impallidirono. Vega era un ambiente difficile, anche umanamente. Un popolo guerriero, dall’atteggiamento predatorio, aveva portato la propria stessa terra sull’orlo del disastro. Le pressioni dei gruppi più bellicosi si moltiplicavano. Perché spendere soldi ed energie, per un processo di risanamento lungo e complesso, ma dall’esito assai incerto? Quando con poche, decise campagne militari si sarebbe potuto conquistare agevolmente tutto ciò di cui Vega aveva bisogno? Materie prime, risorse energetiche, tanti mondi da colonizzare, al posto del vecchio pianeta ormai esausto. Senza contare il prestigio e la gloria che avrebbero circondato per sempre il nome di Vega…
Proprio allora, il vecchio re morì e salì al trono colui che di lì a poco si sarebbe fatto chiamare Yabarn il Grande, l’imperatore della nebulosa. Il nuovo sovrano si circondò subito di uomini fidati: Gandal, Dantus, Barendos, giovani ufficiali, suoi compagni all’Accademia Militare. Ben presto, i fondi per le ricerche sull’ambiente si assottigliarono vistosamente, mentre un fiume di denaro cominciava a riversarsi nelle casse degli istituti che si occupavano di potenziare gli armamenti.
Lei era ancora una bimbetta, quando suo padre perse il lavoro e fu costretto a mendicare un posto nell’esercito. Non c’era via d’uscita: le sue competenze non valevano più niente; se voleva sfamare la famiglia, doveva piegarsi a prendere ordini da illetterati e, se necessario, perfino a rischiare la vita senza batter ciglio.
Le missioni esplorative erano sfibranti. Per mesi e mesi era comandato ad azioni di pattuglia, o meglio, di spionaggio, che violavano in profondità lo spazio vitale di pianeti sempre più lontani. Dovevano carpire quanto più possibile informazioni utili agli strateghi delle guerre del futuro. Nel frattempo, sua moglie si era ammalata. L’inquinamento aggressivo di Vega e la solitudine forzata avevano avuto ragione della sua resistenza. La gioia di veder crescere la figlia si era venata di inquietudine. L’angoscia di non sapere se l’avrebbe vista donna si era fatta sempre più opprimente.
Sua madre morì, che lei aveva quindici anni. Il padre non fece in tempo a rivederla viva. Si trovava in missione oltre i limiti del loro sistema planetario e non era servito a nulla supplicare una licenza anticipata. Tanto, si era sentito rispondere, non avrebbe potuto far nulla per la moglie.
Rimase sola.
Per giorni e notti urlò e urlò e urlò. Non usciva più di casa. Odiava tutti. Odiava quel mondo dove era nata, ma che non sentiva suo; odiava la madre morta, che l’aveva fatta nascere proprio lì; odiava il padre lontano; odiava se stessa, gli altri, tutti! Urlò fino a diventare roca, pianse finché le si seccarono gli occhi. Suo padre era tornato e ripartito. Ora doveva vivere. Ora doveva farsi strada in qualche modo e non sarebbe stato semplice.
Negli ultimi tempi la propaganda era diventata martellante. Non che fosse difficile convincere i veghiani dell’opportunità di una guerra, ma era necessario individuare un nemico, offrire un preciso obiettivo da colpire. Almeno il primo della serie. Di punto in bianco, cominciarono a girare calunnie infamanti sul conto dei popoli vicini. Si diffondevano resoconti ingiuriosi sui loro usi e costumi; si rideva di caricature volgari delle loro fisionomie. Si dichiarava apertamente che presto sarebbero tutti caduti sotto il dominio del superiore popolo di Vega.
La campagna di denigrazione colpiva maggiormente il più importante dei vicini di Vega, il pianeta Fleed. Evidentemente c’erano buoni motivi… Come mai i fleediani erano tanto ricchi e il loro pianeta così florido? Che segreti nascondevano? Certo, erano decenni che si ingrassavano con i loro traffici. Sostenevano di voler mantenere buoni rapporti con tutti, in realtà dissanguavano i malcapitati che intessevano relazioni con loro e neutralizzavano con la loro diplomazia melliflua ogni tentativo di ristabilire la giustizia, di raddrizzare torti secolari. Non era successo così anche a Vega? Non aveva il governo precedente profuso ingenti risorse in inutili programmi di ricerca, che ancora una volta avevano impinguato solo il Tesoro della Corona di Fleed, mentre la situazione dell’ambiente, su Vega, era andata inesorabilmente peggiorando? Gli scienziati erano stati raggirati dai loro infidi colleghi del pianeta verde e a rimanere vittima di quella congiura era stata la popolazione veghiana. Ma ora stava per arrivare la resa dei conti! Bisognava ripulire l’universo dalla peste fleediana! E bisognava guardarsi le spalle, perfino in casa propria. Ce n’erano tanti di fleediani, sparsi un po’ dovunque, ben mimetizzati; molti cercavano di confondere le acque facendosi passare per mezzosangue; molti lo erano effettivamente e forse erano i più pericolosi, serpi in seno, pronti a mordere la mano che li aveva nutriti…
Una mattina, subito dopo l’entrata a scuola, fu affrontata da quattro ragazzini più grandi di lei. La spinsero nello stanzino delle scope, urlando insulti che non aveva mai sentito prima; chiusero a chiave e se ne andarono, sghignazzando che sarebbe marcita lì dentro, finché l’esercito di Vega non l’avesse liberata, per rispedirla su Fleed, insieme a tutti quelli come lei. La donna delle pulizie la trovò nel tardo pomeriggio, avvilita, affamata, spaventata. Molti si erano avvicinati durante gli intervalli, sentendola gridare, ma i quattro presidiavano la porta e nessuno l’aveva voluta aiutare. La mattina dopo, fu punita per l’assenza ingiustificata.
Da allora prese a odiarsi ancora di più. Guardandosi allo specchio non sopportava la propria faccia: gli occhi grandi, il naso sottile, l’ovale regolare delle orecchie. Tirava su i capelli per provare come stesse con la coda di cavallo e subito inorridiva al pensiero di quello che le avrebbero potuto dire o fare, vedendola così… fleediana!
Ma lei non era fleediana! Lei era di Vega! Nata su Vega, da padre veghiano! Lei aveva il diritto di vivere su Vega e avrebbe trovato il modo di farlo.
Alcune settimane dopo l’incidente dello stanzino, fu espulsa dalla scuola. Non solo lei, ma tutti i mezzosangue, anche lontanamente imparentati con fleediani. Fu una liberazione. Non sopportava più di essere segnata a dito da tutti, perfino dagli insegnanti. Non sopportava più nulla. Voleva sparire. Voleva cambiare vita, conoscere altri ambienti, altre persone. Suo padre, ormai, era una pallida figura, che di tanto in tanto, si presentava a casa sua. Non le faceva mancare nulla, ma non provava alcun interesse per lei e lei non sapeva che cosa facesse, nei lunghi periodi di assenza. Probabilmente, ora che aveva ottenuto una promozione, non era più costretto a vagare nello spazio per mesi. Semplicemente viveva altrove, forse con qualcun altro. Chissà... L’aveva abbandonata.
Una sera, sentì passare sotto le finestre una comitiva. Cantavano, bevevano anche un po’, erano giovani, allegri. Non resistette. Pettinò con foga la cascata di capelli corvini, mise un filo di rossetto, tacchi alti –li portava da poco, ma ci sapeva fare- vestitino fasciante e, infine, un tocco rassicurante: un finto neo veghiano in mezzo alla fronte, così, tanto per rompere il ghiaccio, altrimenti, forse, l’avrebbero subito allontanata.
Si girarono in molti, quando comparve e un paio le ronzarono intorno per tutta la sera. Non riusciva a crederci! Nessuno l’aveva maltrattata. Nemmeno rivolto domande imbarazzanti sulle sue origini. Insomma, non l’avevano riconosciuta. Si erano solo divertiti insieme, come ragazzi. E’ vero, lei si era sforzata ogni momento di cancellare la cantilena dolce della parlata di sua madre, di indurire l’accento e, a quanto pare, ci era riuscita! O forse, semplicemente, era piaciuta come persona a quei ragazzi. Sì, forse sì… E ce n’era uno che le aveva tenuto gli occhi addosso per tutto il tempo… Sì… Ma non si era fatto avanti. Chi sarà mai stato?
Passarono molte sere. Non era più riuscita a staccarsi da loro. Gli piacevano tutti! Li amava, perché la apprezzavano; la facevano sentire dei loro. Erano diventati il suo gruppo, la sua famiglia. E poi, c’era lui. Avrà avuto vent’anni, alto, ben fatto, un’espressione tagliente, decisa. Quel suo corteggiatore silenzioso, che le aveva detto il suo nome e poco più, ma l’aveva presa sotto la sua protezione. Lei era sua. Chi la infastidiva, se la vedeva con lui. Comprese le ragazzine gelose, che ogni tanto le buttavano in faccia qualche acidità. Questo la faceva impazzire. Le sembrava di aver ritrovato un padre, un fratello. Lo adorava, per questo. Ma c’era dell’altro: il suo sguardo. La faceva fremere. E non era paura… Così come fremeva, trattenendo il respiro, quando lui le passava il braccio intorno alle spalle…
Quella sera era in ritardo. Stava uscendo di corsa per raggiungerli, quando, nella penombra dell’androne, si scontrò con qualcuno. Si scusò quasi gridando, ma quello la afferrò per le braccia, le soffiò nell’orecchio: “Sono io!” e la spinse contro il muro. Poco mancò che svenisse per lo spavento, ma appena si riebbe dalla sorpresa, sentì le labbra di lui cercare le sue e poi la lingua, prepotente, entrare nella sua bocca. Era senza fiato, ammutolita. Sentiva il respiro di lui farsi affannoso e le sue mani che scorrevano senza sosta su tutto il suo corpo. La sensazione di quelle carezze era così intensa, da passare attraverso la stoffa pesante del giaccone invernale. Un brivido la percorse tutta, più forte che mai. “Fammi salire da te! Ti prego! Io… ti voglio! Voglio averti!” Era roco mentre parlava. Si sentì rispondere con un filo di voce: “Sì, sì…” Non capiva più niente, non trovava le chiavi di casa. Lui continuava a starle addosso. “Aspetta, ti prego!” Le aveva trovate. La trascinò per le mani sul letto, la spogliò al buio. C’era la luna piena quella sera e bastava. Le strappò i vestiti. “Aspetta, ti prego, aspetta!” Era stordita, non le era mai successo niente di simile, lui sembrava una furia. Ora era nuda e anche lui, sopra di lei. Le allargava le gambe a forza, smaniando. Le faceva male, ma insieme la attraeva. Sentiva ancora quel brivido e cercava di abbandonarvisi. Era affamata di carezze. Lui andò avanti, violento. La prese, serrandole i polsi, schiacciandola sotto di sé. Si sentiva straziata. Le grida di lei lo eccitavano ancora di più. Le sembrò un tempo infinito, finché lui si fermò, soddisfatto. Allora, parve rendersi conto che era sconvolta. Prese ad accarezzarla, sussurrando: “Ti amo, ti amo, ti amo…”. Lei lo stringeva, singhiozzando convulsa. Ti amo anch’io! Ti amo! Ma è questo l’amore? E’ questo? Fa così male? Continuava a stringersi a lui. Non aveva che lui.

-continua-

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-capitolo 2-

Vi furono molti incontri, dopo di quello. Ogni volta pregava tra sé che non fosse doloroso come la prima. Non sempre lo fu. Lui la raggiungeva quasi tutte le sere e lei si faceva trovare pronta, come se dovessero uscire. Ma non uscivano mai. A lui piaceva spogliarla e guardarla spogliarsi.
Capitava pure che non desse notizie di sé per giorni, a volte per settimane. Forse aveva altre donne, anzi, era probabile. Ma questo a lei non importava. Ciò che non sopportava era l’idea di essere abbandonata. Perciò, ogni sera si preparava per lui e quando tornava, non gli chiedeva mai nulla. Gli andava incontro sorridendo radiosa, gli sfilava il mantello, gli stivali e spiava un suo cenno, cercando di indovinare il suo desiderio. Del resto, era giusto che fosse così. Lui era bello, forte e, secondo le pettegole della comitiva, aveva un futuro. Nessuno sapeva di preciso, ma pareva frequentasse i corpi d’elite, qualcuno addirittura mormorava della Guardia Scelta di re Vega. Una possibilità che la turbava non poco. Anche per questo, non gli chiedeva mai nulla.
Passò del tempo. Lui tornava comunque da lei e la trovava sempre lì, pronta. Usciva il meno possibile. Era stanca di insulti e di sguardi cattivi. E poi, aveva capito che a lui non faceva piacere. Avevano smesso di frequentare anche la comitiva. Più di una volta un apprezzamento di troppo aveva rischiato di scatenare una rissa tra maschi. Erano tutti giovani, impetuosi, pieni di sé. Si sentivano padroni del mondo e cercavano di continuo pretesti per menare le mani. Del resto, la tensione era alle stelle ovunque. Ci si aspettava che accadesse qualcosa di grosso da un momento all’altro.


Avevano appena fatto l’amore. Era stato meno brusco del solito e lei aveva pianto di gioia e di piacere. Erano ancora abbracciati. Con la testa reclinata sul suo petto, lei godeva del tepore di quell’abbraccio, che le scaldava il corpo e il cuore. All’improvviso, un soffio di gelo polare: “Tu sei fleediana, vero?”
Si mise a sedere di scatto, non riusciva ad articolare le parole. Le parve che si fosse spalancato un abisso tra loro. Ad occhi bassi, il volto in fiamme, mormorò: “Come lo sai?”
“Ce l’hai scritto in faccia! E poi, quando ti lasci andare, viene fuori l’accento…”
Si voltò a guardarla: sembrava più piccola, tremava. Cercava di coprirsi stringendosi le braccia al petto. Provò qualcosa di simile alla pena. Non capiva mai quanto male potesse farle, col corpo e con le parole. Si sforzò di essere benevolo: “Tu mi appartieni, non hai nulla da temere.”
“Mio padre è di Vega! Solo mia madre era di Fleed. Si conobbero ai tempi della collaborazione scientifica…”
La interruppe la sua risata dura, la voce sarcastica: “Ah! Quella gran montatura! Ma sappi che finirà presto la prepotenza di Fleed.”
Abbassò il tono: “Si prepara una guerra, stiamo per ridurre alla ragione il pianeta di tua madre… Hai ancora qualcuno laggiù?”
“Non lo so.”
“Comunque non credo che si potrebbe fare molto per loro.”
Abbassò la voce ancora di più: “La guerra sarà totale!”
“Mia madre parlava poco di Fleed. Da quando aveva seguito il marito su Vega…”
La interruppe di nuovo, arrogante: “Non mi interessa quello che ha fatto tua madre su Vega! Solo tu mi interessi. Vieni qui…”
La costrinse a girarsi verso di lui, afferrandole il mento perché lo guardasse negli occhi: “Finchè sarò vivo, nessuno oserà toccare la donna di una Guardia Scelta di Vega!” Si sentiva come morta, mentre ricominciava a baciarla.


L’aveva detto. Finalmente l’aveva detto. Avrebbe dovuto capirlo da sé. Quei modi imperiosi… aggressivo anche quando voleva essere dolce… Era confusa: la sofferenza per quell’amore violento, geloso, che la trattava come un possesso, si mescolava all’orgoglio di essere stata scelta da lui, alla sensazione rassicurante di non dover più badare a se stessa, di non doversi più guardare le spalle. Però, quell’annuncio di guerra l’aveva agghiacciata. Non tanto per Fleed, ma per lui. Per lui! La guerra… sarebbe stato senz’altro in prima linea, o impegnato in qualche missione speciale… quelle più orribili, quelle che potevano coprirti di gloria o ucciderti.


La notizia della gravidanza lo colse di sorpresa. Non ci aveva mai minimamente pensato. Eppure, in quei quattro anni, sarebbe potuto succedere in ogni momento. Non sapeva come comportarsi. Per la prima volta, si poneva il problema di trattarla con delicatezza. Quasi non la toccava più, per timore di danneggiare quella piccola, preziosa parte di lui, che ora era in lei. La portò subito al Centro medico riservato alle famiglie dell’elite. L’assistenza era eccellente, i controlli frequenti, la discrezione assoluta. Fra un controllo e l’altro, spesso scompariva. Aveva da chi andare. Ma ad ogni controllo era presente e parlava personalmente con i sanitari. Fu oltremodo orgoglioso di sapere, quando arrivò il momento, di essere in attesa di un maschio.
Il bimbo nacque in buona salute. Gli fu dato un nome veghiano, Ains, lo stesso di suo nonno paterno, che aveva già portato il nonno di questi e chissà quanti altri antenati, prima di loro. Anche lei si riprese velocemente. Adesso il suo mondo era il neonato. Da quando era morta sua madre, non aveva più amato nessuno con tanta passione, trasporto, entusiasmo. E non si era mai più sentita amata così. I primi giorni e settimane passarono come in un sogno: aveva già imparato a guardarla, mentre lo allattava, occhi negli occhi; già sorrideva, quando la vedeva; ogni giorno, ogni momento, faceva qualcosa di nuovo, meraviglioso, incredibile… Lei passava dall’entusiasmo estatico, alla morsa dell’angoscia più nera, quando pensava che nulla, mai, mai nella vita, avrebbe dovuto farlo soffrire, lui, così bello, così fragile, così delicato e perfetto! In certi momenti, provava il desiderio potente di circondarlo di nuovo con il suo corpo e di restare per sempre così.
Suo figlio non avrebbe dovuto subire quello che aveva subito lei. Non era necessario. In fin dei conti, sarebbe stato semplice assicurargli una vita tranquilla. Suo padre era della Guardia Scelta di Vega, un nome che da solo bastava a incutere timore e rispetto in chiunque. Lei avrebbe dovuto solo seppellire Fleed per sempre, dimenticare le sue favole, le sue ninne nanne, il volto di sua madre… Rabbrividì. Ains sarebbe cresciuto come un veghiano puro.
Per fortuna, la guerra non sembrava più così imminente. I toni della propaganda antifleediana si erano abbassati. Il saggio governo di Vega preferiva ampliare i propri arsenali, per il progresso della scienza, per l’incremento dell’occupazione e per assicurarsi una superiorità militare indiscussa, prima di intraprendere qualsiasi avventura. A bassa voce, nei circoli ben informati, si mormorava anche degli enormi problemi di approvvigionamento energetico, che da anni affliggevano Vega. Le previsioni a breve e medio termine parlavano chiaro: l’estrazione e l’uso indiscriminato del vegatron come fonte di energia, avrebbero portato il pianeta al collasso ambientale, ma forse, prima ancora, avrebbero provocato una crisi economica generalizzata. Le miniere erano in esaurimento un po’ dovunque. Sempre i ben informati ricordavano che una parte importante degli studi condotti su Fleed anni prima, verteva proprio sull’ottimizzazione delle fonti di energia rinnovabile, in uso da tempo su quel pianeta. Poi, quel filone di ricerca era stato abbandonato. Ma di questo si parlava esclusivamente tra intimi, facendo ben attenzione a che non vi fossero orecchi indiscreti.
In ogni caso, la prospettiva della guerra era stata temporaneamente accantonata.
Suo figlio cresceva. Se ne occupava una governante di provata esperienza, la stessa che aveva allevato il padre. Se l’era trovata in casa senza preavviso: l’aveva chiamata lui, perché rivoleva a disposizione la sua donna. All’inizio le era sembrato insopportabile. Non si era mai sentita così profondamente offesa, oltre che ferita, e meditava di protestare. Provò più volte a pregarlo di mandar via quella salariata, che prendeva il suo posto. Ogni volta, fu zittita dalla prepotenza di lui.
Alla fine, aveva ceduto. Si era costretta a trovare del buono in quella decisione. Si era detta che quella donna avrebbe educato suo figlio meglio di lei, ne avrebbe fatto un vero veghiano. E questo era il suo bene. Per questo, anche, fu contenta quando il padre lo iscrisse all’unica scuola che permetteva, poi, di essere ammessi all’Accademia Militare Imperiale. Era suo figlio e lo voleva forgiare a propria immagine.
In quella scuola, già dai sei-sette anni si imparava ad usare le armi, a lottare, a farsi valere con la forza tra uguali, a sottomettersi ciecamente ai superiori. Poi, da più grandi, si studiava con attenzione la storia dei gloriosi eroi di Vega, per educare i giovani guerrieri.
Il primo anno di scuola di Ains coincise con la ripresa dei preparativi bellici contro Fleed. Girava voce di una trattativa in corso da diverso tempo, che pareva coinvolgesse addirittura la principessa ereditaria. Ad un tratto, però, si venne a sapere che gli abboccamenti si erano interrotti e tutto era naufragato miseramente, per la sfrontatezza con cui i fleediani continuavano ad accampare pretese. Per l’onore e la sicurezza di tutto il popolo di Vega, occorreva reagire. La mobilitazione avvenne fulminea. I piani pronti da anni entrarono immediatamente in funzione. La trappola era scattata: Fleed non avrebbe avuto scampo.
I bollettini di guerra si susseguivano frenetici, riferendo di vittorie spettacolari, contro nemici che si rivelavano più ostici del previsto. Su Fleed si era sviluppata una resistenza, che contava su una loro arma cosiddetta invincibile. Ma sicuramente, tra breve, quei cani sarebbero stati spazzati via, schiacciati come insetti dal tallone potente di Vega.
Anche la scuola di Ains, come e più delle altre, era inondata da questo genere di notizie. Agli eroi del passato si affiancavano quelli dell’attualità. La mattina, inquadrati per l’appello, bambini e insegnanti cantavano inni patriottici. La visita di un colonnello era stata una vera festa. L’eccitazione era al colmo, mentre raccontava le gesta che aveva visto compiere sotto i propri occhi. Alla fine, quando anche l’ultimo disco ribelle era stato abbattuto, l’uditorio era scattato in piedi con un ruggito e l’aveva applaudito compatto, inarrestabile, per lunghi, elettrizzanti minuti.
Ains la stessa fortuna l’aveva anche in casa. Quando il padre tornava in licenza, aveva il permesso di stare con lui un giorno intero, addirittura saltando le lezioni, se necessario. Quelle giornate passavano in un lampo. Il padre lo affascinava con i suoi racconti, lo esaltava con la sua forza. Se lo immaginava schiacciare la testa dei nemici, abbattere i loro ridicoli dischi e rideva a crepapelle al sentire come i prigionieri sudavano freddo, quando lui compariva e cominciavano a supplicare come femminucce, al solo vedere la frusta. Era fiero di sapere che presto non ne sarebbe esistito più neppure uno di quegli esseri senza onore e senza dignità e che, finalmente, si sarebbero potuti trasferire tutti in un luogo bellissimo, che spettava a Vega di diritto, perché tra i popoli della galassia loro erano i migliori, i più forti, i più intelligenti.
La licenza successiva si stava avvicinando. Madre e figlio si preparavano ad accogliere il Comandante di primo grado della Guardia Scelta. Con la guerra, la sua carriera aveva bruciato le tappe; tra i giovani ufficiali superiori era uno dei più promettenti; nel prossimo futuro avrebbe potuto ambire tranquillamente ai posti più alti.
La comunicazione giunse il giorno prima di quello fissato per il suo arrivo: “Recarsi urgentemente al Ministero della Difesa”. Si sentì venir meno. Erano anni che viveva appartata, all’ombra di lui. Non sapeva neanche dove fosse il Ministero e aveva paura. Tanta paura. Pensò di aspettarlo, ma le lettere sulla cartolina sembravano impresse a fuoco: URGENTEMENTE. Si preparò con ogni cura possibile. Era diventata una bellissima donna e lo sapeva. Anche lui, pur continuando a umiliarla, non aveva mai smesso di ammirare la sua bellezza, quella che l’aveva attratto irresistibilmente, dalla prima volta che l’aveva vista.

-continua-

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Edited by Annushka18 - 23/1/2016, 12:29
 
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-capitolo 3-

Fu ricevuta da un funzionario di un certo livello. Con parole di circostanza, la informò che suo marito era caduto da eroe. Vittima di una vile imboscata, aveva distrutto più di dieci dischi nemici, prima di essere abbattuto a sua volta, per la gloria di Vega! Non vi era speranza di recuperare il corpo. Le sue ceneri giacevano nel mare fleediano, che presto sarebbe stato riscattato dalla schiavitù e sarebbe diventato un sacrario per lei e per tutte le vedove degli eroi. In considerazione del rango del caduto, il Ministero si sarebbe fatto carico dell’educazione di suo figlio, erogando una borsa di studio, fino al termine della sua formazione.
Doveva aver avuto un malore, perché non ricordava nulla di ciò che era successo dopo l’annuncio. Quando si era ripresa, si trovava già in casa propria. Era stata accompagnata da una navetta di servizio del Ministero e assistita da un medico, che non aveva mai visto prima. Assicuratosi che le sue condizioni fossero buone, il medico si era poi congedato con un rigido saluto militare.
Era sola.
Era di nuovo sola.
La guerra si era presa il suo uomo. Quell’uomo egoista e brutale, che aveva visto in lei un oggetto di dominio, una preda invidiabile che, una volta catturata, era riuscito sempre e comunque a piegare, quell’uomo non c’era più. In quel momento, non riuscì a versare lacrime per lui. Piuttosto, si sentì svuotata. Completamente svuotata. Di nuovo si afflosciò sul pavimento, priva di conoscenza.
La soccorse la governante, appena rientrata dalla scuola con Ains.
“Signora! Che succede? Un medico! Serve un medico!”
Non vi fu bisogno di chiamarlo, bastò sollevarle i piedi e rinfrescarle un po’ il viso.
“Mamma! Mamma!” La voce di Ains la fece tornare del tutto in sé. Le si buttò al collo.
“Va tutto bene! Sto bene, bambino mio, sto bene.” Lo abbracciò forte, se lo strinse al petto, accarezzandogli la testa: era orfano! Suo figlio era orfano! L’idea del dolore di suo figlio le faceva orrore. Era annientata, impotente. Era successo a lui, proprio a lui, al suo bambino, quello che non avrebbe mai voluto veder soffrire. Questo pensiero era intollerabile, ma si impose di essere forte davanti a lui. Ingoiò più volte le lacrime e prese fiato, prima di iniziare a parlare.
“Ains, tuo padre è un grande guerriero…”
“Sì! E domani mi farà vedere la sua nave! Mi ha promesso che domani lo farà!”
“Sì, te lo ha promesso. Ma ora lui… domani… non verrà.”
Il bambino la guardò stupefatto, suo padre non aveva mai mancato un appuntamento.
“Ains, tuo padre ha combattuto tutta la vita per la gloria di Vega e tu sai quanti nemici invidiosi minaccino il nostro pianeta.”
“Sì! E lui li sconfiggerà tutti!”
“Ains, purtroppo c’è stato un nemico sleale, che lo ha colpito a tradimento e lui...”
Il bambino strinse i pugni istintivamente, trattenendo il respiro.
“…è morto!”


Gli anni successivi furono molto faticosi per Ains. A scuola, gli orfani degli eroi di guerra costituivano un gruppo a sé stante. Gli adulti, dal direttore ai custodi, senza escludere gli insegnanti, li trattavano riguardosamente, a volte, addirittura, ossequiosamente. Di continuo i loro padri venivano portati ad esempio e si dava per scontato che anche loro fossero destinati a un futuro di gloria. I coetanei li invidiavano tutti, senza eccezioni. Chi cercando di aggregarsi, chi non perdendo occasione per far loro pagare i privilegi di cui godevano. Non era bene girare da soli, se si era “figli di eroi”. Poteva capitare qualcosa di brutto.
Ad Ains capitò una mattina, mentre tutti uscivano dalle camerate. A partire dai quattordici anni, era obbligatorio trasferirsi a vivere nelle strutture dell’istituto. Si tornava a casa solo per le vacanze, o per motivi eccezionali. Non era ancora abituato a quella vita, ogni giorno perdeva qualche cosa. Quella volta però, era sicuro di aver lasciato la giacca dell’uniforme al posto giusto, la sera prima, ma ora non la trovava. Era rimasto solo, stava facendo tardi, ma come poteva presentarsi all’adunata in maniche di camicia?
“Perso qualcosa?”
Non ebbe tempo di rialzare la testa da sotto il letto, che un calcio lo colpì in pieno viso. Si sentì afferrare per il colletto e sbattere contro l’armadio. Era poco più alto di lui e grosso almeno il doppio. Lo teneva leggermente sollevato da terra.
“Senti verme, tuo padre sarà pure morto in guerra, ma non è l’unico morto! Quindi, non ti sognare di metterti a comandare qua dentro. E’ chiaro?”
Il sangue che colava dal sopracciglio spaccato gli offuscava la vista, ma era una ferita superficiale. Non provava dolore, piuttosto una rabbia accecante.
Una ginocchiata ben assestata costrinse il bestione a piegarsi in due mugolando. La sedia di legno massiccio, che gli capitò sotto mano, si sollevò come d’incanto e si abbatté pesante sulla testa dell’aggressore, facendolo stramazzare a terra. Aveva qualcosa di rotto, o forse era solo stordito. Ains lo trascinò fino al suo posto, lo sistemò seduto ai piedi del letto, gli sollevò le braccia ben distanziate e lo legò per i polsi alle sbarre. Poi gli sfilò i pantaloni e li gettò nel tritarifiuti.
Ormai aveva perso l’adunata, sarebbe stato punito. O forse no… Ora non gli importava però, doveva farla finita con quell’animale.
Dopo essersi ripulito il viso, si sedette ad aspettare che si svegliasse. Non appena diede segni di vita, gli si avvicinò guardingo e gli sibilò in un orecchio: “Perso qualcosa?”
Il malcapitato ci mise poco a snebbiarsi del tutto e a rendersi conto della situazione.
“Maledetto! Cane! Figlio di puttana! T’ammazzo! Io t’ammazzo!”
Si divincolava furiosamente, ma Ains era sempre stato un fenomeno con i nodi. E si teneva a distanza di sicurezza dai calci che il prigioniero sferrava. Intanto, provvedeva a documentare la scena, con la videocamera del suo comunicatore portatile.
Lasciò che si sfinisse gridando e agitandosi. Poi, quando fu esausto, cominciò lui.
“Che ti è successo, bestione, non sei andato all’adunata oggi?”
Lo scrutò ostentatamente dalla vita in giù.
“Oh! Forse non hai fatto in tempo a finire di vestirti? Poverino… Lo sai quanto costa un’assenza ingiustificata all’appello?”
L’altro fremeva. Si mordeva la lingua e taceva.
“Te lo dico io. Costa almeno una settimana di sospensione. E svariati “impreparato”, molto difficili da recuperare.”
L’altro continuava a tacere. Avanti pidocchio, avvicinati. Continua la tua conferenza, finché mi vieni a tiro di piedi e allora vedrai…
“Non ti interessa? Forse allora, ti interessa sapere che fine fanno quelli che si beccano una denuncia per aggressione… e non hanno nessuno che li tiri fuori dai guai…”
Lo vide impallidire.
“Nemmeno questo? Va bene. In effetti, tu sei la vittima. Penso che avrai modo di spiegarlo bene a tutti quelli che torneranno in camerata, dopo pranzo. Forse troverai pure qualcuno disposto a crederti.” Poi, ridendogli in faccia: “Ma non certo a slegarti!”
Ormai si era fatto livido.
Ains continuò: “Però, ho l’impressione che il direttore crederà a me.”
Sì, era vero! Era così! Quel maledetto figlio di papà l’avrebbe fatta franca per l’appello mancato e si sarebbe vendicato con gli interessi! Per aggressione c’era fino all’espulsione con disonore da tutti gli istituti dello Stato. E a lui, l’avrebbero data sicuramente! Il padre di Ains era stato nella Guardia Scelta. Ma come gli era saltato in mente? Voleva solo mettere paura a quel novellino, fargli capire chi comandava là dentro. Sembrava innocuo e invece, era finita così.
“Ci stai pensando bestione? Non sai come uscirne?”
Porco! Mi sfotte, perché ha vinto lui… Sì, non so come uscirne. E avrebbe anche potuto finirmi, mentre ero svenuto. Tanto, di sicuro se la sarebbe cavata a buon mercato.
Mentre l’altro rimuginava, Ains proseguì:
“Allora stammi a sentire. Avrai anche poco cervello, ma forse, se stai qui dentro, un minimo di senso dell’onore ti sarà rimasto. Ti faccio una proposta: io non ti denuncio per aggressione e ti libero prima che arrivi qualcuno. Tu mi giuri sul tuo onore e sull’onore di tuo padre, che d’ora in poi mi guarderai le spalle. Ci stai?”
A testa bassa, lo sconfitto respirò profondamente. Maledizione! L’aveva incastrato. Un residuo di amor proprio ferito recalcitrava davanti a quell’unica prospettiva possibile. All’improvviso, suonò la campana del primo intervallo. Già si sentivano voci in cortile, da un momento all’altro poteva piombare qualcuno in camerata!
“Sì! Ci sto! Ci sto! Adesso liberami! Ridammi i pantaloni! Subito!”
“Piano, piano. Con calma. Giuri sul tuo onore e su quello di tuo padre che non mi assalirai mai più e che se qualcun altro ci proverà, tu mi difenderai?”
“Sì! Te lo giuro!”
Ains girò sui tacchi e andò verso il tritarifiuti. Per fortuna, nell’agitazione non l’aveva azionato. I pantaloni del bestione erano ancora lì, un po’ inzaccherati… Glieli lanciò appallottolati tra le gambe e col pugnale che aveva sempre con sé tagliò velocemente i lacci che gli bloccavano i polsi. L’altro scattò in piedi e mentre si rivestiva in fretta e furia, gli venne in mente una cosa: “Un momento: e l’appello? L’assenza?”
“Ce la caveremo. Parlerò io. Chiederemo umilmente perdono e poi dirò in confidenza al direttore che ci siamo sfidati per una ragazza. Mentre lottavamo non abbiamo sentito la chiamata all’appello. Vedrai che ci lascerà in pace. Il direttore è sensibile a certi argomenti…”
Mentre si stringevano la mano e si presentavano, Tsubai lanciò ad Ains un’occhiata a metà tra scetticismo e ammirazione. In quel momento entrò a precipizio l’istruttore di arti marziali, che li aveva cercati per tutta la scuola. “Disgraziati! Dove credevate di nascondervi? Avanti, dal direttore!”

-continua-

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Edited by Annushka18 - 26/1/2016, 20:42
 
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-capitolo 4-

Quella sera, Tsubai ripensava all’accaduto. Incredibile! Era andata proprio come aveva detto Ains. Quando lui aveva dichiarato il suo nome, il direttore aveva subito cambiato tono. Aveva ascoltato con aria sostenuta, ma non ostile, la loro versione dei fatti e la richiesta di perdono. Poi Ains aveva attaccato la storiella della sfida. A quel punto il direttore aveva cambiato anche faccia. Si sorprese a pensare che non avrebbe mai voluto essere nei panni di una ragazza, capitata da sola nell’ufficio del direttore…
Se l’erano cavata con un severo ammonimento e la minaccia di punizioni peggiori per il futuro. Quel ragazzo era in gamba. Per come era cominciata, quella giornata era finita alla grande. E che parlantina aveva. Eh sì, belle parole! L’onore… L’onore di suo padre… Gli venne da ridere. Suo padre il senso dell’onore l’aveva dimenticato da un pezzo, ammesso che l’avesse mai posseduto.
Da quando se lo ricordava, l’aveva sempre visto ubriaco. Non era un soldato, ma un tecnico minerario, specializzato nella valutazione del potenziale energetico dei giacimenti di vegatron. In realtà, già da molti anni, nessuno voleva rischiare la salute rimanendo troppo a lungo nell’ambiente malsano delle miniere. Così, la forza-lavoro in quel settore strategico era costituita in gran parte da immigrati provenienti dalle zone tropicali di Vega. Costretti ad abbandonare le loro terre d’origine rese inabitabili dal surriscaldamento, sopravvivevano sottopagati nelle zone più ricche, ancora relativamente ospitali. La linea del governo era di sfruttarli all’osso, senza concedere nulla più del minimo di sussistenza; tanto, era assai facile sostituirli. Più tardi, sarebbero arrivate masse di deportati da altri pianeti, ma in quel periodo erano ancora loro il nerbo della manodopera.
Il lavoro del padre di Tsubai consisteva precisamente in questo: impedire che qualcuno alzasse la testa. Per quanto umiliati e ridotti in miseria, erano pur sempre veghiani e prima o poi, qualcuno avrebbe potuto accampare diritti. Lui provvedeva a dissuaderli in anticipo. Era un quadro intermedio, sovrintendente di una dozzina di squadre. Un sorvegliante. Un aguzzino, all’occorrenza. Aveva capito ben presto che da lui ci si aspettavano polso e spietatezza, non competenze particolari. Si era adeguato velocemente. Quando tornava a casa per i turni di riposo settimanali, era abbrutito dall’alcool e sfogava frustrazione e bestialità su sua moglie; poi, appena il figlio era cresciuto, aveva cominciato anche su di lui.
Da un anno a quella parte, l’ammissione ai corsi superiori dell’Accademia, con l’obbligo di risiedere nell’istituto, aveva permesso a Tsubai di scappare da quell’inferno. Gli restava di salvare sua madre. Ormai era abbastanza alto e forte da fronteggiare il padre, ma non viveva più in casa. Doveva portarla via. Doveva finire gli studi al più presto, ottenere subito i gradi, in modo da potersi permettere un posto qualsiasi in cui abitare con lei. Era il suo chiodo fisso. Nel frattempo, durante quell’anno, era diventato un piccolo boss delle camerate. Lui si era fatto da solo, non era un raccomandato. Però sapeva riconoscere i propri limiti. In fondo, quell’Ains gli era piaciuto e stare con lui poteva avere dei vantaggi. Decise che avrebbe rispettato il patto.


Si avvicinavano le vacanze d’inverno; Ains era impaziente di rivedere sua madre, dopo mesi. Non erano mai stati separati così a lungo e gli era mancata. La morte del padre li aveva legati, come non era mai successo prima. Non aveva particolari ricordi della madre, nel periodo precedente la tragedia; la possente figura del padre occupava tutto il suo orizzonte di bambino. I sogni, la fantasia, il divertimento, il timore e la rassicurazione, il rimprovero e l’incoraggiamento, tutto girava intorno a lui. Invece, i ricordi della vita quotidiana portavano impresso il volto della governante. La madre era sullo sfondo; talvolta sorridente; più spesso assorta e pensierosa. Col passare del tempo, la sua figura sottile si faceva sempre più esile, quasi evanescente, consumata da una tristezza che Ains percepiva ad occhi chiusi, senza però poterne afferrare il motivo. A volte, quando erano soli, lo prendeva in braccio e gli cantava all’orecchio canzoni di un paese lontano, che lui non riusciva mai ad imparare, tanto gli suonavano bizzarre, quelle parole. Succedeva solo nel pomeriggio di libertà della governante. Allora, se era possibile, la madre gli cucinava anche dei biscotti speciali, come quelli che sua mamma preparava per lei. Li mangiavano in fretta, ancora caldi, con aria di complicità; poi rimettevano tutto a posto in cucina e facevano solenne promessa di non raccontare mai nulla a nessuno…
Poi, la tragedia.
A sette anni, capisci la morte dalla faccia dei grandi. Quella di sua madre s’era fatta di pietra, nello sforzo sovrumano di controllarsi davanti a lui, mentre gli annunciava che suo padre non c’era più. Non l’aveva mai vista piangere. L’aveva sentita, però. Di notte, quando gli incubi lo svegliavano, la udiva singhiozzare piano, sola nella sua stanza. Allora, al buio, si serrava gli occhi con i pugni chiusi, per non lasciar uscire le lacrime e giurava a sé stesso, agitandosi tra le coperte, che un giorno avrebbe vendicato suo padre e consolato sua madre.
Oppure, a sette anni, la morte la capisci dal vuoto. Non hai chiaro che cosa significhi che l’assenza durerà per sempre, ma ogni momento una sensazione tormentosa ti assale: tuo padre non c’è; il suo posto a tavola non viene apparecchiato; la sua poltrona rimane vuota; i giochi che facevi con lui sono troppo tristi da fare con altri e finisci per non sopportarli…
All’improvviso, nella sua vita di bambino compatta e ben ordinata, si era aperta un’enorme falla, una voragine spaventosa, che l’avrebbe inghiottito nella sua oscurità, se qualcuno non l’avesse pian piano colmata, in modo graduale, ma deciso. Ad ogni istante, impercettibilmente, sua madre riprendeva lo spazio che le era stato sottratto.
Aveva deciso di tenere la governante. Le era d’aiuto soprattutto per gestire i rapporti con l’esterno, in primo luogo con la scuola. Dal giorno di quella malaugurata convocazione al Ministero della Difesa, aveva vissuto nel terrore. Quello che era stato chiamato suo marito, il padre di suo figlio, in realtà non l’aveva mai sposata. Si era limitato a riconoscere il bambino, non lei. Pertanto, a norma delle leggi vigenti, avrebbe potuto essere arrestata e deportata in qualsiasi momento. Temeva per sé, ma l’idea di Ains in un orfanotrofio la faceva uscire di senno.
Tuttavia, non accadde nulla. Probabilmente, le priorità erano cambiate. Dopo la distruzione di Fleed, la furia delle Forze di Vega si era avventata contro altri mondi; in quei pochi anni, si erano aperte decine di fronti e quello interno aveva perso interesse; si era assistito ad una serie ininterrotta di impressionanti vittorie, ognuna seguita da stragi e deportazioni. Evidentemente, gli ultimi fleediani rimasti non costituivano più una minaccia.
Dunque, aveva deciso di servirsi della governante per limitare all’essenziale i contatti al di fuori delle mura domestiche. In casa, invece, aveva ripreso il controllo. Si occupava lei di ogni aspetto della vita di Ains e, soprattutto, passava con lui ogni momento possibile. Gli era accanto mentre studiava; leggevano insieme i suoi libri, guardavano i film preferiti, giocavano. Lo metteva a letto la sera e poi lo aiutava ad alzarsi; faceva tutto quello che per anni le era stato impedito. Soprattutto, parlava con lui e lo ascoltava. Raccoglieva le sue confidenze infantili, quelle che non era mai riuscito a esprimere a nessuno, stretto com’era stato fra la professionalità della governante e la durezza del padre. La paura, il dolore, la solitudine, le asprezze della vita scolastica, lentamente tutto emergeva e incontrava tenerezza e comprensione.


Una volta, Ains tornò a casa sovreccitato. Era stato invitato da un nuovo compagno di scuola a studiare da lui. Finora, il ragazzino era stato istruito in casa da un precettore, ma durante il triennio propedeutico ai corsi superiori dell’Accademia, era obbligatorio frequentare le lezioni. Così, Thoroa era stato inserito nella classe di Ains. Avevano fatto subito amicizia, perché avevano scoperto di avere molto in comune. Anche lui aveva perso suo padre nei primi mesi di guerra e anche suo padre era stato un ufficiale molto importante.
Ottenne il permesso di andare, scortato dalla governante. Al rientro, erano entrambi al settimo cielo. La governante non smetteva più di magnificare la signorilità e la ricchezza della famiglia di Thoroa; Ains, da parte sua, era entusiasta del gigantesco simulatore di volo ultimo modello, che troneggiava nella stanza del compagno ed era anche molto compiaciuto di essere riuscito a batterlo in una battaglia, a dire il vero solo alla fine del pomeriggio, evidentemente dopo un lungo allenamento consistito in una serie notevole di sconfitte… Fu impossibile rifiutare la promessa di ulteriori, reciproci inviti.
Così i ragazzini continuarono a frequentarsi, non senza qualche inquietudine da parte della madre di Ains. A volte, alcuni accenni fugaci a cose viste o sentite a casa di Thoroa, l’avevano impensierita, ma ciò che la preoccupava di più era la possibilità di essere a sua volta invitata. A quel punto dell’amicizia fra loro, non avrebbe potuto rifiutare, senza sembrare scortese. Alla fine, accadde quel che temeva. E nel modo peggiore.
L’ultimo anno di scuola era appena terminato; i ragazzi avevano dato con buoni risultati gli esami di ammissione ai corsi superiori dell’Accademia e la famiglia di Thoroa aveva organizzato un ricevimento, per festeggiare il brillante successo del figlio. Ains fu tra i primi ad essere invitato, naturalmente insieme a sua madre. Tirarsi indietro era impossibile. Allora, lei si gettò a capofitto nei preparativi.
Dai racconti della governante, immaginò che l’occasione esigesse la massima eleganza. Non sbagliò. All’indirizzo di Thoroa corrispondeva una dimora a dir poco principesca. In effetti, come ebbe modo di scoprire nel corso della serata, l’amico di suo figlio apparteneva ad un’antica casata nobiliare, che per secoli aveva dato i natali a innumerevoli alte cariche dello Stato e dell’esercito. Appena arrivata, fu ricevuta dalla padrona di casa. La madre di Thoroa era una tipica bellezza veghiana: profilo tagliente, lineamenti acuminati. L’elegante vestito da sera metteva in risalto un fisico asciutto e slanciato; la carnagione verde pallido era esaltata dalla massa di capelli violacei, gli stessi del figlio. “Mia cara! Che piacere incontrarla di persona! I nostri ragazzi sono diventati inseparabili!” Ebbe la sensazione che la cordialità di quelle parole fosse smentita dal gelo di due occhi sottili, che mentre la squadravano esperti, sembravano trapassarla. Leggermente a disagio, rispose al saluto, mentre l’altra si dedicava già all’ospite successivo.
Nella grande sala era tutto uno sfavillio di decorazioni e di alte uniformi. Non ne aveva mai viste così tante insieme. Di alcune saltava agli occhi l’emblema, lo stesso delle divise del padre di Ains e della sua nave. Il disagio aumentò. Sperò che suo figlio non la lasciasse sola, ma non voleva rovinargli la serata. Così, quando lui si defilò insieme ad altri ragazzi, mentre la festa era già piuttosto avanti, rimase senza accompagnatore. La cosa non passò inosservata. Alle sue spalle, una voce tonante, leggermente alterata da qualche bicchiere di troppo, la fece sobbalzare: “Così è lei la vedova di Ghémon!...” Si inchinò sorridendo, con un cenno di assenso. Come potevano averla riconosciuta? “Quella vecchia carogna! Aveva buon gusto!” Seguì una risata sguaiata. “Ecco perché la teneva sempre nascosta… Vero, Gorman?” continuò l’uomo, dando di gomito ad un altro ufficiale, che nel frattempo si era avvicinato. Questi accennò ad un inchino, poi, mentre le baciava la mano, la guardò da sotto in su e prese nota mentalmente: al ritorno dalla prossima missione, sarebbe passato a trovare quella bellezza solitaria… Avrebbe osato resistere al giustiziere di Duke Fleed?… Sogghignò tra sé, vedendola abbassare gli occhi e ritrarre velocemente la mano da una stretta, che si stava prolungando leggermente più del dovuto. In quel momento, la faccia del primo interlocutore si divise di scatto a metà, rivelando al suo interno un volto di donna. Una voce diversa, ma ugualmente potente, lo apostrofò: “Gandal! Che dici?!” Poi si rivolse a lei, con fare mellifluo: “Signora! Mi permetta di chiederle scusa a nome di mio marito e di porgerle le nostre condoglianze più sentite. Suo marito era un combattente eccezionale.” Mormorò un ringraziamento, sperando di non essere impallidita in modo troppo evidente.

-continua-

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-capitolo 5-

La serata giunse al culmine. Gli ospiti furono invitati a trasferirsi in un salone più grande. Quando tutti furono entrati, accompagnati da un sottofondo solenne, un tendaggio scarlatto cominciò ad aprirsi lentamente, rivelando una statua di bronzo. Il brusio cessò, la musica divenne più intensa, si udirono squilli di tromba, mentre lame di luce convergevano ad illuminarla. Rappresentava, in dimensioni lievemente maggiori del naturale, un uomo in divisa, imponente, massiccio. Mascella squadrata, posa marziale, dominava con lo sguardo un orizzonte lontano. Intorno, un picchetto d’onore si schierò, presentando le armi. Alle spalle della statua campeggiava l’emblema della Guardia Scelta di Vega, giallo oro su fondo sanguigno. Al suo apparire un applauso scoppiò fragoroso. Thoroa aveva raggiunto di corsa la prima fila, trascinandosi dietro il compagno. Ains lo guardò stupefatto. Senza voltarsi, fissando la statua, gli spiegò sottovoce: “E’ mio padre!” Poi, come in trance, senza distogliere gli occhi da quelli magnetici della statua, sussurrò a sé stesso: “Un giorno sarò come te…” Seguirono alcuni discorsi. Il brindisi conclusivo toccò al comandante Gorman: “… e infine, voglio che tutti sappiate che questo è un giorno speciale! Caro Thoroa, siamo qui, sotto gli occhi di quest’eroe, tuo padre, di cui mi vanto di essere stato il primo collaboratore, per onorare la sua memoria e per congratularci con te, che da oggi ti avvii a seguire il suo luminoso esempio. Per la gloria di Vega!” I calici si alzarono tintinnando: “Per la gloria di Vega!” L’applauso riprese più forte; da più parti, in toni diversi, si udiva gridare: “Per la gloria di Vega!” Thoroa era visibilmente commosso. Sua madre, gonfia d’orgoglio. Non riusciva a staccare gli occhi da lui, mentre conversava con un ospite dal petto ricoperto di medaglie: “Sì, generale. Naturalmente noi tutti auspichiamo che Thoroa prenda rapidamente il posto di suo padre, un posto che gli spetta per rango, lignaggio… Ci aspettiamo molto da lui, sappiamo che saprà esserne degno…”


La festa a casa di Thoroa aveva prodotto una forte impressione su Ains e l’aveva reso piuttosto prudente. Non era sicuro che Thoroa avrebbe voluto continuare ad essere suo amico. Così, fu molto contento quando, l’autunno successivo, all’ingresso nelle camerate, lui scelse il letto vicino al suo. Entrambi facevano parte dell’odiata categoria dei privilegiati; entrambi non molto robusti, avrebbero potuto facilmente essere presi di mira da qualche prepotente. Dunque, venne naturale a entrambi continuare a darsi manforte, come facevano da quando erano diventati compagni di classe.
Non a caso, Tsubai aveva aggredito Ains, proprio un giorno in cui era sicuro di sorprenderlo da solo. Quel giorno, Thoroa era assente, in permesso speciale per l’anniversario della morte di suo padre.
Al rientro, si era rapidamente reso conto della novità. Con chi si era mischiato Ains? Che c’entrava quel bifolco figlio di nessuno, con loro due, orfani di comandanti della Guardia Scelta? Non aveva ancora avuto tempo di parlarne con il suo amico, quando il destino gli mise sulla strada proprio Tsubai. L’uscita dalla mensa era sempre un momento di grande confusione. Si scontrarono quasi sulla soglia e Thoroa partì all’attacco. La sorveglianza era allentata e chi doveva assicurarla aveva gioco facile a giustificarsi, in caso di episodi sgradevoli. Soprattutto, se chi aveva la meglio nella rissa, poteva vantare anche un solido cognome.
“Spostati, maiale!”
Tsubai trasalì violentemente. Decine di occhi si girarono verso di loro.
“Che ci fai qui? Da quando in qua i porci mangiano a tavola con i padroni?” Tsubai in un attimo sbiancò, poi il sangue gli montò alla testa e si scagliò contro il bastardo che l’aveva insultato. Intorno s’era fatto il vuoto. Thoroa schivò il primo pugno, intanto entrambi avevano estratto i coltelli e si studiavano. Al cerchio di curiosi, se ne aggiungevano man mano di nuovi.
Maledizione! Ma è Thoroa. L’ho visto mille volte insieme ad Ains.
“Allora, hai paura?” lo provocò Thoroa e gli sferrò un fendente. Stavolta fu Tsubai a schivare.
“No, pidocchio… Solo che ti voglio ammazzare in privato. Qui c’è troppa gente. Vieni fuori, ci vediamo fuori se hai coraggio!”
Il capannello si stava facendo più fitto. I sorveglianti cominciarono a fischiare. Mentre tutti si disperdevano velocemente, Thoroa e Tsubai venivano trattenuti a stento da alcuni compagni che si erano trovati loro vicini e, allontanandosi in direzioni opposte, cercavano di separarli. Loro, intanto, continuavano a scambiarsi minacce. In quel momento sopraggiunse Ains.
“Idioti! Ma che diavolo stavate facendo?”
“Non ti immischiare, Ains!”
“Stai attento bestione! Gli amici sono sacri, per me! Se tocchi lui, è come se toccassi me!”
“Allora, dì al tuo amico di stare attento a come parla. La prossima volta potrebbe insultare qualcuno che non ti conosce.”
Ains si voltò verso Thoroa: “Hai cominciato tu?”
“Certo. Dovevo rimettere a posto le cose.”
“Basta! Che ti è saltato in mente?”
Poi gli si avvicinò e gli soffiò nell’orecchio: “Ma sei pazzo? Se ti prende da solo, quello ti spezza in due.”
Continuarono bisbigliando: “Che venga. Di bestie come lui, mio padre ne mandava a morire a decine, con un gesto.”
“Basta ho detto! Qui non c’è tuo padre. E nemmeno il mio. Lui ci serve. E noi serviamo a lui. Adesso sta’ zitto, ci penso io a lui: lo tengo in pugno. Ti racconto più tardi.”
Poi, rivolgendosi a Tsubai, in modo che tutti sentissero:
“Lascialo stare, Tsubai. Ti chiedo scusa per lui. Sono certo che non vorrai negarmi questo favore…”


Dopo aver ascoltato il resoconto dell’aggressione nella camerata e aver riso di gusto al vedere il filmato, Thoroa si ritenne soddisfatto. L’animale era stato rimesso a posto a dovere; effettivamente sarebbe stato meglio sfruttarlo, che avercelo contro. Seguì il consiglio di Ains: l’indomani, sempre all’uscita della mensa, gli andò incontro con la mano tesa e si scusò, sostenendo di averlo scambiato per un'altra persona, con cui aveva un conto in sospeso. Tsubai finse di crederci e accettò le scuse.
Da quel giorno, cominciarono a fare gruppo fisso. Si iscrivevano insieme alle attività comuni; in ogni tipo di gara, facevano attenzione a non capitare in squadre avversarie; anche in quelle che prevedevano scontri fra singoli, badavano bene a non battersi mai l’uno contro l’altro. Trascorrevano le pause girando fianco a fianco per tutta la scuola: esploravano i corridoi, i dormitori, i cortili, ogni angolo, a caccia di novità. Il vantaggio di formare una squadra era evidente per tutti. Da quando si erano scelti, nessuno studente aveva più osato affrontare Ains o Thoroa, nemmeno da soli, e nessun insegnante si era più permesso di vessare Tsubai a causa delle sue umili origini, come era successo in passato.


Durante una di quelle ronde, accadde un episodio spiacevole. Si erano avventurati in una parte remota delle officine dismesse. Erano enormi capannoni abbandonati da anni, dove un tempo si svolgeva la manutenzione ordinaria dei mezzi da combattimento in dotazione alla scuola ad uso didattico. Poi, con la guerra alle porte, era arrivato ordine dal Ministero di svolgere l’addestramento degli allievi direttamente nei poligoni e nelle basi dell’esercito, in modo che avessero sempre a disposizione i mezzi più avanzati, gli istruttori più aggiornati ed anche, ma questo non veniva detto esplicitamente, in modo che fossero sempre pronti a partecipare ad eventuali azioni speciali, qualora gli strateghi ne avessero riscontrato l’utilità.
Il loro tutor per l’addestramento al volo e al combattimento su mostri spaziali, era il comandante Dagil. Uomo di poche parole, quando parlava, sapeva convincere, stranamente lasciando sempre ai ragazzi l’impressione di aver scelto da soli. L’addestramento alternava moduli teorici, in cui si studiavano importanti battaglie del passato, i movimenti, gli schemi, i colpi vincenti, e moduli pratici, che consistevano in epici scontri al simulatore. Era la parte più eccitante. Ci si sentiva onnipotenti, già solo nelle cabine di studio. Poi, quando si veniva giudicati all’altezza di salire su un mostro spaziale, si era arrivati in vetta. Solo i migliori potevano vantarsi di averlo fatto dopo poche simulazioni. La massa aspettava per mesi quel momento. Alla fine del primo semestre del primo corso superiore, Ains e la sua squadra avevano accumulato già decine di ore di volo “dal vivo”.
Quel pomeriggio erano arrivati per caso fino alle vecchie officine; stavano per tornare indietro, quando Tsubai avvertì in lontananza qualcosa di insolito. Sembrava un lamento, a tratti sovrastato da una voce più stridula. Si avvicinarono circospetti, attenti a non fare rumore. I suoni li conducevano verso il fondo dell’ultimo hangar, il più lontano di tutti. L’interno era un antro spettrale; la luce che filtrava a fatica dal tetto sconnesso, lasciava indovinare sagome di mostruosi robot, abbandonati in pose grottesche. I rumori si facevano sempre più forti; adesso era possibile distinguere anche voci che imprecavano e minacciavano, intervallate da tonfi sordi.
Si acquattarono dietro la coda di un gigantesco rettile di metallo. Avvolti nell’ombra videro tutto. Tre tipi che non conoscevano ne stavano picchiando un quarto, disteso per terra. Due lo tenevano per le braccia e l’altro, a cavalcioni sopra di lui, gli bloccava le gambe e intanto lo riempiva di pugni. La faccia era una maschera di sangue. Ad ogni colpo, gemeva. Lo stavano interrogando: “Dov’è? Dicci dov’è? Se vuoi uscire vivo di qui, devi parlare!” Ogni tanto si fermavano a riprendere fiato. Allora si sentivano le urla strozzate di un ragazzino che assisteva poco lontano, legato mani e piedi: “Lasciatelo! Lasciatelo stare! Vi prego! Vi prego!”
“Vuoi che iniziamo con tuo fratello? Ti conviene parlare. Dopo di te, tocca a lui.” Il terrore deformò ulteriormente i lineamenti tumefatti del torturato, ma dalla bocca continuarono a uscire solo lamenti.
“Va bene. Adesso si cambia”. Quello che stava sopra si raddrizzò di scatto, asciugandosi il sudore con l’avambraccio.
“Tenetelo!”
Fissando con odio insistente la propria vittima, prese a indietreggiare verso il bambino.
“No! No! Lui no!” urlò quello a terra, con quanto fiato aveva in corpo.
Fu sufficiente scambiarsi uno sguardo. Ains, Tsubai e Thoroa scattarono in piedi. Raggiunsero di corsa i tre picchiatori e piombarono loro addosso di sorpresa. Cominciò una lotta furibonda, tre contro tre, senza esclusione di colpi. Il primo ad avere la meglio sull’avversario fu Tsubai. Lo atterrò con un colpo violento alla nuca. Poi si gettò ad aiutare Ains, che era in difficoltà. Insieme ebbero ragione anche del secondo. Il terzo, quando vide le brutte, alzò le mani. “Non deve scappare!” Quello camminava a ritroso, cercando di tenerli sotto controllo e intanto guardandosi furiosamente alle spalle, per individuare una via di fuga. Inciampò in un cavo posato sul pavimento e in un attimo gli furono addosso.
“Thoroa! Tu chiama i soccorsi!” La voce di Ains era decisa, imperiosa: “Vai! Corri dal direttore. Se ci vai tu, non potrà girarsi dall’altra parte! Dì che c’è stato un pestaggio e che uno sta molto male. Guidali! Vai! Vai! Io e Tsubai rimarremo qui.”
Tsubai si mise accanto al ferito, che gemeva debolmente; Ains si occupò di immobilizzare gli aggressori, mentre erano ancora svenuti. Poi si avvicinò al ragazzino. Era sotto shock, continuava a piangere e a urlare. Ains cominciò a parlargli sottovoce, fermo, tranquillo; intanto recise i legami che gli bloccavano le mani e i piedi. Si era divincolato con tale disperazione, da farsi sanguinare i polsi.
“Calmati, piano… Tuo fratello sta bene, lo cureranno…” Tremava violentemente. Ains lo strinse con forza: “E’ finita, è finita. E’ tutto finito.” Mentre continuava a parlargli all’orecchio, il corpo gracile del ragazzino che si afflosciava tra le sue braccia lo fece sentire più uomo di quello che era.

-continua-


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-capitolo 6-

I soccorsi arrivarono abbastanza rapidamente: barella, infermieri, una navetta del Centro medico si occuparono subito del ferito. Immediatamente dopo, si presentò un folto gruppo di sorveglianti agli ordini di alcuni istruttori e, a sorpresa, il direttore in persona! Voleva vederci chiaro. Evidentemente, Thoroa l’aveva persuaso a dovere della gravità del fatto accaduto.
Seguirono inchieste, interrogatori, verbali, confronti… I tre assalitori furono sospesi dalle lezioni. In attesa che si chiarisse la loro posizione, furono rinchiusi nelle celle di punizione, che occupavano un’ala dei sotterranei della direzione. Risultarono essere allievi dell’ultimo anno, del Corso di Specializzazione in Biomeccanica. Si trattava di una branca di studi, che in poco tempo era passata dai laboratori di sviluppo delle tecnologie militari alle aule scolastiche, tanto stava dando risultati interessanti. C’era da scommettere che, da un momento all’altro, sarebbe arrivata sui campi di battaglia. Si diceva che i tre fossero fra i migliori del loro corso, pupilli del Capo Sezione. Chissà che cosa gli era preso, rovinarsi così la carriera?...
Nemmeno i tre salvatori uscirono indenni dalla faccenda. La sera stessa dell’aggressione, Ains, Thoroa e Tsubai furono convocati dalla Polizia e torchiati per ore. In gruppo, a due a due, separatamente. Volevano coglierli in contraddizione, ma non ci riuscirono. Rientrarono in camerata a notte fonda, stremati. Da allora, le convocazioni continuarono a ritmo sostenuto. Con un pretesto od un altro, capitava che passassero parte delle ore libere a ripetere i dettagli di quello che era successo, davanti a svariati gradi di autorità poliziesche. In verità, capitava più spesso a Tsubai, che agli altri due. Con loro, usavano il riguardo di svolgere gli interrogatori nell’ufficio del direttore. Comunque, la pressione non si allentava. L’aria era pesante.
Il ferito rimase a lungo ricoverato in infermeria. L’avevano ridotto male. Contusioni, ematomi, due costole fratturate – gli erano saltati sopra più volte –; la faccia ci mise vari giorni a sgonfiarsi e solo allora poté, con cautela, riaprire gli occhi. Però non avevano leso organi vitali. Erano esperti. Allievi brillanti in tutte le discipline, anche nelle tecniche di interrogatorio… Il fratello minore passava con lui le ore libere dalle lezioni. Sebbene fosse vietato a chiunque rimanere con i malati, al di fuori di un breve orario di visita, nessuno aveva potuto strapparlo da lì. Aveva conquistato il diritto a non staccarsi da lui con un’ostinazione muta e incrollabile, dopo aver temuto di perderlo.


“Ehi, Swinko, mi passeresti il pivvù, per favore?” Parlava muovendo le labbra il meno possibile, ma il fratellino aveva imparato a capirlo al volo. “Ho voglia di una partita di basket…” Swinko si chinò a frugare nello zaino al lato del letto, per cercare il Proiettore di Immagini Virtuali. Beecha ci si divertiva molto; ancora non riusciva a leggere o concentrarsi a lungo, né tantomeno a muoversi, ma quell’aggeggio lo aiutava a passare il tempo, facendolo immergere, con il minimo sforzo, nei suoi hobby preferiti. Quando rialzò la testa, il ragazzino rimase a bocca aperta dalla sorpresa.
“Ciao Swinko! Come stai? Come sta tuo fratello?”
Il ferito gettò un’occhiata alla propria destra, verso la porta. Rimase interdetto.
“Ains!” Il ragazzino fece di corsa il giro del letto e saltò al collo di Ains, che era comparso sulla soglia. Non l’aveva ancora rivisto, dal giorno dell’aggressione, ma aveva pensato di continuo a quel ragazzo, che l’aveva liberato dagli assassini. Lui e suo fratello gli dovevano la vita.
“Beecha, lui è Ains!” Quasi gridò, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Il ragazzo disteso accennò un saluto, sforzandosi anche lui di sorridere.
“Tranquillo! Ti lascerò subito riposare. Volevo solo vederti… e sapere come stai.”
“Sto bene. Grazie. Swinko mi ha raccontato… Ti dobbiamo la vita… e anche ai tuoi amici.”
“A proposito! Dove sono?” cinguettò Swinko.
“Non lo so. Non ho detto a nessuno che venivo a trovarvi.” Rimase in silenzio ai piedi del letto, ancora qualche minuto.
“Ora devo andare.” Strinse con prudenza la mano di Beecha, poi scompigliò allegramente il ciuffo di Swinko, che non voleva staccarsi da lui. “Ciao! Torno presto.” Poi, già sulla porta, si girò e aggiunse: “Tenetevelo per voi.”


Appena varcò la soglia del laboratorio, Tsubai lo investì: “Ma dove ti eri cacciato? Stavamo pensando che ti avevano arrestato…”
“Bestione… - ormai era un soprannome amichevole –se qui c’è qualcuno a rischio di arresto, quello sei tu!” E gli colpì di striscio la spalla con un pugno scherzoso, allontanandosi con un sorrisetto, mentre Tsubai bofonchiava qualcosa, non troppo divertito da quella battuta.
In seguito, capitò altre volte che anche Tsubai e Thoroa scomparissero a turno, senza avvertire i compagni. Una volta, Tsubai imboccò il corridoio dell’infermeria, diretto verso una certa porta, quando dall’angolo in fondo sbucò Thoroa, che puntava a testa bassa la stessa porta. Troppo tardi! Si erano avvistati. Non c’era dove nascondersi, né era possibile tornare indietro. Allora tutti e due rallentarono, per vedere dove l’altro andasse a parare. “Ciao, che ci fai qui?” attaccò Thoroa. “Ho un gran mal di testa, volevo chiedere un antidolorifico. E tu?” Thoroa non fece in tempo a trovare una scusa; ormai erano quasi arrivati davanti alla porta che entrambi cercavano, quando la videro aprirsi e uscire qualcuno di spalle, richiudendola piano. Ains si voltò per andarsene e sbatté contro i due amici. Rimasero tutti e tre di stucco! Guardarsi in faccia e sbottare a ridere come matti fu tutt’uno. Dopo un bel po’ riuscirono a fermarsi e a riprendere fiato.
“Allora anche voi…”
“Ah, ah, ah… sì! Ma non lo sapevo di lui!”
“Neanch’io!”
Nessuno aveva voluto perdere la faccia, ammettendo con gli altri di essere in pena per quel ragazzo che si erano visti massacrare sotto gli occhi; né tantomeno, confessando di dedicare del tempo libero ad andare a trovarlo. Erano uomini loro, futuri soldati di Vega…
Ancora ridendo, invasero tutti insieme la stanza di Beecha. L’infermiere che entrò in servizio poco più tardi, sentì un rumore insolito per quelle mura, risate sonore di ragazzini.


Dopo la guarigione di Beecha, i due fratelli non lasciarono più i nuovi amici, così ora erano in cinque a condividere ogni momento. Si raccontarono le loro storie. Beecha e Swinko erano figli di un professore dell’Accademia. Disgraziatamente, avevano perso entrambi i genitori. Il padre era precipitato alcuni anni prima con il suo ricognitore, in un incidente che aveva lasciato più di una questione irrisolta. Si era parlato di un guasto, oppure di errore umano. Certo, lui non era un pilota militare; solamente, come tutto il personale dell’Accademia, era tenuto a fornire all’esercito un certo numero di prestazioni ausiliarie, nel corso dell’anno. Quella mattina il cielo era limpido e non vi erano stati allarmi di sorta. Comunque, l’inchiesta fu archiviata rapidamente, anche perché non furono ritrovate le scatole nere.
La madre, purtroppo, era morta già da tempo, dando alla luce il figlio minore. Così, Swinko non l’aveva mai conosciuta, mentre Beecha ne aveva il ricordo di un bimbo di quattro anni.
“Che cosa insegnava tuo padre?” chiese Ains a Beecha, una volta, mentre erano a mensa.
“Biologia e biochimica.”
“Curioso! Anche mio nonno era biologo. Ingegnere ambientale, per l’esattezza. Ma io non l’ho mai conosciuto.”
“Io invece ricordo bene quando mio padre mi portava con sé nelle sue spedizioni! Swinko rimaneva con zia Doros, era troppo piccolo, e noi partivamo con la tenda e tutta l’attrezzatura. Mi divertivo da pazzi!”
“E dove andavate?”
“Sui monti Murok. Papà aveva scoperto che ad alta quota, in alcune grotte che conosceva fin da ragazzo, si erano sviluppate delle forme di vita interessantissime. Diceva che erano molto difficili da classificare, perché erano basate su una molecola bio-inorganica, mai vista prima. Secondo lui, erano un prodotto dell’inquinamento da vegatron, unito alle condizioni particolari di quelle grotte. Non facevamo che prelevare campioni! Tornavamo sempre carichi di provette e dopo le spedizioni papà si chiudeva per giorni in laboratorio.”
“Lavorava già qui?”
“Certo. Erano in due. Lui e il suo assistente, quello che ora è capo della Sezione di Biomeccanica. Quando mio padre morì, lui prese il suo posto. Pare che da allora abbia fatto parecchia carriera.”
“Biomeccanica? Ma non è il corso di quei teppisti che vi hanno assalito?”
“Non lo so… Non ci avevo pensato.”
“E’ proprio quello.” confermarono Tsubai e Thoroa, che finora erano rimasti in silenzio.
“Va bene, ragazzi. Noi andiamo a fare due tiri.” aggiunsero.
“Qualcuno viene con noi?”
“Io!” saltò su Swinko, trottando verso il cortile dietro agli amici.
Beecha ed Ains rimasero a tavola.
“Prendiamo un caffè?”
“Va bene!” alzò la voce Beecha, per sovrastare il baccano della mensa all’ora di punta.
Si sedettero più vicini, davanti a due tazze fumanti.
“Senti Beecha, ti volevo chiedere una cosa da un po’.”
“Dimmi.”
Ains si avvicinò ulteriormente, per farsi sentire, nonostante gridasse, solo da Beecha: “Se non vuoi, non rispondermi.”
L’altro gli sorrise per incoraggiarlo.
“Ma che diavolo cercavano di sapere da te, quei pazzi che ti stavano quasi ammazzando?”
Beecha sospirò e rimase un momento in silenzio. Poi si riscosse.
“Non lo so, cioè, non ne sono sicuro. Ci ho pensato parecchio anche io. Volevano qualcosa che io non ho mai visto, né posseduto.”
Ains lo guardò interrogativo. Beecha continuò:
“Volevano una formula. Erano convinti che io tenessi nascosta una formula che dovrebbe aver scoperto mio padre, in quei suoi studi sulle molecole bio-inorganiche.”
“Una formula? E perché avresti dovuto averla tu?”
“Quando mio padre è morto, io avevo appena cominciato il triennio, ero come adesso Swinko, avevo undici anni. Come figlio di un dipendente, ebbi diritto ad un posto da interno, qui all’Accademia. Invece a Swinko, toccò l’orfanotrofio. Era troppo piccolo per vivere qui e la zia non volle tenerlo. Ci siamo potuti riunire solo quest’anno.
Di sera, in camerata, ascoltavo i discorsi dei grandi. Non si accorgevano che facevo solo finta di dormire… Una volta rimasi di sasso. Stavano parlando di mio padre. Ne parlavano male. Dicevano che era stato un vigliacco, un patetico idealista, che si era meritato la fine che aveva fatto. E avevano fatto bene anche a devastargli il laboratorio, chiunque fosse stato. Riuscii a dominarmi, a tenere a freno le lacrime. Ebbi paura, perché erano molto più grandi di me. Ma quello che mi fece più male fu sapere che avevano distrutto il laboratorio di mio padre. In realtà, non l’avevano danneggiato. Piuttosto, l’avevano ripulito. Avevano portato via tutto, i campioni, gli appunti, le memorie dei suoi computer, fino all’ultimo chip. Me lo confermò l’uomo che faceva le pulizie la mattina presto, quello che spesso, all’alba, trovava mio padre ancora al lavoro. Allora lui preparava un caffè e lo bevevano insieme.”

-continua-


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-capitolo 7-

Ains sorrise. Avevano vuotato le tazze. Gli mise una mano sulla spalla. “Vieni, andiamo fuori. Qui è impossibile continuare a parlare.”
Si sedettero a terra in un angolo del cortile, fianco a fianco, guardando gli altri giocare.
“Quindi, che cosa successe?”
“Niente. Ogni tanto, in questi quattro anni, anch’io ho trovato le mie cose manomesse, come se qualcuno ci avesse frugato in mezzo. Ma questo succede un po’ a tutti, no? E poi, è passato così tanto tempo…”
Ains annuì, pensieroso.
“E perché me l’hai raccontato?”
“Penso che qualcuno volesse qualcosa da mio padre, magari questa formula, e a suo tempo non l’abbia trovata. Ora crede che io la tenga nascosta, o almeno, sappia dov’è.”
“Lo sai?”
“Ti assicuro, Ains, gliel’avrei detto immediatamente. Io non sopporto il dolore. Senza di voi, ci avrebbero davvero ammazzati, perché io non avevo proprio niente da dire!”
Ains sorrise di nuovo. Gli strinse la spalla con una mano, quasi mormorando tra sé: “Eppure è strano… Tuo padre studiava una molecola bio-inorganica… e quelli che ti hanno picchiato sono gli allievi migliori di Boyd, l’ex-assistente di tuo padre, che ha fatto carriera come progettista di mostri biomeccanici, l’ultimo grido della nostra tecnologia militare.”
La campana delle lezioni pomeridiane interruppe quelle riflessioni. Si avviarono con gli altri verso le aule.


“Professor Boyd!” Il direttore si alzò cerimonioso.
“Direttore…”
“Si accomodi.” Il direttore riprese il suo posto, l’altro si sedette su una delle poltrone rigide, davanti all’imponente scrivania.
“A che devo questa convocazione notturna?”
“Caro Boyd” sogghignò il direttore “io lavoro sempre. E poi, meglio usare… riservatezza, non trova?”
L’uomo rimase impassibile.
Il direttore riprese: “L’ho fatta chiamare, perché credo sia necessario fare il punto della situazione, se non vogliamo che ci sfugga di mano. Non possiamo continuare a nascondere tre colpevoli di tentato omicidio e a tenere sotto torchio i testimoni. La voce sta trapelando. Senza contare che sono prossime le vacanze estive, quando quei tre torneranno in famiglia e potranno parlare liberamente con tutti…”
“Bastardi! Abbiamo cercato di farli crollare in ogni modo, di far loro cambiare versione, non si sono mai contraddetti. Forse avremmo dovuto essere più persuasivi.”
“Trovo difficile convincere la Polizia a persuadere i testimoni, senza torcere un capello ai colpevoli.”
“I miei ragazzi non hanno fatto nulla. Hanno solo dato una lezione a un rammollito, che sfrutta questo istituto perché ci lavorava suo padre…”
“Boyd, questa storiella va bene per l’Ispettore. Lei sa benissimo che cosa hanno fatto. E’ una bomba innescata, rischiamo ad ogni momento che ci scoppi tra le mani. Non possiamo più aspettare. La spia che ho infiltrato tra di loro riferisce che stanno cedendo. Ancora un po’ e cominceranno a fare nomi.”
“Li tiri fuori di lì.”
“Non dica sciocchezze. In carcere sarebbero crollati da un pezzo. Noi qui li stiamo proteggendo. Glielo rispieghi, glielo chiarisca, per favore.”
Boyd riflettè per un lungo momento.
“Direttore, devo intendere che lei pensa di sacrificarli?” E di sacrificare anche me?
Il tono virò rapidamente dall’allarme alla minaccia: “Devo ricordarle perché abbiamo deciso tutto questo? Devo ricordarle che chi di dovere non sarà affatto contento di questa faccenda?”
“Boyd, lei non è l’unico ad avere le spalle coperte.” Però hai paura di perderla la tua protezione… Dentro di sé gioì malignamente, poi proseguì noncurante: “Non è affar mio se i suoi ragazzi non hanno ottenuto quell’informazione. E se Dantus te la farà pagare cara, se non riuscirai a risolvere alla svelta i difetti di quei tuoi mostri mezzi bestie e mezzi robot. Adesso, però, non possiamo più permetterci esitazioni. E’ urgente punire i colpevoli. Questa è l’Accademia Imperiale! Non possiamo permetterci scandali!”
Un’ombra passò sul volto dell’uomo, mentre assumeva una posa più conciliante.
Maledetto imbecille senza spina dorsale! Non è bastato toglierti di mezzo, passare all’esercito le ricerche che tu volevi usare a scopi civili, pestare a sangue tuo figlio... almeno, avessero finito il lavoro! E ora, ci si mette pure questo vigliacco che vuole i colpevoli!
“D’accordo. Va bene. Troverò la soluzione per altre strade. Del resto, siamo già riusciti a rallentare notevolmente il decadimento della simbiosi molecolare bio-inorganica. Le reazioni di rigetto dei nuovi mostri di Vega alle parti meccaniche sono quasi scomparse. Riusciremo a perfezionarli anche senza quella formula.” La voce di Boyd trasudava sussiego, poi però si abbassò, divenne quasi confidenziale. Avvicinò la poltrona e appoggiò i gomiti sulla scrivania.
“Però, direttore, lei mi insegna che tutto va fatto come si deve.” Vi fu una breve pausa, carica di tensione, poi proseguì d’un fiato: “Questo non è un tentato omicidio, ma un’aggressione e sarà sanzionata con un’espulsione. Una sanzione che più tardi, a suo tempo, potrà anche essere rivista… Bisogna dare garanzie a quei ragazzi, perché altrimenti il nome che salterà fuori potrebbe non essere solo il mio…”
Si godè l’effetto che le ultime parole avevano prodotto sul direttore.
“Ma certo! Scherziamo? Faremo tutto come si deve.”
“E poi, non dimentichiamo i tre ficcanaso. Riferiranno. E mi risulta che almeno due siano di buona famiglia.”
Un altro lungo silenzio.
Poi il direttore alzò gli occhi, due fessure gialle. Indugiò con lo sguardo sull’interlocutore e lo oltrepassò. Parve concentrarsi su un punto lontano, dietro di lui. Infine parlò. Lentamente, con determinazione. Quasi a se stesso.
“Non credo che torneranno in famiglia. No. E non ci sarà nessuno scandalo. L’Accademia Militare Imperiale si coprirà di gloria, come sempre. Da tempo il generale Gandal mi chiede giovani valorosi, per azioni in zona di guerra…”


Il comandante Dagil si affrettava nel corridoio della Direzione. Bussò lievemente alla porta e attese. Da dentro venne il permesso di entrare. Il direttore, di spalle, consultava il suo terminale.
“Dagil?”
Il sottoposto si irrigidì sull’attenti, battendo i tacchi.
“Comandi!”
“Si metta comodo, Dagil.”
“Grazie, signore.” Rimase in piedi, a riposo.
“Mi risulta che nel suo gruppo vi siano ottimi elementi.”
“Grazie, signore. Confermo che l’addestramento degli studenti del primo corso sta dando risultati notevoli.”
“Ebbene Dagil, abbiamo una buona occasione per mettere in luce il livello del nostro istituto… Il generale Gandal richiede un commando per un blitz sul pianeta Terra. Naturalmente, dobbiamo fornire i migliori. Le viene in mente qualcuno?”
Dagil rispose senza incertezze: “Certo, signore!” Fece i nomi di Ains, Tsubai e Thoroa.
“Sono allievi eccellenti, hanno completato l’addestramento al volo molto prima degli altri. Credo che saranno altrettanto veloci ad impadronirsi dell’uso delle armi.”
“Molto bene, ma non sarà necessario. La missione è della massima urgenza. Li impieghi come incursori. Dovranno uccidere un solo uomo, il maledetto Duke Fleed. Se necessario, li coprirà lei, con il suo robot.”
“Certo, signore. Inoltre, mi permetto di aggiungere che formano già una squadra. Sono molto uniti. Sono convinto che ciò costituisca un vantaggio.”
“Concordo con lei, comandante. Ma mi sembrano pochi.”
“Negli ultimi tempi, si sono associati a quei due fratelli, quelli che erano rimasti vittime di un’aggressione…”
“E’ un’ottima idea, Dagil. Si metta subito in contatto con il generale Gandal per i dettagli dell’operazione. Se avrà successo, la proporrò per una promozione.”
“Grazie, signore!”
“Vada!”
“Sissignore!”
“Ah, Dagil?”
“Signore?”
“Quei ragazzi… non è necessario che tornino… devono solo coprirsi di onore. Mi sono spiegato? Per la gloria del nostro istituto e per la gloria di Vega!”
Il comandante alzò leggermente le sopracciglia, ma rispose prontamente: “Agli ordini, signore! Per la gloria di Vega, signore!”
Batté di nuovo i tacchi, si girò e uscì con piglio marziale.

-continua-

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-capitolo 8- nuova versione

Vedi sotto :bye:

Edited by Annushka18 - 1/3/2016, 14:20
 
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Ed eccomi qua. Mi presento agli esami di riparazione con questa nuova versione del finale de “La squadra”. Ho riscritto il capitolo 8 e sono andata avanti fino al 13. Il vecchio capitolo 8 non l’ho buttato tutto nel cestino, almeno non le parti che erano state apprezzate. Quindi ritroverete cose già lette, spalmate insieme a parecchia marmellata nuova, su un po’ di fette di pane in più. Spero che il tutto sia di vostro gradimento!


-capitolo 8- nuova versione

Da non crederci… Finalmente un colpo di fortuna! Mentre divorava a grandi passi il corridoio che dalla direzione portava alla zona delle aule, il comandante Dagil ripercorreva mentalmente il film dell’ultimo anno della sua carriera. Mille volte l’aveva svolto e riavvolto avanti e indietro e sempre avrebbe voluto con tutte le sue forze cancellare quel momento, quell’unico momento che l’aveva precipitato in un limbo senza prospettive. Era stato uno sciocco, sciocco e impulsivo. Semplicemente, non aveva tenuto a freno la lingua. E ne stava ancora pagando le conseguenze.
Dagil aveva sempre avuto un ottimo rapporto con il comandante Hydargos; tra gli ufficiali superiori, era quello con cui si era trovato più spesso in sintonia. Aveva avuto modo di conoscerlo mentre lavorava ancora nell’intelligence e Hydargos era stato appena messo a capo delle operazioni di conquista della Terra; quel pianeta lo aveva sempre interessato e gradualmente aveva raggiunto una tale competenza, da attirare l’attenzione del suo superiore. Il comandante si rivolgeva spesso a lui, per mettere a punto i dossier preparatori degli attacchi, finché un giorno l’aveva voluto direttamente su Skarmoon. Era una promozione! Da anonimo spione a collaboratore in operazioni in campo aperto. Finalmente la sua ambizione aveva di che essere appagata e la stima di Hydargos prometteva di portarlo molto in alto. Ben presto era diventato, praticamente, il suo secondo.
Ancora non si spiegava come mai, quel maledetto giorno, quando Duke Fleed si era andato a schiantare contro l’astronave madre, lui non fosse stato lì. Quel giorno Hydargos gli aveva ordinato di restare alla base. Infatti, dopo, avrebbe guidato lui la squadra di soccorso intervenuta a rimediare a quel disastro. Per il comandante non c’era stato nulla da fare. Era morto da eroe, questo era chiaro. Dagil lo credeva sinceramente. Non era certo per ingraziarsi un morto che ne parlava in ogni possibile occasione, scontrandosi ogni volta, inspiegabilmente, con un muro di freddezza sempre più palpabile…
Non era nemmeno arrivato a capacitarsi di come avesse potuto alzare la voce contro il generale Gandal. Ricordava solo che nella periodica riunione dei sottoufficiali, qualcuno aveva insinuato una parola irrispettosa sul suo comandante. Sì, era andata così. Fallimento dicevano, aveva fallito, era stato un fallito… e il generale non aveva detto niente, si era limitato a tacere e su quel volto di pietra a Dagil era sembrato di distinguere un’espressione vagamente divertita. E lui che cosa aveva fatto? Aveva pensato bene di affrontarlo! Era scattato in piedi, puntandogli aggressivamente contro l’indice: “Generale! Difenda l’onore del comandante Hydargos!” Quelle parole ancora riecheggiavano nella sua testa e, soprattutto, ciò che era seguito a quella frase gli era rimasto scolpito nella memoria fin nei minimi particolari. Rivedeva la scena ad ogni istante, come fosse accaduta il giorno prima. La pietra era tornata alla sua consueta espressione glaciale. Nel silenzio mortale della sala, cento occhi avevano visto il generale Gandal alzarsi in piedi e protendersi in avanti, appoggiando i pugni serrati sul grande tavolo delle riunioni. Tutti l’avevano subito imitato, scattando dai loro posti. La voce aveva vibrato come un rombo di cannone: “Dagil! Avvicinati!” Non aveva potuto far altro che obbedire. “In ginocchio!” Aveva dovuto eseguire prontamente. L’attendente era stato lesto a porgere a Gandal la frusta. Metodico, senza aggiungere parole, il generale aveva dato sfogo alla sua ira. Lui era rimasto fermo sotto i colpi, resistendo a denti stretti, cosciente di rischiare ben di peggio. Poi, quando l’aveva visto sanguinare, Gandal si era ritenuto soddisfatto. Solo allora aveva emesso la sentenza: “Dagil? Vattene immediatamente. Sei congedato. A disposizione del Ministero, fino a nuovo ordine.”
Era partito precipitosamente. I ripensamenti del generale Gandal, soprattutto se istigato dalla moglie, erano ben noti al personale della base. Comunque, non riusciva a togliersi dalla testa che tutta quella rabbia avesse anche qualche altro motivo, oltre quello stupido incidente. In fin dei conti, proprio lui, Dagil, era stato tra i pochi testimoni delle urla di dolore del generale Gandal, quando l’aveva soccorso ancora avvolto tra le fiamme che avevano ucciso il comandante Hydargos. Chissà che il generale non avesse colto l’occasione, per togliersi di torno qualcuno che gli ricordava quel momento imbarazzante…
In ogni caso, Dagil era consapevole di essere scampato a conseguenze potenzialmente assai più gravi. Però la sua carriera era stroncata. L’unico aspetto positivo era quello di non essere stato anche degradato. Aveva conservato il suo rango di comandante e come tale si era presentato al Ministero. Alla fine, dopo un certo periodo di inattività forzata, era stato destinato all’Accademia. Quella nomina gli era sembrata la pietra tombale su qualsiasi speranza di riscatto. E invece…! All’improvviso…! Dopo tanto tempo gli si presentava un’occasione d’oro. L’avrebbe sfruttata fino in fondo! Si sarebbe riabilitato agli occhi del generale Gandal. Non sarebbe stato semplice, certo. Duke Fleed, doveva ammetterlo, aveva mostrato un certo sprezzo del pericolo; Dagil ricordava bene come si era lanciato contro l’astronave madre. Ma lui l’avrebbe vinto con l’inganno. L’avrebbe attirato allo scoperto e ucciso con le armi del suo mostro spaziale. Inoltre avrebbe potuto usare anche quei ragazzi. Erano bravi effettivamente, avevano risposto bene all’addestramento. Certo, al massimo sarebbero potuti servire come esche; senza armi non avrebbero potuto fare molto. Ma il direttore era stato sufficientemente chiaro: loro dovevano partecipare. Anzi, dovevano risultare protagonisti dell’azione, non bisognava risparmiare loro nulla. O meglio, non bisognava risparmiarli… Più tardi avrebbe avuto tempo di pianificare i dettagli dell’operazione. Intanto, doveva subito allertarli. Non sarebbe stato difficile convincerli. L’aveva già fatto tante volte. Era uno dei pochi aspetti del suo attuale lavoro che sollecitava il suo interesse: manipolare l’interlocutore… Gli ricordava vagamente il lavoro di spionaggio: guadagnarsi la fiducia del nemico, portarlo dalla propria parte, indurlo a pensare una certa cosa, disseminando qua e là indizi ed allusioni a realtà inesistenti…
Ma dove si era cacciato quel ragazzo? Dopo aver girato tutte le aule studio, finalmente Dagil trovò Ains in biblioteca. Uno studente modello, non c’è dubbio…
“Ains?”
Il ragazzo si alzò in piedi: “Comandante Dagil!”
“Seguimi. Ho un’importante comunicazione da darti.”


“Ragazzi! Ehi, ragazzi!” Ains si precipitò in camerata, svegliando più d’uno che era già addormentato. Riunì i suoi amici in un angolo. “Ragazzi, siamo stati scelti per una missione!”
“Ains, ma quale missione? Non abbiamo finito nemmeno il primo anno superiore!” disse Tsubai, realista come al solito.
“Me l’ha detto il comandante Dagil in persona! Domani ci darà i dettagli!”
“Non ci posso credere!” Thoroa si compiacque tra sé, in famiglia sarebbero stati orgogliosi di lui.
“Verremo anche noi, Ains?” fece Beecha.
“Certo! Noi siamo una squadra, il comandante lo sa. Non ci separeremo mai.”
“Anch’io?” chiese Swinko.
“Tu sei il primo!” scoppiarono a ridere sottovoce, mentre gli altri cominciavano a protestare.
La mattina dopo, furono convocati dal tutor. Spiegò loro che sarebbero partiti immediatamente per la zona operativa. Lì avrebbero ricevuto ulteriori istruzioni. Quello che dovevano sapere fin d’ora è che avrebbero dovuto individuare ed eliminare un solo uomo, il malvagio principe Duke Fleed, che teneva in suo potere un intero pianeta. Solo così, Vega avrebbe potuto estendere la sua protezione benefica anche su di esso. Se erano d’accordo, l’indomani sarebbero partiti per il satellite di quel pianeta e lì avrebbero potuto capire meglio la situazione e decidere se partecipare all’azione. Risposero con entusiasmo. Ains, a nome di tutti, disse che sarebbero stati onorati di combattere per la gloria di Vega!
La giornata passò in preparativi febbrili. Bisognava sistemare diverse cose. A causa della missione, avrebbero saltato gli esami estivi. Certo, alla sessione di recupero, in autunno, i professori avrebbero avuto un occhio di riguardo, ma era bene assicurarsene ugualmente. Poi, era necessario far sapere qualcosa a sua madre. Ains decise, per una volta, di ignorare il divieto di comunicazioni dirette con l’esterno. Con un po’ di fortuna, l’addetto al controllo del sistema informatico avrebbe notato l’anomalia solo il mattino seguente. Non sarebbero certo andati a pescarlo, mentre era in volo verso la Terra…


“Mamma!” L’immagine sullo schermo del comunicatore apparve, prima sgranata, poi sempre più definita. Anche l’audio era buono.
“Ains! Come stai?”
“Mamma! – ormai la chiamava così soltanto quando erano soli, o quando era molto eccitato – Ti devo dire una cosa importante! Partiremo in missione, domani!”
La madre si rabbuiò: “Ains, che dici? Siete ancora studenti.”
“E’ una missione speciale, mamma. – abbassò la voce, anche se in quel momento nessuno poteva sentirlo – Dovremo eliminare un nemico insidioso, il principe Duke Fleed.”
Anche a distanza, percepì lo stupore della madre. Quel nome! Il pianeta Fleed era morto da un pezzo, con tutta la casa reale. Chi poteva mai essere questo principe Duke Fleed? Si ricordò all’improvviso che, quando era piccola, una volta la mamma aveva raccontato allegra che su Fleed era nato il figlio del re, il primogenito, un maschio… Forse era lui, chissà come sopravvissuto allo sterminio… Le si strinse il cuore.
“Ains! Sii prudente…” Non riuscì a dire altro. Quando il volto del figlio scomparve dal video, si sentì morire. Era diventato un soldato di Vega. E ora Vega lo reclamava. L’angoscia le tolse il respiro.


Quella notte fu dura per tutti prendere sonno.
Ains non poteva togliersi dalla testa che finalmente avrebbe vendicato suo padre, finalmente avrebbe portato a termine la sua lotta: i veghiani sarebbero vissuti in un mondo migliore. Avrebbe anche ripagato sua madre di tutte le lacrime che l’aveva sentita versare, da quando erano rimasti soli.
Thoroa non aveva voluto dire nulla a casa, prima di partire. Sentiranno parlare di me. Padre, sarò alla tua altezza…
Tsubai fantasticava di un premio. Senz’altro al ritorno, sarebbero stati ricoperti di onori e magari, anche di qualcosa di più concreto. Sarebbe riuscito presto a liberare sua madre.
I fratelli erano orgogliosi di essere stati scelti anche loro. Provavano pure una certa curiosità. A Beecha erano subito venuti in mente i racconti del padre. Oltre al perduto Fleed, esistevano nell’universo altri pianeti verdi, ricchi di affascinanti forme di vita. Tra questi, vi era la Terra. Quante ore aveva passato insieme a Swinko a sfogliare gli erbari, ad osservare le raccolte di pietre e di insetti, che il padre aveva collezionato nei posti più strani. Erano tra i ricordi più cari di lui. E poi, non avrebbero mai potuto lasciar partire da soli quegli amici a cui dovevano la vita.

-continua-

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-capitolo 9-

Il trasferimento nella zona operativa durò quasi otto settimane, ma l’entusiasmo non venne meno neanche un istante. La maggior parte del tempo fu impiegata per approfondire i dettagli della missione. Fortunatamente, le potenzialità di connessione alle banche dati dell’esercito rimanevano inalterate, anche trovandosi ad anni luce di distanza; così, sotto la guida del comandante Dagil, Ains e i suoi amici ebbero accesso ad una mole immensa di informazioni.
Si trattava, innanzitutto, di analizzare lo scenario, la Terra. Quel pianeta era sempre stato periferico rispetto alle direttrici di espansione dell’influenza di Vega. Naturalmente, anch’esso in precedenza era stato toccato da sporadiche missioni esplorative, che avevano rilevato presenza di ingenti risorse minerarie dei generi più vari; ambiente compatibile con la vita su gran parte delle terre emerse; ampia diffusione di forme di vita diversificate. Tra di esse, quella che sembrava prevalere sulle altre per capacità di iniziativa e propensione a trasformare la realtà esistente, era minata fortemente da un’incredibile frammentazione di poteri; quegli esseri viventi sembravano attribuire la massima importanza a tali differenze e in generale tenevano in gran conto la tendenza ad agire individualmente, in ordine sparso: la chiamavano “libertà”. Inoltre, il loro apparato fisiologico era caratterizzato da un’estrema fragilità, che le tecnologie arretrate di cui disponevano riuscivano a compensare solo in minima parte.
La Terra era balzata in primo piano tra le priorità belliche di Vega, quando la crisi energetica era arrivata a livelli insostenibili. Ains rimase molto perplesso, quando si imbatté negli allarmanti report sul progressivo esaurimento delle miniere di vegatron. I più vecchi risalivano ai tempi della guerra contro Fleed. Ricordava bene l’espressione ispirata di suo padre, quando gli prometteva che l’imminente caduta di quel pianeta avrebbe finalmente regalato ai veghiani un mondo più vivibile. In quel momento, non aveva certo potuto immaginare che dietro quelle parole vi fosse anche la necessità di far fronte ad una tragica carenza di fonti di energia. Ma allora, perché distruggere Fleed? Stentava ad afferrare il nesso. Inoltre, faceva fatica a credere che la cavalcata trionfale delle Forze di Vega per gran parte dell’universo conosciuto, avesse ricevuto impulso da una debolezza e che la situazione fosse così critica, da giustificare anni di campagne militari, perfino in luoghi remotissimi come la Terra. Per quanto cercasse di raccapezzarcisi, le idee gli si facevano sempre più confuse. Preferiva scacciare quelle riflessioni che gli davano un senso oscuro di inquietudine e concentrarsi sulle chiare e tranquillizzanti indicazioni del comandante Dagil.
L’altro focus del lavoro preparatorio consisteva nell’analisi dell’obiettivo. L’auspicata inclusione della Terra nello spazio vitale veghiano aveva incontrato un ostacolo imprevisto, che finora non si era riusciti a superare. Le avanguardie dell’espansione, guidate dal comandante Hydargos e poi dal generale Gandal, si erano scontrate con una vecchia conoscenza: il vile Duke Fleed. Erede al trono di Fleed, aveva animato sul suo pianeta un’insulsa quanto inutile ribellione, mirante a sovvertire l’ordine sancito dagli accordi sottoscritti con Vega. Naturalmente era stato schiacciato senza pietà, ma era comunque riuscito dileguarsi nello spazio a bordo di Grendizer, l’invincibile macchina da guerra in cui i fleediani avevano riposto le loro ultime speranze. Vista la fine del pianeta che l’aveva costruita, c’era da nutrire seri dubbi su tale pretesa invincibilità.
Anche queste informazioni richiamavano alla mente di Ains ricordi d’infanzia. I ribelli di Fleed… lo spauracchio dei giochi tra compagni dei primi anni di scuola, quelli che finivano sempre con una splendida vittoria degli eroi sui traditori. Come poi, di fatto, sarebbe accaduto… ma a che prezzo! Nessuno gli aveva mai detto a chiare lettere che suo padre era morto proprio su Fleed, ma ci era arrivato da solo, ragionando sulle date. Inoltre, il turbamento di sua madre, quando si nominava incidentalmente quel pianeta, gli era sempre sembrato un segnale inequivocabile, anche se non aveva mai avuto il coraggio di rivolgerle una domanda diretta su quell’argomento. Ed ora, forse, si sarebbe trovato faccia a faccia con il responsabile della morte di suo padre!
Sì, perché Duke Fleed, dopo alcuni anni passati a nascondersi da qualche parte, era ricomparso proprio sulla Terra e la sua presenza impediva di dare corso all’occupazione del pianeta. I terrestri, creature oltre che fisicamente fragili, anche estremamente suggestionabili, si erano affidati ciecamente a quel “difensore”, che aveva avuto gioco facile a convincerli di andare incontro ad un destino di sottomissione, qualora avessero accolto di buon grado la presenza veghiana. Duke Fleed si era creato un nuovo regno sulla Terra e ora teneva i terrestri sotto stretto condizionamento per impedire loro ogni contatto con il superiore popolo di Vega. Egli temeva più di tutto che, grazie all’incontro con i veghiani, i terrestri prendessero coscienza della propria schiavitù e cercassero di liberarsene. Prova ne era il fatto che per molto tempo Grendizer aveva combattuto sempre da solo. Era evidente che il suo pilota temeva lo scontro diretto tra veghiani e terrestri, che avrebbe potuto significare per lui l’inizio della fine. Per la precisione, vi era stato un mezzo terrestre che l’aveva spesso spalleggiato e col tempo ne erano comparsi altri, fino a un massimo di tre, che cercavano di compensare i grossi punti deboli del robot di Duke Fleed. Analizzando da vicino quei mezzi ausiliari, però, non si poteva pervenire che ad una conferma delle precedenti conclusioni. Tali mezzi erano del tutto insufficienti a contrastare un qualsiasi mostro da combattimento dell’esercito di Vega, pertanto era evidente che i loro piloti agivano in stato di pesante condizionamento. Duke Fleed se ne serviva come di schiavi, costringendoli ogni volta ad andare allo sbaraglio contro un avversario infinitamente superiore.
Bisognava risolvere quella situazione. E qui si arrivava alla parte più interessante del lavoro preparatorio: l’elaborazione dei piani operativi. Dopo aver esaminato varie opzioni, anche alla luce dei dati acquisiti nel corso dei primi due approfondimenti, il comandante Dagil discusse con i ragazzi un’eventuale strategia. Alla fine convennero che, se avessero deciso di seguirlo sulla Terra, avrebbero agito secondo questo schema:
1) individuare la base dell’operazione, scegliendola fra le strutture militari o civili di rilievo della regione interessata;
2) infiltrare il commando nella struttura stessa, senza danneggiare i terrestri presenti, per evitare di suscitare loro reazioni ostili e per ottenere un certo numero di ostaggi.
All’obiezione che la presa di ostaggi sarebbe potuta apparire ai terrestri una violenza ingiustificata, il comandante Dagil spiegò che sarebbero stato un rischio necessario. Naturalmente, avrebbero dovuto trattarli con attenzione. La presenza di ostaggi avrebbe sconsigliato a Duke Fleed di attaccare il commando direttamente con il suo disco; anzi, lo avrebbe costretto ad intavolare una trattativa, durante la quale vi sarebbero state alte probabilità di sorprenderlo, appena avesse abbassato la guardia. E questo era precisamente il terzo obiettivo da raggiungere:
3) attirare Duke Fleed allo scoperto, allo scopo di
4) permettere al comandante Dagil di ucciderlo, intervenendo col suo mostro da combattimento.
Occorreva tenere presente che Duke Fleed fuori del suo robot era molto vulnerabile, quindi la condizione ottimale per attaccarlo era proprio quella. Sarebbe stato utile prolungarla il più possibile. Inoltre, una volta eliminato l’obiettivo, sarebbe stato necessario assicurarsi la collaborazione dei terrestri liberati. Per questo, si decise che nelle prime fasi dell’operazione avrebbero utilizzato i medaglioni stordenti, un ottimo strumento, molto maneggevole, che produceva prolungata perdita di conoscenza senza infliggere danni permanenti, anche in soggetti molto fragili.
“Comandante, ma come possiamo essere sicuri che Duke Fleed cada nella trappola? Non potrebbe lasciar fare all’esercito terrestre?” chiese Tsubai.
“Non è mai successo. In tutto questo tempo è sempre intervenuto direttamente. Vi ho già detto che vuole evitare a tutti i costi che i terrestri sappiano la verità.”
“Quindi sarà molto importante convincere i terrestri che noi li vogliamo liberare” notò Ains.
“Certo. Tenete conto, però, che non ne avrete il tempo. Esclusi i primi secondi dell’azione, durante tutta la vostra permanenza nella base, quei terrestri rimarranno in stato di incoscienza e poi, una volta eliminato Duke Fleed, voi avrete portato a termine il vostro compito. Quando rinverranno, saranno già assistiti dalle nostre squadre di soccorso. Duke Fleed ha fatto loro il lavaggio del cervello. Ci vorranno degli esperti e probabilmente molto lavoro, per riportarli alla realtà.”
Quest’ultima osservazione del comandante Dagil produsse una pesante pausa di silenzio tra i ragazzi. Non osavano pensare a quali spregevoli pressioni avessero potuto indurre un pianeta intero a sottomettersi ad un vigliacco traditore come doveva essere quel Duke Fleed. Probabilmente, la minaccia di essere distrutti e la falsa promessa di ottenere protezione erano bastate, se quei terrestri erano davvero così deboli come risultava dai rapporti degli esploratori. Il silenzio fu interrotto timidamente da Swinko: “Scusi comandante, ma come ha fatto Duke Fleed a condizionarli?”
“Ottima domanda, Swinko. Duke Fleed è in grado di condizionare con abili discorsi.”
“Solo parlando?” si stupì Beecha.
“Esattamente. E voi dovrete stare molto attenti. Certamente proverà a portarvi dalla propria parte. Ma voi siete avvertiti: è il suo sistema per indebolire l’avversario e arrivare facilmente a dominarlo” spiegò Dagil.
“Ma noi, secondo il piano, dovremo farlo parlare il più possibile” osservò Ains.
“Certo! Ma non gli permetteremo di ingannarci!” esclamò Thoroa “Lo conosciamo, sappiamo di cosa è capace!”
“E se necessario, gli faremo assaggiare i nostri laser!” concluse Tsubai, suscitando l’ilarità dei suoi compagni.
“Attenti!” la voce del comandante Dagil si era fatta molto seria: “Non dovrete prendere alcuna iniziativa personale. Il successo di una missione dipende dall’esecuzione scrupolosa delle istruzioni operative. C’è una tempistica da rispettare. Saremo in costante contatto radio. Ricordate: il successo dipende dal coordinamento con la strategia, quindi niente iniziative estemporanee. Sono stato chiaro?”
“Sì comandante!” esclamarono all’unisono Ains e i suoi compagni.
“Comunque, ragazzi, non siete ancora scesi in campo; c’è parecchio tempo per riflettere. Chi sarà davvero sicuro di seguirmi dovrà essere d’accordo in ogni minimo particolare.”
Tutti annuirono convintamente.
“E ora andate! Avete molto da studiare.”
“Sì comandante!” Si alzarono veloci dal tavolo delle riunioni, per raggiungere ognuno la propria postazione.

-continua-


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-capitolo 10-

La notte artificiale all’interno della nave trascorreva lenta. Disteso nel suo alloggio Dagil considerava ogni possibile variante dell’azione da cui dipendeva il suo futuro. Doveva tornare vincitore. Avrebbe colto Duke Fleed di sorpresa fuori del suo robot e avrebbe risolto d’un colpo tutti i suoi problemi. Più complesso gli sembrava accontentare il direttore. Cosa voleva in realtà il suo superiore? Voleva degli eroi cresciuti all’Accademia? Aveva qualche conto in sospeso con quei ragazzini? O forse con i loro familiari? Qualsiasi cosa volesse, lui gliel’avrebbe data. Il legame a doppio filo del direttore col generale Gandal era ben noto. Non avrebbe sbagliato una seconda volta, facendo indispettire un protetto del generale. Se i ragazzini fossero scampati a Duke Fleed, ci avrebbe pensato lui a farne degli eroi. Avrebbe solo dovuto stare all’erta, cogliere il momento opportuno. Questo, però, non poteva prevederlo. In realtà, tutta la missione presentava forti profili di incertezza; i ragazzini avrebbero potuto perdere la testa in qualsiasi momento e mandare tutto all’aria. Ma tant’era! Non avrebbe potuto evitare la loro presenza. Dagil concluse che prima avrebbe raggiunto l’obiettivo principale, poi, se fosse stato necessario, si sarebbe dedicato al resto. A questo punto non rimaneva che aspettare il termine del viaggio, i dettagli operativi li avrebbe definiti all’arrivo.


L’enorme fungo della base si delineò sui monitor, mentre il personale della torre di controllo comunicava le coordinate di attracco alla nave del comandante Dagil.
A dire il vero, appena scesi su Skarmoon, non molti prestarono attenzione a quel gruppo di ragazzini con il loro istruttore. A rapporto dal generale Gandal ci andò solo il comandante. Mentre percorreva i corridoi silenziosi che portavano alla sala di comando, Dagil era combattuto tra l’intima soddisfazione di stare per tornare sulla scena e la preoccupazione per l’imminente incontro con il superiore, che non aveva potuto sondare preventivamente in alcun modo. Era stato costretto ad affidarsi alla raccomandazione del direttore. Ma era stato un rischio da correre. Con quella missione si giocava il tutto per tutto! Avrebbe detto e fatto l’impossibile, pur di rientrare nelle grazie del generale Gandal.
Le porte gli scivolarono davanti silenziose, poi si richiusero dietro di lui e fu introdotto. Cadde in ginocchio prontamente.
“Dagil!”
Con la faccia a terra e la maggior deferenza possibile, rispose: “Generale Gandal! Comandi!”
“Di nuovo qui?”
L’ufficiale si sentì inondare di sudore gelido.
“Sissignore!”
“Bravo Dagil!”
Che voleva dire? Era un’approvazione?
Il generale continuò sardonico: “A quanto pare, all’Accademia hai trovato la tua vera vocazione…”
Maledetto! Continuava a tenerlo sulle spine.
“Staigar mi ha raccontato che sei un fenomeno ad ammaestrare marmocchi!”
“Sissignore!” Ancora non capiva come doveva interpretare l’accoglienza.
“Ah! Ah! Ah! E noi abbiamo voluto verificare di persona, caro Dagil…” Il volto del generale si era spalancato e quella donna aveva parlato al posto suo.
“Mia signora…” Dagil era imbarazzato.
“Ma si alzi! Un ufficiale di rango come lei…” Dagil scattò in piedi.
“Taci, donna!” Il volto si era richiuso. Gandal decise di tagliare corto: “Bene, Dagil. Vedremo quello che sai fare. Ma bada: se fallisci, non avrai altre possibilità. Puoi andare!”
“Sissignore!” Dagil toccò il petto con il mento, batté i tacchi e, senza mai dare le spalle, arretrò fino alla porta. Solo quando fu nel corridoio, si permise di voltarsi per andarsene.


Intanto Ains e gli altri, dopo essersi sistemati negli alloggi, ebbero il tempo di guardarsi intorno. La base era un immenso cantiere. Stavano tirando su in tutta fretta le caserme per i battaglioni teletrasportati qualche tempo prima, al seguito di re Vega; era in costruzione anche una residenza per il sovrano. I ragazzi si meravigliarono che il re avesse deciso di stabilirsi su quell’avamposto sperduto, ma non ebbero modo di farsi troppe domande. Si vedeva che la base era in fermento. Captarono voci allarmanti: pareva che vi fossero state esplosioni a catena su Vega e che per questo la corte avesse lasciato il pianeta. Attacchi nemici? Calamità naturali? Non riuscirono a saperne di più. Del resto, non erano gli unici ad avere le idee poco chiare. I comunicati ufficiali erano vaghi; l’unica certezza era la presenza sulla base di re Vega in persona. In ogni caso, per tutta la durata della missione, non sarebbero stati autorizzati a stabilire contatti privati. Si sforzarono quindi di lasciare da parte l’ansia per il loro pianeta, per concentrarsi sull’operazione.
Finalmente erano lì, ad un passo dal loro obiettivo. La mattina dopo l’arrivo, fecero un giro all’esterno della base e si fermarono in cima ad uno strapiombo roccioso. Il paesaggio lunare si dispiegava davanti a loro arido, desolato. Sollevarono lo sguardo. Non troppo alto nel cielo, sospeso al di sopra dell’orizzonte, galleggiava un pianeta splendente di luce azzurrina.
“Eccola, la Terra!” disse Ains.
“Questo è il momento di prendere una decisione, se andare o no sulla Terra insieme al comandante Dagil.” Era stato Tsubai a parlare. In quel momento, il comandante li raggiunse. Con un gesto indicò una distesa di tombe ai loro piedi. Tutte uguali, anonime. Erano comandanti di Vega uccisi da Duke Fleed. Li accomunava aver combattuto per la gloria del loro sovrano. Erano caduti eroicamente per questo. Ma non erano riusciti a liberare quel pianeta dal giogo. La voce del comandante Dagil risuonò amara: “Ecco la Terra, dove il nostro popolo aveva intenzione di stabilirsi. Purtroppo è caduta nelle mani del malvagio principe Duke Fleed.”
Nonostante tutto ciò che avevano studiato durante il viaggio, Ains ancora non riusciva a credere che gli abitanti della Terra si fossero rassegnati a quella situazione: “Comandante Dagil, ma perché i terrestri non sono venuti a chiederci aiuto?”
“Ains! Probabilmente, la maggior parte dei terrestri non conosce nemmeno l’esistenza del popolo di Vega ed è completamente in balia di Duke Fleed, che gli ha fatto il lavaggio del cervello e ora perfino i più progrediti tra di loro sono convinti che noi siamo degli invasori.”
“Ma se avessimo successo, se eliminassimo Duke Fleed, potremmo davvero stabilirci sulla Terra?” fece Tsubai.
“Certamente!” rispose il comandante, voltandosi vivamente verso di lui.
Beecha non si trattenne: “Comandante, è vero che sul pianeta Terra ci sono tantissimi fiori?”
“E anche laghi e foreste e montagne?” continuò Swinko.
“Sentite,” tagliò corto il comandante “la Terra è un pianeta ricco di verde e di risorse naturali ed è per questo che anche il nostro grande sovrano, re Vega, desidera stabilirsi là.”
Ecco perché il re si era trasferito su Skarmoon! Probabilmente si trattava di una tappa intermedia, prima di insediarsi definitivamente sulla Terra. Come potevano esitare, davanti ad attese così alte?
“Se qualcuno di voi è disposto a venire con me sulla Terra per eliminare Duke Fleed,” riprese Dagil, “faccia un segno su quella lapide entro domattina. Non è necessario che scriviate il vostro nome, nessuno vuole costringervi. Ma ci aspettiamo che vi comportiate da degni figli delle Guardie Scelte di Vega.”
I ragazzi si fecero cupi. Nessuno di loro aveva intenzione di tirarsi indietro. Quelle tombe li chiamavano. Per loro non erano anonime. Portavano il nome dei loro padri, dei loro eroi… E poi, il turbamento era accresciuto da quella storia terribile: un intero pianeta oppresso dall’arroganza di un solo potente. Non potevano permetterlo! Avevano l’occasione di porre rimedio a quell’ingiustizia. Avrebbero aperto la strada all’insediamento del loro popolo, avrebbero portato anche lì il paradiso di Vega!
Erano di nuovo soli. Tsubai diede voce ai pensieri di tutti: “Allora Ains? Sei tu che devi decidere!”
“Va bene. Andremo. Ma ricordate: per liberare gli abitanti della Terra, dovremo riuscire a sconfiggere Duke Fleed!”


La caduta di un meteorite sulla Terra era un evento relativamente frequente, che entro certi limiti non destava particolare allarme. Il mostro di Vega Dakid, dunque, entrò nell’atmosfera terrestre mimetizzato in quel modo ed atterrò in una zona boschiva disabitata. La mattina dopo, la squadra fu pronta ad entrare in azione. Avevano scelto come obiettivo la torre di controllo di un aeroporto militare, che si trovava non lontano dal covo di Grendizer. Si sarebbero introdotti simulando un incidente, dal momento che i terrestri usavano soccorrere anche gli estranei.
Il mezzo a bordo del quale avanzavano sotto copertura procedeva rumorosamente. Ains zittì le chiacchiere di Swinko sui fiori e gli insetti: bisognava rimanere concentrati. Piombò un silenzio teso.
Andarono avanti ancora per un certo tempo, poi, d’un tratto, una frenata brusca.
“Eccoci!” fece Dagil, alzandosi dal posto di guida. Tutti gli si fecero intorno.
“Osservate bene: quella è la torre di controllo della base aerea.” Era un’antiquata struttura di cemento e vetro. Faceva meraviglia che si trattasse di un’istallazione militare fondamentale per tutta la regione. Già al primo sguardo, la tecnologia terrestre mostrava di non essere assolutamente confrontabile con quella veghiana. Da quel punto di vista non avevano nulla da temere.
Dagil continuò: “Una volta occupata la torre, dovrete inviare delle potenti onde elettromagnetiche in direzione della base di Grendizer, in modo da disturbare il loro radar.”
“Comandante Dagil, ma come facciamo ad essere sicuri che Duke Fleed interverrà?” obiettò Tsubai.
“Non possiamo permetterci perdite di tempo. Per salvare i terrestri, bisogna eliminare Duke Fleed il prima possibile!” rincarò Ains.
“State tranquilli, ragazzi. Se saboterete la sua base, si farà senz’altro vivo.”
Calò di nuovo il silenzio. Tutti ripassavano mentalmente le fasi dell’azione, cercando di non tralasciare alcun dettaglio. La voce del comandante Dagil li riportò bruscamente alla realtà.
“Bene, la vostra missione comincia ora!”

-continua-


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-capitolo 11-

Il comandante spinse sull’acceleratore. Da quel momento tutto si mise in moto a velocità pazzesca. Il pullman sbandò paurosamente, urtò la recinzione delle piste e si ribaltò. Il piantone accorse dall’ingresso: “Signore, è ferito?” Assecondandolo, Dagil mormorò: “Presto, chiami un’ambulanza, nel pullman ci sono dei ragazzi!” Poi fece in tempo a dileguarsi, appena prima dell’arrivo dei soccorsi. Nascosto nella boscaglia, in un punto da cui poteva controllare a vista la zona operativa, cercò di stabilire un contatto con la base lunare. “Qui è Dagil! Qui Dagil a generale Gandal! Mi sente generale?”


Intanto, un’ambulanza aveva caricato i ragazzi e li aveva portati all’infermeria dell’aeroporto.
Ancora apparentemente svenuti, erano stati medicati e lasciati riposare.


Finalmente Dagil captò le frequenze di Skarmoon.
“Generale Gandal, qui il comandante Dagil. Tutto procede bene. I ragazzi si sono introdotti nella base.”
Alla risposta del superiore, tra sé e sé, tirò un sospiro di sollievo. Evidentemente, il generale Gandal era un soldato vero. Mentre era in corso un’operazione, sapeva mettere da parte rancori e preferenze personali: “Ottimo. Il mostro di Vega è pronto ad attaccare?”
“Sì, generale. E’ nascosto nel bosco ai piedi della montagna.”
“Allora, non appena avrete lanciato le onde di disturbo, lo farete entrare in azione!”
“Signorsì generale Gandal!”


L’infermeria era un camerone immerso nella penombra. In quel momento erano gli unici ricoverati. Era un punto medico di primo soccorso, non un reparto ospedaliero, ma Beecha non potè fare a meno di riandare con la mente al lungo ricovero presso l’infermeria dell’Accademia. Incredibile! L’odore di disinfettante era lo stesso… Un interessante approfondimento, da proporre al professore di chimica, al ritorno… “Molecole di sintesi complesse. Coincidenze e discrepanze nelle applicazioni d’uso, in ambiente veghiano e terrestre”… Ma che andava a pensare, proprio in quel momento! La verità era che si sentiva teso come una corda di violino e lo stesso tutti gli altri. Presto avrebbero avuto il loro primo contatto ravvicinato con gli abitanti della Terra, ma intanto, quel breve periodo di sospensione sembrava eterno e i pensieri di tutti vagavano incongrui, incapaci di fermarsi sull’obiettivo prefissato. Se avessero potuto raccontarselo, si sarebbero stupiti di come ognuno avesse pensato a quello che avrebbe fatto dopo, una volta tornato a casa. Si sentivano come la sera prima degli esami di ammissione: ancora poco tempo e… Solo che adesso la tensione era infinitamente superiore, le incognite di gran lunga più dense di minaccia. Un fruscio di passi leggeri li fece scattare come molle. Era il momento! Il personale dell’infermeria stava venendo a visitarli. Sopraffecero in un attimo medici e infermieri, poi a bordo della stessa ambulanza che li aveva trasportati lì, raggiunsero velocemente l’ingresso della torre di controllo.
“Alt! Qualificarsi!” Bastò mettere sotto il naso della guardia il medaglione magnetico; un lieve tocco ed era già fuori dei piedi.
Rapidi raggiunsero l’ingresso e si gettarono per le scale. Avevano imparato che in quei casi non bisognava servirsi degli elevatori; il nemico avrebbe potuto metterli fuori uso, bloccando l’alimentazione, ma non ne videro nessuno. Ancora una volta non poterono impedirsi di sorridere della rozzezza di quell’istallazione. Ecco la sala di comando! Fecero irruzione. Dentro c’erano alcuni uomini con una ragazza. Li circondarono immediatamente. Tenendoli sotto tiro, Ains ordinò: “Avanti Beecha! Aziona l’emettitore di onde elettromagnetiche!”
Uno di loro che sembrava il capo, anche se non era un militare, gridò: “Che cosa volete fare?”
“Non siamo vostri nemici!” spiegò Ains. “Siamo un gruppo di soldati di Vega. Siamo venuti qui soltanto per liberare voi terrestri.”
Gli uomini reagirono allarmati: “Come? Soldati di Vega?”
Nel silenzio carico di tensione, lo scatto della sicura del revolver di uno di loro fece precipitare la situazione.
“No, aspettate! Noi siamo dalla vostra parte! Siamo scesi sulla Terra per salvarvi da Duke Fleed!” gridò Beecha.
I terrestri erano increduli. Intervenne perfino la ragazza: “Cosa hai detto?”
Il loro capo sembrava ancora non capire: “Siete venuti sulla Terra per salvarci da Duke Fleed? Cosa intendete?”
Non dovevano farsi giocare! Prima che fosse troppo tardi, dovevano neutralizzarli. Uno ad uno i terrestri caddero tutti tramortiti.
“Presto Maria, l’allarme!” ebbe il tempo di gridare quello che comandava, ma anche la ragazza fu atterrata, subito dopo di lui.
“E ora aspettiamo che Duke Fleed si faccia vivo!” esclamò Tsubai, euforico per la facile vittoria. In quel momento la sirena dell’allarme lacerò l’aria. Si voltarono di scatto. Era stata lei! Ma come aveva fatto?
“Chi sei?” gridò Thoroa “Se tu fossi una terrestre, non avresti mai potuto riprendere conoscenza così rapidamente!”
“E’ vero!” gli fece eco Swinko, avvicinandosi per guardarla meglio. “A noi che siamo allenati non succede niente. Ma un qualunque abitante di Vega rimane svenuto per almeno trenta minuti!”
“La spiegazione è solo una” riprese Thoroa e le si fece sotto, minacciandola con la pistola laser: “Tu sei una complice di Duke Fleed!”
“Fermo Thoroa! Non sparare!” lo bloccò Ains.
“Ma lei ha dato l’allarme!” si intromise Swinko, lamentoso.
Ains la interrogò: “Perché hai cercato di chiamare aiuto, che cosa credevi di fare? Noi siamo venuti qui per liberare gli abitanti della Terra!”
La ragazza ribatté, senza lasciarsi intimorire: “E allora perché li avete uccisi a sangue freddo?”
“Non li abbiamo uccisi, gli abbiamo solo fatto perdere temporaneamente conoscenza.”
Un’evidente luce di sollievo si diffuse in quei grandi occhi azzurri. Ma non ebbero tempo di continuare a interrogarla.
In quella, si sentì Beecha gridare: “Ehi! Venite qui a vedere!”
All’improvviso, dopo l’allarme dato dalla ragazza misteriosa, nulla stava andando più come previsto. Un vortice di eventi impazziti li travolse. Affacciati al finestrone della torre,videro che la pista dell’aeroporto era stata occupata da un battaglione di carri armati in assetto da combattimento.
I ragazzi furono presi dal panico: “Siamo circondati!”
Beecha aggiunse: “Anche da questa parte!”
“Maledizione! Tutti loro devono essere stati condizionati da Duke Fleed!” disse Ains tra i denti.
Paralizzati dalla paura, ripensavano angosciati a tutto quello che avevano imparato su Duke Fleed, mentre si preparavano alla missione. L’urlo di Tsubai ebbe l’effetto di una scossa elettrica.
“Guardate! E’ Grendizer!”
“Che cosa? Grendizer! Dannazione! Le onde di disturbo dovevano mettere fuori uso i loro radar! Le avranno bloccate!” rispose Ains concitato.
“No Ains! Va tutto bene! E’ come avevamo previsto. Significa che il loro radar è ancora inutilizzabile e Duke Fleed è stato costretto a uscire in perlustrazione” lo calmò Tsubai.
“Bene! Allora bisogna dare immediatamente l’allarme al comandante Dagil!” rispose Ains. “Beecha! Mettiti in contatto con il comandante!”


Dal suo nascondiglio Dagil aveva visto Grendizer arrivare. Bene… Duke Fleed, sei mio! “Qui il comandante Dagil! Ains, mi senti? Qui il comandante Dagil!” Dannazione! Cosa c’è che non va? Non riesco a contattarli. E’ come se le onde radio fossero schermate. Che sia una nuova arma di quei maledetti?


Dall’alto della torre di controllo, i ragazzi videro Duke Fleed saltare fuori dal suo disco e consultarsi brevemente con i terrestri che presidiavano la pista. Era arrivato insieme ad uno dei suoi schiavi. Poi, l’impianto di amplificazione fece rimbombare la sua voce.
“Sono Duke Fleed! Mi sentite? Voglio parlare con i soldati di Vega!”
Ains fu il primo a riprendersi dallo sgomento: “Eccolo. Il comandante Dagil aveva ragione. E’ subito comparso.”
“Già, è proprio lui” constatò Tsubai.
Ains si fece coraggio e afferrò il microfono: “Duke Fleed! Noi non siamo come te, non faremmo mai del male inutilmente ai terrestri.”
Una breve esitazione, poi Duke Fleed di rimando: “Che cosa significa?”
“Non fingere di non saperlo. Sei stato tu a fare il lavaggio del cervello ai terrestri per poterne fare i tuoi schiavi. Noi non siamo di questo pianeta, è vero, ma siamo corsi ugualmente in aiuto dei terrestri.”
Duke Fleed confabulò per un momento con il suo tirapiedi. Ains ne approfittò: “Beecha! Sei riuscito a parlare con il comandante?”
Beecha aveva continuato inutilmente a cercare di aprire la comunicazione con il comandante Dagil. Ancora un imprevisto! Avevano Duke Fleed davanti e non potevano comunicarlo al loro superiore. Se non fosse intervenuto subito a bombardarlo con il suo robot, avrebbero rischiato il fallimento! Bisognava rimediare in qualche modo, tenere Duke Fleed impegnato fino all’arrivo del comandante. Ains si consultò velocemente con gli altri, poi riaccese il microfono:
“Ascoltate! Noi abbiamo preso una decisione. Se qualcuno di voi tenterà di attaccarci saremo costretti a far saltare in aria la torre, insieme a tutti gli ostaggi!”
Lasciò passare qualche istante prima di concludere:
“In ogni caso, noi non ce ne andremo via di qui, finché non avremo eliminato Duke Fleed.”

-continua-


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